Due giorni di ritiro spirituale, nella serie di incontri per un percorso nell’anno sociale 2017-2018 dal titolo: “Un piccolo seme. Spiritualità e bene comune: un percorso di cittadinanza attiva“, organizzato dal Circolo San Giovanni delle Acli di Trieste, nella parrocchia di s. Giovanni Decollato.

Trieste, 10-11 marzo 2018


TESTI

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SLIDE


Il tema a me affidato, rispetto alla declinazione del bene comune che concerne l’insieme del cammino che avete intrapreso, riguarda il collegamento tra la responsabilità dell’agire e le ragioni di fondo che reggono l’assunzione e l’esercizio di tale responsabilità per un credente, nello specifico per un credente in Cristo. Suddivido il mio suggerimento di riflessione in tre quadri, strettamente interdipendenti.

  • In quale prospettiva i cristiani guardano all’impegno nel mondo?
  • A quale radice fanno riferimento per rinnovare lo slancio e le energie che sostengono quell’impegno nel mondo?
  • Verso quale obiettivo indirizzare le energie dell’impegno nel mondo?

Ho chiamato ‘impegno nel mondo’ l’esercizio di solidarietà con la famiglia umana in tutte le espressioni che la riguardano, che noi riassumiamo con l’espressione ‘bene comune’. La Costituzione Gaudium et spes, n. 26, così definisce il bene comune: “Dall’interdipendenza sempre più stretta e piano piano estesa al mondo intero deriva che il bene comune – cioè l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente – oggi vieppiù diventa universale, investendo diritti e doveri che riguardano l’intero genere umano”.

Prospettiva, radice ed obiettivo, invece, si riferiscono a ciò che comunemente chiamiamo spiritualità o, meglio, alla vita secondo lo Spirito, che si gioca in rapporto a tre cose:

– alla rivelazione del mistero di Dio: l’intelligenza spirituale della Parola presiede alla conoscenza dei dinamismi del cuore e all’impegno nel bene per e con i fratelli;

– alla collaborazione con Dio perché si realizzi il suo sogno di stare in comunione con gli uomini, condividendo i suoi segreti e i suoi sentimenti verso i suoi figli. Pensiamo alla parabola del padre misericordioso o del figliol prodigo. La felicità dei figli sta appunto nella condivisione dei sentimenti del padre per loro. Di quel ‘sogno’ è intessuta la vita del Signore Gesù e di quel ‘sogno’ parlano i nostri aneliti più profondi;

– alla realizzazione della vocazione all’umanità. Nasciamo uomini, ma dobbiamo diventare umani, conforme al volere di Dio, secondo il suo progetto, radicati in Gesù. È l’invito a custodire e coltivare il giardino del proprio cuore come Adamo nel paradiso terrestre. Corrisponderebbe a ciò che nelle ultime encicliche dei Papi viene denominato: il bene integrale dell’uomo.

Come si esprime papa Benedetto XVI: “A questa dinamica di carità ricevuta e donata risponde la dottrina sociale della Chiesa. Essa è «caritas in veritate in re sociali»: annuncio della verità dell’amore di Cristo nella società. Tale dottrina è servizio della carità, ma nella verità. La verità preserva ed esprime la forza di liberazione della carità nelle vicende sempre nuove della storia. È, a un tempo, verità della fede e della ragione, nella distinzione e insieme nella sinergia dei due ambiti cognitivi. Lo sviluppo, il benessere sociale, un’adeguata soluzione dei gravi problemi socio-economici che affliggono l’umanità, hanno bisogno di questa verità. Ancor più hanno bisogno che tale verità sia amata e testimoniata. Senza verità, senza fiducia e amore per il vero, non c’è coscienza e responsabilità sociale, e l’agire sociale cade in balia di privati interessi e di logiche di potere, con effetti disgregatori sulla società, tanto più in una società in via di globalizzazione, in momenti difficili come quelli attuali”.[1]E papa Francesco ribadisce: “Stiamo parlando di un atteggiamento del cuore, che vive tutto con serena attenzione, che sa rimanere pienamente presente davanti a qualcuno senza stare a pensare a ciò che viene dopo, che si consegna a ogni momento come dono divino da vivere in pienezza. Gesù ci insegnava questo atteggiamento quando ci invitava a guardare i gigli del campo e gli uccelli del cielo, o quando, alla presenza di un uomo in ricerca, «fissò lo sguardo su di lui» e «lo amò» (Mc 10,21). Lui sì che sapeva stare pienamente davanti a ogni essere umano e davanti a ogni creatura, e così ci ha mostrato una via per superare l’ansietà malata che ci rende superficiali, aggressivi e consumisti sfrenati”.[2]

PREMESSA.

IL MISTERO DELLA CATTOLICITA’ DELLA CHIESA.

Inizio con una premessa, che potrei riassumere con questa domanda: chi è il soggetto che ha titolo per l’intelligenza del bene comune? Se, per dei credenti, il soggetto non può che essere la comunità dei fedeli nel suo insieme, in una parola, la Chiesa, mi chiedo: siamo ancora capaci di pensare in termini ecclesiali? Dove sta il discrimine tra il pensare semplicemente culturale e il pensare ecclesiale?

La questione mi pare collegata alla comprensione delle famose ‘note’ della Chiesa che professiamo nel Credo: una, santa, cattolica e apostolica. Dal nostro punto di vista, la nota che ci interessa è la nota ‘cattolica’. Quale intelligenza ne abbiamo? Mi sembra di notare che lo sviluppo della Dottrina sociale della Chiesa, almeno nell’ultimo mezzo secolo, nelle sue formulazioni magisteriali, ha a che vedere proprio con la declinazione sempre più profonda ed estesa della sua ‘cattolicità’.  È come se la comprensione della Chiesa, quanto al bene comune, come visione delle cose e come responsabilità da assumere in nome della propria fede, fosse avvenuta nei termini della cattolicità. Si è passati dalla coscienza che la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale con l’urgenza di lavorare tutti insieme per favorire la pace nel mondo e per questo s. Giovanni XXIII, con la sua Pacem in terris (1963), si rivolgeva ai fedeli dell’universo e agli uomini di buona volontà, al b. Paolo VI, con la sua Populorum progressio (1967), che concepiva la pace in termini di sviluppo integrale dell’uomo e sviluppo solidale dell’umanità, con l’invito ai fedeli e agli uomini di buona volontà per un’azione concertata,  parlando di umanesimo plenario, a Papa Francesco, con la sua Laudato si’ (2015), che si rivolge puramente e semplicemente ad ogni persona che abita il pianeta con un approccio ecologico e sociale per custodire la Casa comune, secondo il progetto di Dio Creatore. Senza dimenticare l’assoluta, imprescindibile  rilevanza, per la dottrina sociale della chiesa, del grande tema antropologico come verità sull’uomo nella mutata temperie culturale (le grandi encicliche di s. Giovanni Paolo II: Sollicitudo rei socialis, Fides et ratio, Veritatis splendor e la Caritas in veritate di papa Benedetto XVI), con i connessi grandi temi della famiglia, della tutela della vita, della costruzione della società coniugando il principio di solidarietà con quello di sussidiarietà per la salvaguardia del bene comune, nello spazio garantito della libertà religiosa e della libertà di educazione.[3] Tutti temi correlati, di cui vorrei mostrare l’interdipendenza, nel loro punto profondo di origine, partendo dal tentativo di illustrare l’intelligenza della cattolicità nella Tradizione.

