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Pontificio Ateneo s. Anselmo, Roma 28/5-1/6/2002. 50th Anniversary Symposium of the Monastic Institute. Classic Texts and Themes of the Christian Monastic Tradition: yesterday, today and tomorrow.

Intervento di E. Citterio su P. Velickovskij. Pubblicato anche in “Il monachesimo tra eredità e aperture”, a cura di Maciej Bielawski e Daniel Hombergen, Roma 2004, Studia anselmiana, pp. 459-469.


La figura di Paisij Veličkovskij è stata riportata all’attenzione della coscienza ecclesiale in questi ultimi anni con la sua canonizzazione da parte della Chiesa Ortodossa russa e romena, rispettivamente nel 1988 e nel 1992. L’opera di questo grande monaco e starets, che guidava una comunità di circa un migliaio di fratelli, ha costituito senza dubbio un avvenimento di prima grandezza nella storia moderna della Chiesa Ortodossa. Qual è l’importanza di questa figura, celebrata ma ancora poco conosciuta tanto tra i cristiani d’oriente che tra quelli d’occidente?

Sarà utile anzitutto tracciare alcune coordinate storico-biografiche. Siamo nel 1700, l’epoca dell’illuminismo e della rivoluzione francese nell’Europa occidentale, il secolo delle riforme di Pietro il Grande in Russia, con i Balcani sotto il giogo dei Turchi, nel continuo scontro tra le potenze che si contendono la supremazia nell’Europa orientale: l’impero ottomano, l’Austria e la Russia. Nella prima metà del sec. XVIII, nelle regioni della Podolia e della Volinia, prende avvio il movimento chassidico. Non va dimenticato che nella sua Autobiografia Paisij rivela che suo nonno materno era ebreo[1].

Paisij nasce a Poltava, in Ucraina, la Podolia del tempo, nel 1722, in una famiglia di ecclesiastici ortodossi. Frequenta per quattro anni l’Accademia ecclesiastica di Kiev, ma gli studi, troppo letterari e occidentalizzanti, non lo appassionano più di tanto, sebbene più tardi rimpiangerà di non averli approfonditi[2]. Il suo segreto desiderio è quello di farsi monaco. Per evitare di essere ripescato dalla madre, assolutamente contraria, decide di riparare all’estero, nei territori romeni, alla ricerca di una guida spirituale sotto la cui obbedienza realizzare il suo sogno di vita monastica. Su quella stessa strada era già stato preceduto una generazione prima da tanti suoi compatrioti. In effetti, sul finire del sec. XVII si moltiplicano in Russia le misure restrittive nei confronti del monachesimo, nella linea di una politica di controllo dei beni ecclesiastici. La proibizione di fondare nuovi piccoli insediamenti monastici nel 1682, le misure  antiecclesiastiche di Pietro il Grande e dei regnanti successivi nonché una politica uniate perseguita dai polacchi in Ucraina favorirono un flusso di emigrazione monastica russo-ucraina verso i territori romeni, dove i principi si distinguevano nello zelo per il sostegno alla chiesa e al monachesimo, non solo romeno, ma anche athonita e dei Luoghi Santi di Palestina.

