WORDPDF

INTRODUZIONE

OMELIE SULLE PARABOLE

(testo pubblicato in Elia Citterio, Omelie sulle parabole. Quattordici riflessioni sui racconti di Gesù, Bologna 2014, EDB)

La domanda più frequente nei commentari ebraici tradizionali suona: a cosa fanno allusione queste parole? Viene insegnato che l’intelligenza scaturisce dal continuo rimando di un versetto a un altro, in infiniti modi, perché si sveli il mistero delle Scritture al cuore che ne è affascinato:

“Sta scritto: ‘Al principio creò Elohim’. Queste parole riassumono il primo comandamento, che è chiamato ‘il timore del Signore’; perché il timore del Signore è designato nella Scrittura dalla parola ‘principio’, così come sta scritto: ‘principio della sapienza è il timore del Signore’ (Sal 111,10) e altrove: ‘il timore del Signore è il principio della Sapienza’ (Pr 1,7). È chiamato ‘principio’ perché è la porta che dà accesso alla fede e perché è il fondamento sul quale il mondo riposa”.[1]

Senza domanda la Scrittura non parla. Ma per noi, distratti da mille pensieri e preoccupazioni, con filtri mentali ostruiti, così poco percettivi delle realtà dello spirito, incapaci di sintonizzarci sulla gioia evangelica del dono di Dio per noi, non sembra così agevole riuscire a formulare le domande pertinenti. Difficilmente, davanti a un determinato testo evangelico, ci chiediamo: ciò che viene detto, in rapporto a che cosa va compreso? A quale domanda risponde il brano? Eppure, individuare la domanda che fa da perno al racconto aiuta a fornire le coordinate giuste per vedere più in profondità. In modo speciale di fronte alle parabole evangeliche è essenziale scoprirlo, pena la lettura banale delle parabole stesse.

La particolarità di questo volumetto sta nel fatto di suggerire l’itinerario di comprensione delle parabole lasciandosi condurre, nello scandaglio del testo evangelico,  dalla liturgia della Chiesa con i suoi continui rimandi alle Scritture. È un dato acquisito nella tradizione: l’intelligenza si sviluppa nella convergenza tra l’esperienza della fede della Chiesa e la domanda più personale dei cuori. Il principio di fondo può essere enucleato in questi termini: interiorità ed ecclesialità si richiamano a vicenda. Ascoltare la Parola con il cuore significa stare solidali con coloro i quali hanno reagito alla Parola lasciandosi compenetrare dalla grazia di salvezza che cela, esperienza che ha intessuto l’intelligenza della Parola da parte della Chiesa orante.

Il capitolo 12 di Luca, con l’esortazione alla vigilanza e le parabole che la illustrano, ci aiuta a definire meglio il contesto in cui ascoltare il racconto evangelico. Il testo dice assai più di quello che saremmo portati a credere. Anzitutto, una prima costatazione evidente: i beni sono precari, la vita è precaria. Gesù lo ricorda perentoriamente. Forse che il suo invito alla vigilanza punta allora a non far  perdere la coscienza di quella precarietà? Oppure, a inculcare il timore dell’arrivo del Padrone, che comunque verrà e che ricompenserà o castigherà i suoi servi a seconda di come si sono comportati? In che cosa sarebbe evangelica una vigilanza del genere?

Se ci si chiede, invece, in rapporto a che cosa si debba comprendere la vigilanza, il testo evangelico comincia a lasciar intravedere i suoi misteri. Si tratta di un’esperienza di fede che equivale a un vivere nell’orizzonte di una promessa che ha toccato il cuore. Al primo posto non sta la fatica del vegliare, ma la percezione della fedeltà di Dio alla sua alleanza. La forza dell’esortazione del vegliare sta tutta nel riportare il cuore a sentire l’alleanza di Dio, a vederla realizzata nel Signore Gesù che diventa il tutto del nostro cuore. E prima ancora che tradursi in fatica di veglia perché il nostro cuore non si allontani dalla verità percepita, diventa ardore di veglia perché il Signore non dimentichi, perché non abbia timore delle nostre miserie, perché non ci abbandoni, perché si costringa alla fedeltà a quell’amore che ha così fortemente voluto per noi.

Il senso della parabola dell’attesa del padrone quando torna dalle nozze va cercato in questo tipo di vigilanza evangelica. L’immagine non ha nulla di usuale, perché non esiste sulla terra padrone che si metta a servire coloro che sono al suo servizio. Non è possibile non pensare qui al gesto di Gesù che si mette a lavare i piedi ai discepoli nell’ultima cena, come non è possibile non riferirsi al versetto di Giovanni: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Quel gesto, quella volontà del Signore nei nostri confronti, è ben sottolineata dal versetto iniziale del brano: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno” (Lc 12,32).

In quest’ottica un particolare del brano evangelico assume tutta la sua rilevanza. Sembra che le parabole sulla vigilanza si riferiscano a un tempo finale, quando il padrone arriverà e non ci saranno più scuse che tengano. In realtà non si tratta di un tempo (il tempo eterno dopo il tempo storico) ma di una dimensione (il tempo eterno che attraversa il tempo storico). Come a dire: il padrone che arriva è l’immagine della rivelazione che si compie quando la vita quotidiana si apre al mistero del regno dei cieli. Non si tratta di un vivere oggi in un certo modo quaggiù, per meritarsi di andare domani lassù. Si tratta piuttosto di un’imminenza del Regno che si può rivelare in ogni punto della nostra vita. A questo tende il servizio del padrone riguardo ai suoi servi. Egli si rivela al cuore nella sua volontà assoluta di benevolenza per noi, visione che cambia radicalmente l’orizzonte della nostra vita.

Ascoltare Gesù che proclama le sue parabole significa coglierlo in questo ‘servizio’ divino ai suoi servi, ai suoi discepoli, a tutti gli uomini chiamati alla mensa dell’amore del Padre. La dimensione evangelica delle parabole sta tutta qui. Le parabole non parlano di noi, ma di Dio; non alludono solo all’amore di Dio per noi, ma all’esperienza possibile che può fare il nostro cuore del suo amore. Ogni parabola è un’illustrazione dell’agire di Dio, una raffigurazione dei sentimenti e dell’agire di Gesù, venuto a rivelare la grandezza dell’amore del Padre per i suoi figli.

Sempre nello stesso capitolo 12 di Luca, a proposito delle domande vere o fasulle che rivolgiamo a Dio, Gesù risponde all’uomo che gli chiedeva di usare la sua autorità per ottenere giustizia da suo fratello in una questione di eredità svelando l’intenzione nascosta di tante nostre domande: posso ottenere giustizia? Come devo fare per ottenere giustizia? Tale domanda è una domanda evangelica? Si pensi alle richieste dei personaggi delle parabole degli operai nella vigna, del fariseo e del pubblicano, del buon samaritano, ecc. È fin troppo evidente che non si può vivere bene senza giustizia, ma quale ‘giustizia’ assicura il vivere bene? Come sempre, le risposte di Gesù fanno riformulare le domande al cuore dell’uomo in modo più pertinente. Che tipo di giudizio formula? Il suo giudizio non riguarda questo mondo, ma il mondo futuro, che però si gioca in questo mondo.

La parabola dell’uomo ricco che aveva accumulato molti beni, nel suo significato più immediato, è chiara. Corrisponde al senso di molti altri passi evangelici: che giova all’uomo guadagnare il mondo se poi rovina se stesso o muore? (cfr Lc 9,25). Più o meno risponde a quel buon senso che, se pure è necessario per vivere, non è però sufficiente ad assicurare quella ‘pienezza’ di vita che il cuore dell’uomo cerca. In questo, non viene dato nessun giudizio sui beni di questo mondo. La discriminante è altrove. Non si tratta di scegliere tra la povertà evangelica e la ricchezza, ma tra la cupidigia o l’avarizia e la solidarietà o la generosità: “Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio”. Ecco la domanda meglio posta: come arricchire presso Dio? Che ne nasconde un’altra, più misteriosa, ma ancor più rivelativa delle parole di Gesù: chi è il ricco? Alla domanda: come ci si arricchisce presso Dio, la Scrittura dà una risposta univoca: dando al povero. La solidarietà con chi è nel bisogno rende la vita ‘degna’ di essere vissuta. Ma allora chi è ricco davvero? È colui che assomiglia a Gesù “egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte” (Fil 2,6-8). Dietro l’ammonizione di Gesù, si nasconde questa rivelazione.

Gesù poi continua a spiegarsi con i discepoli e aggiunge: perché affannarsi per i beni di questo mondo? “ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. Cercate piuttosto il suo regno, e queste cose vi saranno date in aggiunta”.  Se prima si sottolineava che i beni vanno condivisi, adesso si sottolinea che il bene che permette ai beni di questo mondo di farci godere la vita è l’accoglienza del desiderio di prossimità all’uomo da parte di Dio, che in Gesù si fa manifesta. Cercare prima di tutto il Regno è volere prima di tutto la compagnia di Dio.