 

La cattolicità: nota essenziale della Chiesa[4].

Nella sua autocomprensione la Chiesa si definisce cattolica secondo quattro aspetti strettamente interdipendenti. Come testimone della Tradizione riporto la definizione di Cirillo di Gerusalemme (313/315–387):

“Si chiama cattolica

perché si diffonde per tutto il mondo da un confine all’altro della terra;

perché insegna universalmente e con esattezza tutti i principi che giovano alla conoscenza degli uomini nelle cose visibili e invisibili, celesti e terrestri;

perché è subordinato al suo culto tutto il genere umano, capi e sudditi, dotti e indotti;

perché sana e cura da per tutto ogni specie di peccati dell’anima e del corpo che si commettono.

Essa ha in sé ogni conclamata virtù nelle opere, nelle parole e in ogni carisma spirituale”.[5]

La Lumen gentium non fa che ribadire l’autopercezione tradizionale della Chiesa quando la presenta come sacramento universale di salvezza.[6]

Rispetto alla cattolicità vorrei sottolineare un aspetto, in genere sottovalutato e ora perfino negletto dagli stessi credenti: il fatto, cioè, che la cattolicità (secondo l’accezione greca del termine, καθ᾿ ὅλον, ‘secondo l’insieme’, tanto in estensione di spazio e tempo quanto in profondità e interezza) allude alla dimensione familiare con Dio che attraversa tutti i tempi. Vorrei da subito far rimarcare che il timbro emotivo del termine ‘cattolico’, al di là delle reazioni culturali odierne piuttosto reticenti, se non ostili, comporta un’aria di fiducia e di accoglienza del mondo e degli uomini, considerati nell’ottica di Dio. A differenza del termine politico-economico ‘globalizzazione’ (quasi la versione laica del termine ‘cattolico’), che ha ormai inglobato le paure serpeggianti dell’epoca postmoderna, cattolicità dice speranza. Sebbene, per noi moderni, la percezione di essere a casa propria nella Chiesa non sia poi così condivisa, vale profondamente per i credenti la proclamazione paolina: “Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio” (Ef 2,19). L’impegno con l’uomo esprime la familiarità con Dio: questa è una prima caratteristica essenziale. Conseguenza inevitabile: la negligenza nell’impegno verso l’uomo palesa una cattiva idea di Dio.

Del resto, la visione di speranza che soggiace alla tesi della cattolicità della Chiesa pesca nella stessa tradizione ebraica. Così raccontano le antiche leggende ebraiche.[7] Duemila anni prima del cielo e della terra, sette cose furono create: la Torah, il trono della Gloria, il Paradiso, l’Inferno, il Santuario Celeste, la gemma preziosa che reca inciso il nome del Messia e una voce che grida: «Tornate, o figli dell’uomo» (Sal 90,3). E quando Dio decise di creare il mondo si consigliò con la Torah, che era d’accordo sul fatto che Dio avesse intenzione di creare qualcuno che gli rendesse omaggio. Ma con una certa esitazione, perché dubitava del valore di un mondo terreno a causa della prevedibile empietà degli uomini, i quali avrebbero sicuramente trasgredito i suoi precetti. Ma il Signore dissipò i suoi dubbi e le disse che già da tempo era stata creata la tešuvah, il ravvedimento, e che i peccatori avrebbero avuto modo di emendarsi, che ai riti del Tempio sarebbe stato conferito il potere dell’espiazione e che il Messia era stato designato a portare la salvezza, che avrebbe posto fine ad ogni empietà. Ma prima del nostro mondo, Dio aveva già fatto più mondi, e li aveva distrutti uno dopo l’altro perché di nessuno era stato soddisfatto sinché non ebbe creato il nostro. E neppure quest’ultimo sarebbe durato se non avesse affiancato alla giustizia, con la quale voleva regolarlo, la clemenza. Senza la benevolenza divina nulla avrebbe potuto continuare ad esistere. Tanto che, quando Dio decide di creare il mondo, si presentano le lettere dell’alfabeto ebraico, dall’ultima alla prima, chiedendo a Dio di servirsi di loro. Tutte però sono rifiutate, finché si presenta la lettera Bet che così implora: “O Signore del mondo, sia Tua volontà creare il mondo servendoti di me, giacché tutti i suoi abitatori Ti lodano ogni giorno servendosi di me, come è detto “Benedetto il Signore in eterno. Amen. Amen” (Sal 89,53). E Dio accolse subito la sua supplica e creò il mondo servendosi della lettera Bet, come è detto: “Bere’šit – in principio – Dio creò il cielo e la terra” (Gn 1,1).[8]

Nella tradizione cristiana, come si può vedere in questa miniatura della lettera ‘I’, la prima lettera con cui ha inizio la Bibbia in latino (“In principio”), come compare in una Bibbia del 1250-1270 ca, custodita nella Biblioteca comunale di Trento, [9] la benedizione nella quale il mondo è stato creato è lo stesso Verbo di Dio, poi fatto carne e parola definitiva di tutto.

Le immagini — raffigurazioni dei sette giorni della creazione — sono contenute nella grande “I” al centro della pagina, tra il commento, a sinistra, e il testo biblico, a destra: è la prima lettera della prima frase della Bibbia nel latino della Vulgata, “In principio…”. La figura del Creatore è quella cristica, perché Dio ha creato ogni cosa pronunciando una parola: “fìat” (“sia”), e quella parola era la Parola, il Verbo, Cristo stesso, “Principio della creazione di Dio”, come lo chiama l’Apocalisse.

Cristo, però, non solo è la prima parola a dare vita a ogni cosa, ma è anche l’ultima, dal momento che tutto è stato creato “in vista di lui”! Tale “finalità cristica” è suggerita dall’aggiunta, in fondo alla lettera “I” e a destra, di una scena della crocifissione, giustapposta a un’analoga scena, a sinistra, con Adamo ed Eva al momento della caduta. Sta a significare che la creazione del mondo all’inizio dei tempi già prevedeva sia il peccato umano che la redenzione. Infatti, la figura del Creatore nell’ultimo degli ovali in cui sono rappresentate le giornate — quello in basso, simboleggiante il settimo giorno, in cui Dio “portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro” (Gen 2,2) – guarda direttamente Adamo ed Eva che afferrano il frutto proibito, come per dire: “Già sapevo che avrebbero sciupato il mio progetto”. Questa scena con la Caduta dei progenitori è però separata dall’iniziale “I”, mentre la scena dirimpetto a essa, la crocifissione di Cristo, le è attaccata – anzi, l’artista poggia uno dei piedi del Creatore sul braccio trasversale della croce! Così mentre il peccato resta fuori dall’opera creatrice del Verbo, la redenzione è organicamente collegata, costituendone un “ottavo giorno” a perfezionamento dei primi sette. E il riposo di Dio alla fine del lavoro della creazione (nell’ultimo ovale della “I”) trova la sua pienezza nel “sonno della croce”, preludio alla pace definitiva che scaturisce dal sacrificio di Cristo. Notiamo poi un altro dettaglio singolarissimo: i tre personaggi maschili (Creatore, Adamo e Cristo) hanno tutti i medesimi tratti fisionomici!