Paisij arriva nei Principati romeni nel 1743. Ha modo di essere iniziato all’esperienza della vita esicasta allora rifiorente, merito soprattutto di quel Basilio di Poiana Mărului[3], anch’egli emigrato dall’Ucraina, che allora guidava una dozzina di comunità e che più tardi Paisij chiamerà ‘il suo starets’, essendo lui a consacrarlo monaco nel 1750 sull’Athos e ad istruirlo sul combattimento interiore. All’Athos, dove si sposta nel 1746, risiede per diciassette anni. Attorno a lui si forma una piccola comunità di dodici fratelli, i primi otto romeni, ai quali si aggiungono quattro slavi[4], che vedono in lui il maestro e il padre che li istruisce nella via spirituale sulla base delle Scritture e degli scritti dei Padri che con immensi sforzi e grande zelo andava raccogliendo dalle biblioteche dei monasteri athoniti. Ma l’Athos, sotto la giurisdizione amministrativa delle autorità ottomane, attraversava un periodo di decadenza e non garantiva un futuro alla giovane comunità paisiana. Decide così di ritornare nei principati romeni con i suoi ormai 64 monaci e si installa nel 1763 a Dragomirna in Moldavia, con il placet del metropolita Gabriele di Iaşi e del voievod Gregorio Calimachi. In seguito alla conclusione della guerra russo-turca (1768-1774), per la cessione all’Austria di una parte della Moldavia del nord, Dragomirna si trovò nel territorio dei cattolici Asburgo e Paisij, temendo vessazioni da parte del governo giuseppinista austriaco, si sposta nel 1775 coi suoi 350 monaci a Secu. L’urgenza di costruire nuove cellette per i sempre più numerosi fratelli che bussavano alla sua porta spinge Paisij a chiedere sovvenzioni al principe Costantino Moruzi il quale, su suggerimento del metropolita Gabriele, gli ingiunge di trasferirsi a Neamţ, il più grande monastero del paese. E’ l’ultima tappa della vita del grande starets, quella che lascerà i segni più duraturi e di maggior risonanza. Neamţ in quegli anni era diventato il centro del monachesimo ortodosso, scuola della cultura spirituale per tutto l’oriente ortodosso[5]. Paisij muore nel 1794, all’età di 71 anni, amato dalla sua comunità plurinazionale di Secu e Neamţ, composta ormai da un migliaio di fratelli fra romeni, ucraini, russi, serbi, greci e bulgari.

Due domande essenziali.

La mia riflessione ruota su due domande. Prima domanda: perché la personalità e l’opera di Paisij ha esercitato tanto fascino?