Il segreto di questa rivelazione, però, è svelato nel versetto successivo “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno”. La possibilità della felicità non è conquista umana, ma accoglienza, intimamente condivisa, di questa offerta amorosa: a Lui è piaciuto così! La preghiera della Chiesa ci fa spesso ripetere nella liturgia: ‘Fa’ che ascoltiamo, Signore, la tua voce’. È la voce che dice: al Padre è piaciuto dare a voi il regno! Tutte le parole di Gesù sono l’eco di questa rivelazione: al Padre è piaciuto dare a voi il regno. Qui si radica quella ‘confidenza’ capace di aprire la vita, capace di aprirci alla vita. Qui si radica l’opposto di quella cupidigia e avarizia che scardina il cuore dell’uomo e che rende la vita una battaglia persa per la felicità. Qui si concentra tutta la consolazione per il cuore dell’uomo. Così, prima di ascoltare le parole di quella voce, occorre imparare a percepire la tenerezza con cui quella voce risuona. Come a dire: il cuore dell’uomo cerca una pienezza che nessuna delle ragioni del mondo soddisfa. Le ragioni del mondo non riescono a dare ragione delle ragioni del cuore. Solo in quella ‘voce’ quelle ragioni trovano quiete. È proprio quella ‘voce’ che ascoltiamo nel racconto delle parabole.

Quando l’evangelista Matteo, abituato a presentare eventi, gesti e parole di Gesù nell’ottica del compimento delle Scritture, vuole illustrare la modalità dell’insegnamento di Gesù in parabole, non ha che da citare il salmo 78,2: “Aprirò la mia bocca in parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo” (Mt 13,35), che nella versione CEI del salmo suonano: “Aprirò la mia bocca con una parabola, rievocherò gli enigmi dei tempi antichi”. Queste parole introducono il salmo 78, immensa meditazione storica dell’epopea di Israele nella sua liberazione dall’Egitto, nel suo peregrinare nel deserto e nel possesso della terra promessa. L’aspetto interessante e perfino paradossale per le nostre orecchie risulta dal fatto che una narrazione storica venga celebrata ‘in parabole’. Il che significa almeno due cose: 1) che la nostra storia, se raccontata solo nella sua materialità di cronaca di eventi, non rivela il suo senso, ma che, per essere vissuta come storia sacra e sentirla nostra, ha bisogno di continue elaborazioni di intelligenza spirituale perché il segreto di senso che cela appaia al cuore e si traduca in lode all’Altissimo; 2) che la scoperta del senso della nostra storia risale fino alle origini del mondo nell’intuizione del disegno di Dio per noi tanto da scoprire in Gesù, testimone della grandezza dell’amore di Dio per noi, il fondamento di senso della nostra umanità e l’intelligenza del mondo in cui viviamo. Storia sacra, perché divina e umana, che ogni generazione è chiamata a raccontare di nuovo a quella che verrà dopo in modo che non si perda la memoria delle ‘meraviglie’ di Dio e l’uomo sperimenti la benedizione della Dimora e della Presenza dell’Altissimo nella sua storia. Gesù è colui che di questa Dimora e Presenza è il segno tangibile, vedibile, godibile; segno, che tutte le sue parabole invitano a scoprire. “Chi ha orecchi, ascolti”, ma nella confidenza di chi, avendo accolto il Figlio di Dio fatto uomo, si trova nella situazione di godere della sua benedizione: “a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli…” (Mt 13,9.11), solidali con i nostri fratelli con i quali condividiamo gli stessi aneliti e le stesse nostalgie.

INTRODUZIONE (per il volume di Omelie, anno A, EDB)

Una bellissima invocazione allo Spirito Santo, formulata dal card. Martini, esprime tutto il senso di queste pagine, concepite come accompagnamento mistagogico per chi vuole entrare nella celebrazione liturgica dell’eucaristia sull’onda dell’intelligenza della Parola proclamata:

Spirito santo, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in noi quello stesso fuoco che ardeva nel cuore di Gesù, mentre egli parlava del regno di Dio.

Fa’ che questo fuoco si comunichi a noi, così come si comunicò ai discepoli di Emmaus.

Fa’ che non ci lasciamo tanto soverchiare o turbare dalla moltitudine delle parole, ma che dietro di esse cerchiamo quel fuoco che si comunica e infiamma i nostri cuori.

Tu solo, Spirito santo, puoi accenderlo e a te dunque rivolgiamo la nostra debolezza, la nostra povertà, il nostro cuore spento, perché tu lo riaccenda del calore della santità della vita, della forza del regno. Amen.

Non si tratterà semplicemente di cogliere il senso della parola proclamata, ma di entrare nel mistero al quale quella parola rimanda, che è il mistero dell’offerta di alleanza di Dio con noi, in Gesù. Nell’ascoltare la parola, non abbiamo bisogno semplicemente di sapere come sono andate le cose o come si sia costituita la memoria degli eventi codificata in determinati scritti, ma di ritrovarci implicati personalmente in ciò che viene proclamato per trovare la verità del vivere e il radicamento nell’alleanza con Dio.

La liturgia ha un vantaggio assoluto su ogni altro tipo di approccio rispetto alle Scritture: essa le proclama come un tutto, ne onora l’unità come di un corpo vivente, senza considerare la genesi e la differenza dei testi dal punto di vista della loro formazione e redazione nella storia.

Il lezionario festivo.

Il ciclo del lezionario festivo della liturgia romana, di cui qui sono riportate le omelie relative all’anno A, segue il modello tripartito nell’uso della Scrittura, indicato da s. Ireneo di Lione (+ 202) come: prophetica (corrisponde alla prima lettura, tratta dall’Antico Testamento, dalla Genesi a Malachia, l’ultimo libro della Bibbia nel canone cristiano), apostolica (corrisponde alla seconda lettura, presa dal Nuovo Testamento, cioè dagli Atti degli apostoli, dalle Lettere apostoliche e dall’Apocalisse)  ed evangelica (i quattro Vangeli, in particolare, per il ciclo A, il vangelo secondo Matteo).

A differenza della tradizione ebraica, che legge la Scrittura secondo la tripartizione ‘Legge, Profeti, Scritti’, dove prevale una sistemazione di tipo gerarchico, con la Legge a fondamento e i Profeti e gli Scritti a illustrazione e approfondimento della stessa, la liturgia cristiana celebra l’unità dell’AT. Se per il NT vale la distinzione tra gli scritti di autorità apostolica e i vangeli, ciò è dovuto alla percezione della presenza del Signore confessata nell’azione liturgica.

A dire il vero, rispetto alle Scritture, la liturgia conosce anche un’altra articolazione, quella binaria: profeti (AT) e vangeli (NT), articolazione ereditata dalla tradizione patristica che l’ha trasmessa come principio ermeneutico, nel senso che il Nuovo Testamento è visto come compimento dell’Antico e nel senso che l’Antico è considerato tipologicamente rispetto al Nuovo. In effetti, e questo è il grande pregio della liturgia per l’intelligenza delle Scritture, alla liturgia non interessa risalire all’origine dei testi, alla ricerca di un senso primo, circoscritto storicamente. Essa cerca le armoniche, gioca sulle virtualità offerte dalle corrispondenze dei testi, all’interno della Bibbia, attualizzate nella celebrazione liturgica, che è celebrazione dei misteri di Cristo, il contesto specifico per cogliere tutte le risonanze della Parola scritta.

È importante tener presente che la liturgia sfrutta enormemente la dimensione tipologica, aprendo le Scritture a una rete infinita di connessioni che si illuminano a vicenda, per attestare la totale novità del dono di Dio in Gesù Cristo, compreso nella logica di una alleanza di cui esprime la cifra assoluta. Cerco di spiegarmi. La riflessione dei nostri Padri sull’unità di Antico e Nuovo Testamento a formare un tutt’uno è stata condotta sulla base del doppio principio del compimento e della tipologia. Nei vangeli troviamo spesso formule di questo genere: “perché si compia la parola della Scrittura”; “perché si adempia ciò che è stato detto dal [Signore per mezzo del] profeta che dice” (cfr. Mt 1,22). Mentre in Paolo troviamo ripetuta l’espressione “secondo le Scritture”, per illustrare il primitivo annuncio cristiano: “Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’ io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture” (1Cor 15,3-4). Paolo non vuole semplicemente dire che l’evento evangelico costituisce come il punto conclusivo di un processo iniziato nel tempo, come del resto le formule evangeliche di compimento non vogliono sottolineare che ciò che era stato previsto finalmente si realizza. Hanno invece una portata ermeneutica, vale a dire stabiliscono il contesto in cui è possibile accogliere e comprendere l’evento. Per rifarci all’analogia linguistica, la parola del NT si presenta nella lingua dell’AT. L’intento centrale di queste formule è di sottolineare non il risultato di un processo, ma la pienezza di una realtà, che si può accogliere e comprendere solo nel contesto delle Scritture di Israele. Del resto, anche il vangelo non è proclamato come il vangelo di Matteo, ma secondo Matteo, a sottolineare il riferimento alla fonte ritenuta fondatrice, cioè gli apostoli, garanzia del messaggio evangelico. Quando Paolo annuncia il dato evangelico secondo le Scritture dice che la lingua normativa dell’enunciato cristiano sono le Scritture d’Israele.