Nella serie dei riti di preparazione al battesimo, una volta verificata la serietà dell’impegno dei candidati, si iscrivevano i nomi in un certo registro, chiamato ‘il libro della vita’ (cf Fil 4,3; Ap 3,5; 21,27): era l’iscrizione alla Chiesa celeste, il ‘libro della cittadinanza’ dove sono registrati i cittadini di Sion. Eloquenti le bellissime immagini del salmo 87: «Le sue fondamenta sono sui monti santi; il Signore ama le porte di Sion più di tutte le dimore di Giacobbe. Di te si dicono cose stupende, città di Dio. Ricorderò Raab e Babilonia fra quelli che mi conoscono; ecco, Palestina, Tiro ed Etiopia: tutti là sono nati. Si dirà di Sion: “L’uno e l’altro è nato in essa e l’Altissimo la tiene salda”. Il Signore scriverà nel libro dei popoli: “Là costui è nato”. E danzando canteranno: “Sono in te tutte le mie sorgenti”». Il salmo è una vera e propria epifania ecclesiale.

La visione dei popoli che si ritrovano a Gerusalemme, celebrata dal salmo 87, mostra come ormai non esiste più motivo di distinzione tra gli uomini perché la loro dignità deriva da un’unica radice. La dignità degli uomini parla dell’amore di Dio che si è rivelato in quel Figlio di Dio fatto uomo, adorato da tutte le genti. Quando Paolo ricorda agli Efesini che il mistero manifestato ora agli uomini è il fatto che i Gentili sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità di Israele, rivela che davanti a Dio sussiste un’unica famiglia umana, destinataria e portatrice allo stesso tempo del Suo amore.[10] Davanti a Gesù, Figlio di Dio e figlio dell’uomo – dice il salmo, eco del pensiero di Dio – chiunque tu sia, da qualunque paese provenga, qualsiasi sia stata la tua storia, a qualsiasi cultura appartenga, da qualsiasi parte proceda, sappi che qui sei nato, di qui trai vita e qui conducono i tuoi desideri perché qui si compiono i miei progetti: nel mio Figlio! Non è evidentemente una forma di imposizione spirituale all’umanità. Si tratta invece di una visione lucida, nella fede, sulla realtà del mondo e della storia. Non si tratta di contrapporre una visione ad altra visione, una fede ad altra fede. Si tratta di imparare a stupirsi a tal punto dei pensieri di Dio per l’umanità che la modalità stessa di vivere e testimoniare quella visione diventa divina. Per questo l’amore è l’ultima parola convincente, sebbene non sia la parola più potente. La debolezza di Dio però è più forte della forza degli uomini e la stoltezza di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini: per questo a tutti gli uomini, di ieri, come di oggi e di domani, a tutti spetta questa eredità, che è il Figlio di Dio fatto uomo.

 

IN QUALE PROSPETTIVA I CRISTIANI

GUARDANO ALL’IMPEGNO NEL MONDO?

L’autocomprensione dei cristiani: due testi della Tradizione.

Lettera a Diogneto.

Un antico testo cristiano, la Lettera a Diogneto, ha fissato in questi termini l’immagine dell’autocomprensione dei cristiani nel mondo:

“A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. L’anima è diffusa in tutte le parti del corpo e i cristiani nelle città della terra. L’anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo. L’anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile; i cristiani si vedono nel mondo, ma la loro religione è invisibile. La carne odia l’anima e la combatte pur non avendo ricevuto ingiuria, perché impedisce di prendersi dei piaceri; il mondo che pur non ha avuto ingiustizia dai cristiani li odia perché si oppongono ai piaceri. L’anima ama la carne che la odia e le membra; anche i cristiani amano coloro che li odiano. L’anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo. L’anima immortale abita in una dimora mortale; anche i cristiani vivono come stranieri tra le cose che si corrompono, aspettando l’incorruttibilità nei cieli. Maltrattata nei cibi e nelle bevande l’anima si raffina; anche i cristiani maltrattati, ogni giorno più si moltiplicano. Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare”.[11]

Vorrei commentare brevemente l’intuizione capitale di questo splendido testo del secondo secolo dell’era cristiana sul ruolo dei cristiani, nell’economia cosmica e nella storia. L’autore non cerca di descrivere la natura del culto cristiano, che solo a un iniziato ai sacramenti della chiesa poteva essere spiegato. Fa presagire invece l’ordine dei valori, in cui i cristiani si riconoscono e non in funzione della cerchia dei credenti, ma in funzione del mondo, considerato non come antagonista o avversario o nella sua perversità, bensì in rapporto al suo sviluppo e alla sua destinazione. Due sono le affermazioni fondamentali: i cristiani non si isolano, non fanno ghetto (tesi dell’immanenza) e nulla di quanto il mondo può far loro attenta a ciò che davvero è importante ai loro occhi (tesi della trascendenza, nella consapevolezza che niente e nessuno può sottrarre loro la vera ricchezza, la vera gioia, la vera vita).

L’aspetto straordinario del testo, rispetto alle formulazioni apologetiche della fede nelle antiche comunità cristiane, che vivevano in regime di possibile persecuzione, è dato dal fatto che tra i due aspetti, immanenza e trascendenza, non c’è opposizione, ma sintesi. Il mondo non è considerato solo come uno strumento in ordine all’acquisizione dei veri valori, nella sua utilità  in vista della ricerca di perfezione da parte dei cristiani (nel corso dei secoli ha poi prevalso l’accentuazione dell’aspetto antropocentrico della salvezza, mettendo in ombra la prospettiva cosmica e, nell’epoca moderna, addirittura, ha perfino prevalso l’accentuazione del carattere personale, se non individualista, della dimensione religiosa), ma l’azione dei cristiani è presentata nella sua fecondità per il mondo stesso. Tanto che il ruolo ispiratore, unificatore, del destino del mondo, da parte dei cristiani, non riguarda una specie di vanto di superiorità in moralità e virtù, ma la fecondità della loro presenza per il mondo stesso, sul paragone che i cristiani hanno una funzione analoga a quella che, nel pensiero ellenistico, era riservata all’anima cosmica. La caratteristica essenziale che ne scaturisce è il valore ‘liturgico’ dell’azione dei cristiani nel mondo, solidale con il mondo che geme in vista della rivelazione dei figli di Dio, come dice Paolo nella lettera ai Romani (8, 18-23). È la tesi della ‘cattolicità’ della Chiesa nella sua dimensione cosmica, tesi che Papa Francesco riprende con un linguaggio più piano nella sua Laudato si’.

Il famoso storico del cristianesimo antico, Henri Irénée Marrou (1904-1977), curatore dell’edizione critica della lettera a Diogneto, così riassume il suo commentario a questo famoso testo : « Funzione sacerdotale dei cristiani, preghiera efficace, in particolare per i soccorsi attesi dalla città terrestre, esempio e modello forniti dalla virtù cristiana, azione missionaria, santificazione del mondo, compimento della sua storia, reclutamento del popolo degli eletti, ritardo ottenuto in vista della parusia definitiva o, meglio, determinazione della durata utile del mondo …. tutto questo insieme dice il cap. VI del nostro testo. Tutto questo e più ancora, poiché la fecondità della sua dottrina non si limita alle sole applicazioni che ne hanno potuto trarre gli autori antichi: il teologo moderno, più attento dei suoi predecessori al significato spirituale dei valori propriamente temporali, si sentirà naturalmente portato, ragionando a majoribus ad minora, a estendere tale ruolo animatore della presenza cristiana nel mondo al di là della sfera propriamente soprannaturale. Chi non misura la fecondità visibile o segreta dell’apporto di verità, di sanità, di autenticità che il cristiano, operando nel mondo sul piano puramente terreno, rappresenta per la civiltà e la città dove la storia lo vede inserito? È per questo che il teologo di oggi si trova indotto a pregare perché la grazia del Signore moltiplichi nella Chiesa non solo quei grandi contemplativi, quei santi che, in ultima analisi, conferiscono alla creazione la sua piena ragion d’essere, ma anche un numero sempre più grande di « uomini d’azione integri, retti, magnanimi » capaci di irradiare la verità, la giustizia, la pace e l’amore sul piano della tecnica e della città, poiché Sodoma ha bisogno anche di questi  « giusti consacrati all’azione »[12].