Non si può che costatare come con Paisij la vita monastica torni ad essere vissuta come un ideale appassionante[6]. Da notare che non è tanto la persona di Paisij a suscitare fascino quanto la sua comunità. Paisij è da vedere e da leggersi in funzione della sua comunità. Conosce per esperienza diretta tutte e tre le vie che caratterizzano il monachesimo secondo la tradizione: quella eremitica (per la quale però non si sente all’altezza, non gli risulta congeniale), quella ‘regale’ (che ha sempre sognato ma che, controvoglia, ha dovuto lasciare), quella cenobitica (di cui è diventato l’emblema stesso, rinnovandola nello spirito più genuino della tradizione). Il genio spirituale di Paisij si rivela nel fatto di far confluire i carismi della via regale nella via cenobitica ed in questo si realizza il mistero della sua santità. Con tutto se stesso ha voluto e cercato di vivere la grazia del monachesimo in tutta la sua potenza. Dice molto bene il suo biografo Mitrofan: “Nei tempi in cui il monachesimo si era tanto illanguidito e mostrava solo il suo aspetto esteriore, [Paisij]  fece conoscere cosa fosse il monachesimo, quale fosse il mistero dell’obbedienza, quale grande profitto arrecasse al novizio l’avanzare nell’intelligenza spirituale, quale fosse l’azione e la contemplazione, la preghiera mentale del cuore, quella compiuta dalla mente nel cuore.”[7]. L’ordinamento della vita comunitaria, come si desume dalla sua Regola[8], si basa sull’obbedienza e su di una stretta povertà; il superiore deve condurre i fratelli a partire dalle Scritture e dai Padri; la pratica di preghiera preferita è la preghiera di Gesù; il superiore deve essere eletto tra i membri della comunità e deve conoscere il greco, lo slavo e il romeno. Ma al di là degli ordinamenti è un certo clima particolare a caratterizzare la vita della comunità paisiana, centrata sul mistero dell’obbedienza: il clima che deriva da un’obbedienza praticata in umiltà e mansuetudine, come sottomissione ai fratelli (Paisij insiste molto di più sull’obbedienza vicendevole che sull’obbedienza al superiore[9]) e da  quel ‘lavorio del cuore’ unito alla preghiera incessante che dà un respiro esicasta alla vita del cenobio. “Per imparare l’umiltà, non esiste apprendimento più conveniente di quello che possiamo effettuare nel segreto del nostro cuore: ognuno biasimi se stesso, si ritenga sotto i piedi di tutti, si pensi polvere e cenere … L’istruzione che agisce nell’intimo, insieme alla lettura, è casa dell’anima dove non ha accesso l’avversario, è pilastro incrollabile, porto tranquillo, senza agitazione e senza scosse, che salva l’anima. I demoni in effetti si agitano grandemente e si arrabbiano molto quando il monaco si premunisce con le armi di questo lavorio interiore di istruzione e con l’incessante invocazione: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore”, insieme ad una lettura conveniente[10]. Con Paisij –  e questa è una vera rivoluzione! – la ‘vita comune’, scuola impareggiabile della vera obbedienza, dalla quale fiorisce l’umiltà, giunge ad essere il vero luogo della pratica esicasta, senza cui si finirebbe per fraintenderla[11]. Ora, la vera forza di Paisij sta nel mettere in mano ai suoi discepoli la chiave per comprendere dall’interno ciò che li esorta a praticare. In questo contesto riceve tutto il suo significato la lettura assidua ed amorosa delle Scritture e dei Padri insieme alle pratiche della confessione quotidiana dei pensieri e la preghiera di Gesù. Lo scrutare, giorno e notte, le Scritture e gli scritti patristici, è la risposta di Paisij alla mancanza di guide sperimentate. Risposta così seria e impegnativa che lo studio dei testi patristici, unito allo sforzo di tradurli in slavo ecclesiastico e in romeno, è diventato poco a poco l’attività principale del nostro starets, il fondamento, il punto di forza della sua opera. Quello che però resta come grandioso nella coscienza dei suoi discepoli non sarà il risultato di questo immenso lavoro di correzione e traduzione dei testi patristici, bensì lo scopo e la vitalità spirituale con cui era vissuto tale compito. E’ risaputa la grande importanza e la diffusione che ha goduto nel mondo slavo il Dobrotoljubie, la versione slavonica della Filocalia edita a Mosca nel 1793, undici anni dopo l’edizione greca di Venezia. Nessuna delle cinque biografie conosciute di Paisij, composte dai suoi discepoli circa una ventina d’anni dopo la sua morte, ne fa menzione. Eppure tutti unanimemente sottolineano la straordinaria fecondità del lavoro di correzione e traduzione dei testi patristici ad opera del nostro starets, lavoro che costituisce il contesto più diretto di quel rinnovamento monastico che ha così colpito i contemporanei[12].

Seconda domanda: l’esperienza paisiana è tanto singolare da essere irripetibile?

Indubbiamente, nonostante l’enorme influenza esercitata, l’opera di Paisij è rimasta unica nelle sue caratteristiche precipue. Tutti si sono appellati a lui, ma nessuno ha riprodotto il modello integralmente. I carismi specifici che si attribuiscono a Paisij – a riferircelo è lo starets Gheorghe di Cernica, paisiotul, come lo definiscono le fonti romene, transilvano di origine e discepolo della prima ora di Paisij, che conosceva molto bene  per essere stato suo discepolo per 24 anni, accompagnandolo sull’Athos, a Dragomirna, a Secu e a Neamţ – sono: il dono della preghiera del cuore (Paisij aveva fama di maestro della preghiera del cuore, sebbene lasci ad altri  il compito di insegnarla ai fratelli);  il dono di guidare una moltitudine di fratelli (come starets dei monasteri di Secu e Neamţ aveva la guida di circa un migliaio di monaci); il dono, assai raro, di tenere insieme i fratelli di varie nazionalità (nella comunità di Paisij vivevano insieme monaci romeni, ucraini, russi, bulgari, serbi, greci).