Il principio della tipologia, invece, che si fonda sulla nozione di tipo o figura, è sfruttato da tutta la letteratura patristica ed è diventato il riferimento centrale dell’ermeneutica dei Padri. Lo troviamo soprattutto in Paolo. Si vedano, ad esempio, i passi di 1Cor 10,1-13; 2Cor 3,1-18, Rm 5,13-14. Il passo più rivelativo è 1Cor 10,1-4: “Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo”. Paolo mette qui in relazione due realtà eterogenee: da una parte, la roccia, che racchiudeva una sorgente d’acqua e che si credeva seguisse gli ebrei nel deserto, secondo la narrazione midrashica; dall’altra, il Cristo risuscitato, che accompagna i credenti nel loro peregrinare terrestre ed è iniziatore di una esistenza nuova attraverso il dono di se stesso, in un atto di salvezza che si può chiamare di liberazione, ad immagine dell’esodo vissuto dagli antichi israeliti. Il midrash della roccia che camminava con gli ebrei nel deserto non è anzitutto un annuncio profetico, né una preparazione pedagogica, ma un tipo, una figura, cioè un fatto distinto dalla rivelazione evangelica della salvezza in Cristo (che diventa perciò l’anti-tipo): come attraverso un gioco di specchi, i due oggetti distinti, tipo e antitipo, ricevono un sovrappiù di senso. Non si tratta di predizione, di anticipazione, di prefigurazione,[2] ma di dispiegamento: ciò che restava nascosto o virtuale acquista in Cristo pienezza di senso.

Il principio tipologico mira, in primo luogo, a una migliore comprensione dell’enunciato evangelico e instaura una rete di rapporti tali che i due poli della relazione, Antico e Nuovo Testamento, ricevono ambedue luce nuova. Per meglio dire, si tratta di un’operazione ermeneutica che consiste nello sfruttare un certo numero di rassomiglianze formali (Gesù fonte di vita come la roccia; il popolo cristiano pellegrino nel mondo come gli ebrei nel deserto) per meglio cogliere il senso del NT, aprendo con ciò stesso all’AT campi inediti di significato. Non si tratta dunque di ridurre l’uno all’altro o di proiettare l’uno sull’altro, ma di far giocare le rassomiglianze perché il confronto dei due poli arricchisca la comprensione di ambedue.

Tale metodo tipologico conserva piena pertinenza nella pratica liturgica. Non esiste rapporto che a partire da una differenza riconosciuta: l’AT non è il NT e viceversa. Ma è proprio perché sono differenti che può instaurarsi un rapporto fecondo sia a modo binario (alla figura veterotestamentaria corrisponde quella neotestamentaria: Adamo-Cristo, Eva-Maria, ecc.) sia a modo di cerchi concentrici, che si dipartono da un passo evangelico per allargarsi continuamente ad altri testi biblici.

Implicati nella rivelazione di Gesù.

Il percorso, seguito in queste omelie, è un esempio della fecondità della modalità di approccio alle Scritture con la liturgia. Posso fare un esempio con l’omelia della XIV domenica del tempo ordinario. L’esultanza di Gesù davanti ai discepoli che tornano soddisfatti, dopo l’annuncio missionario nelle contrade in cui erano stati inviati (“In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo»”, Mt 11,25-27), è collegata all’annuncio profetico di Zaccaria. La liturgia legge il collegamento in rapporto al venire di Gesù a Gerusalemme per compiere proprio quello il profeta aveva intravisto: “Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile [mite, secondo l’antica versione greca], cavalca un asino, un puledro figlio d’asina” (Zc 9,9). Riferimento, che gli evangelisti hanno applicato a Gesù che entra trionfante in Gerusalemme, ma per esservi ucciso. Sulla croce risalterà tutta quella mitezza e umiltà che Gesù mostra nella sua umanità, luogo di manifestazione dello splendore dell’amore del Padre per noi, tanto da riandare, con il salmo responsoriale, alla solenne proclamazione del Nome di Dio dopo la tragedia del peccato del vitello d’oro. Nell’angosciosa consapevolezza da parte del popolo di non aver più titoli per sperare di avere il Signore con loro, risuona tanto più consolante la proclamazione dell’amore perdonante di Dio: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore” (Sal 144/145,8).

Quando Gesù invita a venire a lui (“Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero”, Mt 11,28-30), nel segno della benevolenza assoluta di Dio per i suoi figli, si viene rimandati al riposo di Dio nel racconto della creazione là dove si dice: “cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro che aveva fatto” (Gn 2,2). Quel riposo corrisponde alla promessa del ristoro che Gesù solo può dare (riposo e ristoro, in greco, sono espressi con un unico termine). Da intendere: ciò che rende completa, che termina, che perfeziona, la creazione è quel riposo, sinonimo di pace, armonia, felicità, pienezza, santità, vita eterna. Ora, il ristoro che Gesù dice di dare è esattamente il riposo che caratterizza la completezza, il perfezionamento, della creazione. Ciò significa che Gesù costituisce davvero il compimento della nostra umanità; che in lui la nostra umanità si compie, si realizza e si riposa (cfr. Mt 5,5). Non solo, ma che le caratteristiche del cuore di Gesù, mitezza e umiltà, costituiscono la cifra dello splendore dell’amore che soddisfa il cuore dell’uomo.

La liturgia applica questa rivelazione individuando le disposizioni che permettono di coglierla e fa pregare: “rendici poveri, liberi ed esultanti”. Vale a dire, poveri di tutto ciò che ci allontana dalla rivelazione del volto di misericordia di Dio per noi; liberi da tutto ciò che si oppone a quella rivelazione; esultanti per tutto ciò che la consente. L’affermazione di Gesù che ai piccoli il Padre si rivela non allude semplicemente al fatto che a Dio piace rivelarsi ai piccoli, ma alla condizione essenziale perché Dio possa rivelarsi, come a dire: appena ci si fa piccoli, nella misura in cui ci si fa piccoli, Dio si rivela a noi. Qui si cela il segreto dell’obbedienza al Padre di Gesù, dell’obbedienza del discepolo al suo Maestro, dell’obbedienza della fede. L’esultanza di Gesù, come del credente, qui si radica. Così, stare con il Signore Gesù è il modo migliore per riconoscere le vie di Dio, accogliere i suoi segreti e non illudere il nostro cuore, tanto si è implicati nella verità della sua rivelazione.

Un autore siriaco del VII secolo esprime efficacemente il senso dell’intelligenza della Parola ascoltata nella liturgia, che così profondamente ci implica nella dinamica di rivelazione di Dio, in Gesù, da aprire la Parola al cuore e il cuore alla Parola, in un rapporto di amicizia strettissimo:

L’amante ama il sandalo del suo amante; nessuno parla; attento è il suo orecchio alla voce del suo amato. Se anche si addormenta, (continua) a vederlo e quando si sveglia, pensa solo a lui. Quando non è accanto a lui lo scruta (con la mente). Quando lo serve non arrossisce; questo è infatti ciò che dice l’Apostolo: “L’amore non si gonfia”, cioè non ha vergogna. Se infatti non si gonfia non guarda alla stima (dovuta) per l’immagine esteriore della sua persona, a tal punto da non (voler) servire colui che ama. Piova in noi una goccia dell’amore di Dio; e noi non restiamo indifferenti alle sue parole! Se infatti l’amore non viene seminato in noi dall’alto a nulla servono le parole che abbiamo detto su di esso. Se invece in noi brucia (ciò che viene) dall’alto con null’altro potrà essere spento in noi …[3]

L’intelligenza della Parola nella celebrazione liturgica.                            

Credo avvenga per la liturgia come e più di quello che avviene per la Parola di Dio. Quando si legge la Parola di Dio si ha troppa fretta di tirarla a noi per prendere qualche buona ispirazione o qualche suggerimento buono, per capirne il messaggio, invece di lasciarci attrarre dalla dinamica di rivelazione che comporta rispetto al mistero dell’amore di Dio che ci riguarda e ci interpella. Perdiamo l’intensità drammatica di ciò che viene proclamato. Quando si partecipa alla celebrazione liturgica cerchiamo, sì, di stare attenti alle letture e alle preghiere, ma senza aprirci al mistero che avviene e ci ingloba.

Potremmo domandarci: riuniti per ascoltare la Parola di Dio, ci sentiamo mai partecipi della beatitudine che Gesù proclama nell’annuncio delle parabole del Regno: “Beati i vostri orecchi che ascoltano, beati i vostri occhi che vedono” (Mt 13,16)? Viene mai attivata in noi, una volta entrati in chiesa e seduti per l’ascolto della Parola, la sensazione di sentire lo sguardo di Gesù verso il popolo, come ricorda papa Francesco[4]: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno” (Lc 12,32)?

