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COORDINAMENTO NAZIONALE CURA PASTORALE DELLE VOCAZIONI

FRATI MINORI D’ITALIA

LA DIMENSIONE DELLA SOLITUDINE NELLA CURA PASTORALE DELLE VOCAZIONI

CONVEGNO 2015

ROMA, 4 febbraio 2015, Suore Francescane Angeline

p. Elia Citterio


La parola solitudine oggi è connotata affettivamente con il segno negativo: solitudine come isolamento, come fuga, come abbandono, come ferita, come depressione. Evidentemente si tratta di scelta involontaria, subita, da cui si cerca a tutti i costi di uscire, in genere senza successo. Ma la solitudine è ineliminabile dalla percezione di se stessi e dal cammino spirituale intrapreso. Quando è vissuta per scelta volontaria, la solitudine promuove l’ispirazione, l’appartenenza, la vita come promessa. E dico scelta, non reazione. La scelta ha a che fare con il desiderio profondo del cuore, mentre la reazione dipende dalla sensibilità ferita. Per questo si può parlare di educazione alla solitudine, accompagnandoci a vivere positivamente la solitudine.

Vorrei disporre in tre passaggi i miei suggerimenti di riflessione, dentro una cornice di riferimento.

CORNICE DI RIFERIMENTO: LA FIGURA DI ABRAMO

L’autore della lettera agli Ebrei descrive Abramo così:

 “Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede, egli soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa” (Eb 11,8-10).[1]

E quando il libro della Genesi riporta la chiamata di Abramo usa un’espressione singolarissima. Il passo per esteso suona:

Il Signore disse ad Abram: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» ”(Gen 12,1-3).      

L’espressione singolarissima, nel testo ebraico, è ‘lek leka’, tradotto con ‘vattene’, ma che andrebbe reso, secondo la vocalizzazione tradizionale: ‘vai a te’, ‘vai verso te stesso’, ‘vai per te stesso’. Contemporaneamente un esodo e un ritorno. Un esodo da qualcosa che impedisce la scoperta del senso pieno del vivere e un ritorno a ciò che ci costituisce nell’intimo per vivere in gratuità e servizio la nostra vocazione all’umanità. E la tradizione ebraica commenta: lo scopo del viaggio sarà per il tuo bene, deve essere l’ultimo viaggio per stabilirti nel nuovo paese, vai senza paura delle resistenze familiari, vai in modo da vivere libero dalle influenze negative del tuo ambiente familiare, cammina solitario e non nei sentieri del popolo.[2]

È l’invito a riconoscere la grandezza dell’uomo che scaturisce dall’essere amato e chiamato da Dio. L’uomo non è il fondamento di se stesso; è un dono affidato a se stesso. Avere coscienza di me stesso significa rendermi conto di un rapporto originario che mi costituisce e mi invita a riconoscere questo dono riconoscendomi quale dono.[3] Qui si radica la possibilità di vivere in positivo la solitudine. Diversamente, la solitudine che angoscia l’essere dell’uomo lo condanna alle sue ferite. Evidentemente, nel dramma del viaggio della vita! Come per Abramo, il quale, chiamato, obbedì, partì (senza sapere bene dove sarebbe andato), abitò in tende (provvisorio, nel territorio straniero, che sarebbe diventato la terra promessa). Mi sembra ci siano tutti gli ingredienti significativi caratterizzanti il percorso spirituale di ciascuno nel servizio del Dio Vivente: sia per realizzare la propria vocazione all’umanità sia per realizzare quella fraternità che non è che la fioritura dell’umanità.

 

PRIMO PASSAGGIO.

Un’istantanea sulla dimensione interiore odierna secondo il timbro affettivo predominante

Senza perderci in analisi sociologiche, farò un’annotazione per tutte: viviamo in un universo, interiore ed esteriore, frammentato. Non lo dico in generale per l’uomo sconvolto dal male e dal peccato. Lo dico in rapporto all’uomo di oggi, figlio di questa cultura moderna e postmoderna, di questa società supertecnologizzata e multiculturale, opulenta e angosciata, per le caratteristiche peculiari che la contraddistinguono nel bene e nel male. Facciamo un’enorme fatica a far fronte alla complessità del mondo. Quanti rifugi nella religione per evitare di affrontare la complessità della vita! La complessità del mondo è però lo spazio reale in cui si deve vivere. Negare la complessità (fondamentalismo) o esorcizzarla (spiritualismo nostalgico) sono operazioni che condannano l’umanità alla mutilazione e non fanno fiorire l’umanità nei tratti che la rendono desiderabile: tenerezza, letizia, umiltà, amore.

Penso, ad esempio, a quanto sia distante dal sentire moderno l’atteggiamento evangelico, così tipicamente francescano, della sottomissione dolce e libera a tutto e a tutti! Del resto, credo vada riconosciuto che il secolarismo imperante, di per sé, non è negazione di Dio, ma della creatura. L’eterno serpente tentatore, sempre all’opera nelle sue suggestioni illusorie, rivela all’uomo tutte le sue potenzialità (illimitate: “Sarete come dèi”, cfr Gen 3,5), ma gli nasconde con ciò stesso il suo limite ontologico. La ragione profonda dell’angoscia moderna deriva da qui: voler prendere da sé qualcosa che invece ci può essere solo donato.  E penso anche che la sensibilità culturale moderna, nel suo complesso, manchi proprio delle due caratteristiche che costituiscono i segnali della buona salute dello spirito: della gioia (la gioia della salvezza e la salvezza che è gioia) e dell’umiltà. Invece di favorire l’acquisizione di quelle due caratteristiche, ci perdiamo nell’illusione di voler comunque risolvere i problemi piuttosto che insegnare a viverli cercando il Regno di Dio, come invita il vangelo. La tendenza rivendicativa della sensibilità odierna, così letale per il cuore e per gli affetti, è proprio il male di fondo che va guarito con l’accompagnamento ad una vera esperienza di incontro col Signore Gesù. Quando la solitudine è vissuta nel segno negativo, questa tendenza rivendicativa si rifrange su tutto e blocca l’accesso proprio alla gioia e all’umiltà.

Sottolineo due caratteristiche: viviamo di fretta e inquieti. La fretta riguarda il tempo, l’inquietudine il luogo. Non riusciamo mai a fare le cose essenziali perché prima ne abbiamo cento altre urgenti da sistemare (smartphone insegnando!). Non viviamo mai in pace in un luogo perché immaginiamo che se fossimo in un altro ci troveremmo meglio (il miglior posto virtuale non sostituisce il più prosaico posto reale!). Basta pensare al ‘compito’ della preghiera nella nostra vita. Possiamo sempre preferire qualcosa alla preghiera e la situazione interiore che viviamo non è mai il luogo ‘adatto’ alla preghiera!

I sociologi parlano di tempo stracolmo, tempo accelerato[4], con la relativa perdita del tempo lento. Se pensiamo però che gli affetti, i valori significativi della vita, le relazioni, hanno bisogno del tempo lento per essere vissuti, ci rendiamo conto che la ricerca delle gratificazioni immediate, con la conseguenza dell’accantonamento dei valori nella categoria del marginale, non derivano da un problema di moralità, ma di prospettiva. Per intaccare la prospettiva non serve richiamarsi ai valori o alla moralità, ma solo alla dimensione spirituale, che oggi, anche in ambito ecclesiale, si è molto rarefatta.