Distinguerei tra singolarità e unicità. In sostanza, la singolarità dell’esperienza paisiana mi sembra fondata sul principio di ancorare la pratica ascetica all’intelligenza spirituale, concependo il fare in funzione del contemplare, l’agire, esteriore e interiore, in funzione del vedere spirituale. Sintetizzerei il suo insegnamento in questo modo. Perché la lettura? Insieme alle fatiche ascetiche è necessario coinvolgere anche la mente, la capacità di giudizio, perché tutta la nostra vita, la nostra condotta proceda secondo la potenza delle S. Scritture. La lettura illumina la mente e accende il desiderio di praticare i comandamenti.

Perché i Padri? Dal momento che noi, uomini passionali, non possiamo comprendere la luce delle Scritture, seguiamo i Padri ai quali, per aver avuto un cuore puro, illuminato dallo Spirito Santo, sono stati aperti i segreti del regno dei cieli, ossia la profondità della S. Scrittura. Nella loro interpretazione delle Scritture ci svelano gli inganni del diavolo e ci fortificano nello zelo per osservare i comandamenti.

Come leggere? Non c’è alcun vantaggio se uno legge solamente nero su bianco e non si dà cura di conoscere anche la potenza di quel che legge: una lettura per la vita, insomma e non solo per esigenze o pruriti intellettuali.

Altro elemento di singolarità è sicuramente la capacità di Paisij di  coniugare persona e istituzione. L’obbedienza in sottomissione reciproca crea comunione nel rispetto di ciascuno: è il primato della persona sull’organizzazione. Ecco perché é così importante che la comunità non si regga su giudizi o mire umane sia da parte del superiore che dei fratelli; sarebbero in qualche modo sacrificate le persone. Una comunità evangelica è sempre e sopra tutto una comunità di persone, che cresce se ciascuno cresce. E’ straordinario che Paisij, alla guida di una comunità tanto numerosa e multietnica, non abbia mai perso di vista questo punto! « Preferiva che andasse in rovina il monastero o qualche altra cosa di valore piuttosto che l’anima di un fratello si perdesse e cadesse in peccato» riporta Isaac nella sua biografia[13]. Voleva che i lavori fossero compiuti senza agitazione e pressione, secondo l’energia propria di ciascuno. Conosceva bene la sua imperizia nei lavori (basta leggere la sua autobiografia!). L’unica cosa che gli premeva e che sapeva trasfondere nei fratelli era l’anelito a progredire spiritualmente, era l’obbedienza di tutti, in sottomissione reciproca, a Cristo. Paisij ha saputo, e non è certo l’ultimo titolo di merito che ha, tenere insieme una comunità capace di promuovere una comunione ed un amore sincero tra gli uomini, modellando senza posa l’umano e levando quell’opacità che gli impedisce di riflettere il divino.

L’unicità, invece,  va addebitata al contesto specifico in cui Paisij è venuto modellando la sua esperienza, vale a dire al fatto del grande numero di fratelli che vivevano radunati in un’unica comunità e al fatto che tali fratelli fossero di provenienza e di popoli diversi. Queste due condizioni non hanno retto alla prova del tempo. Forse per le mutate circostanze storiche sopraggiunte sul finire della vita di Paisij con la Moldavia occupata dall’esercito russo, con le tensioni ecclesiastiche che si erano scatenate, con l’insorgere di un nuovo spirito nazionale, se non nazionalistico?[14] O forse per la diminuita tensione interiore della comunità paisiana stessa? Il fatto è che, venendo meno queste due caratteristiche, viene meno sicuramente quel fascino che aveva attirato tanti e suscitato tanta ammirazione. Lo stesso starets aveva profetizzato che quando fosse venuta meno la sete della parola di Dio, cioè lo studio attento e amoroso delle Scritture e dei Padri, sarebbero subentrate negligenza e divisioni tra i fratelli, affievolimento dello zelo per il Signore e di conseguenza ricerca della volontà propria e delle comodità[15].

Un’intuizione : qual è allora la sua eredità?

Gli studi storici avranno certamente molto da precisare nel  ripercorrere le vie attraverso le quali si è irradiata l’opera paisiana in Romania come in Russia, nel monachesimo come nella chiesa. Ma io vorrei suggerire qui un’altra ottica per considerare l’eredità paisiana, l’ottica della sua santità.