Sorvoliamo troppo facilmente sulla costatazione che la prima azione liturgica è la richiesta di perdono. Difficilmente colleghiamo tale richiesta, con la conseguente offerta del perdono reciproco, con l’apertura di cuore necessaria all’accoglimento della parola del Signore. Senza la luminosità del perdono, accolto e condiviso, la sua parola non porta vita, non ci rende cioè capaci di vivere della vita che il Signore ci elargisce con il dono di sé, di cui la parola proclamata è espressione. Se, riconoscendoci peccatori, ci stupissimo ancora della misericordia di Dio che ci raggiunge con la benevolenza della sua parola e del suo darsi a noi, allora poco a poco cadrebbero le giustificazioni per i nostri peccati e cadrebbero insieme le rivendicazioni nell’esibire i nostri diritti di fronte ai fratelli. Resteremmo presi dall’amore del Signore, al quale la sua parola ci rimanda e che, con il dono del suo Corpo, dato perché a tutti sia noto l’amore del Padre per i suoi figli, nessuno escluso, ci rende una cosa sola con lui.  Così, nell’ascolto della Parola come nell’offerta del suo Corpo, in primo piano c’è il desiderio di Dio per noi, c’è il suo desiderio di noi. A questo mira prima di tutto la proclamazione della Parola. E a cogliere questo soprattutto mirano le omelie, le quali cercano di far emergere continuamente le connessioni segrete che strutturano e le Scritture e i cuori. Tutto ciò risalta in modo speciale se l’evento evangelico è letto nella storia dell’alleanza di Dio con l’umanità (creazione) e nell’offerta dell’alleanza con il popolo di Israele, tenendo strettamente collegati Antico e Nuovo Testamento. Come insegna Agostino, ricollegandosi ai due versetti di 1Tm 1,5: ‘Lo scopo del comando è però la carità’ e di Rm 13,10: ‘La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità’, quando dice: “Nell’intera Scrittura non cercate altro, e che nessuno venga a ordinarmi altro [fuorché la carità]. Nei passi oscuri della Scrittura si cela la carità, nei passi chiari la carità ti diventa palese”.[5] Si riferisce sempre alla carità di Dio, al desiderio di Dio per noi.

Desiderio così assoluto, che Dio non vuole essere cercato senza i suoi figli. Tanto che, come discepoli di Gesù, noi non dobbiamo al mondo la nostra carità quasi si trattasse della responsabilità di diffondere il bene. Più profondamente e più evangelicamente, siamo responsabili del fatto che, se non abbiamo premura e cura dei fratelli, specie dei poveri, rinneghiamo il Signore della misericordia, impediamo al desiderio che Dio ha di noi di esprimersi, impediamo alla presenza del Signore di splendere in mezzo a noi, restando sordi alla sua parola. Come ci ricorda un racconto chassidico. Un uomo entusiasta di Dio vagò nell’universo fino ad arrivare alle porte del segreto. Bussò. Da dentro gli fu chiesto: “Che cosa cerchi qui?”. Disse: “Ho proclamato la tua lode agli orecchi dei mortali, ma erano sordi alla mia parola. Allora giungo a te, perché tu stesso mi ascolti e mi risponda”. “Torna indietro”, si udì dall’interno, “qui non c’è orecchio per te. Ho inabissato il mio udito nella sordità dei mortali”.

L’insieme delle omelie ha questo scopo: favorire in ogni modo la percezione della dinamica di rivelazione della salvezza che in Gesù si compie e di cui tutte le Scritture parlano. L’ottica corrisponde alla testimonianza stessa di Gesù, che il vangelo di Giovanni indica essere venuto per due ragioni:

la prima, per mostrare la grandezza dell’amore del Padre per noi (Gv 3,13-16: “Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”);

la seconda, per riunire i figli di Dio dispersi (Gv 11,49-52: “Ma uno di loro, Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno, disse loro: «Voi non capite nulla! Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!». Questo però non lo disse da se stesso, ma, essendo sommo sacerdote quell’anno, profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione; e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi”).                           

Va notato che non si può non rimarcare che discendere (Gv 3,13) non indica semplicemente provenienza, ma dinamica di rivelazione. Scendere comporta il non preferire nulla all’amore, il non vincolarsi a nulla per non perdere la grazia dell’amore e gustare la comunione con Dio che ci vuole tutti alla sua mensa. Solo chi scende può ascendere. Per questo, s. Paolo può dichiarare: “Ma cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose” (Ef 4,9-10). E s. Ambrogio, commentando l’evento dell’ascensione al cielo di Gesù, mentre spiega il salmo 23 (24), v. 8, dice splendidamente: “Angeli e arcangeli lo precedevano, ammirando il bottino fatto sulla morte. Sapevano che niente di corporeo può accedere a Dio e tuttavia vedevano il trofeo della croce sulla sua spalla: era come se le porte del cielo, che l’avevano visto uscire, non fossero più abbastanza grandi per riaccoglierlo. Non erano mai state a misura della sua grandezza, ma per il suo ingresso di vincitore occorreva una via più trionfale: davvero non aveva perso nulla ad annientarsi!”.[6]

La liturgia promuove l’intelligenza delle Scritture, cogliendole proprio nella loro capacità di rivelare al nostro cuore il mistero di Dio nella sua volontà di salvezza per l’uomo. Il segreto delle Scritture è il segreto di Dio, che ha sempre a che fare con la vocazione dell’uomo alla gioia del suo Dio. E il frutto per l’uomo sta proprio nel vivere secondo quel segreto, nella potenza che quel segreto comunica. Non si tratta tanto di venire a conoscenza di qualche dato di verità, ma di venir sopraffatti dalla rivelazione di un segreto che ti abilita a un’esperienza, capace per sua stessa natura, data la sua radice dall’alto, di inglobare tutti.

Ora, nell’accedere alla Parola, come nelle opere che intraprendiamo per metterla in pratica, va rispettata la dinamica soggiacente, che non è binaria ma ternaria. Non si tratta semplicemente di comprendere per mettere in pratica, come se il mettere in pratica fosse l’obiettivo finale. Si tratta di ascoltare per praticare e così arrivare a godere il frutto. L’obiettivo è godere il frutto, che è la conoscenza in intimità del Signore, nostro Salvatore. Il contemplare non è in funzione del fare; piuttosto, è l’agire che è in funzione del vedere.

Nella dinamica ternaria restano sottolineate due cose, tipiche di questo insegnamento tradizionale, alle quali queste omelie si rifanno continuamente. La prima è che la Parola di Dio ascoltata o annunziata non contiene un messaggio da comunicare ma una potenza da assimilare. La Parola non si rivolge alla testa ma alla totalità della persona, al cuore dell’uomo ed è per questo che, se si fa passare la Parola subito alla testa, la si riduce nella sua densità. Tale riduzione impedirà, poi, nel praticare, tutti gli esiti possibili che di per sé ci sarebbero accessibili.

La seconda è che non si tratta, nella pratica, di mettere semplicemente in pratica. Non è la semplice esecuzione materiale che di per sé porta il frutto. Un conto è accogliere e praticare un comandamento nella sua materialità e un conto è praticare il comandamento cogliendone l’ispirazione che contiene.  Eseguire un comandamento non significa fare un’opera ma partecipare alla vita di Dio. Così l’azione buona non è l’ultimo obiettivo. Il fare il bene è in vista del conoscere, nel senso di conoscere colui che si ama, un conoscere dal di dentro. Qui sta la forza del comandamento divino: non è semplicemente una istruzione etica, bensì la partecipazione ad una intimità di vita.[7] Il lettore sarà guidato a scoprire, volta per volta, i passaggi che permettono al cuore di riconoscere l’intenzione di salvezza di Dio in ogni brano.

Il regno di Dio è dentro di voi.

Nel libro dell’Apocalisse il Signore è indicato come “Colui che era, che è e che viene!” (Ap 4,8) oppure “Colui che è, che era e che viene” (Ap 1,4). A noi verrebbe da dire: colui che era, che è e che sarà. Perché la Scrittura si riferisce a Gesù, il Cristo, il Messia, morto e risorto, come a Colui che viene? Se teniamo conto che continuamente nei vangeli ci viene comandato di andar dietro, di seguire Gesù, come è possibile seguire uno che viene? Anche la liturgia proclama solennemente: “Annunziamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta”. Se interpretassimo tale proclamazione come un reiterato invito ad attendere qualcosa che non arriva mai, non saremmo già stufi di aspettare? Sarebbe un’attesa che non incide minimamente nel nostro vissuto perché pensata troppo remota.

