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Guida di lettura alle parabole

L’atteggiamento di fondo:

  • Quale domanda ci pone il testo
  • Quali domande porre al testo

Passaggi da rispettare:

  1. PARTIRE DALLA LITURGIA:
    • cercare in quale domenica o festa dell’anno si proclama la parabola
    • quali i collegamenti tra i diversi brani proclamati nella liturgia
    • quali le finestre di luce da cui guardare alle parabole (antifona ingresso, colletta, salmo, canto al vangelo)
  2. ATTENZIONE AL TESTO
    • riferire la narrazione prima di tutto al Signore Gesù e non a noi
    • inserirle nel contesto della narrazione evangelica
    • quali allusioni relative al mondo della Scrittura
    • significati di fondo
  3. DOMANDE AL TESTO
    • a quale domanda la parabola risponde
  4. DETTAGLI significativi
  5. DINAMICHE di fede e DINAMICHE spirituali
  6. LA DOMANDA PER NOI

IL SEMINATORE
[Dalla domenica XV, anno A: Is 55,10-11; Sal 64; Rm 8,18-23;  Mt 13,1-23]

È importante riconoscere i contesti in cui ascoltare le parole del Signore.

Il cap. 12 di Matteo finiva con la dichiarazione di Gesù: «“Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”. Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: “Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre”». Il cap. 13 comincia con ‘quel giorno Gesù uscì di casa’ e il racconto della parabola ‘ecco, il seminatore uscì a seminare’.  Gesù, Verbo del Padre, lascia il Padre e viene tra gli uomini, non solo seminando la sua parola nei cuori, ma seminando sé, sua Parola Vivente, nei cuori. C’è identità tra il seminatore e il seme, perché colui che semina e la cosa che viene seminata è la stessa realtà, Gesù stesso. S. Ambrogio dice che l’anima è come la madre del Verbo, a somiglianza della Vergine. Ognuno è chiamato a far nascere e far crescere Gesù dentro il proprio cuore. Questo è il significato profondo della parabola.

C’è poi un altro aspetto. Perché a qualcuno è dato conoscere i misteri del Regno dei cieli e a qualcun altro no? Perché ai discepoli Gesù parla direttamente e alle folle in parabole (sottinteso: per non farsi capire?)? Se sono beati gli occhi dei discepoli che vedono, allora noi, che non vediamo, siamo più sfortunati di loro? Qui risalta il problema della libertà dei cuori in tutta la sua drammaticità. Non è pensabile che il Signore parli a qualcuno per farsi intendere e a qualcun altro per nascondersi. Eppure, qualcuno intende e qualcun altro no. Il seme lo ricevono tutti i tipi di terreno: strada, sassi, spine e terra buona. Ma solo la terra buona produce frutto. Il seminatore non è meno generoso con il terreno sassoso che con il terreno buono. E poi (e qui ci soccorre la prima lettura di Isaia) la potenza della sua parola è fuori discussione. Sempre la Parola produce quello per cui è mandata. Ma – e questo è il dramma – se in chi l’accoglie, produce salvezza, in chi la rifiuta produce condanna (cfr. Gv 5,24), la condanna di non vedere compiuti i desideri del proprio cuore perché impenetrabile alla tenerezza della Parola. È il dramma della relazione mancata con il proprio Dio!

Se la beatitudine degli apostoli è più grande della nostra – loro hanno visto e sentito Gesù, mentre noi crediamo senza averlo visto – non va dimenticato che la loro posizione non era più facile della nostra. L’incredulità della folla lo sta a dimostrare: si può vedere e sentire Gesù, ma non entrare nel suo mistero e perciò il cuore non portare frutto.

Riflettiamo ora sulla natura dei vari tipi di terreno. Anzitutto la grande distinzione: ci sono terreni che non portano frutto e ci sono terreni che lo portano, sebbene in misura diversificata (30, 60, 100 per uno). Il frutto è dato dalla conversione alla fede: chi crede sarà salvato e chi non crede sarà condannato, nel senso che ho detto sopra. Quindi il frutto è in rapporto all’accoglienza del seme, come a dire: tutto il lavorio del cuore, tutto lo sforzo ascetico e spirituale è per accogliere e far crescere in noi il Cristo, per diventare sua madre, suoi fratelli. Accogliere e far crescere significa allora ascoltare la parola di Dio, metterla in pratica, compiere la volontà del Padre.

I terreni, che possiamo intendere come le possibili condizioni di una conversione sempre più coinvolgente e radicale, sono: la strada, i sassi, le spine, la terra buona. Dobbiamo operare tre passaggi per arrivare a produrre qualche frutto. Dobbiamo prima lasciare l’essere come la strada. Il terreno della strada è calpestato, duro, impenetrabile. È la situazione di un cuore che dà il diritto d’accesso a qualsiasi cosa, a qualsiasi pensiero, con un andirivieni senza sosta e soprattutto senza senso. La terra va perciò lavorata per renderla soffice, penetrabile dal seme della Parola e ciò comporta l’imparare a orientare i nostri pensieri, a riconoscerli, a saperli distinguere e a lottare per non andar dietro ad ognuno che passa e subire vessazioni di ogni tipo.