Un esempio biblico ci aiuta a guardare nel profondo. Quando i saggi di Israele hanno ripensato all’avvenimento della manna, che Dio aveva dato al popolo come cibo nel deserto, intuiscono una cosa essenziale. Il testo di Sap 16,20-21 dice: “Invece hai sfamato il tuo popolo con il cibo degli angeli, dal cielo hai offerto loro un pane pronto senza fatica, capace di procurare ogni delizia e soddisfare ogni gusto.  Questo tuo alimento manifestava la tua dolcezza verso i figli, si adattava al gusto di chi ne mangiava, si trasformava in ciò che ognuno desiderava”. L’unico cibo della manna si adatta al gusto di colui che sa accoglierla come un dono che viene da Dio, che sa far posto all’imprevisto, all’insperato, invece di fuggire nell’immaginario di un mondo di abbondanza (pensato sempre al passato o comunque in luoghi diversi da quello in cui ci si trova) dove tutto sembra così semplice. Proprio quello che Num 11,5-6 descrive: “Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cetrioli, dei cocomeri, dei porri, delle cipolle e dell’aglio. Ora la nostra gola inaridisce; non c’è più nulla, i nostri occhi non vedono altro che questa manna”. La Scrittura ci avverte che la felicità dell’uomo passa per l’accettazione del suo luogo, fosse pure il deserto, un luogo in cui la vita è ben lungi dall’essere semplice. Ma è proprio in questo luogo che la manna, un cibo così semplice, è data. Per questo l’uomo deve lottare contro la tentazione di fuggire verso un altrove chimerico. L’uomo non troverà la felicità cercando un altro luogo né cambiando senza posa cose e esperienze. Vi accederà se accoglierà le cose, anche le più semplici e se farà prova di creatività e di immaginazione per dar loro il gusto, giocando con la complessità dei sapori di una vita ancorata al reale.[5]

Aggiungo un’ultima annotazione. Abbiamo perso i contatti con i ritmi interiori, segreti, del cuore. Immaginiamo di stabilire noi i ritmi della giornata adattando il nostro cuore a quelli. La realtà è che i ritmi assunti non sono nostri, ma di altri; sono ritmi che vincolano puntando a obiettivi che non sono i nostri; sono ritmi che necessitano di energie che non lavorano per noi, ma per altri. Una certa asprezza nei rapporti come un certo nervosismo di fondo deriva da qui. L’incapacità di trovare ritmi adeguati al nostro uomo interiore ci condanna alla superficialità e alla pigrizia, venendo meno a quello che è il primo comandamento per l’uomo: il coltivare se stessi. Come racconta il libro della Genesi: “Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gen 2,15).

Tanto che oggi si rischia di volere la fraternità in funzione di se stessi, per colmare una solitudine affettiva. Sarebbe una tragedia dal punto di vista spirituale. Ci impedirebbe di incontrare il Dio Vivente, l’unico capace di farci vivere la vera fraternità.

SECONDO PASSAGGIO.

L’urgenza di un rovesciamento di prospettiva

Se ci dobbiamo accompagnare per vivere positivamente la solitudine, almeno tre sono i punti nevralgici che occorre assolutamente tener presenti:

1) La vita fraterna deve favorire la solitudine.

Il principio assoluto, bellissimo in teoria ma in pratica regolarmente disatteso, potrei formularlo così: un cuore vale più dell’universo. Si tratta di una deduzione amorosa, però, non dottrinale, per quanto profondamente evangelica. La persona non è solo in funzione degli altri, anche se solo vivendo con gli altri si scopre. Sono le relazioni che ci fanno scoprire la solitudine (quante immagini fasulle di noi stessi, della vita, del cammino spirituale, dell’amore, ecc.!) ma per aprirla alla verità di un incontro e per permetterci di fiorire in umanità. Sarà da dentro quella solitudine che emergerà il Volto del Dio di misericordia che ci attira e orienta i nostri desideri più veri e profondi.

Quando Gesù sceglie i dodici, secondo il racconto di Mc 3,14, la motivazione suona: “perché stessero con lui e per mandarli a predicare”. È lo stare con Gesù che permetterà di vedere la sua gloria, vale a dire lo splendore dell’amore che Dio riversa sugli uomini. E non è senza ragione che i discepoli sono presentati in coppia: Gesù non sarà maestro di individui isolati, ma costituirà una nuova comunità. Non si potrà conoscere Gesù che a partire da una fraternità condivisa perché il suo compito è proprio quello di “riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,53). Così, dall’esperienza del vivere con Gesù scaturisce immediatamente il desiderio di aprire la stessa possibilità ad altri che con noi condividono la ricerca della vita. Quando Andrea comunica a suo fratello Simon Pietro la scoperta: “Abbiamo trovato il Messia”, è come se dicesse: quello che i nostri cuori desiderano, quello che abbiamo sempre sognato, che abbiamo aspettato, è proprio lui; vieni anche tu! É l’inizio dell’apostolato: trasmettere a qualcuno il fascino della gloria del Signore e fare in modo che questo stesso fascino e questa stessa gloria risplendano anche per lui.

Non è però la fraternità a stare e a dimorare con Gesù; sono i fratelli, singolarmente presi, a stare e a dimorare con lui e proprio questo permette loro di fare fraternità. La fraternità gioca poi in senso apostolico per tutti i fratelli nel senso di radicarli sempre più nel Cristo e renderli testimoni davanti al mondo dell’amore di Gesù per tutti. Ogni tensione apostolica che non parli di quell’essere radicati in Gesù alla fine si tradurrà in attivismo, che diventerà la foglia di fico per nascondere la paura della solitudine. Ogni dinamica fraterna che non conduca a scoprirci soli con il Solo, con l’Unico, non ci libererà dalla schiavitù delle dipendenze e si tradurrà in ricerca di prestigio o di importanza presso qualcuno. Quello che Gesù dice: “E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?” (Gv 5,44).

2) La solitudine come benedizione.

Se la fraternità permette a ciascun fratello di vivere positivamente la sua solitudine, ciò è dovuto al fatto che la solitudine è il luogo segreto dove riconoscersi autenticamente, dove pescare le energie del cuore, dove scoprire i propri limiti e dove riportare la vittoria sulla paura. La solitudine è per la comunione ciò che il silenzio è per la parola, per non rischiare di vivere senza consistenza e alla mercé di ogni mutar del vento.

Educare alla solitudine comporta l’introdurci all’esperienza del proprio sé, a far germogliare le emozioni, a scoprire la dignità delle parole, all’essere soli per riuscire a stare uniti a Dio, al creato e al prossimo. Oltre le aspettative altrui e la coercizione degli eventi. In questo senso, sarebbe enormemente importante imparare a vivere momenti di pausa, di riposo interiore. Non ci si può donare quando ci si è sprecati. La solitudine vissuta oltre il mutismo che affossa la carità e oltre il vano parlare che svia la verità.

La benedizione della solitudine è come la benedizione strappata all’angelo, secondo il racconto del libro della Genesi.  Al guado dello Iabbok Giacobbe lotta con l’angelo per ottenere la benedizione: “Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’ articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quegli disse: “Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora”. Giacobbe rispose: “Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!”. Gli domandò: “Come ti chiami?”. Rispose: “Giacobbe”. Riprese: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!”. Giacobbe allora gli chiese: “Dimmi il tuo nome”. Gli rispose: “Perché mi chiedi il nome?”. E qui lo benedisse” (Gen 32,25-30). La Tradizione riferisce alla preghiera la lotta di Giacobbe perché la preghiera è lotta per la benedizione e la benedizione consiste nella possibilità di vedere Dio, come suggerisce il nuovo nome dato a Giacobbe: Israele. Non, evidentemente, nel senso di bearsi della sua visione, che sarà comunque sempre sfuggente e inafferrabile, ma nel senso di lasciarsi attrarre alla sua visione perché tutta la nostra vita ne porti traccia, perché tutto il nostro agire di lui si lasci informare, di lui parli e a lui si volga. Questa preghiera non può che sgorgare nella solitudine: “Giacobbe rimase solo”.

3) Scoperta della frattura, della falla foriera di vita.