Il significato invece è di altra natura. Noi siamo in attesa della sua venuta nel senso che ascoltando le sue parole, praticando la sua parola, lui si manifesta al nostro cuore, manifesta al nostro cuore il Regno che ha promesso di darci fin da ora. Come preghiamo nel Padre nostro: ‘venga il tuo Regno’: si manifesti al nostro cuore il Regno che Gesù ha fatto splendere e che a noi si rivela nel seguire il suo vangelo, cioè la sua parola di verità e di vita. Ora, l’eucaristia esprime proprio la dimensione del Regno nel suo venire a noi perché tutta la nostra storia sia attraversata dalla sua luce. Attendere la sua venuta esprime perciò la tensione escatologica del nostro desiderare e agire facendo del nostro tempo concreto un tempo aperto sull’eterno, un tempo toccato dall’eternità. Non aspettiamo l’eternità, ma viviamo l’eternità nel tempo. Il Cristo ha reso il tempo eucaristia, lo ha spezzato come ha spezzato il pane così che fino alla fine del mondo il più piccolo frammento del tempo contiene la pienezza del mistero di Cristo. Celebrando il memoriale della Parusia la Chiesa nel tempo annuncia l’eternità già ora presente e al cuore della storia proclama la vita eterna. Come ha ricordato Emmanuel Lévinas: “il tempo non fa parte del modo d’essere di un soggetto isolato e solo, ma è la relazione stessa del soggetto con gli altri”; “la condizione del tempo sta nel rapporto fra gli esseri umani”[8]. E potremmo tradurre così il senso del tempo nella storia: ogni volta che un uomo è responsabile del fratello il tempo diventa luogo di salvezza.

La proclamazione della parola è come rendere il tempo aperto all’eternità. Il praticare la parola significa far esplodere l’eternità nel tempo. Nella logica individuata da Paolo: “ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo” (1Tm 6,14; “La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente 7che non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo” (1Cor 1,6-7).

Attendere la manifestazione del Signore, però, non significa guardare al ritorno glorioso del Signore quando si chiuderanno i tempi e la sua parola giudicante svelerà tutta la verità. Quella tensione caratterizza il desiderio del cuore dei credenti nella vita quotidiana. Chi riceve le parole del Signore, chi si sforza di metterle in pratica senza desiderare di poter percepire e vedere la presenza del Signore nella sua vita? A suscitare tale percezione mirano queste omelie, che introducono nel processo della manifestazione del Signore al nostro cuore, nella nostra storia. Perché è nello splendore di quella presenza percepita che possiamo vivere fino in fondo la nostra vocazione all’umanità e tornare a far risplendere il mondo della luce di Dio. Le Scritture non hanno altro scopo: rendere plausibile e condivisibile, per l’intelligenza e per i cuori, questa vocazione all’umanità come rivelazione del Dio per noi, perché la vita torni a risplendere e si riconosca la verità dell’amore di Dio per gli uomini.

Mi piace pensare che il lettore è atteso al varco nella possibilità di scoprire orizzonti insospettati, secondo la dinamica di fede che questo racconto, rielaborato sui detti dei padri del deserto, sa mettere in luce.

Un giovane insegnante di Alessandria, in viaggio verso Scete dove intendeva unirsi ai monaci per dedicarsi a una vita di solitudine nel deserto, racconta a un anziano di un suo incontro nelle strade della sua città con una vecchia che si guadagnava da vivere portandosi a casa della roba da lavare. Mentre l’aiutava a portare il suo carico, le chiese: “Credi tu nella Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo?”. Tenendo la testa china, la donna rispose: “Maestro, non sono istruita e non ho familiarità con questa solenne Verità. La mia vita è fatta così: lavo la camicia di un vasaio che dà forma e bellezza alla creta informe. Lavo la tunica di seta di un architetto che disegna grandi palazzi su pelli di capra. Lavo le pezze usate per il parto da una levatrice, la quale rinnova il dono vivente del Creatore”. E pensò: “Dio Padre continua a nascere attraverso l’amore con cui lei svolge la propria parte nella sua creazione”.

Poi lei continuò: “Faccio l’elemosina al mendicante ammalato presso la porta della città. Mi prendo cura ogni notte della mia amica la cui vita lentamente l’abbandona. Cerco di riconciliare fra di loro i miei vicini, affinché da nemici tornino amici”. E di nuovo pensò: “Il Figlio, Cristo, continua a nascere in lei che è lo strumento del suo compito di redenzione”.

Poi aggiunse ancora: “A quelli che incontro sul mio cammino, mi sforzo di portare: un pugnale per tagliare i lacci che legano la loro libertà; un’ascia per spezzare il giogo che schiaccia la loro gioia; una freccia per trapassare l’elmo che preclude loro la pace”. Lui ne dedusse che lo Spirito Santo continuava a nascere nel cammino d’amore in cui lei proseguiva la Sua opera. E così si avvide come lei vivesse pienamente nell’ambito di quella Santa Trinità di fronte alla cui conoscenza si diceva incerta. E concluse: “la fede di questa lavandaia mi ha mostrato che il risultato dei miei studi e di tutti i miei insegnamenti non è altro che la costruzione del grandioso portone di un cortile nel quale non sono mai entrato. Il mio viaggio comincia ora”.

E l’anziano commentò: “La fede è la risposta della creatura alla domanda del Creatore. Nasce dallo sgomento: davanti al silenzio del deserto, davanti al bacio tra cielo e terra all’orizzonte, davanti all’avvento della sua serva, la Morte, che ci riporta a casa. La fede è l’eco che il credente fa al canto del Suo Spirito. La via che devi percorrere la conosci già. Egli l’ha posta nel tuo cuore. La solitudine ti parlerà”. [9]

Così per ciascuno nella propria vita, così per ciascuno davanti alla Parola di Dio che risuona, così per ciascuno perché “il regno di Dio è dentro di voi”, secondo l’antica interpretazione patristica di Lc 17,21.

INTRODUZIONE PER IL VOLUME:  I segreti del regno. Omelie. Anno B, EDB. Bologna 2014

La domanda più frequente nei commentari ebraici tradizionali suona: a cosa fanno allusione queste parole? Viene insegnato che l’intelligenza scaturisce dal continuo rimando di un versetto a un altro, in infiniti modi, perché si sveli il mistero delle Scritture al cuore che ne è affascinato:

“Sta scritto: ‘Al principio creò Elohim’. Queste parole riassumono il primo comandamento, che è chiamato ‘il timore del Signore’; perché il timore del Signore è designato nella Scrittura dalla parola ‘principio’, così come sta scritto: ‘principio della sapienza è il timore del Signore’ (Sal 111,10) e altrove: ‘il timore del Signore è il principio della Sapienza’ (Pr 1,7). È chiamato ‘principio’ perché è la porta che dà accesso alla fede e perché è il fondamento sul quale il mondo riposa”.[10]

Senza domanda la Scrittura non parla. Ma per noi, distratti da mille pensieri e preoccupazioni, con filtri mentali ostruiti, così poco percettivi delle realtà dello spirito, incapaci di sintonizzarci sulla gioia evangelica del dono di Dio per noi, non sembra così agevole riuscire a formulare le domande pertinenti. Difficilmente, davanti a un determinato testo evangelico, ci chiediamo: ciò che viene detto, in rapporto a che cosa va compreso? A quale domanda risponde il brano? Eppure, individuare la domanda che fa da perno al racconto aiuta a fornire le coordinate giuste per vedere più in profondità. In modo speciale di fronte alle parabole evangeliche è essenziale scoprirlo, pena la lettura banale delle parabole stesse.

La particolarità di questo volumetto sta nel fatto di suggerire l’itinerario di comprensione delle parabole lasciandosi condurre, nello scandaglio del testo evangelico,  dalla liturgia della Chiesa con i suoi continui rimandi alle Scritture. È un dato acquisito nella tradizione: l’intelligenza si sviluppa nella convergenza tra l’esperienza della fede della Chiesa e la domanda più personale dei cuori. Il principio di fondo può essere enucleato in questi termini: interiorità ed ecclesialità si richiamano a vicenda. Ascoltare la Parola con il cuore significa stare solidali con coloro i quali hanno reagito alla Parola lasciandosi compenetrare dalla grazia di salvezza che cela, esperienza che ha intessuto l’intelligenza della Parola da parte della Chiesa orante.

Il capitolo 12 di Luca, con l’esortazione alla vigilanza e le parabole che la illustrano, ci aiuta a definire meglio il contesto in cui ascoltare il racconto evangelico. Il testo dice assai più di quello che saremmo portati a credere. Anzitutto, una prima costatazione evidente: i beni sono precari, la vita è precaria. Gesù lo ricorda perentoriamente. Forse che il suo invito alla vigilanza punta allora a non far  perdere la coscienza di quella precarietà? Oppure, a inculcare il timore dell’arrivo del Padrone, che comunque verrà e che ricompenserà o castigherà i suoi servi a seconda di come si sono comportati? In che cosa sarebbe evangelica una vigilanza del genere?