Poi dobbiamo lasciare l’essere come i sassi, dove la terra è uno strato superficiale, che non permette al seme di mettere radice. Se la Parola non può aver radici, non ha ancora consistenza ed il cuore non può che restare incostante. È la situazione di un cuore che ha paura di soffrire a causa della Parola, che non ha fiducia nella promessa di Dio. Dio fa sempre paura, perché temiamo chieda cose che siano contro di noi e cedendo a questa paura non conosceremo mai l’amore e la vita!

Quando la terra è lavorata ed è profonda, fa nascere di tutto: cresce il seme, ma crescono anche facilmente le erbacce. La terra va dunque tenuta pulita, se no le erbacce, le spine, crescendo insieme al seme, ne soffocano il germoglio. È la situazione del cuore che fa resistenza al  distacco  da tutto ciò che momentaneamente ci alletta. Troppi beni finiscono per nascondere il vero Bene; troppe attese soffocano la vera attesa del cuore; le pretese impediscono al cuore di godere. Si deve lavorare per non compromettere il cuore in cose che ritardano o addirittura soffocano i suoi aneliti più genuini. È la battaglia della sobrietà: siamo sì liberi verso ogni cosa, ma non ogni cosa giova. Occorre imparare a discernere bene e scegliere ciò che è in funzione degli aneliti più veri.

La terra, così lavorata, diventa buona, capace di accompagnare la crescita del seme fino a maturazione, fino cioè a godere dei frutti sperati. La distinzione della terra buona in ragione della capacità di dar frutto per il 30, il 60 e il 100 per uno, allude alla diversità di coinvolgimento e di radicalità della risposta da parte del cuore alla Parola. La tradizione ebraica ha visto in questa distinzione la fedeltà di chi crede e uniforma la sua vita ai precetti del Signore, di chi lo fa spendendo tutti i propri beni per il regno di Dio, di chi lo fa fino al dono di se stesso, capace di morire pur di star fedele al suo Dio. Nella tradizione cristiana si sono visti i martiri, i vergini e gli altri credenti in generale. In sostanza, tutto dipende dal livello di profondità e di verità del cuore nell’aderire alla Parola; direi, tutto dipende da quanto si vuole investire della propria vita nella relazione con il Signore. Il godimento viene appunto in ragione della maggior o minor totalità di questo investimento, fatto che cela il mistero dell’invito di Dio al cuore dell’uomo e la sua totale libertà di risposta.

Il testo è anche ricchissimo di allusioni, che i Padri mettono in evidenza nei loro molteplici significati. Risalta subito la straordinaria  prodigalità del seminatore, che agli occhi di un buon contadino risulta una pazzia. Seminare in generosità anche sulla terra che non può produrre frutti (strada, terreno sassoso, terreno con le spine) e ottenere, per la semina in terra buona, un rendimento così diverso (30, 60, 100 volte tanto) non è di nessun contadino e di nessuna terra arata. Evidentemente Gesù allude ad altro.  Gesù prende l’iniziativa: esce di casa e va in riva al mare e sale su una barca per parlare alla folla. Gli ascoltatori si suddividono in due gruppi: la folla, che ascolta senza intervenire e alla fine non comprende e i discepoli, i quali si avvicinano a Gesù (sulla barca? in casa?) per chiedere spiegazioni e ottenere la rivelazione dei misteri del Regno. Il seme e il seminatore si confondono. È Dio a seminare ma è pur sempre Dio a essere seminato nei cuori; è Gesù che parla ma è pur sempre lui la Parola che viene seminata e accolta nei cuori.

            La prima deduzione che se ne può trarre è allora la seguente: ogni dono dell’Amato è sempre presenza dell’Amato; dietro ogni Parola annunciata e ascoltata, sta sempre il desiderio di Dio di essere accolto e l’invito suo ad accoglierlo. Questa alleanza di Dio con l’umanità costituisce il quadro di riferimento, il contesto di senso della parabola del seminatore. Lo proclama anche il passo di Isaia che precede il brano letto oggi: “O voi tutti assetati venite all’acqua … Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e voi vivrete. Io stabilirò con voi un’alleanza eterna” (Is 55,1.3). In quel contesto prende significato la prodigalità del seminatore (non si stanca mai di seminare, non teme di buttar via il seme, si rivolge a ogni tipo di terreno, evidentemente perché sempre Dio ricerca la conversione del cuore dell’uomo che da un tipo di terreno può passare a un altro) e la potenza di crescita del seme (che può sempre produrre fino a 100 volte tanto), mostrando in questo il compimento dei desideri del cuore dell’uomo (Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna” (Mt 19,29).