Se Dio è santo, come canta la chiesa nella Divina Liturgia, allora la santità è il luogo della rivelazione di Dio. Un uomo santo, vera icona di Dio, ‘in tutto simile a Cristo’ come viene definito nella tradizione bizantina, è la finestra attraverso la quale s’irradia sul mondo la luce di Dio. Luce di trasfigurazione, splendore di un cuore capace di guardare in modo nuovo, luminoso, da dentro la beatitudine evangelica: “beati i puri di cuore, perché vedranno Dio” (Mt 5,8). Ma anche spazi di trasfigurazione, dove non sono più ostruiti i sentieri interiori verso chiunque o qualunque cosa tanto che il mondo può risplendere ancora della primitiva luce di Dio, ormai liberato dai confini angusti e irrigiditi in cui chiudiamo noi stessi ed i nostri fratelli, secondo l’altra beatitudine: “Beati i miti, perché erediteranno la terra” (Mt 5,5). Vedo Paisij come un uomo liberato dai confini angusti e irrigiditi in cui chiudiamo noi stessi ed i nostri fratelli, le persone come le comunità, i singoli come le chiese. “Beati i miti, perché erediteranno la terra” (Mt 5,5), compreso nell’ottica dell’altro versetto “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi … imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime” (Mt 11,28-29), rivela la grazia e lo splendore di quella liberazione. Mitezza ed umiltà sono il paradigma di tutte le disposizioni buone  nell’uomo, quando l’io diventa capace di una misura piena ‘scossa e traboccante’(cfr. Lc 6,38), come costituisse l’esito finale e maturo di una ascesi volta a purificare la volontà, capace di sprigionare fascino per i cuori. Forse, più che cercare di ‘volere bene a’ qualcuno, dove bene è il complemento oggetto del volere, si dovrebbe imparare a ‘volere bene’ qualcuno, dove bene è un avverbio che esprime il modo adeguato di volere che qualcuno o qualcosa siano. L’ascesi per la santità è un’ascesi che tende a generare un nuovo modo di volere in cui l’accento non sia posto tanto sull’affermazione di sé quanto sulla disponibilità a servire ciò che è voluto, ad accompagnarlo al suo destino, servitori e testimoni di un mistero che ci supera e ci racchiude. Un uomo libero è un uomo che in mitezza ed umiltà ‘vuole bene’ chiunque: non ha più ostruiti i sentieri interiori verso chiunque o qualunque cosa.

Un cuore del genere è totalmente remissivo alla rivelazione di Dio. E la rivelazione di Dio che costituisce il grande annuncio della nostra fede non è che questa: “Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4,32). Letteralmente: “Dio ha fatto grazia di Sé a voi in Cristo”  (ὁ Θεὸς ἐν Χριστῷ ἐχαρίσατο ὑμῖν). Continuando: “se anche voi perdonerete, cioè farete grazia di voi a tutti in Cristo”, il mondo risplenderà della Sua presenza, fino a che Dio sarà tutto in tutti, definitivamente, compiutamente. L’unica perfezione desiderabile è appunto quella di lasciarsi penetrare fin nelle midolla da questo far grazia di Sé da parte di Dio agli uomini, in Cristo, per la potenza del suo Spirito.