È chiaro che per un autore antico o medievale, che vive in una società ‘sacrale’ pressoché unanime nella fede, poteva sembrare naturale rappresentare il mondo e la società umana, nelle sue istituzioni e nelle sue tecniche e arti, ordinandoli al loro fine soprannaturale. “Ma oggi, per noi che, almeno in Europa, vediamo concludersi una parentesi aperta nella storia con la conversione di Costantino, per noi che ci ritroviamo, pusillus grex, dispersi in un mondo ostile o indifferente, di giorno in giorno più profondamente scristianizzato, è oltremodo utile ascoltare una voce venuta da così lontano come quella della lettera a Diogneto, proclamare con la tranquilla audacia che dà la sicurezza della fede, e questo in un contesto storico così ribelle alla speranza come il nostro, dal seno stesso delle persecuzioni e di un mondo ancora completamente pagano, che se «i cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini », cionondimeno sono «nel mondo ciò che l’anima è nel corpo. Essi sostengono il mondo …Tanto nobile è il ruolo che Dio ha loro conferito che ad essi non è lecito abbandonare».[13]

Lettera agli Ebrei.

Se invece ci riferiamo alle stesse Scritture, l’autocomprensione dei credenti in Cristo è definita in questi termini: “Quelli infatti che sono stati una volta illuminati, che hanno gustato il dono celeste, sono diventati partecipi dello Spirito Santo e hanno gustato la buona parola di Dio e le meraviglie del mondo futuro…” (Eb 6,4-5).  I credenti in Cristo vengono definiti come: gli illuminati (battesimo), quelli che hanno gustato il dono celeste (eucaristia), sono diventati partecipi dello Spirito Santo (vita nello Spirito), hanno gustato la buona [bella] parola di Dio e le meraviglie [energie – potenze] del mondo futuro. Questo perché, come riporta sempre la stessa lettera: “Poiché anche a noi, al pari di quelli, è stata annunciata una buona novella: purtroppo però a quelli la parola udita non giovò in nulla, non essendo rimasti uniti grazie alla fede con coloro che avevano ascoltato” (Eb 4,2). Solo chi resta unito (συγκεκερασμένους, dal verbo συγκεράννυμι, com-misceo, coniungo) a coloro che hanno ascoltato ottiene la visione, arriva alla salvezza. È la dimensione ecclesiale della fede che si è tradotta in vita condivisa.

Purtroppo, ciò che ci fa difetto oggi è proprio la condivisione di fondo nella percezione del mondo di Dio che irrompe nella nostra storia, nella capacità di aprire il tempo all’eterno, nello stupore di fronte all’agire di Dio nel tempo e nella storia! Ci fa difetto il gusto delle meraviglie, delle energie del mondo futuro, ci fa difetto insomma la dimensione escatologica dell’esperienza cristiana. La tendenza rivendicativa individualistica della sensibilità odierna sembra il male di fondo che può venir guarito dall’esperienza ecclesiale della confidenza in Dio. L’eliminazione di ogni pretesa di innocenza nei confronti di Dio purifica quella miriade di pretese che abbiamo l’uno verso l’altro e che intralciano il buon corso dei rapporti umani. Più l’uomo si scopre peccatore, meno accampa pretese verso il mondo e gli uomini e più si dispone in solidarietà.

Il percorso è quello tracciato dalla preghiera del Padre nostro dal fondo al principio, come insegnavano i Padri.[14] Non ci accorgiamo che quello che diciamo per primo in realtà è il punto verso cui aneliamo: liberi dal male e dalla tentazione, perché abbiamo un cuore risplendente del perdono dato ai nostri fratelli, per la misericordia ricevuta e per essere un unico corpo con il Signore Gesù che è diventato nostro cibo, sapienza e gusto, capaci di compiere il volere di Dio vivendo il mistero della fraternità nella potenza dello Spirito, facendo risplendere in tutta la sua gloria la santità di Dio, che si rivela come Padre di noi tutti, come Padre del Figlio suo Gesù Cristo. Ed è appunto in lui che possiamo compiere tutto il percorso per avere la vita, la vita vera, assunti in quell’amore di Dio che costituisce il dono divino della vita. Realizzare la propria vocazione significa contemporaneamente godere di quella pienezza alla quale si anela e godere di quella umanità senza divisioni di cui si ha nostalgia. Qui possiamo anche comprendere i sogni dell’uomo perché in Dio hanno le loro radici. Perché – e la cosa sorprende non poco – se il cuore dell’uomo, nelle sue fibre più intime, è fatto ad immagine di Dio, allora vuol dire che ha anche nostalgia dei comportamenti secondo Dio, che proprio Gesù rivela con il suo agire e il suo parlare e che lascia in eredità alla sua Chiesa dandoci il suo Spirito.

Si realizza per i credenti il detto di Gesù: “Voi siete la luce del mondo” (Mt 5,14) intendendo, secondo una glossa bizantina[15]: tutti i discepoli, in quanto partecipi della vita del Messia, sono essi stessi ‘luce del mondo’. Non dice però: voi siete luci, ma voi siete luce, perché tutti insieme sono il corpo del Messia, che è la luce del mondo. Ogni volta che si fa riferimento al Cristo, è a questa dimensione ecclesiale che si allude. La cosa ha un doppio risvolto: evita l’appropriazione del Cristo da parte di chicchessia e riferisce la testimonianza del Cristo nel mondo all’insieme del corpo della chiesa.

La via della santità. 

Il discorso sui cristiani ‘anima del mondo’ è collegato al tema della santità della chiesa. In cosa ravvisare la santità della Chiesa? Nella formulazione del Simbolo la santità è ravvisata nella comunione dei santi e nella remissione dei peccati. Ambedue questi articoli sono intesi come concretizzazioni del modo con cui lo Spirito Santo agisce nella Chiesa e ambedue rivestono significato sacramentale. La Chiesa si definisce in base alla sua liturgia. Nell’antico sentire, la comunione dei santi non si riferiva alla santità delle persone, ma ai santi doni, alla comunione eucaristica, mentre la remissione dei peccati alludeva al sacramento del battesimo con il quale moriamo al peccato per vivere della vita del Figlio di Dio, innestati nel suo corpo che è la Chiesa, che vive del suo Spirito.[16]