Non so se sia pertinente e fondata l’osservazione. A me sembra che possa comunque suggerire molte cose. Il senso della solitudine come ferita rimanda alla separazione del bambino dalla madre nel parto. Per il bambino è un trauma uscire dal luogo sicuro in cui si muoveva, ma senza uscire non può proseguire la sua crescita.  È la separazione (=solitudine) foriera di vita.

Corrisponde all’immagine evangelica della porta stretta. Gesù non si proclama solo buon pastore, ma anche porta: è la porta spalancata del cielo per noi, la porta aperta per il Regno e, contemporaneamente, la porta stretta per la quale entrare sia nel Regno sia nel cuore. È detta stretta perché ha la preferenza di Dio e non nostra, perché esprime la sapienza che viene dall’alto che è contraria alla sapienza del mondo di cui siamo impastati, rivela il sentire di Dio che si oppone al sentire della nostra carne. Ma è una strettezza che prelude al passaggio della vita, proprio come per un bambino che, per nascere, deve passare per la porta stretta. E non per nulla in Gesù si parla di nuova nascita perché soltanto a partire di lì scopriamo il nostro essere secondo quell’abbondanza di vita alla quale aneliamo sconfinatamente.

La solitudine comporta sempre un dolore, uno smarrimento, una resistenza. È un aspetto che non va bypassato, che non va coperto, pena l’impossibilità di vivere in autonomia e libertà. La fraternità deve favorire l’ascolto di questo dolore, dargli spazio, fidandosi della promessa di vita che quel dolore, accettato, susciterà.

La cosa strana è che solo a partire da un amore che ci ha riconosciuti noi possiamo diventare autonomi e liberi. Non ci si libera per ribellione, ma per un accedere, scavando, a un livello più profondo, oltre l’oppressione o la delusione o l’ingiustizia, comunque oltre la ferita. La parola che arriva al cuore dell’altro (il primo altro siamo noi stessi) non può essere una parola rabbiosa, ma una parola che, essendo passata nel crogiolo della rabbia, è stata purificata dalle scorie della cronaca e delle passioni umane per accedere alla dimensione della verità, che non può mai essere una verità contro, ma per qualcuno. Qui entra in gioco tutta la singolarità della propria solitudine, che ognuno vive a suo modo, perché le storie personali non si ripetono. È la solitudine come lotta per riconoscere i propri limiti, cosa che fa dire ai santi parole di verità, di cui però il nostro io nemmeno vuole sentire parlare: “Beato l’uomo che conosce la sua debolezza: questa conoscenza sarà per lui fondamento e principio per tutte le cose buone e belle”; “Tutte le realtà future sarebbero fantasmi senza le debolezze di questo mondo”.[6] Noi tendiamo invece a coprire le nostre debolezze, a giustificarle o a sentircene giustificati e non a viverle come porte di accesso alla verità e alla vita, che fondamentalmente riguardano la verità dell’amore di misericordia di Dio e la vita che ne scaturisce per essere peccatori perdonati, non più ricurvi su se stessi.

 

TERZO PASSAGGIO.

Nessi da valorizzare

Attenendomi specificamente al contesto francescano, rispetto al fascino che l’ideale francescano suscita, mi viene da domandare: forse che, come chiesa, abbiamo taciuto qualcosa di importante rispetto a quell’ideale? Ad esempio, a quale radice ancoriamo la possibilità di vivere quell’ideale?

La mia sensazione è che si sia giunti a un punto di svolta nella separazione che si era creata tra radice e ideale. Come per la lettura del vangelo: leggerlo come l’ideale a cui tendere, invece che come radice in cui scoprirsi, condanna alla frustrazione. Penso ci faccia troppo difetto la tensione contemplativa dell’esperienza della fede. Siamo troppo abituati a ridurre i comandamenti alla pratica del bene senza renderci conto che il bene non è lo scopo dell’agire. Osservare i comandamenti significa viverli in funzione della gloria di Dio, vale a dire in funzione della rivelazione al nostro cuore del volto di Dio, che è amore per noi e che vediamo splendere nell’umanità di Gesù. Quello splendore si irradia sulle cose, su tutte le creature, sui nostri fratelli. Il fare è in funzione del vedere. E il vedere ha a che fare con la vita del cuore.

Il mio primo suggerimento sarebbe quello di tentare di coniugare la caratteristica francescana della fraternitas con la singolarità dell’esperienza monastica dei padri del deserto. Con Francesco d’Assisi non siamo più di fronte al monaco che fugge il mondo, né al monaco che, convertendo il mondo, lo conquista, ma al fratello, a colui che si sente minimo fra tutti, che ama il mondo. La povertà di Francesco è una ricerca di libertà e l’amore può così irradiarsi e abbracciare tutta la creazione e tutta la storia umana. La povertà, con l’umiltà e la gioia che l’accompagnano, assai più di una spoliazione di beni, è vissuta come assenza di rivendicazioni, di diritti, per vivere in rapporti fraterni, con il creato e gli uomini, senza proprietà. Francesco invita sempre i suoi fratelli a «essere lieti nel Signore, giocondi e amabili come si conviene»[7]. È la condizione ideale per vivere la dimensione della comunione come chiesa, non ripiegata su se stessa ma volta al mondo. Come però raggiungere quella condizione? Riprendendo la consistenza spirituale dell’esperienza del monaco, non certo come scelta di vita, ma come condizione del cammino di una vita.

Il termine monaco, dal greco μονος, solo, comporta quattro significati:

  1. definisce il monaco nella sua scelta di solitudine, nel senso che si allontana da tutto e da tutti per vivere in solitudine. È l’anacoreta, l’eremita, il testimone dell’“unicum” necessario.
  2. si riferisce a coloro che hanno rinunciato e al matrimonio e ai beni di questo mondo. Monaco dice anzitutto verginità.
  3. monaco vuol dire solo non nel senso di solitario, significato di per sé negativo, ma nel suo significato positivo, vale a dire ‘colui che non è attaccato a nulla in modo da non impedirsi di vivere unito ai suoi fratelli’, è colui che vive in una comunità di fratelli.
  4. monaco ha anche il significato di unico nel senso di unificato, vale a dire colui che, staccato da tutto per poter essere unito a tutti i fratelli, deve poter essere unito in se stesso perché è unito totalmente al suo Dio.

Coniugando la fraternitas con l’imparare ad essere soli e unificati, nella dinamica del perseguimento della santità nel mondo, dovremmo poter predisporre il cammino per raggiungere la condizione di poter vivere nel concreto delle situazioni la comunione sia in fraternità che nel mondo verso il quale siamo inviati. È chiaro che, se la santità verrà avvertita come una fuga dall’umanità, non sarà mai desiderata. L’ideale non agisce più nel senso di sottolineare la fuga dal mondo il più radicalmente possibile, bensì nel senso di testimoniare una Presenza con la maggior trasparenza possibile. Siamo chiamati più a scoprire e a far scoprire che Dio non ha abbandonato il mondo che non a preferire Dio al mondo. E quando dico santità nel mondo non intendo solo il mondo dell’umanità, della società e della storia degli uomini, con tutto il carico di dolore e di ingiustizie che caratterizza le vicende umane, ma anche il mondo della mia umanità, della mia storia personale, delle mie debolezze. L’illusione di dedicarsi al prossimo o di cercare Dio fuggendo da noi stessi rivela il disprezzo che ci inchioda al nostro limite, l’incapacità di schiuderlo ad uno sguardo amorevole che ci risani e ci intenerisca per disporci alla vera adorazione e alla intimità di un rapporto con Lui che interessi tutto il nostro essere. Se il rifiuto del mondo prima attirava era perché i cuori sentivano in quel rifiuto il desiderio del cielo. Ora non più. Ma il desiderio del cielo è sempre il desiderio del cuore. Come liberarlo?  Accettare il mondo non porta sicuramente a trovare il cielo. Il mondo non ha perso nulla della sua ambiguità!  Ma anche il cielo non ha perso nulla della sua inafferrabilità! Il percorso più pertinente è allora nella logica del compimento dei desideri dei cuori di interiorità e di comunione: staccarsi dal mondo per rientrare in se stessi e poter accedere, dalla profondità del cuore, alla solidarietà con l’umanità e il creato, scoprendo, con Gesù, che Dio è Padre di tutti e Creatore di tutto. 