Tutta l’opera di Paisij si muove in questa dimensione e proprio questo ha costituito il fascino della sua comunità. Paisij ha saputo raccordare pratica monastica e vita fraterna alla centralità della rivelazione cristiana, che consiste appunto in quel ‘far grazia di Sé a noi in Cristo’ da parte di Dio. Tutto l’insegnamento e la conduzione dei fratelli erano basati sulle Scritture e sui Padri, letti con amorevole sollecitudine e acribia, ma perché l’uno imparasse a stare sottomesso all’altro e crescesse nell’intelligenza spirituale di quel mistero. La pratica della preghiera di Gesù veniva privilegiata, ma  perché quella pratica si raccordava direttamente alla radicalità di quel mistero, portava cioè a sperimentare il far grazia di Sé da parte di Dio, in Cristo, al cuore peccatore, sottomesso a tutti. Se interroghiamo la sua esperienza monastica per coglierne la potenza interiore, non possiamo non domandarci anche noi, oggi: come raccordare la pratica monastica alla centralità ed alla radicalità della rivelazione e dell’esperienza cristiana? Su quale criterio di discernimento di fondo orientare e giudicare l’agire interiore ed esteriore? In vista di quali frutti? E se le nostre fraternità non diventano luogo di rivelazione di questo ‘far grazia’ di Dio a noi e di noi e tramite noi a tutti, potranno ancora suscitare fascino? Perché questa mi sembra, secondo l’esperienza paisiana, la grazia del monachesimo nella chiesa: ‘fare grazia’ a tutti della rivelazione di questo mistero.

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P. ELIA CITTERIO

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[1] PAISIJ VELIČKOVSKIJ, Autobiografia di uno starets. Introduzione, traduzione e note a cura della comunità dei Fratelli Contemplativi di Gesù, ed. Scritti monastici, Abbazia di Praglia 1988, p. 60. Oppure, in romeno,  Cuviosul PAISIE DE LA NEAMŢ, Autobiografia unui “stareţ” urmată de Viaţa “stareţului” Paisie scrisă de monahul Mitrofan, ed. îngrijită de diac. Ioan I. Ică jr., Sibiu 1996, ed. Deisis, p. 85. Cfr. anche JURIJ M. KOBIŠČANOV, Le radici famigliari di Paisij Velyčkovs’kyj  in N. KAUCHTSCHISCHWILI, A.-AI. N. TACHIAOS, V. PELIN E AA.VV., Paisij, lo starec. Atti del III Convegno ecumenico internazionale di spiritualità russa “Paisij Veličkovskij e il suo movimento spirituale”, Bose, 20-23 settembre 1995, a cura di A. Mainardi, Qiqajon, Bose 1997, p. 97-114.

[2] “Prima di tutto, un traduttore di libri deve essere istruito completamente, cioè non deve solo conoscere la grammatica, l’ortografia e le caratteristiche di entrambe le lingue, ma deve anche essere preparato e non superficialmente, negli studi superiori, intendo dire la retorica, la poetica, la filosofia e la stessa teologia. Ma io, sebbene nella mia giovinezza avessi frequentato per quattro anni le scuole di Kiev, avevo appreso in parte solo la grammatica latina, senza accedere agli insegnamenti superiori, per il desiderio di farmi monaco.”, Seconda lettera a Teodosio, tr. it. p. 287.  Il testo completo, secondo l’edizione di V. Pelin, “The Correspondence of Abbot Paisie from Neamts, III. Letter to Theodosie, Archimandrite at the Sofroniev Hermitage”, in REVUE DES ETUDES SUD-EST EUROPEENNES 32 (1994), pp. 349-366, ora  nel volume Sf. PAISIE DE LA NEAMŢ, Cuvinte şi scrisori duhovniceşti, vol. I, Selectate şi traduse în limba română de Valentina Pelin, cu o prefaţa de Virgil Cândea, Chişinău 1998, p. 35-64. Nella versione italiana di A. Mainardi, si può leggere in :  N. KAUCHTSCHISCHWILI, A.-AI. N. TACHIAOS, V. PELIN E AA.VV., Paisij, lo starec. Atti del III Convegno ecumenico internazionale di spiritualità russa “Paisij Veličkovskij e il suo movimento spirituale”, Bose, 20-23 settembre 1995, a cura di A. Mainardi, Qiqajon, Bose 1997, p. 270-304.

[3] Cfr. D. RACCANELLO, La preghiera di Gesù negli scritti di Basilio di Poiana Mărului, Alessandria 1986. [in versione romena: Rugăciunea lui Iisus în scrierile stareţului Vasile de la Poiana Mărului cu traducerea integrală a Scrierilor, a cura di M.-C. Oros e I. I. Ică, Deisis, Sibiu 1996].