Se ci si chiede, invece, in rapporto a che cosa si debba comprendere la vigilanza, il testo evangelico comincia a lasciar intravedere i suoi misteri. Si tratta di un’esperienza di fede che equivale a un vivere nell’orizzonte di una promessa che ha toccato il cuore. Al primo posto non sta la fatica del vegliare, ma la percezione della fedeltà di Dio alla sua alleanza. La forza dell’esortazione del vegliare sta tutta nel riportare il cuore a sentire l’alleanza di Dio, a vederla realizzata nel Signore Gesù che diventa il tutto del nostro cuore. E prima ancora che tradursi in fatica di veglia perché il nostro cuore non si allontani dalla verità percepita, diventa ardore di veglia perché il Signore non dimentichi, perché non abbia timore delle nostre miserie, perché non ci abbandoni, perché si costringa alla fedeltà a quell’amore che ha così fortemente voluto per noi.

Il senso della parabola dell’attesa del padrone quando torna dalle nozze va cercato in questo tipo di vigilanza evangelica. L’immagine non ha nulla di usuale, perché non esiste sulla terra padrone che si metta a servire coloro che sono al suo servizio. Non è possibile non pensare qui al gesto di Gesù che si mette a lavare i piedi ai discepoli nell’ultima cena, come non è possibile non riferirsi al versetto di Giovanni: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Quel gesto, quella volontà del Signore nei nostri confronti, è ben sottolineata dal versetto iniziale del brano: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno” (Lc 12,32).

In quest’ottica un particolare del brano evangelico assume tutta la sua rilevanza. Sembra che le parabole sulla vigilanza si riferiscano a un tempo finale, quando il padrone arriverà e non ci saranno più scuse che tengano. In realtà non si tratta di un tempo (il tempo eterno dopo il tempo storico) ma di una dimensione (il tempo eterno che attraversa il tempo storico). Come a dire: il padrone che arriva è l’immagine della rivelazione che si compie quando la vita quotidiana si apre al mistero del regno dei cieli. Non si tratta di un vivere oggi in un certo modo quaggiù, per meritarsi di andare domani lassù. Si tratta piuttosto di un’imminenza del Regno che si può rivelare in ogni punto della nostra vita. A questo tende il servizio del padrone riguardo ai suoi servi. Egli si rivela al cuore nella sua volontà assoluta di benevolenza per noi, visione che cambia radicalmente l’orizzonte della nostra vita.

Ascoltare Gesù che proclama le sue parabole significa coglierlo in questo ‘servizio’ divino ai suoi servi, ai suoi discepoli, a tutti gli uomini chiamati alla mensa dell’amore del Padre. La dimensione evangelica delle parabole sta tutta qui. Le parabole non parlano di noi, ma di Dio; non alludono solo all’amore di Dio per noi, ma all’esperienza possibile che può fare il nostro cuore del suo amore. Ogni parabola è un’illustrazione dell’agire di Dio, una raffigurazione dei sentimenti e dell’agire di Gesù, venuto a rivelare la grandezza dell’amore del Padre per i suoi figli.

Sempre nello stesso capitolo 12 di Luca, a proposito delle domande vere o fasulle che rivolgiamo a Dio, Gesù risponde all’uomo che gli chiedeva di usare la sua autorità per ottenere giustizia da suo fratello in una questione di eredità svelando l’intenzione nascosta di tante nostre domande: posso ottenere giustizia? Come devo fare per ottenere giustizia? Tale domanda è una domanda evangelica? Si pensi alle richieste dei personaggi delle parabole degli operai nella vigna, del fariseo e del pubblicano, del buon samaritano, ecc. È fin troppo evidente che non si può vivere bene senza giustizia, ma quale ‘giustizia’ assicura il vivere bene? Come sempre, le risposte di Gesù fanno riformulare le domande al cuore dell’uomo in modo più pertinente. Che tipo di giudizio formula? Il suo giudizio non riguarda questo mondo, ma il mondo futuro, che però si gioca in questo mondo.

La parabola dell’uomo ricco che aveva accumulato molti beni, nel suo significato più immediato, è chiara. Corrisponde al senso di molti altri passi evangelici: che giova all’uomo guadagnare il mondo se poi rovina se stesso o muore? (cfr Lc 9,25). Più o meno risponde a quel buon senso che, se pure è necessario per vivere, non è però sufficiente ad assicurare quella ‘pienezza’ di vita che il cuore dell’uomo cerca. In questo, non viene dato nessun giudizio sui beni di questo mondo. La discriminante è altrove. Non si tratta di scegliere tra la povertà evangelica e la ricchezza, ma tra la cupidigia o l’avarizia e la solidarietà o la generosità: “Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio”. Ecco la domanda meglio posta: come arricchire presso Dio? Che ne nasconde un’altra, più misteriosa, ma ancor più rivelativa delle parole di Gesù: chi è il ricco? Alla domanda: come ci si arricchisce presso Dio, la Scrittura dà una risposta univoca: dando al povero. La solidarietà con chi è nel bisogno rende la vita ‘degna’ di essere vissuta. Ma allora chi è ricco davvero? È colui che assomiglia a Gesù “egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte” (Fil 2,6-8). Dietro l’ammonizione di Gesù, si nasconde questa rivelazione.

Gesù poi continua a spiegarsi con i discepoli e aggiunge: perché affannarsi per i beni di questo mondo? “ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. Cercate piuttosto il suo regno, e queste cose vi saranno date in aggiunta”.  Se prima si sottolineava che i beni vanno condivisi, adesso si sottolinea che il bene che permette ai beni di questo mondo di farci godere la vita è l’accoglienza del desiderio di prossimità all’uomo da parte di Dio, che in Gesù si fa manifesta. Cercare prima di tutto il Regno è volere prima di tutto la compagnia di Dio.

Il segreto di questa rivelazione, però, è svelato nel versetto successivo “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno”. La possibilità della felicità non è conquista umana, ma accoglienza, intimamente condivisa, di questa offerta amorosa: a Lui è piaciuto così! La preghiera della Chiesa ci fa spesso ripetere nella liturgia: ‘Fa’ che ascoltiamo, Signore, la tua voce’. È la voce che dice: al Padre è piaciuto dare a voi il regno! Tutte le parole di Gesù sono l’eco di questa rivelazione: al Padre è piaciuto dare a voi il regno. Qui si radica quella ‘confidenza’ capace di aprire la vita, capace di aprirci alla vita. Qui si radica l’opposto di quella cupidigia e avarizia che scardina il cuore dell’uomo e che rende la vita una battaglia persa per la felicità. Qui si concentra tutta la consolazione per il cuore dell’uomo. Così, prima di ascoltare le parole di quella voce, occorre imparare a percepire la tenerezza con cui quella voce risuona. Come a dire: il cuore dell’uomo cerca una pienezza che nessuna delle ragioni del mondo soddisfa. Le ragioni del mondo non riescono a dare ragione delle ragioni del cuore. Solo in quella ‘voce’ quelle ragioni trovano quiete. È proprio quella ‘voce’ che ascoltiamo nel racconto delle parabole.

Quando l’evangelista Matteo, abituato a presentare eventi, gesti e parole di Gesù nell’ottica del compimento delle Scritture, vuole illustrare la modalità dell’insegnamento di Gesù in parabole, non ha che da citare il salmo 78,2: “Aprirò la mia bocca in parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo” (Mt 13,35), che nella versione CEI del salmo suonano: “Aprirò la mia bocca con una parabola, rievocherò gli enigmi dei tempi antichi”. Queste parole introducono il salmo 78, immensa meditazione storica dell’epopea di Israele nella sua liberazione dall’Egitto, nel suo peregrinare nel deserto e nel possesso della terra promessa. L’aspetto interessante e perfino paradossale per le nostre orecchie risulta dal fatto che una narrazione storica venga celebrata ‘in parabole’. Il che significa almeno due cose: 1) che la nostra storia, se raccontata solo nella sua materialità di cronaca di eventi, non rivela il suo senso, ma che, per essere vissuta come storia sacra e sentirla nostra, ha bisogno di continue elaborazioni di intelligenza spirituale perché il segreto di senso che cela appaia al cuore e si traduca in lode all’Altissimo; 2) che la scoperta del senso della nostra storia risale fino alle origini del mondo nell’intuizione del disegno di Dio per noi tanto da scoprire in Gesù, testimone della grandezza dell’amore di Dio per noi, il fondamento di senso della nostra umanità e l’intelligenza del mondo in cui viviamo. Storia sacra, perché divina e umana, che ogni generazione è chiamata a raccontare di nuovo a quella che verrà dopo in modo che non si perda la memoria delle ‘meraviglie’ di Dio e l’uomo sperimenti la benedizione della Dimora e della Presenza dell’Altissimo nella sua storia. Gesù è colui che di questa Dimora e Presenza è il segno tangibile, vedibile, godibile; segno, che tutte le sue parabole invitano a scoprire. “Chi ha orecchi, ascolti”, ma nella confidenza di chi, avendo accolto il Figlio di Dio fatto uomo, si trova nella situazione di godere della sua benedizione: “a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli…” (Mt 13,9.11), solidali con i nostri fratelli con i quali condividiamo gli stessi aneliti e le stesse nostalgie.