La santità è così collegata al nutrirsi dell’eucaristia, all’essere abitati dal Santo che ci incorpora e ci fa vivere del suo Spirito. Tanto che la preghiera non ha altro obiettivo che di domandare la perfetta dimora nel Cristo, come spiega Tertulliano quando commenta l’invocazione del Padre nostro ‘dacci oggi il nostro pane quotidiano’: “itaque petendo panem quotidianum perpetuitatem postulamus in Christo et individuitatem a corpore eius” , che potremmo tradurre: quando chiediamo il pane quotidiano, che è Cristo, noi domandiamo di rimanere costantemente e per sempre in Cristo e di non essere mai separati dal suo corpo, cioè di vivere in modo da non stare mai lontani dalla mensa eucaristica e di godere della piena intimità con Lui in modo da sperimentare compiutamente il mistero della fraternità che da Lui prende origine. Oppure, come recita la preghiera dopo la comunione della quinta domenica di quaresima: “Dio onnipotente, concedi a noi tuoi fedeli di essere sempre inseriti come membra vive nel Cristo poiché abbiamo comunicato al suo corpo e al suo sangue”. Se è vero che l’esperienza dell’amore di Dio per l’uomo, rivelatasi in Cristo e condivisa dai suoi discepoli, che la Chiesa custodisce, ha rivoluzionato la percezione interiore delle prime generazioni cristiane a tal punto da costituire la radice di una nuova umanità di cui essere fermento nel mondo intero, allora l’esperienza significativa della vita risulta essere proprio la conoscenza di quel ‘Figlio, l’amato’, che ci apre gli spazi di una sconfinata dilezione, ricevuta e condivisa.   È l’eredità della Chiesa, che celebra l’eucaristia, per il mondo.[17]

Dalla comunione al Santo nel sacramento dell’eucaristia si passa inevitabilmente alla comunione tra i santi che allarga la percezione della Chiesa alla sua dimensione cosmica. Come ricorda la Costituzione dogmatica conciliare Lumen Gentium, al n. 2, tutti i giusti si troveranno uniti presso il Padre nella Chiesa universale.[18] La Chiesa, nella santità dei suoi santi, irradia sul mondo la santità del Santo che conquista al suo amore i suoi figli fino alla fine del mondo quando non sussisterà altro che lo splendore del suo amore goduto e condiviso. Si tornerà allora a vedere la luce del primo giorno della creazione, la luce della santità di Dio che era stata oscurata, luce che il Figlio di Dio ha fatto nuovamente risplendere. Il mondo considerato in quella luce è la Chiesa in divenire perché su tutto e su tutti prevalga l’amore del Padre.

È importante sottolineare che da questo punto di vista Chiesa e mondo non sono due realtà contrapposte. Dio ama il mondo perché la vocazione del mondo è di diventare Chiesa e la Chiesa è posta nel mondo senza essere del mondo (cfr. Gv 15,19; 17,11).[19] Se la missione del Figlio consiste nel “riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52), mondo è ciò che si oppone alla realizzazione dell’unità, ciò che contrasta la dinamica divina in atto nella storia, il mistero cioè di riconciliazione tra Dio e l’uomo in Cristo. I comandamenti di Gesù sono proprio in funzione della rivelazione al nostro cuore di quel mistero.  Se accogliamo lo Spirito, che lavora alla realizzazione di quel mistero, il mondo in noi si ritira o, meglio, si fa chiesa, cioè sempre più e sempre più estesamente si fa luogo di trasparenza dell’amore di Dio per tutti, in Cristo. Essere inviati al mondo senza essere del mondo allude esattamente a questo. La fede nella Chiesa ha a che fare con la scoperta del Regno nell’agire quotidiano, nella trasparenza del quotidiano che si apre sul mistero del Regno. La realtà del Regno, a cui la Chiesa rimanda finché dura la storia, sta appunto alla confluenza di questa trasformazione del mondo in Chiesa. Trasformazione, che vale per il mondo ma vale anche per la Chiesa perché lei stessa non si confonda con il Regno di cui è solo sacramento. Eppure, in quel ‘solo’ sta tutta la sua gloria.

La rivelazione di Dio, che costituisce il grande annuncio della nostra fede, la buona novella, si riassume tutta in questo: “Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4,32). Letteralmente: “Dio ha fatto grazia di Sé a voi in Cristo” (ὁ Θεὸς ἐν Χριστῷ ἐχαρίσατο ὑμῖν). Continuando: “se anche voi perdonerete, cioè farete grazia di voi a tutti in Cristo”, il mondo risplenderà ancora della Sua presenza. Con la rivelazione di Gesù, che svela, mentre compie, questo supremo desiderio di Dio, possiamo scorgere all’opera nel mondo le segrete intenzioni di Dio nei confronti delle sue creature. Parlare di redenzione, di salvezza, di grazia, significa alludere a questa opera di riconciliazione in atto nella storia, come dice Gesù: «Il Padre mio opera sempre e anch’io opero» (Gv 5,17). Opera appunto la riconciliazione in Gesù, nostra pace (“Egli infatti è la nostra pace“, Ef 2,14). La Chiesa, depositaria e custode delle segrete intenzioni di Dio per l’umanità, chiama tutti i suoi figli a concorrere alla realizzazione di questa opera. È il suo criterio di discernimento: giudica ogni cosa in base alla convergenza verso questo supremo scopo divino.

La direzione di quel dinamismo di rivelazione, di cui la Chiesa è costituita e porta responsabilità di fronte al mondo, si intravede nella convergenza di due movimenti potenti, che si sostengono a vicenda. Li definisce con precisione il vangelo di Giovanni illustrando il mistero della figura di Gesù. Da una parte, Gesù rivela a Nicodemo che: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16); dall’altra, nell’imminenza della passione di Gesù, l’evangelista interpreta in senso profetico la cinica dichiarazione di Caifa: “… Gesù doveva morire per la nazione; e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,51-52), realizzando così la profezia che Dio avrebbe mostrato la sua santità quando avrebbe raccolto il popolo, l’avrebbe purificato e gli avrebbe dato uno spirito nuovo (cfr. Ez 36,22-27). I due movimenti, mostrare la grandezza dell’amore di Dio al mondo e riunire i figli dispersi, dicono l’opera della riconciliazione in atto nella storia di cui la Chiesa porta significazione e responsabilità. In questo è all’opera lo Spirito che agisce nella Chiesa: rimettere i peccati significa innestare gli uomini nel corpo di Cristo e farli vivere del suo Spirito che li associa a quel doppio movimento: svelare l’amore del Padre e riunire la famiglia umana.[20]

Ora, in che cosa i tempi di oggi si differenziano dai giorni di ieri rispetto al compito della Chiesa nel mondo? Mi ha molto colpito l’analisi che Fabrice Hadjajd ha esposto in una conferenza pronunciata su invito del card. Stanislas Rylko all’inaugurazione del III Congresso mondiale dei movimenti ecclesiali e delle nuove comunità, celebratosi a Roma nel 2014.[21] In sintesi dice questo. Molti pensatori sottolineano che siamo entrati in un cambiamento epocale paragonabile al passaggio dal paleolitico al neolitico. Anche allora il cambiamento fu dovuto a una rivoluzione tecnica, allora quella dell’agricoltura, oggi quella dell’ingegneria, che comporta una rottura antropologica radicale. Anche pensatori non cristiani parlano di un tempo di apocalisse, i cui segnali si deducono dai combattimenti che lui chiama ‘a fronte rovesciato’ nei quali si trova impegnata la Chiesa. La Chiesa è chiamata a rivelare Dio ed ecco che sempre di più si trova investita del semplice compito di custodire l’umano, sempre di più è chiamata a difendere la natura. Richiama la presenza dell’Eterno e sempre di più diventa la garanzia del temporale. È il tempio dello Spirito e sempre di più appare come la custode della carne, del sesso, della materia stessa. Proprio questa situazione, terribile, nel senso che nulla va più da sé, risulta un’opportunità formidabile perché tutto non può che ripartire da Dio. Questo intende proporre la dottrina sociale della chiesa, non solo ai credenti ma a tutti gli uomini perché tutti gli uomini sono compresi nel piano di Dio di salvezza.