[4] Isaac Dascălul è l’unico biografo a dare questa precisazione. Cfr. “Biografia inedită a stareţului Paisie cel Mare”, a cura di D. Zamfirescu, in REVISTA FUNDAŢIEI DRĂGAN 3-4 (1987), pp. 457-556.

[5] Significativa la testimonianza di Nicodemo Aghiorita: «[Nicodemo] venne a sapere della buona fama del cenobiarca Paisij, di origine russa, il quale si trovava nella Bogdania [=Moldavia] e dirigeva più di mille fratelli. Siccome insegnava loro la preghiera del cuore e lui stesso [Nicodemo] amava questa divina pratica, si imbarcò per partire alla ricerca della sua diletta divina preghiera». Si veda: “Vita, azioni e lotte ascetiche sostenute a gloria della nostra Chiesa dal beato monaco Nicodemo, ricolmo di ogni sapere e degno di perenne memoria, descritte dal suo fratello in Cristo, ieromonaco Euthymio”  in GRIGORIOS O PALAMAS 4 (1920), p. 641.

[6] «Un tal tipo di vita cenobitica tra tutti i fratelli riuniti nel nome di Cristo li lega in  un amore tale che, sebbene provengano da varie nazioni e paesi, formano tutti un unico corpo, membra gli uni degli altri, avendo tutti un solo capo, Cristo; tutti ardenti di amore per Dio, per il loro padre in Dio e gli uni per gli altri; mirando tutti, un’anima sola ed una sola mente, a questo unico obiettivo: custodire e compiere con zelo i comandamenti di Dio, esortandosi a vicenda e sottomettendosi l’uno all’altro con quell’unico pensiero in testa, portando i pesi gli uni degli altri, maestri e servi gli uni degli altri. Con un tal genere di amore spirituale, in unità di intenti, si fanno imitatori della vita del Signore e degli apostoli e degli angeli, sottomettendosi in ogni cosa con fede e amore al loro padre e istruttore in Cristo come a Dio stesso ». Lettera a Demetrio, del 16 maggio 1766, da Dragomirna, in Žitie i pisanija moldavskago starca Paisija Veličkovskago. S prisovukupliem predislovij na knigi sv. Grigorija Sinaita, Filotheija Sinaiskago, Isichija presvitera i Nila Sorskago, sočinennich drugom ego i spostnikom, starcem Vasiliem Poljanomerulskim, o umnom trezvenii i molitve (Vita e scritti dello starets moldavo Paisij Velickovskij. Comprendente le introduzioni ai libri di san Gregorio Sinaita, Filoteo Sinaita, Esichio presbitero e Nil Sorskij, composte dal suo amico e compagno, lo starets Basilio di Poiana Mărului, sulla sobrietà e preghiera interiore), ed. a cura del Monastero di Optino, Mosca 1892, 3° ed., p. 228. Si veda anche il volume Sf. PAISIE DE LA NEAMŢ, Cuvinte şi scrisori duhovniceşti, vol. II, Publicate după traduceri vechi revăzute, cu note şi comentarii de Valentina Pelin, cu o postfaţă de Virgil Cândea, Chişinău 1999, p. 106-123.

[7] Il testo slavonico della biografia di Mitrofan si trova in A.-E.N.TACHIAOS, The revival of byzantine mysticism among Salvs and Romanians in the XVIIIth century. Texts relating to the life and activity of Paisy Velichkovsky (1722-1794), Thessaloniki 1986. La citazione si trova a p. 142 (ms. f. 149-149v). [trad. inglese a cura di J. M. E. Featherstone : The life of Paisij Velyčkovs’’kyj, Harvard University press, Harvard 1989 (Harvard library of early ukrainian literature, IV) ].