INTRODUZIONE PER IL VOLUME:  Il gusto della sapienza. Omelie anno C, EDB, Bologna 2015

“Santificami nei tuoi misteri, fa’ rilucere il mio intelletto nella conoscenza di te, fa’ sorgere la speranza di te nel mio cuore e rendimi degno della persuasione relativa ad essa dentro di me.  Dio, Padre mio e  Signore della mia vita, fa’ rilucere la tua lampada dentro di me, getta in me del tuo affinché dimentichi il mio, poni su di me la costrizione della meraviglia di te affinché ne sia vinta la costrizione della natura. Fa’ serpeggiare in me la visione dei tuoi misteri affinché percepisca quel che è stato posto in me nel santo battesimo. Hai posto dentro di me una guida: essa mi mostri sempre la tua gloria. … Getta sul mio cuore dolci  briglie, perché i miei sensi non guardino fuori dei sentieri della tua legge. … Il mio intelletto riceva conforto nelle sue tentazioni dalla memoria di te. Illumina davanti a me la via con lo splendore della conoscenza di te, perché essa è scura”.[11]

Considero questa preghiera come l’invito al possibile lettore ad addentrarsi in quello che posso definire un percorso di intelligenza delle Scritture come sono proclamate nella liturgia festiva della chiesa. Se è vero che la Bibbia si è costituita ed è stata tramandata nel contesto della celebrazione liturgica, allora deve essere vero anche il corollario che l’intelligenza delle Scritture avviene specialmente nella celebrazione liturgica. La liturgia non è evidentemente l’unico luogo di lettura delle Scritture nella chiesa, ma è il luogo originario.

In quest’ottica faccio mia l’asserzione di chi ritiene che: “Il futuro del cristianesimo in occidente dipende in larga misura dalla capacità che la Chiesa avrà di fare della sua liturgia la fonte della vita spirituale dei credenti. Per questo la liturgia è una responsabilità per la Chiesa di oggi. Mi convinco sempre di più che l’interrogativo decisivo al quale è necessario dare al più presto una risposta non è anzitutto come i credenti vivono la liturgia, quanto piuttosto se i credenti vivono della liturgia che celebrano”. [12]

Quando si cerca di entrare nell’intelligenza delle Scritture, la liturgia ha un vantaggio assoluto su ogni altro tipo di approccio: essa legge le Scritture come un tutto, ne onora l’unità come di un corpo vivente, senza considerare la genesi e la differenza dei testi dal punto di vista della loro formazione e redazione nella storia. Perché la liturgia è celebrazione dei misteri di Cristo, e questo è il contesto proprio per cogliere tutte le risonanze della Parola scritta.

È nella liturgia che il testo proclamato diventa Parola di Dio. L’acclamazione  Parola di Dio alla fine della proclamazione delle letture non riguarda mai il testo in se stesso, ma ciò che esso diventa nella sua ricezione da parte del fedele. Il valore dell’attualità della Parola si gioca in riferimento a un ascoltatore vivo, che non ha bisogno semplicemente di sapere come sono andate le cose o come si sia costituita la memoria degli eventi codificata in determinati scritti, ma di ritrovarsi implicato personalmente in ciò che viene proclamato per trovare la verità del vivere e il radicamento nell’alleanza con Dio.

La lettura biblica, disancorata dal memoriale di Gesù, resta indecifrabile, muta. È papa Gregorio Magno a sottolinearlo commentando il passo sui pellegrini di Emmaus: “Riconobbero il Signore nel pane spezzato, essi che non erano riusciti a riconoscerlo nell’esposizione della sacre Scritture”.[13]  L’esegesi di questa unitarietà della doppia mensa l’ha data Gesù stesso nel vangelo di Giovanni. Il cibo offerto, di cui si parla al capitolo 6, è infatti duplice: quello della Parola (vv. 26-47) in cui non si troveranno mai i verbi mangiare e masticare e quello Eucaristico (vv. 48-59) in cui invece sono presenti. Come splendidamente ricorda il Concilio Vaticano II nella Dei Verbum: “La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane della vita dalla mensa sia della parola di Dio che del corpo di Cristo”.[14]

L’annotazione conciliare induce a una considerazione particolarissima. Quando ascoltiamo la parola proclamata nella liturgia, tutti ascoltiamo le stesse parole, ma ognuno comprende secondo la luminosità del suo cuore. Ognuno si nutre secondo il suo gusto. E tutto questo ha a che fare con la premura misteriosa di Dio che ci attira a Lui per farci vivere della sua offerta di comunione. L’episodio biblico della manna, data al popolo che imprecava perché temeva di morire di fame nel deserto, la dice lunga sulla dinamica che caratterizza l’ascolto della parola.

Ripensando all’avvenimento della manna, i saggi di Israele, secoli dopo, hanno intuito una cosa essenziale. Nel libro della Sapienza troviamo scritto: “Invece hai sfamato il tuo popolo con il cibo degli angeli,  dal cielo hai offerto loro un pane pronto senza fatica,  capace di procurare ogni delizia e soddisfare ogni gusto.  Questo tuo alimento manifestava la tua dolcezza verso i figli, si adattava al gusto di chi ne mangiava,  si trasformava in ciò che ognuno desiderava” (Sap 16,20-21). L’unico cibo della manna si adattava al gusto di colui che sapeva accoglierla come un dono che veniva da Dio. Non è quello che il popolo ha fatto valere, ma quello è tutto il suo mistero. Quel mistero permane e sostanzia ogni parola rivelata in riferimento a Colui che nella sua carne ha concentrato il segreto di Dio, a cui tutte le parole rivelate alludono. La chiesa celebra la sua liturgia proprio per introdurre nel mistero di quella parola fatta carne e svelare al mondo la grandezza dell’amore di Dio per l’uomo.

Nella storia, invece, passata l’emozione della novità, con l’andar del tempo gli israeliti si sono presto nauseati  nel trovarsi davanti sempre lo stesso cibo e solo quello. Non hanno più pensato che con quel cibo potevano continuare a camminare nel deserto; avevano dimenticato dove erano diretti, per quale promessa si erano mossi dall’Egitto. Al colmo della loro nausea, non potevano che riandare all’antica abbondanza dell’Egitto: “Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cetrioli, dei cocomeri, dei porri, delle cipolle e dell’aglio. Ora la nostra gola inaridisce; non c’è più nulla, i nostri occhi non vedono altro che questa manna” (Num 11,5-6). 

Il salmo 78, che riprende l’epopea del popolo nel deserto, descrive l’invio della manna e delle quaglie con questa annotazione: “Mangiarono fino a saziarsi ed egli appagò il loro desiderio. Il loro desiderio non era ancora scomparso …” (Sal 78,29-30), testo che secondo la lettura della Volgata e della LXX, cambiando la punteggiatura, era reso nella vecchia versione, quella che il Messale e i Breviari ancora riportano: “Hanno mangiato e si sono saziati e Dio li ha soddisfatti nel loro desiderio, la loro brama non è stata delusa”.

Da una parte, viene rimarcato che la manna era il cibo dato da Dio capace di soddisfare ogni brama e, dall’altra, la fin troppo reale eventualità dello scadere del gusto tanto da causare nausea e rifiuto. Il ritorno alla schiavitù per il fastidio della libertà. L’impossibilità di godere la promessa di Dio per lo scadere del gusto. Lo stesso, terribile, pericolo per le nostre celebrazioni e per il nostro ascolto della parola. La Scrittura infatti ci avverte che la felicità dell’uomo passa per l’accettazione del suo luogo, fosse pure il deserto. L’uomo dovrà lottare contro la tentazione di fuggire verso un altrove chimerico, sognando di cambiare senza posa cose e esperienze, che alla fine non sono che riprese della ordinaria schiavitù antica. Dovrà, con l’alimento della manna, che è la parola e il corpo di Cristo, dar prova di creatività e di immaginazione per dare alle cose il loro gusto, in modo da aprirle alla venuta del Regno, che la parola e la celebrazione continuamente ci svelano nella sua prossimità.

La percezione di tale prossimità avviene nel coinvolgimento di una dinamica di rivelazione che la liturgia dischiude agli occhi del cuore. La guarigione del paralitico, secondo il racconto di Mc 2,1-12, ce ne offre la visione diretta. Di quell’uomo, calato dall’alto davanti a Gesù in una barella improvvisata, si sa solo che era malato. Né lui né i suoi amici proferiscono verbo, né prima né dopo. Con forte determinazione viene posto semplicemente davanti a Gesù. Il comportamento di Gesù è strano, un comportamento che spiazza. La liturgia della domenica settima del tempo ordinario, ciclo B, sa però collocarlo molto bene e mette in bocca a quell’uomo, simbolo di noi tutti, le parole del salmo 12, che servono da antifona di ingresso: “Confido, Signore, nella tua misericordia. Gioisca il mio cuore nella tua salvezza, canti al Signore che mi ha beneficato”. Le prime parole del salmo invocano: “Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?…”. La situazione dell’uomo è ben descritta, come del resto l’intervento di Dio.