Si potrebbero addurre degli esempi.

Di fronte al tramonto delle grandi utopie politiche del XIX e XX secolo e alla constatazione che dove non c’è più speranza, non c’è moralità che tenga, si fa strada la speranza teologale, una speranza che non si fonda su di un avvenire radioso dell’umanità, che ormai non ha più seguaci, ma si radica nella fede in Colui che è il centro della storia e del mondo, che ci conosce e che ci ama, che deve venire come pienezza eterna della nostra esistenza, della nostra felicità. Di lui è detto: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Ap 21,5). La pretesa cristiana per il mondo si radica nel mistero di Colui che non ha mai cessato di continuare la Sua creazione e di sostenerla.

Si è affacciata una nuova vulnerabilità, la vulnerabilità della natura stessa (basta leggere l’enciclica di papa Francesco Laudato si’ sulla cultura dello scarto) per cui la questione ecologica è diventata un luogo decisivo per l’evangelizzazione, tanto che viene rimessa in gioco la maniera di vedere il mondo, secondo un rapporto che non si riduce ad una logistica della soluzione, ma che si apre a una logica della celebrazione, di cui la Chiesa è maestra.

La nostra epoca non è più l’epoca della ideologia, ma della tecnologia se non della tecnocrazia;[22] e se il mezzo impone al messaggio il suo format, McLuhan insegnando, la chiesa tende a scegliere mezzi poveri e semplici, perché il mezzo è il Mediatore in carne e ossa, per cui il precetto si fa presenza, la comunicazione viso, il messaggio mistero; se internet non ci permette di piantare un chiodo, di conseguenza, non ci permette neanche di essere crocifissi; troppe interposizioni impediscono l’esposizione e la chiesa predilige l’esposizione.

La reazione alla tecnologia è il culto dell’emozione, la cui versione eroico-mistica sono i fondamentalismi, mentre la chiesa si apre all’ampiezza della ragione, capace di far superare la logica del capriccio e del calcolo, perché la ragione, nel suo fondo, custodisce la capacità alla comunione e alla lode.

Tra gli avvertimenti che san Paolo indirizza alla comunità di Roma troviamo anche questo: “Non nutrite desideri di grandezza; volgetevi piuttosto a ciò che è umile” (Rm 12,16). Suona come l’invito a stare al mistero dell’Incarnazione, che oggi, per la chiesa nel suo annuncio del vangelo al mondo, sembra consistere nel ricordare a tutti le evidenze primarie: che la donna è una donna e che l’uomo è un uomo; che il matrimonio è di un uomo e di una donna; che il bambino nasce da un padre e da una madre; che il dato naturale non è una costruzione convenzionale; che l’essere non è il nulla …. È come veder concretizzarsi, sotto un certo aspetto, quello che Gesù diceva dopo aver spiegato la parabola del buon seminatore: “Fate attenzione dunque a come ascoltate; perché a chi ha, sarà dato, ma a chi non ha, sarà tolto anche ciò che crede di avere” (Lc 8,18). Chi rifiuta la grazia finisce per perdere la natura. Chi ignora il Creatore finisce per dimenticare la creatura. Chi misconosce l’invisibile non sa nemmeno più vedere quello che ha davanti agli occhi. Il paradosso è che le cose più semplici, oggi, per essere custodite, richiedano il sangue dei martiri. A questo si attiene la dottrina sociale della chiesa. 

IN QUALI RADICI SI INNESTA L’IMPEGNO DELLA CHIESA NEL MONDO?

L’impegno dei cristiani nel mondo non può trovare radici diverse da quelle che s. Paolo illustra nella sua esperienza di apostolo: Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: mi sono fatto come Giudeo per i Giudei, per guadagnare i Giudei. Per coloro che sono sotto la Legge – pur non essendo io sotto la Legge – mi sono fatto come uno che è sotto la Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la Legge. Per coloro che non hanno Legge – pur non essendo io senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo – mi sono fatto come uno che è senza Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono senza Legge. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io” (1Cor 9,19-23).

Comincerei ad indicare il principio di fondo nella sua dimensione dinamica: più si pesca in profondità, più potente e larga è l’espansione in superficie. In riferimento alla vita spirituale: più si pesca in Dio, in profondità, più l’uomo fa fiorire la sua umanità, in tutte le espressioni che la riguardano nel suo vivere personale e sociale.

La caratteristica singolare dei tempi odierni, tenuto conto dell’argomento che stiamo trattando, è quella di declinare tale dinamica spirituale in ordine al principio di ‘integralità’. Il bene riguarda tutte le dimensioni dell’umano, sul piano personale e sul piano sociale, nell’individuo e nelle istituzioni, nelle persone e nella società, solidali con l’intera l’umanità e con tutto il creato. Come possiamo dedurre dagli interventi del magistero della chiesa in questi ultimi tempi. Riporto qualche citazione:

Mater et magistra (1961): “A tale scopo però si richiede che negli uomini investiti di autorità pubblica sia presente ed operante una sana concezione del bene comune; concezione che si concreta nell’insieme di quelle condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani lo sviluppo integrale della loro persona” (n.51).

Pacem in terris (1963): “L’unità della famiglia umana è esistita in ogni tempo, giacché essa ha come membri gli esseri umani che sono tutti uguali per dignità̀ naturale. Di conseguenza esisterà sempre l’esigenza obiettiva all’attuazione, in grado sufficiente, del bene comune universale, e cioè del bene comune della intera famiglia umana” (n. 69); “Tanto più che i singoli esseri umani, mentre partecipano sempre più attivamente alla vita pubblica delle proprie comunità politiche, mostrano un crescente interessamento alle vicende di tutti i popoli, e avvertono con maggiore consapevolezza di essere membra vive di una comunità mondiale” (n. 75).

Populorum progressio (1967): “È dunque a tutti che noi oggi rivolgiamo questo appello solenne a un’azione concertata per lo sviluppo integrale dell’uomo e lo sviluppo solidale dell’umanità” (n. 5); “Ma ormai le iniziative locali e individuali non bastano più. La situazione attuale del mondo esige un’azione d’insieme sulla base di una visione chiara di tutti gli aspetti economici, sociali, culturali e spirituali. Esperta di umanità̀, la Chiesa …  vivente com’è nella storia, essa deve “scrutare i segni dei tempi e interpretarli alla luce del Vangelo”. In comunione con le migliori aspirazioni degli uomini e soffrendo di vederle insoddisfatte, essa desidera aiutarli a raggiungere la loro piena fioritura, e a questo fine offre loro ciò che possiede in proprio: una visione globale dell’uomo e dell’umanità” (n. 13); “Mediante la sua inserzione nel Cristo vivificatore, l’uomo accede a una dimensione nuova, a un umanesimo trascendente, che gli conferisce la sua più grande pienezza: questa è la finalità suprema dello sviluppo personale” (n. 16); “È un umanesimo plenario che occorre promuovere. Che vuol dire ciò, se non lo sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini? (n. 42); “Lo sviluppo integrale dell’uomo non può aver luogo senza lo sviluppo solidale dell’umanità” (43).

Laudato si’ (2015): “La sfida urgente di proteggere la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale” (n. 13); “In questi racconti così antichi, ricchi di profondo simbolismo, era già̀ contenuta una convinzione oggi sentita: che tutto è in relazione, e che la cura autentica della nostra stessa vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà̀ nei confronti degli altri” (n. 70); “Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale. Le direttrici per la soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà̀, per restituire la dignità̀ agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura” (n. 139).