Una seconda deduzione: ascoltare la Parola (= accogliere il seme) comporta il far frutto, e ciò corrisponde al comprendere la Parola. Quanto alla terra buona, quella che riceve il seme e porta frutto, Gesù distingue quella che dà frutto al 30, al 60 e al 100. Potremmo intendere: comprendere la Parola significa vivere cercando il regno di Dio al di sopra di tutto; significa cercarlo a tal punto da abbandonare tutto il resto; significa vivere della gioia del regno anche nell’afflizione e nella persecuzione. La progressione è data dalla potenza della gioia della scoperta del regno, gioia che, nell’incontro con Gesù, diventa radice di nuova umanità fino a condividere la vita stessa del Figlio dell’uomo. In questo contesto vanno comprese le affermazioni di Gesù sulla beatitudine degli occhi che vedono, sul giudizio che deriva dalla fede in Lui (‘a chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha’). A chi ha fede sarà data anche intelligenza; chi accoglie Gesù sarà reso partecipe del regno; chi si apre alla rivelazione di Dio, attraverso Gesù, gusterà la promessa di Dio. La beatitudine consiste in questa apertura a Gesù, apertura che deriva dalla benevolenza del Padre e di cui l’uomo non può menar vanto. L’apertura a Gesù comporta sia l’apertura al mondo visto con gli occhi di Dio sia l’apertura al cuore compreso e accompagnato nei suoi aneliti profondi. Viceversa, ogni chiusura a Gesù davanti alla sua parola comporta la corrispondente chiusura a Dio, al mondo e al cuore, non più colti nella loro connessione segreta, senza però mai stancare la prodigalità di Dio che continuamente attira a quella connessione con l’annuncio del suo regno in Gesù.

di Adamo: “il Signore Dio plasmò l’ uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’ uomo divenne un essere vivente” (Gn 2,7). Nel salmo 50 si dice che Dio gradisce un cuore contrito. Il termine contrito, dal latino conterere, allude proprio a questo rendere polvere il cuore. Quando ci sentiamo afflitti, quando subiamo un’offesa, un’ingiustizia, quando subiamo una prova, senza ribellarci o adirarci, è come se il nostro cuore venisse pestato fino ad essere ridotto in polvere. È reso polvere quando non ha più diritti da avanzare o da rivendicare. Allora, come polvere della terra, Dio lo può plasmare di nuovo e il nostro cuore rinasce come essere nuovo, capace di sentimenti nuovi, più umani e divini allo stesso tempo. È il senso appunto della penitenza quaresimale: riconsegnare il nostro cuore a Dio perché possa essere di nuovo modellato da Lui. Se impariamo a percepire il senso del mistero che viviamo, il cuore scoprirà nuove energie per viverlo fino in fondo e troverà finalmente quella gioia che cerca, nonostante non manchino i tormenti.

Salta agli occhi il contrasto tra l’austerità del rito come di tutto il cammino penitenziale quaresimale con la leggerezza alla quale Gesù invita i suoi discepoli: “quando digiunate, non assumete aria malinconica … tu invece profumati la testa e lavati il volto …”. È il contrasto tra la penitenza secondo gli uomini e la conversione secondo Dio. Penitenza richiama appunto una tristezza, una scena in cui muoversi e attirare gli sguardi; conversione richiama invece rinnovamento, visione nuova, gusti nuovi, senso nuovo, le cui caratteristiche sono appunto la levità, la freschezza, la gioia. Seri senza essere seriosi; gioiosi senza essere superficiali.

Qual è la ragione? La conversione è il ritorno ad un’intimità, a un percepire sempre più intensamente la presenza del Dio che ci ha amati e che ci chiama al suo amore; è un imparare a vedere le cose a partire da questa intimità con Dio. Scompare la scena sia esteriore che interiore. C’è scena dove non c’è intimità e tale scena può essere giocata all’esterno per farsi vedere fisicamente dagli uomini (non però che oggi ci sia realmente il pericolo di giocare questa scena facendoci vedere in preghiera! Magari!!!) ma soprattutto all’interno, rispetto a noi stessi. C’è una telecamera segreta dentro di noi che ci riprende e non ci abbandona mai (sono i nostri ideali di perfezione, le immagini che di noi difendiamo, quel senso di importanza che a tutti i costi vogliamo mantenere, ecc.), ma così facendo non riusciamo mai ad entrare nella camera segreta, a stare in compagnia di Dio senza servirci di tale presunta compagnia per altri scopi. La penitenza ha lo scopo di toglierci da questa scena, di toglierci questa scena. Se non produce intimità vuol dire che non raggiunge lo scopo.

L’esortazione di Paolo a essere collaboratori al mistero della riconciliazione riguarda direttamente la penitenza, perché ne indica lo scopo: favorire negli uomini l’esperienza dell’amore di Dio. Fare le opere davanti agli uomini significa privare gli uomini dell’occasione di porsi davanti a Dio. Fare le opere davanti a Dio significa porsi dentro questo mistero di riconciliazione  con tutto il bisogno dei nostri cuori di essere perdonati e di scambiarsi il perdono vicendevolmente, come segno dell’amore di Dio arrivato fino a noi. Ogni tipo di penitenza gradita a Dio ci ottiene l’inserimento in questo mistero di riconciliazione, dove, per la verità dell’amore provato, non c’è più spazio per la scena, nemmeno in noi stessi.