Tutto il racconto si fonda sull’annotazione: “Gesù, vedendo la loro fede, disse al paralitico: Figlio, ti sono perdonati i tuoi peccati”. Evidentemente l’evangelista vuole attirare l’attenzione dell’ascoltatore oltre l’apparenza. È chiaro che il paralitico è stato portato per ottenere il miracolo della guarigione e tutta la scena è costruita sulla decisione dei suoi amici di arrivare allo scopo, fino a scoperchiare il tetto pur di far arrivare il loro protetto davanti a Gesù. Ma Gesù non risponde subito a quell’urgenza. Ne rivela invece un’altra, inaspettatamente, e di questa parla la fede che Gesù aveva notato. Noi però non riusciamo a cogliere quello che si è scatenato a partire da ciò che Gesù ha visto e che ha permesso anche a lui di mostrarsi nella sua verità.

Se ci si rifà al brano di Is 43,18-25, che la liturgia fa proclamare come prima lettura, possiamo cogliere il segreto di quella scena. Il profeta presenta il Signore nel suo amore per Israele: “Il popolo che io ho plasmato per me … Io, io cancello i tuoi misfatti per amore di me stesso, e non ricordo più i tuoi peccati”. Tutto il capitolo è attraversato dalle manifestazioni di un affetto intenso e intramontabile di Dio per il suo popolo  – Dio che dice al suo popolo: sei prezioso ai miei occhi, sei degno di stima, io ti amo, io sono con te! -. Questo amore si esprime proprio nel cancellare i peccati, nel non ricordare le colpe.

Non si vuol dire però che il suo amore è tanto grande da dimenticare i peccati, ma che il fatto di non ricordarli è il segno che quell’amore ci raggiunge e ci rapisce nella sua dinamica di vita. In effetti, quando il testo parla di un popolo che ha plasmato intende il popolo che ha riconciliato e che continuamente conquista al suo amore. L’antica versione greca della LXX traduce il passo sopra citato enfatizzando questo significato: “Io sono, Io sono, proprio colui che cancella le tue trasgressioni ”. Almeno per quello che l’uomo può cogliere, Dio è semplicemente e totalmente il Dio che è dalla parte dell’uomo, il Dio che ama l’uomo al punto da non stancarsi mai di lui. Dio non ha bisogno di riconciliarsi con l’uomo; è l’uomo che si deve riconciliare con Dio. Dio non può avere la sua gioia se non nel vedere l’uomo riconciliato con sé. Questo spiega la corsa di Dio verso l’umanità, di cui tutte le Scritture parlano e che il canto al vangelo sottolinea: “Il Signore mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione”. E Gesù, davanti al paralitico guarito, agisce proprio nell’ottica del ‘Dio che plasma il suo popolo’.

Nel salmo responsoriale, il primo versetto canta: “Beato l’uomo che ha cura del debole, nel giorno della sventura il Signore lo libera”, che l’antica versione greca rende con: “Beato colui che ha intelligenza del povero e del misero”. Il debole non è solo il fratello malato e bisognoso, che dovrà essere portato da noi sul lettuccio fino a Gesù; ma è proprio il Figlio dell’uomo, che ha sacrificato ogni potere e grandezza per invitare tutti e ciascuno alla comunione con lui, che non abbandona pur quando è abbandonato, che non si rifiuta pur quando è rifiutato, che non si stanca di plasmare l’uomo. Se di quell’Uomo abbiamo premura, non subiremo il male perché non c’è sventura che possa separarci da lui e dai nostri fratelli. A questo mira l’azione di Dio che vuol plasmare l’uomo in Cristo.

La colletta fa cogliere bene il senso del brano: “Dio della libertà e della pace, che nel perdono dei peccati ci doni il segno della creazione nuova, fa’ che tutta la nostra vita riconciliata nel tuo amore diventi lode e annunzio della tua misericordia”. Effettivamente la novità di Gesù consiste proprio nel collegare il suo potere di guarigione con il perdono dei peccati. Ma noi siamo così distanti dal senso della santità di Dio che una tale sovrabbondanza di grazia non ci scompone più di tanto! Eppure tutto l’agire di Gesù ci richiamerà a questo, fino a riempire di stupore il nostro cuore quando ci invaderanno la grazia e la potenza del suo perdono sanante e ristoratore.

Il fatto che siano altri a portare il malato davanti a Gesù, altri, evidentemente, che tenevano al malato e che, una volta visto esaudito il loro desiderio, si sottraggono, non può non far vedere in questi portatori la funzione provvidenziale dei fratelli nel nostro cammino di fede, nella nostra scoperta di Gesù. Sono lì a richiamarci la dimensione ecclesiale del nostro vivere la fede e nella fede; sono lì a sottolineare la provvidenza divina nella nostra vita. Di qui la responsabilità di comportarci da fratelli, per non far venir meno la rivelazione del Volto di Dio a nessuno, che sarà appunto l’esito dell’intelligenza delle Scritture e della partecipazione ai misteri del Cristo.

In questo percorso di accompagnamento all’intelligenza delle Scritture, proclamate nella liturgia, la compagnia e la guida dei nostri padri nella fede è insostituibile. Fondamentalmente per tre ragioni:

– per il loro senso vivissimo della profondità e globalità del mistero che ci riguarda da parte di Dio, testimoniato nelle Scritture. I Padri illustrano la tensione contemplativa che deve caratterizzare il pensare e l’agire cristiano, tensione senza la quale il cuore resterebbe a digiuno;

– per l’intelligenza delle Scritture di cui il loro pensiero è nutrito, al servizio di una pastorale globale del popolo cristiano chiamato a progredire nella via della santità;

– per l’estrema fecondità del loro approccio al mistero di Dio e dell’uomo, un approccio che ha fatto cultura.[15]

In loro compagnia, per la preghiera della chiesa, veniamo così guidati ad essere plasmati dal Signore che continuamente attira a sé i suoi figli e li chiama all’unica mensa del suo amore.

____________________________________

[1] Cfr. Zohar I, 11b: Le livre de la splendeur, par Jean de Pauly, Paris 1970, Maisonneuve et Larose, vol. I, p. 64.

[2] Nel termine pre-figurazione, latino prae-figuratio, troppo spesso si accentua l’aspetto del venir prima, mentre andrebbe accentuato, secondo la preposizione latina prae, davanti, piuttosto l’idea del dispiegamento, della sua manifestazione piena.

[3] Martyrios (SAHDONA), Sull’amore perfetto per Dio e per gli altri. Introduzione, traduzione e note a cura di Sabino Chialà, Monastero di Bose 1993, Qiqajon (Testi dei Padri della Chiesa,8), p. 24 (evidenti gli echi dei passi evangelici Gv 1,27 e 3,29, in riferimento all’amicizia tra Giovanni Battista e Gesù, presentata come modello).

[4] Evangelii gaudium, 141.

[5] AGOSTINO, Esposizioni sui salmi, IV, Roma 1977, Città nuova (Opere di sant’Agostino, XXVIII), p. 543: sal 140,2.

[6] I Padri commentano il Salterio della Tradizione, a cura di Jean-Claude Nesmy. Torino 1983, Gribaudi, p. 118-119.

[7] Cfr. E. CITTERIO, L’intelligenza spirituale delle Scritture, Bologna 2008, EDB, p. 176-177.

[8] E. LÉVINAS, Il tempo e l’altro, Genova 2001, 3° ed., Il melangolo, p. 17 e 57.

[9] Cfr. D. WEBSTER, Giovanni il Nano e l’abate Nicola. Storie di saggezza dal deserto, Cinisello Balsamo (MI) 1994, Edizioni San Paolo, p. 105-108.

[10] Cfr. Zohar I, 11b: Le livre de la splendeur, par Jean de Pauly, Paris 1970, Maisonneuve et Larose, vol. I, p. 64.

[11] ISACCO DI NINIVE, Discorsi spirituali e altri opuscoli, Qiqajon, Magnano (BI) 1985, p. 209-210.

[12] Goffredo BOSELLI, Il senso spirituale della liturgia, Qiqajon, Magnano (BI) 2011, p. 7.

[13] GREGORIO MAGNO, Omelie sui Vangeli, Città nuova (Opere di Gregorio Magno, 2), Roma 1994, p. 295: omelia XXIII, 2.

[14] CONCILIO VATICANO II,  Dei Verbum, 21. Cfr anche i paragrafi  23, 25.

[15] Mi permetto di rimandare al mio L’intelligenza spirituale delle Scritture, EDB, Bologna 2008, p. 16 e in particolare alla seconda tappa, pp. 45-84.