Alla radice di tale approccio globale non può che esserci la fede della Chiesa nel Dio, Trinità di Persone, rivelato da Gesù, come proclama papa Francesco nella Laudato si’: “Le Persone divine sono relazioni sussistenti, e il mondo, creato secondo il modello divino, è una trama di relazioni. Le creature tendono verso Dio, e a sua volta è proprio di ogni essere vivente tendere verso un’altra cosa, in modo tale che in seno all’universo possiamo incontrare innumerevoli relazioni costanti che si intrecciano segretamente. Questo non solo ci invita ad ammirare i molteplici legami che esistono tra le creature, ma ci porta anche a scoprire una chiave della nostra propria realizzazione. Infatti la persona umana tanto più cresce, matura e si santifica quanto più entra in relazione, quando esce da sé stessa per vivere in comunione con Dio, con gli altri e con tutte le creature. Così assume nella propria esistenza quel dinamismo trinitario che Dio ha impresso in lei fin dalla sua creazione. Tutto è collegato, e questo ci invita a maturare una spiritualità̀ della solidarietà̀ globale che sgorga dal mistero della Trinità̀” (n. 240).

La via dello sviluppo integrale.[23]

Credo che l’espressione più riassuntiva, dal punto di vista delle motivazioni, dell’impegno del cristiano nel mondo in rapporto alla solidarietà con tutta l’umanità sia quella descritta da s. Paolo nel suo inno alla carità: “la carità non manca di rispetto” (1Cor 13,5). Nel testo greco suona: οὐκ ἀσχημονεῖ. Il verbo greco, propriamente, vuol dire ‘non toglie la figura’, ‘non toglie la bellezza’. Ogni essere ha una sua forma, che non è soltanto quella visibile, esteriore, ma anche quella che lo costituisce nella perfezione del suo essere, forma che risale direttamente a Dio, che così l’ha voluta. La forma allude anche alla sua dinamica di perfezionamento per poter esprimere tutto il suo splendore. Così, rispettare la forma significa anche trovare le vie e i mezzi per assecondarne il perfezionamento nel tempo. È la tensione che anima la ricerca del bene comune, nella storia.

Nella tradizione antica la cosa è stata percepita direttamente in rapporto alla fraternità, in rapporto al perdono reciproco. Offrire il perdono significa custodire la bellezza delle creature. Se agisco così, custodisco la mia bellezza e la bellezza del mondo.  In tal senso, siamo i custodi dei nostri fratelli, i custodi della loro bellezza. Cerchiamo di sapere se davvero ci muoviamo in questa prospettiva? I nostri Padri ci hanno suggerito due criteri di discernimento.

1) Vogliamo sapere se quello che facciamo è giusto? Chiediamoci se ci avvicina agli uomini. In caso contrario cambiamo direzione, perché quel che non ci avvicina agli uomini, ci allontana da Dio. Se l’amore a Dio ci allontana dagli uomini, se sminuisce il nostro amore per gli uomini, può essere solo falso.

2) Quando riusciamo a percepire una qualità inferiore in un altro, è perché la possediamo noi. Dio vuole che ce ne accorgiamo e in tal modo ci indica anche la via del pentimento. È una norma di estrema importanza.

Nei tempi odierni, con l’allargamento della coscienza della responsabilità nei confronti non solo dei fratelli con cui vengo quotidianamente in contatto, ma anche nei confronti di tutti gli uomini con i quali mi percepisco solidale nelle conseguenze stesse dei miei stili di vita e nei confronti del creato in cui tutti viviamo come in un unico ecosistema globale, la carità, che non toglie bellezza a nessuno, la si intende volta al complesso delle relazioni di interdipendenza tra comunità e nazioni, dando pari dignità a tutti. Mi sembra il punto di convergenza della visione cristiana della vita e del desiderio di giustizia da parte degli uomini di buona volontà di ogni estrazione e credo. Quello che va sottolineato, però, è che la visione cristiana risulta così radicale da inglobare ogni altro orizzonte di ricerca di bene integrale per l’umanità.

Faccio una piccola parentesi. Dal punto di vista dell’etimologia, sviluppo significa ‘senza viluppi’, ‘senza lacci’, ‘senza impedimenti’. E se, nelle scienze naturali, sviluppo significa crescita, nelle scienze sociali sviluppo significa semplicemente cambiamento, il passare da una condizione a un’altra. Ora, perché il cambiamento comporti crescita in senso positivo, ci dobbiamo domandare: qual è il valore che dà ragione della positività del cambiamento? La risposta è appunto l’integralità dell’umano. Tre sono le dimensioni fondamentali di cui tener conto per uno sviluppo umano integrale: la crescita (l’ordine economico), la dimensione socio-relazionale (l’uomo non è soltanto un animale sociale, ma socievole, ha cioè un bisogno costitutivo degli altri per realizzare se stesso, ha bisogno di essere riconosciuto per essere se stesso), la dimensione spirituale (l’uomo non cerca solo di star bene, ma cerca il senso del vivere). Ecco, la visione cristiana difende queste tre dimensioni nella loro relazione moltiplicativa e non additiva, come dicono gli economisti. Vale a dire: uno sviluppo sostenibile, come si sente oggi sempre più parlare, comporta il perseguimento di queste tre dimensioni insieme. La logica della separazione tra queste tre dimensioni (cercare prima la crescita dei beni strumentali, con il presupposto che poi verranno anche i beni relazionali e spirituali) ha comportato il depauperamento dell’ambiente e l’aumento delle diseguaglianze.[24]

Ho ricordato queste semplici osservazioni di economisti per mettere in risalto il fondamento spirituale dell’impegno del cristiano nel mondo. Tutto il discorso sul bene comune si appella al principio di non offendere la dignità di nessuno, schierandosi dalla parte dei perdenti, delle popolazioni deboli e marginalizzate.[25] Tutto il discorso sulla via della santità, come gli antichi Padri ci hanno insegnato, si riassume nel principio: non offendere la coscienza del prossimo. Gli antichi, a differenza dei moderni, non si entusiasmavano con la ricerca della carità, ma con la ricerca delle condizioni che rendevano effettiva la carità. È caratteristico che le preghiere antiche non si concludano nella richiesta dell’amore, come se tutto consistesse nel superare il nostro egoismo e la nostra chiusura, ma nella richiesta di verità, la verità professata davanti all’amore misericordioso del Padre di cui Gesù ci mette a parte. Valga per tutte la preghiera di s. Efrem, che nella liturgia bizantina viene proclamata nove volte al giorno durante la quaresima: “Signore e Sovrano della mia vita, non darmi uno spirito di pigrizia, di dissipazione, di predominio e di loquacità. Dona invece al tuo servo uno spirito di purità, di umiltà, di pazienza e di carità. Sì, Re e Signore, fa’ che io riconosca i miei peccati e non giudichi il mio fratello, poiché tu sei benedetto nei secoli. Amen”. Accedo alla verità di Dio nel suo immenso amore per noi quando mi riconosco peccatore, non avanzando alcun diritto su nessuno, non impedendo a nessuno di accedere alla stessa verità. Ebbene, oggi, questo riconoscimento di essere peccatore, percepito nel profondo del cuore, acquisisce una nuova e più specifica dimensione universale; si gioca, cioè, anche sul piano delle relazioni con tutta l’umanità e con il creato, che di questa umanità è la casa comune.[26]

Hai visto il tuo fratello, hai visto il tuo Signore.