I passaggi sono: oltre il mondo, da dentro il proprio cuore, nello stare solidali con tutti, in Gesù.

Detto altrimenti: dall’ascolto al riposo per la comunione. Sono i tre nessi che vanno scoperti nel favorire l’esperienza della solitudine nella fraternità. Non si può però passare direttamente dall’ascolto alla comunione perché rischieremmo la dispersione.

 a) nesso solitudine/ascolto-silenzio (contro la menzogna)

Ascoltare nel silenzio la Parola: il primo movimento è quello di entrare nell’esperienza dell’Altro che a me si appressa; sentire il desiderio dell’Altro. Prima di predisporci a fare ciò che ci viene chiesto, dovremmo imparare a percepire il desiderio di chi ci si rivolge, non per essere obbedito, ma per essere goduto. Ad esempio, tutte le parabole nel vangelo parlano di Dio e non di noi. Noi nemmeno siamo più capaci di sintonizzarci su questa percezione di fondo. È la stessa cosa espressa da Gv 10,27: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”. Ascoltare la voce non è ancora ascoltare la parola detta, ma è la condizione per rendere l’ascolto della parola fecondo. Ed è evidente che l’ascoltare ha una tonalità affettiva di piacere.

Ascoltare significa abbandonare la calca, il rumore, il venire in disparte, crearsi uno spazio di intimità, per tornare all’essenziale. Il che significa che nemmeno desiderare di crearsi questo spazio in disparte rivela quanto siamo dispersi in superficie e persi nelle nostre reazioni emotive, senza permetterci mai di farle germogliare in profondità.

Ascoltare con fiducia vuol dire ascoltare per mettere in pratica: questo è l’atteggiamento adatto all’ascolto della parola di Dio. La si comprende se ci accetta in anticipo di metterla comunque in pratica; diversamente, il suo segreto resta velato ai nostri occhi e non alimenterà la vita del nostro cuore.

L’ascolto non ha a che fare solo con la mente ma anche con il cuore. Il che significa che non basta studiare la parola se non studiamo di vivere la misericordia e la tenerezza verso tutti e tutto. Siamo troppo abituati a riferire la luce all’intelligenza. Ma la Scrittura suggerisce un riferimento diverso. Il profeta Isaia dice che la luce sorge se si spezza il pane con l’affamato, se si ha misericordia del prossimo. La luce viene per l’agire del cuore. All’esercizio dell’intelligenza va abbinato il calore del cuore, perché è il cuore il luogo della presenza, dell’incontro. Solo in questo calore l’intelligenza è retta.

Il discepolo nel silenzio è come costretto a coniugare il bello con la paura e la via suggerita è l’ascolto, come viene narrato nell’episodio della trasfigurazione. Non si tratta di ascoltare parole, ma di tradurre la potenza della parola in un muoversi andando dietro a Gesù comunque, fino a che lo splendore del suo amore si riveli al cuore manifestando tutta la bellezza del suo volto di Figlio, inviato a mostrare quanto è grande l’amore del Padre per gli uomini. La dinamica dell’ascoltare va nella direzione di sentire su di sé quello sguardo di compiacimento che riposa totale e definitivo sul Figlio, di cui siamo invitati a condividere il segreto. Tutte le parole della Scrittura alludono all’amore e il nostro agire deve alludere all’Amato di cui si condivide il destino nel dono di sé perché tutti abbiano la vita.

La menzogna che ci abita è quella di farci un dio su misura invece di aprirci al Dio Vivente; di adorare l’idolo più grande, come riferisce della chiamata di Abramo alla fede il racconto midrashico della tradizione ebraica, invece del Dio vero.[8] Non è per nulla agevole accostarsi a Dio perché è un fuoco divorante (Is 30,27) e divoratore (Dt 4,24). Eppure, il nostro cuore cerca proprio Lui perché ne porta le tracce con una nostalgia infinita.

b) nesso solitudine/ristoro-riposo (contro l’attivismo e la pigrizia)

Per avvicinare i cuori degli uomini Dio ha messo da parte la sua potenza preferendo la debolezza (cfr. Fil 2,8;). Questa debolezza di Dio non svela solo l’immensità dell’amore di Dio per l’uomo, ma anche il desiderio profondo dell’uomo, il bisogno dell’uomo per essere tale, compiuto nella sua umanità. E il mistero scaturisce proprio qui: l’uomo, per scoprire la sua umanità, non può non guardare a questa debolezza di Dio. Tutto ciò che è fuori da tale debolezza, risulterà illusione e causerà ulteriore sofferenza, ma sorda, tragica, insensata, che porterà divisione e non comunione, che porterà rabbia e non riposo. La gioia pasquale lo proclama.

Dietro ogni parola di Gesù, dietro ogni gesto sta la sua compassione, che rimanda direttamente all’amore sconfinato di Dio per i suoi figli, per i quali non ha esitato a mandare il proprio Figlio. Proprio come annotava Origene in un suo commento a Ezechiele: “Egli è disceso sulla terra mosso a pietà del genere umano, ha sofferto i nostri dolori prima ancora di patire la croce e degnarsi di assumere la nostra carne; se egli non avesse patito, non sarebbe venuto a trovarsi nella condizione della nostra vita di uomini. Prima ha patito, poi è disceso e si è mostrato. Qual è questa passione che per noi ha sofferto? È la passione dell’amore”.[9] È a partire da quella passione che Gesù si muove nelle viscere davanti allo smarrimento, alla sofferenza, alla fatica degli uomini. Ed è per aver percepito quella passione che san Paolo dirà con la convinzione dell’esperienza di una vita: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione …? … Io sono infatti persuaso che né morte né vita … né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore”. Ha fatto esperienza dell’invito di Gesù: “Venite … e io vi darò ristoro” (Mt 11,28).

Il riposo sta nell’affondare le proprie radici nella promessa di Dio. Usando le parole del profeta Isaia come risuonano nella liturgia natalizia, potremmo dire che, se la promessa riguarda un bambino che deve nascere: “un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio” (Is 9,5), l’immagine di fondo è invece un’immagine nuziale, che possiamo riassumere nell’espressione: “Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia Gioia e la tua terra Sposata, perché il Signore troverà in te la sua delizia e la tua terra avrà uno sposo” (Is 62,4). Dio è lo sposo che gioisce della sua sposa, la quale passa da una percezione di angosciosa solitudine, di abbandonata e sola, all’emozione di essere svelata a se stessa in una dolcezza di riposo che la fa sentire abitata, mio compiacimento e sposata (forse, meglio: abitata in dolcezza). La percezione di quella nuova realtà, di cui è indegna, ma di cui gode nell’intimo, grata e consegnata, costituisce il contenuto del nome nuovo con la quale è chiamata. Senza a aprirci a questa percezione le nostre ferite resteranno tali.

 c) nesso solitudine/ comunione- misericordia (contro l’ipocrisia)

Non si può non notare il fatto che gli apostoli non sono stati chiamati semplicemente alla sequela di Gesù, ma alla sequela di Gesù che è inviato a portare a tutti la salvezza e la consolazione (vi farò pescatori di uomini, Mt 4,19). Seguire Gesù comporta un’esperienza di vita; dice prima di tutto quanto l’intimità di vita con il Signore sia sconfinata nel senso che non può ripiegarsi su se stessa, ma continuamente si traduce in condivisione della misericordia di Dio per l’umanità. L’intimità con Dio comporta sempre una buona dose di sana angoscia per i propri fratelli e per questo non sta mai ferma: fin dove c’è un uomo, fin dove c’è un livello di umanità non ancora aperto alla grazia dell’incontro, fin dove c’è una malattia da curare, l’apostolo, come Gesù, non si dà pace. Più profonda è la pace che viene dalla grazia dell’incontro, meno pace si dà finché tutti i fratelli possano godere della stessa grazia. Il senso del guarire ogni sorta di malattie e di infermità da parte di Gesù in missione, come avverrà per gli apostoli inviati in missione (imporranno le mani ai malati e questi guariranno, Mc 16,18), è proprio questo: condividere la misericordia di Dio per l’umanità.