[8] Il testo della sua Regola in 18 punti con la sua lettera di presentazione al metropolita della Moldavia si trova in vari manoscritti. Tra quelli che ho consultati ci sono: ms. 117 della Biblioteca della metropolia di Iaşi, f. 6-30; ms. 34 della Biblioteca di Stato di Chişinău, proveniente da Noul Neamţ, trascritto da Platone, segretario di Paisij, f. 3-23; ms. 117 della stessa biblioteca, trascritto da Andronic, f. 160-174. Tutti questi sono in slavonico. Un testo romeno, che riporta una redazione posteriore della Regola, in nove punti, scritta a Secu, si trova nel ms. 116 della Biblioteca di Stato di Chişinău, proveniente da Noul Neamţ, trascritto da Andronic, f. 106v-111. Per la descrizione dei manoscritti paisiani della Biblioteca di Noul Neamţ, custoditi nella Biblioteca di Stato di Chişinău, fondo 2119, si veda V. OVČINIKOVA-PELIN, Colecţia bibliotecii mănăstirii Noul Neamţ (sec. XIV-XIX) in Catalogul general al manuscriselor moldoveneşti păstrate în URSS (testo in romeno e russo), Chişinău 1989. Si veda anche Sf. PAISIE DE LA NEAMŢ, Cuvinte şi scrisori duhovniceşti, vol. II, Chişinău 1999, p. 84-105 (regola di Dragomirna), 172-180 (regola di Secu).

[9] Si veda D. Zamfirescu, “Biografia inedită a stareţului Paisie cel Mare”, p. 547.  Cfr. Lettera ai padri rimasti a Dragomirna dopo lo spostamento nel monastero di Secu, in   Adunare a cuvintelor celor pentru ascultare, Neamţ 1817, p. 352-353. Cfr.ancora Lettera per i fratelli alla mietitura, in Adunare a cuvintelor, p. 339. Il testo di questa lettera si può trovare anche in I. BĂLAN, Pateric românesc ce cuprinde viaţa şi cuvintele unor cuvioşi părinţi ce s-au nevoit în mînastirile româneşti secolele XIV-XX, Bucarest 1980, p. 256-259. Cfr. anche Lettera ai padri di Poiana Mărului,  in  Žitie, p. 220.  In Sf. PAISIE DE LA NEAMŢ, Cuvinte şi scrisori duhovniceşti, vol. II, p. 167-172, 162-166; vol. I, p. 17-22.

[10] Lettera per i fratelli alla mietitura, pp. 342-343.

[11] Cfr. E. CITTERIO, La scuola filocalica di Paisij Velichkovskij e la Filocalia di Nicodimo Aghiorita. Un confronto, in T. SPIDLIK, K. WARE, E. LANNE, M. VAN PARYS e AA.VV., Amore del bello. Studi sulla Filocalia, Qiqajon, Comunità di Bose 1991, p. 187-8.

[12] Valga per tutti la testimonianza di  Grigorie Dascălul : “Mostrerò invece come e quando, con la venuta di questo beato starets e il costituirsi di questa grande comunità, si sia dato avvio, secondo la benevola provvidenza dell’Altissimo, ad un’opera che ora non ha riscontro in tutta l’Ortodossia”. Cfr. Povestire din parte a vieţii prea cuviosului părintelui nostru Paisie [1817] in D. Zamfirescu, Paisianismul, un moment românesc în istoria spiritualităţii europene, Roza vânturilor, Bucureşti 1996,  p. 119.

[13]   “Biografia inedită a stareţului Paisie cel Mare”, p. 534.

[14] Si veda Ioan I. Ică, La posterità romena dello ‘starec’ Paisij  in N. KAUCHTSCHISCHWILI, A.-AI. N. TACHIAOS, V. PELIN E AA.VV., Paisij, lo starec. Atti del III Convegno ecumenico internazionale di spiritualità russa “Paisij Veličkovskij e il suo movimento spirituale”, Bose, 20-23 settembre 1995, a cura di A. Mainardi, Qiqajon, Bose 1997, p. 245-266.

[15] Cfr. soprattutto la Lettera ad Agatone e quella a Demetrio.