Gesù ci chiama non semplicemente a seguirlo, ma a metterci dietro a lui, come poi dirà Gesù a Pietro quando lo rimprovererà per aver pensato non secondo Dio (cfr. Mt 16,23). Corrisponde a quanto il salmo fa dire al fedele: “Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita” (Sal 27,4). Qual è l’unica cosa necessaria da domandare? Tutto dipende dalla profondità che nei nostri cuori ha raggiunto la conversione al vangelo del regno.

Potremmo, ad esempio, leggere le beatitudini come le condizioni paradossali che assicurano la felicità dell’essere trovati in Gesù:

– se ti affliggi solo per la potenza del male che ti domina e dal quale vuoi esserne liberato;

-se non avrai altro motivo di ira se non quello di opporti al maligno e così custodirti dolce con tutti;

– se cercherai la giustizia al di sopra del tuo interesse;

– se condividerai con tutti la misericordia che avrai gustato nel perdono di Dio;

– se sarai così privo di rivendicazioni e pretese da vedere tutto e tutti nella luce di Dio di cui godrai la presenza;

– se seguirai l’opera di Dio che è la fraternità tra gli uomini,

allora – è la promessa della settima beatitudine – sarai come il Figlio di Dio che, per essere venuto a testimoniare quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini, non ha preferito se stesso all’amore che lo divorava e ha accettato di essere consegnato nelle mani degli uomini.

Se nella persecuzione l’uomo non perde la sua gioia, allora vuol dire che la potenza del Regno l’ha lambito, che la sua felicità non dipende più dal mondo. Non avrà più bisogno di cercare altra affermazione di sé perché ha trovato quella capace di soddisfare l’anelito del suo cuore, che così sarà confermato nella rinuncia alla brama di ogni bene che non sia espressione di quell’esperienza. Tanto che si affliggerà ancora più profondamente del male che in lui si annida e ripercorrerà la concatenazione dei passaggi a livelli sempre più coinvolgenti, finché tutto in lui splenda della bellezza del Regno. La forza di un cammino spirituale sta qui e non nella generosità che ci fa correre per le strade del mondo a distribuire amore!

Secondo le due immagini che Gesù applica ai suoi discepoli. Prima di tutto che siano come il sale. La potenza dell’immagine risiede nel fatto che il sale dà sapore alle cose ma le cose non possono dare il sapore al sale. Il che significa: i discepoli sono chiamati a permeare il mondo con la sapienza del vangelo, ma non servono a nulla se il mondo li permea con la sua sapienza. I discepoli, mantenendo il mondo degli uomini nell’alleanza con il loro Dio, che li vuole in comunione con lui e tra di loro, tornano a far splendere la Sua presenza tra di loro e rendono la vita desiderabile e amabile.

Poi, che siano come la luce. Un’antica glossa bizantina spiega il passo di Matteo così: “Non dice: voi siete luci, ma voi siete luce, perché essi [discepoli] tutti insieme sono il corpo del Messia che è la luce del mondo” (cfr. Gv 3,19; 8,12). Diventano luce del mondo nel senso che la presenza di Dio, resa come visibile nel mondo attraverso il loro agire secondo le beatitudini, costituisce l’orizzonte di senso della vita. Le beatitudini non sono se non le strade per le quali si può partecipare alla effusione nell’universo della carità pura di Dio. È la carità a custodire i cuori preservandoli dalla corruzione e facendo gustare il sapore genuino della vita (ecco l’azione del sale) e li illumina aprendoli alla verità e riscaldandoli (ecco l’azione della luce). Da notare che si può essere sale senza essere necessariamente luce per il mondo, ma non è possibile essere luce per il mondo senza essere sale. Non si tratta quindi di far vedere le nostre opere buone, che suonerebbero fesse perché piene di vanità, ma di far sì che le opere buone siano a vantaggio, per profitto degli uomini [così si dovrebbe tradurre il ‘davanti agli’ uomini, cfr. Mt 5,16] permettendo loro di sperimentare l’amore di Dio per loro.

Tuttavia, non è proprio scontato percepirci luminosi, dal momento che tutti facciamo i conti con la tenebra che oscura il nostro cuore in termini di chiusura, oppressione, angoscia. “Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio … allora brillerà fra le tenebre la tua luce” (Is 58,9-10). Quando Massimo Confessore spiega l’invocazione ‘non ci indurre in tentazione’ nella preghiera del Padre Nostro, ha l’ardire di precisare: “La Scrittura rivela infatti con questo come chi non ha perfettamente perdonato a chi cade e non ha presentato a Dio un cuore privo di tristezza, reso splendente dalla luce della riconciliazione con il prossimo, non otterrà la grazia dei beni per cui ha pregato, e, per giusto giudizio, sarà consegnato alla tentazione e al Maligno. Imparerà così a purificarsi dalle colpe, eliminando le sue lagnanze contro gli altri …”.[10] Ci dice in sostanza che non subiremo tentazioni se avremo la capacità, da assimilare poco a poco, di non accusare nessuno perché allora – continua Isaia – “implorerai aiuto ed egli dirà: Eccomi!” (Is 58,9). Quando il cuore non accusa nessuno, neanche se stesso, non può cedere all’oppressione, perché il Signore è con lui. Non c’è sventura o afflizione capace di ferirlo a tal punto da aver bisogno di cercare la sua giustizia o la sua rivalsa contro qualcuno, distogliendolo dall’intimità con il suo Signore. Qui deve portare un cammino spirituale.

 

CONSEGUENZE PER L’IMPOSTAZIONE DI UN CAMMINO SPIRITUALE

Tenendo conto che abbiamo bisogno di un linguaggio spirituale vero che possa intercettare i bisogni e gli aneliti profondi dei cuori, aprendo i cuori alla Parola e la Parola ai cuori, credo che la prima conseguenza seria per impostare un cammino spirituale sia la scoperta della dimensione drammatica delle Scritture.

La tensione drammatica delle Scritture.

Prendo lo spunto dalla presentazione dell’identità del Risorto nell’Apocalisse. In Apoc 1,17-19 leggiamo a proposito dell’attestazione del Figlio d’uomo che compare in visione a Giovanni: “Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la sua destra, disse: Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi”.

Quel Primo e Ultimo non è una definizione; indica un movimento, un percorso, una dinamica. Questa dinamica non appartiene solo a Gesù ma appartiene a colui che ha fede in Gesù. Fede in Gesù vuol dire essere inseriti nella sua stessa dinamica di rivelazione. In effetti, se leggiamo queste parole in funzione della verità personale del Risorto, esse dicono che il Figlio dell’uomo è passato dalla morte alla vita e che è Dio. Ma se le leggiamo nella dinamica di rivelazione dell’amore di Dio ai suoi figli, allora alludono ad altro. Messe in bocca a Gesù, per esempio, durante l’ultima cena, la sfumatura di significato risulta: io, che sono il Primo, mi sono fatto ultimo, servo di tutti e perciò sono pieno della vita di Dio, che è amore per voi. Così voi, se vi fate servi di tutti, sarete innestati in colui che è Primo e godrete della vita che a lui appartiene. 

Il che significa: se lui, che è il maestro, si è fatto ultimo per poter esprimere tutta la vita di Dio per noi che è amore, per noi non c’è altra strada! Anche noi siamo chiamati, in lui, a farci ultimi per poter non solo avere la vita noi, ma per favorirla. Al di fuori di questa dinamica tutti gli ideali umani, in particolare religiosi, sono fasulli, ma noi non ci rendiamo conto di questo.

Quando preghiamo per avere la forza del suo Spirito, chiediamo di essere innestati nella potenza di questa rivelazione. E se il Risorto afferma che lui ha le chiavi della morte significa che con lui la morte non agisce più, morte intesa nel senso di mortificazione dell’amore che è vita di Dio per noi. Basta riferirsi a quando ci sentiamo offesi. Crediamo ancora che lui ha le chiavi della morte, vale a dire che seguendo lui, perdonandoci a vicenda e facendoci servi gli uni degli altri, noi non resteremo mortificati? Qui entra in gioco l’esperienza della debolezza di Dio che è più forte della forza degli uomini!

Quando Gesù si presenta alla gente come il pane della vita non viene rifiutato. La gente rifiuta l’affermazione che lui discenda dal cielo (cfr. Gv 6). L’uomo desidera la presenza del Signore e il suo amore ma proprio quando gli viene rivelato che quel desiderio può essere soddisfatto fa resistenza. Perché i cuori, i nostri come dei contemporanei di Gesù, non riescono a vedere? Forse la risposta va cercata proprio in quel movimento di discesa che caratterizza l’agire di Dio. Il discendere dal cielo non indica semplicemente la provenienza di Gesù; indica piuttosto il movimento dell’abbassarsi di Dio per comunicare il suo amore e far vivere. Gli uomini non amano abbassarsi, benché vogliano la vita e desiderino l’amore e quindi pensano sempre in termini di grandezza mondana, dove il potente prevale sul debole, dove l’alto la spunta sul basso, dove l’affermazione di sé presuppone l’innalzamento. Gesù, quando parla di innalzamento, allude sempre al suo essere innalzato sulla croce, là dove risplende l’amore di Dio per l’uomo.

Se la liturgia pasquale proclama insistentemente: “eterna è la sua misericordia”, ciò significa non soltanto che Dio sarà eternamente fedele alla sua misericordia, che la sua misericordia durerà per sempre, ma soprattutto che, essendo la sua misericordia dall’eternità, si trova alle origini del nostro mondo, ne racchiude il senso e il mistero fino alla fine, finché il mondo sussisterà. Quella verità ha a che vedere con l’attestazione che lui è il primo e si è fatto ultimo per dare la vita. È il servizio di Dio all’umanità, che Gesù mostra nel suo splendore e che noi uomini stentiamo così tanto a riconoscere. La liturgia abbina la visione del Risorto nell’Apocalisse all’apparizione di Gesù risorto all’apostolo Tommaso. Con l’indicargli le sue cicatrici gli mostra proprio quella verità e Tommaso, al di là della sua ostentata incredulità, si situa in quella verità con la sua sussurrata e potentissima confessione di fede: mio Signore e mio Dio! Tra l’altro, è l’unica volta nei vangeli che Gesù è chiamato direttamente Dio.

Il brano della lettera agli Efesini, che leggiamo tutte le settimane nell’ora di compieta, al mercoledì, lo illustra meravigliosamente: “Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo. Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore”. Quello che qui è reso ‘perdonandovi a vicenda’, in greco è un verbo altamente significativo. Non si tratta dell’usuale ‘perdonarsi’, ma di un verbo che alla lettera si dovrebbe rendere: “facendovi grazia gli uni gli altri come Dio ha fatto grazia di sé in Cristo a voi. Diventate quindi imitatori di Dio”. Come lui ha fatto dono di sé agli uomini in Cristo, così noi siamo chiamati a fare dono di noi agli altri in Cristo (Gesù non chiede che diamo a lui la vita, ma che la diamo ai fratelli! Lui è il datore della vita a noi). Ora, tutta la difficoltà per l’uomo deriva proprio dal fatto che invece di accogliere la grazia ne cerca una a sua misura. Ma non esiste altra grazia se non quella, da parte di Dio, del suo ‘far grazia di Sé’ a noi, in benevolenza e misericordia, nel Cristo. Qui è racchiusa tutta l’abbondanza di vita che una rivelazione siffatta promette. La frase di Paolo in effetti continua: “se anche voi perdonerete”, cioè farete grazia di voi a tutti in Cristo, per indicare che, se il segreto di Dio è racchiuso in quella rivelazione, pure il nostro cuore trova in quel segreto le radici dei suoi sogni per sé e per il mondo. Aprire il cuore al credere significa approdare alla percezione di quella grazia, grazia che apre alla bellezza di un amore gustato e condiviso, nell’accondiscendere a quel movimento di abbassamento perché risplenda in questo mondo l’amore di Dio. La fede è proprio a servizio dello splendore di quell’amore che ‘discende dall’alto’ e di cui il pane eucaristico è simbolo perfetto.

Giovanni nel prologo del suo vangelo proclama: “Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,17-18). Dopo secoli di cristianesimo siamo ancora alle prese con questa rivelazione mai compiuta nei nostri cuori e nelle nostre intelligenze: vorremmo la grazia e la verità, ma ci muoviamo come se la grazia fosse un frutto della legge, come se la legge assicurasse la grazia. Non riusciamo a stare aperti alla ‘buona notizia’ che è Gesù da parte di Dio per noi, per la nostra vita concreta, rispetto ai desideri che ci lavorano dentro e rispetto al male di cui subiamo il fascino e l’oppressione.

La rigidità con cui accediamo alla nostra umanità impedisce l’accoglienza gioiosa della novità evangelica e l’incapacità di sintonizzarci sulla novità evangelica non ci fa accedere alla nostra umanità. Un’espressione caratteristica di papa Francesco rispetto a un certo modo di vivere la fede ce lo mostra molto bene: “Non è sufficiente che la nostra verità sia ortodossa e la nostra azione pastorale efficace. Senza la gioia della bellezza, la verità diventa fredda e perfino spietata e superba, come vediamo avvenire nel discorso di molti fondamentalisti amareggiati. Sembra quasi che mastichino cenere invece di assaporare la dolcezza gloriosa della verità di Cristo, che illumina con luce mansueta tutta la realtà, assumendola ogni giorno per quella che è. Senza la gioia della bellezza, il lavoro per il bene si converte in efficientismo cupo, come succede a molti attivisti esaltati. Sembra quasi che vadano rivestendo la realtà di lutto statistico, invece di ungerla con l’olio interiore del giubilo che trasforma i cuori, uno a uno, dal di dentro”.[11]

La difficoltà per noi resta sempre quella del credito da accordare alla promessa di vita da parte di Dio. Ogni pratica dovrà dunque indurci ad accordargli quel credito. Se manca di questo, la nostra pratica rischia di giocare contro di noi. Le opere richieste da Dio sembrano del tipo di quelle che nemmeno ci sogniamo di poter compiere. Il passo dei due spiccioli della vedova in Lc 21,1-4 è assai rivelativo. La traduzione letterale suona: “Tutti costoro infatti hanno deposto come offerta del loro superfluo, questa invece (traendo) da quello che le mancava ha messo tutta la vita che aveva”. Gesù in effetti non chiede di dare tutto, tanto o il poco che abbiamo, ma più esattamente di dare quello che non abbiamo! Tu devi al fratello quello che non hai, che costituisce tutto quello che hai per vivere: uno ti chiede dolcezza e tu non ce la hai?  Dagliela e tu l’acquisterai!  Non aspettare di essere dolce per dare dolcezza: finirebbe il mondo e non avresti ancora la dolcezza. Sei chiamato a dare quello che non hai per obbedienza al tuo Signore. La forza delle opere sta in questa obbedienza al Signore nel quale si confida. Se riuscissimo a dare a Dio tutta la confidenza del cuore e rinunciassimo a ogni pretesa nei suoi confronti, resteremmo purificati da quella miriade di pretese che abbiamo l’uno verso l’altro.

È curioso osservare come la lettera ai Colossesi (1,16-20) presenti il Cristo nella sua preminenza quanto alla creazione e quanto alla redenzione: “Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. … è piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose …”. Il che significa conferire alla parola evangelica non tanto la natura di ideale ma quella di radice. In altri termini: se vogliamo conoscere cosa davvero vuole il nostro cuore in profondità, non abbiamo che da riferirci alla parola di Gesù; se vogliamo realizzare i desideri profondi che portiamo, la dinamica da seguire per ottenere soddisfazione è quella mostrata dalla parola evangelica. Non sembra affatto scontato riconoscere la cosa, ma beato colui al quale è concesso vedere il mondo sotto questa angolatura. È l’eredità più preziosa della Chiesa per il mondo.

 

La fede come tensione escatologica e non come terapia.

La seconda conseguenza è la rivalorizzazione della tensione escatologica dell’esperienza cristiana. La prospettiva da adottare l’esprimerei così: tornare a desiderare la sapienza del vangelo tramite l’intelligenza del cuore. Dovremmo imparare a scoprire le connessioni segrete nella vita (ad esempio: non serve voler la carità, se non si è disposti ad onorare gli altri più di quello che meritano; la grazia non è data allo sforzo, ma all’umiltà; la purità di cuore non deriva dal fatto di non avere pensieri cattivi, ma dal fatto di guardare con occhio benevolo gli altri, ecc.) con l’urgenza di imparare a leggere i propri bisogni con più radicalità. Noi viviamo di ‘reazioni’, non della verità del nostro cuore: traduciamo spesso in giudizi di verità le nostre reazioni, incapaci come siamo di leggerle più in profondità rispetto alla verità del nostro cuore, secondo la sapienza evangelica. Ad esempio, l’ira che proviamo di fronte alle offese non sappiamo mai leggerla in funzione del principio di conversione per godere il mistero del regno dei cieli. Difendiamo più la nostra immagine che la verità degli aneliti del cuore, che solo nella tentazione e nel peccato si svelano nella loro profondità e ci consentono di vederci in verità e di invocare il Signore in verità. Sulla base del principio che i sogni dell’uomo hanno in Dio le loro radici. Perché – e la cosa sorprende non poco – se il cuore dell’uomo, nelle sue fibre più intime, è fatto ad immagine di Dio, allora vuol dire che ha anche nostalgia dei comportamenti secondo Dio, che proprio Gesù rivela con il suo agire e il suo parlare. Poter leggere il nostro cuore in base alla parola evangelica piuttosto che cercare di operare facendo della parola evangelica il nostro ideale.

Si tratta di tracciare cammini di verità, non di entusiasmo. Dovremmo di nuovo rivolgerci all’esperienza dei Padri i quali sanno parlare delle cose di Dio e del cuore oltre ogni psicologismo, volontarismo o moralismo di cui la nostra educazione come la nostra cultura è imbevuta. Leggere autori come Isacco Siro, per fare un esempio, pulisce lo sguardo e libera l’orizzonte interiore. Sa indicare la concatenazione delle cose, sa far guardare all’essenziale per godere di quello che si cerca. Espressioni di questo genere non si trovano in nessun autore moderno:

“Non c’è nessuno che abbia discernimento se non è anche umile, né uno che sia umile se non ha discernimento. Non c’è nessuno che sia umile se non è anche pacifico, né uno che sia pacifico se non è umile. Non c’è nessuno che sia pacifico se non è anche gioioso”.[12] Oppure, in un linguaggio che arriva diritto al cuore di tutti: “Se ti vedi acquietato dalla vessazione delle passioni, prima di essere entrato nella città dell’umiltà, non prestarvi fede: è una trappola tesa per te; e attenditi, dopo quella quiete, un grande turbamento provocato dalle vessazioni. Per quanto tu attraversi tutte le stanze delle virtù, non incontrerai quiete dalle agitazioni, né respiro dalle persecuzioni, finché la tua corsa non sarà giunta nella stanza dell’umiltà”.[13] Oppure ancora: “Fatti piccolo in ogni cosa, in mezzo agli uomini, e sarai innalzato anche al di sopra dei capi del popolo. Inchinati profondamente davanti ad ogni uomo e sii il primo a dare la pace, e sarai onorato molto di più di chi dona oro di Ofir. Sii poca cosa e spregevole agli occhi della tua anima, e vedrai la gloria di Dio nella tua anima. Dove fiorisce l’umiliazione, di là sgorga la gloria”.[14]

Alla base delle paure che ci attanagliano e ci lacerano c’è uno sguardo di non benevolenza, di disprezzo di sé, di diffidenza verso la vita, di incapacità a vivere la vita da dentro un’alleanza, corroborato da una cattiva immagine di Dio che la fa da padrona. Tutte le parabole di Gesù sono lì a smascherare questo sguardo complice del serpente tentatore, che si traduce sovente in arroganza e aggressività. La vita è percepita come dipendere dagli eventi, a noi esteriori ma che hanno presa su di noi. Così, più l’uomo cerca la sua felicità ad ogni costo, più resta in balia delle sue ossessioni.

Si confonde facilmente il livello psicologico e quello spirituale, confusione che rivela la difficoltà di percepire la natura dell’esperienza cristiana che è essenzialmente escatologica. Il rischio grosso è quello di vivere ‘mondanamente’ la dimensione religiosa o di condurre una pratica religiosa in modo mondano. Il cuore così non scopre nessun tesoro, non riesce a godere e finirà per esaurire le sue risorse cedendo a quello che le Scritture sono solite chiamare ‘mormorazione’: si finisce per accusare Dio che non è capace di adempiere le sue promesse. Così l’impegno della conversione o della sequela si spompa e ci si sente in diritto di cercare altro o in altro modo.

Non va dimenticato che la potenza di rivelazione delle parole e dell’agire di Gesù non riguarda la denuncia del mondo nella sua ostilità a Dio (sarebbe scontato!) ma lo smascheramento della modalità mondana nel vivere la sua sequela. Il che significa che se vogliamo che la fede renda luminosa la nostra esistenza occorre accoglierla senza condizioni, proprio come si vive la realtà di un grande amore. Sembra invece di essere in diritto di vivere la sequela del Signore con un amore provvisorio, parziale, condizionato.

Lo strumento più adeguato per arrivare alla sapienza evangelica tramite l’intelligenza del cuore è la celebrazione liturgica con la proclamazione dei testi della Scrittura secondo l’esperienza di intelligenza della chiesa.[15] Ritengo urgente tornare a pensare così: “Il futuro del cristianesimo in occidente dipende in larga misura dalla capacità che la Chiesa avrà di fare della sua liturgia la fonte della vita spirituale dei credenti. Per questo la liturgia è una responsabilità per la Chiesa di oggi. Mi convinco sempre di più che l’interrogativo decisivo al quale è necessario dare al più presto una risposta non è anzitutto come i credenti vivono la liturgia, quanto piuttosto se i credenti vivono della liturgia che celebrano”. [16]

Siamo ancora capaci di afferrare il senso di questa bella espressione di Sant’Ambrogio nelle sue catechesi ai neofiti: “Aprite i vostri orecchi e aspirate il profumo della vita eterna effuso su di voi attraverso il dono dei sacramenti”?[17] Avviene nella presentazione dei cammini spirituali quello che avviene nella liturgia. Quando nella celebrazione si accentua un tipo di coinvolgimento emotivo (per esempio, con l’uso di certi linguaggi o di certi canti o di certi simboli applicati all’occasione) oppure devozionale (ad esempio, caricando la celebrazione con atteggiamenti rituali o ritualistici), certamente creiamo un senso di partecipazione più viva, ma – la domanda si impone!  : nel vivere la dimensione spirituale della liturgia o nel sovrapporre alla liturgia una sensibilità che non le appartiene e quindi dichiarando con ciò stesso che la liturgia non parla più? Certi linguaggi spirituali-sentimentali sanciscono la perdita di consistenza di ogni dimensione veramente spirituale.

La diagnosi mi sembra questa: per noi è ancora inafferrabile la dimensione escatologica sia della celebrazione liturgica che della spiritualità cristiana. Tra l’altro, avviene per la liturgia come e più di quello che avviene per la Parola di Dio. Quando si legge la parola di Dio si ha troppa fretta di tirarla a noi per prendere qualche buona ispirazione o qualche suggerimento buono, per capirne il messaggio, invece di lasciarci attrarre dalla dinamica di rivelazione che comporta rispetto al mistero dell’amore di Dio che ci riguarda e ci interpella. Perdiamo l’intensità drammatica di ciò che proclamiamo.

Pensiamo all’inizio della celebrazione eucaristica secondo il rito bizantino. Il sacerdote eleva il libro del vangelo tracciando un segno di croce e proclama ad alta voce: “Benedetto il Regno del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, ora e sempre, e nei secoli dei secoli. Amen!”. Benedire il Regno significa annunciare che esso è il termine di tutti i nostri desideri, di tutta la nostra vita. Benedirlo è accoglierlo con amore[18]. Viene a noi il Regno di Dio, si dispiega davanti a noi la rivelazione del Regno. Noi, che pure siamo consapevoli che siamo lì riuniti per ascoltare la Parola di Dio, ci ritroviamo in questa sensazione? Ci sentiamo mai partecipi della beatitudine che Gesù proclama nell’annuncio delle parabole del Regno: “Beati i vostri orecchi che ascoltano, beati i vostri occhi che vedono” (Mt 13,16)? Viene mai attivata in noi, una volta entrati e seduti per l’ascolto della Parola, la sensazione di sentire lo sguardo di Gesù verso il popolo, come ricorda papa Francesco[19]: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno” (Lc 12,32)?

Oggi si insiste molto, invece, sulla valenza ‘terapeutica’ della fede. Come se, senza fede, non si potesse vivere bene! Mi sembra di individuare oggi la stessa insidia che ha minacciato la confessione della fede della chiesa nel Settecento. Allora il razionalismo criticava ferocemente la fede dal punto di vista della dignità della ragione e la risposta è stata quella di rendere così razionale la spiegazione dei dogmi e della fede da svuotarla della sua consistenza specifica, tanto da renderla inservibile alle generazioni successive. Se oggi, di fronte all’atteggiamento fondamentalmente indifferente alla religione e di fronte al disagio profondo che vivono i cuori, noi diciamo che la fede è la migliore terapia per quel disagio, ripetiamo la stessa operazione inconcludente. Non saremmo più capaci di vivere l’antinomia fondamentale del cristianesimo: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito …” (Gv 3,16) e “Non amate il mondo, né le cose del mondo” (1Gv 2,15). Per cui ecco i due impasses: l’amore per questo mondo che esclude il non amare il mondo; l’odio per questo mondo che esclude che Dio ha tanto amato il mondo.[20]

Non dimentichiamo che quando Gesù, alla fine del vangelo, comanda: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli” (Mt 28,19), non vuol certo dire: indottrinate tutti con la verità che conoscete! Piuttosto: fate risplendere nella vostra umanità la bellezza di Gesù perché i cuori lo desiderino e lo conoscano e diventino anch’essi partecipi dei suoi segreti. Se non percorriamo e tracciamo sentieri che inducano a vivere la responsabilità della testimonianza, non come impegno o dovere, bensì come sovrabbondanza, ridurremo l’annuncio ad una esigenza etica e nulla più. Se è per questo, anche il mondo dispone di una sua nobile etica. La testimonianza evangelica, invece, è in funzione di uno splendore, non di un impegno.

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[1] Eb. 11,8-10: Πίστει καλούμενος Ἀβραὰμ ὑπήκουσεν ἐξελθεῖν εἰς τόπον ὃν ἤμελλεν λαμβάνειν εἰς κληρονομίαν, καὶ ἐξῆλθεν μὴ ἐπιστάμενος ποῦ ἔρχεται.

Πίστει παρῴκησεν εἰς γῆν τῆς ἐπαγγελίας ὡς ἀλλοτρίαν ἐν σκηναῖς κατοικήσας μετὰ Ἰσαὰκ καὶ Ἰακὼβ τῶν συγκληρονόμων τῆς ἐπαγγελίας τῆς αὐτῆς· ἐξεδέχετο γὰρ τὴν τοὺς θεμελίους ἔχουσαν πόλιν ἧς τεχνίτης καὶ δημιουργὸς ὁ θεός.

[2] Cfr. Encyclopedia of Biblical Interpretation, by Menahem M. Kasher, translated under the editorship of Rabbi Harry Freedman, American Biblical Encyclopedia Society, New York, Genesis, vol. II, p. 106-110.

[3] Cfr. R. CHEAIB, Un Dio umano. Primi passi nella fede cristiana, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2013, p. 156-160.

[4] Mi sembrano pertinenti le osservazioni critiche di Thomas Hylland ERIKSEN, Tempo tiranno. Velocità e lentezza nell’era informatica, Eleuthera, Milano 2003.

[5] Cfr. Dominique GRENIER, L’expérience d’un monde complexe, CHRISTUS 2014 (n. 244, octobre), p. 400-408.

[6] ISACCO DI NINIVE, Un’umile speranza, Qiqajon, Comunità di Bose 1990, p. 65

[7] Regola non bollata, VII, 16,  in FF 27

[8] Cfr. Louis GINZBERG, Le leggende degli ebrei. Vol. II, Da Abramo a Giacobbe, Adelphi (Biblioteca Adelphi, 346), Milano 1997, p. 36-43.

[9] ORIGENE, Omelie su Ezechiele (Testi patristici, 67), Città nuova, Roma 1987,  p. 119  (Omelia VI,6).

[10] Cfr. Elia CITTERIO, La vita spirituale, i suoi segreti, EDB, Bologna 2005, p. 231.

[11] JORGE MARIO BERGOGLIO, Così pensa papa Francesco, Milano 2013, Mondadori, p. 17 (22 aprile 2011).

[12] ISACCO DI NINIVE, Un’umile speranza. Antologia, Qiqajon, Comunità di Bose – Magnano (BI) 1999, p. 180.

[13] Idem, p. 175.

[14] Idem, p. 178.

[15] Mi permetto di rinviare al mio tentativo di leggere i testi della celebrazione liturgica del ciclo festivo sulla base della sapienza dei Padri: Elia CITTERIO, I segreti del regno. Omelie. Anno B, EDB, Bologna 2014.

[16] Goffredo BOSELLI, Il senso spirituale della liturgia, Qiqajon, Magnano (BI) 2011, p. 7.

[17] AMBROGIO DI MILANO, De mysteriis, 2-3, SC 25bis, p. 157; cfr. anche De sacramentis, 1, ibid., p. 61. 

[18] Cfr. Alexander SCHMEMANN, Per la vita del mondo. Il mondo come sacramento, Roma 2012, Lipa, p. 39-40.

[19] Evangelii gaudium, 141.

[20] Interessantissimi i pensieri lucidi di un uomo acuto, sacerdote ortodosso, teologo, sposato, russo emigrato negli Stati Uniti, morto nel 1983: Alexandre SCHMEMANN, Journal (1973-1983), Editions des Syrtes, Paris 2009.