L’espressione che rivela la forza del realismo evangelico: “Voi siete tutti fratelli” (Mt 23,8), la trovo in questo detto dei Padri del deserto: “Lo stesso Apollo disse riguardo all’ospitalità dei fratelli: «Bisogna prostrarsi ai piedi dei fratelli che vengono: con questo ci prostriamo a Dio, e non a loro. Quando vedi il tuo fratello, vedi il Signore Dio tuo» [Es 20,2]. Questo – disse – l’abbiamo appreso da Abramo. E quando accogliete un ospite, costringetelo a prendere ristoro: questo ce l’ha insegnato Lot, che costringe gli angeli a fermarsi da lui”.[27]

Ecco, l’invito alla carità di s. Paolo, come ho cercato di illustrare poc’anzi, deriva, a sua volta, dal riconoscere fatto al Cristo ciò che è fatto all’uomo. È la conseguenza più diretta della fede nell’incarnazione, del Dio fatto uomo, che assume l’umanità in modo così integrale da confondersi non semplicemente con l’uomo, ma con il debole e il piccolo, con il minimo tra gli uomini, con l’uomo nella sua pura dimensione di umanità senza alcun altro titolo di valore, come intelligenza, ricchezza, salute, importanza, razza, fede, ecc. Per un discepolo di Gesù, in gioco, nella vita, non è semplicemente il perseguimento della giustizia, ma il fatto di perseguirla con modalità divina, cioè secondo l’umanità di Gesù. Il passo evangelico di riferimento non può che essere la famosa parabola del giudizio finale raccontata nel vangelo di Matteo (Mt 25,31-46). La parabola è capace di mostrarci quello che è in gioco nel tempo terreno dal punto di vista dell’eternità. Ci dice che il Figlio dell’uomo, il Pastore, il Re, è anche l’Agnello immolato, Colui che per noi ha dato la sua vita, Colui che è il segno per eccellenza dell’amore di Dio per l’uomo. Così, nell’invito del re: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo”, si sente l’eco dell’invito dello Sposo alla sposa nel Cantico dei cantici (c.4), l’eco dell’invito di Gesù: “Venite a me, voi tutti, che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28).  Se il regno è preparato fin dalla fondazione del mondo, significa che con il riceverlo finalmente è svelato il senso del mondo. L’annotazione comporta questo segreto: quando l’uomo fa il bene, permette che si sveli ciò che già gli appartiene perché gli è stato donato. Per questo fare il bene si risolve nel condividere il dono di Dio per tutti, non permettendo che alcuno ne resti privo.

Ma ciò che colpisce è il fatto, paradossale, che le parole di Gesù rivelino il senso insospettato delle nostre azioni. Nel bene e nel male, le nostre azioni hanno echi assai più misteriosi e infiniti di quanto siamo soliti considerare perché la storia umana non è mai stata semplicemente storia umana, bensì sempre storia sacra, storia di Dio e dell’uomo. È caratteristico che il giudizio non menzioni nessuna distinzione tra gli uomini e che nessuno abbia chiara coscienza delle conseguenze dell’agire. Non saremo giudicati sulla fede, ma sull’amore. E davanti a questo, ciò che conta è la sincerità dei cuori. E la sincerità dei cuori sembra giocarsi tutta nella solidarietà con l’umanità là dove non c’è alcun titolo speciale di gloria. Quando Gesù dice: “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” allude proprio a coloro che non hanno alcun titolo a ricevere le nostre attenzioni oltre l’appartenenza all’umanità. È la visione più radicale dell’etica ed insieme la visione più divina dell’umanità. Se già non è scontato credere che la nostra storia personale sia comunque una storia sacra, e se già è difficile credere che la nostra storia sacra costituisca l’unica forma possibile per noi per entrare in possesso della gioia del Regno che sempre sembra sfuggirci, è ancora più arduo credere che quella promessa di vita e di gioia, che sempre ci accompagna, dipenda dalla nostra solidarietà con l’umanità e non da altro. Ma qui si gioca appunto la nostra fede. Il riferire, da parte di Gesù, fatto a Lui quello che viene fatto agli uomini, comporta, da parte dei suoi discepoli, riferire fatto a Lui quello che essi fanno agli uomini. Non nel senso di voler amare Gesù in un uomo, ma nel senso di amare concretamente un uomo perché anche a lui si manifesti lo splendore dell’amore di Dio che si è rivelato in Gesù e così, solidali in umanità, ancora nel dramma della storia, ci si incammini verso ciò che costituisce il compimento della nostra storia: Dio tutto in tutti (1Cor 15,28).

Il racconto evangelico vuole introdurre al segreto di Dio per il mondo. Non esiste altra norma del bene, altro segreto di felicità: chi vive solidale con l’umanità di tutti è arrivato al segreto di Dio, in attesa di goderne la sovrabbondanza di grazia perché quel segreto inondi e sommerga ogni altro sentire, ogni altro giudizio, ogni altro pensiero, in noi stessi e in tutti, nel mondo intero.

Aggiungo anche una suggestione particolarissima di Origene a proposito di questo brano matteano. L’immagine delle pecore richiama il mistero della passione di Gesù che, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori (Is 53,7), manifesta il mistero della sua mansuetudine che lui stesso rivela: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,28-29). La bontà consiste nella partecipazione alla sua mansuetudine tanto da restare solidali con la debolezza degli uomini e in questa solidarietà ciò che Dio vede è la mansuetudine del suo Figlio. Un versetto di un salmo canta: “Beato l’uomo che ha cura del debole, nel giorno della sventura il Signore lo libera”, che l’antica versione greca rende con: “Beato colui che ha intelligenza del povero e del misero …”. Il debole non è semplicemente il fratello bisognoso, straniero, malato, carcerato, ma è proprio il Figlio dell’uomo, che ha sacrificato la sua vita per invitare tutti e ciascuno alla comunione con lui, che non abbandona pur quando è abbandonato, che non si rifiuta pur quando è rifiutato.[28] Qui risiede la radice più profonda che dà valore alla ricerca del bene integrale dell’umanità ad ogni latitudine, in questa nostra storia mondana, tenuta aperta al suo esito più sacro. Quello che papa Francesco richiama nella sua Laudato si’: “Ciò che il Vangelo ci insegna ha conseguenze sul nostro modo di pensare, di sentire e di vivere. Non si tratta tanto di parlare di idee, quanto soprattutto delle motivazioni che derivano dalla spiritualità̀ al fine di alimentare una passione per la cura del mondo. Infatti, non sarà̀ possibile impegnarsi in cose grandi soltanto con delle dottrine, senza una mistica che ci animi, senza «qualche movente interiore che dà impulso, motiva, incoraggia e dà senso all’azione personale e comunitaria»” (n. 216).[29]

Di qui scaturisce anche che il cristiano, nel suo agire nel mondo, senza nemmeno sapere bene come fare e scoprendolo tutte le volte in modo nuovo,[30] si muova come testimone del vangelo, come testimone di Gesù. Credo allora sia importante tenere ben presente che il senso della testimonianza evangelica ruota attorno a tre elementi:

  1. a) richiama l’annuncio di cui ci è fatto dono. La frequentazione delle Scritture, nel respiro della grande tradizione della Chiesa, dà la coscienza di partecipare a una storia più grande di noi, fatti segno di una grazia che, se è data a noi, non è semplicemente per noi. La capacità di annuncio, che fa da perno alla missione, implica che il nostro porci nel mondo, prima che al mondo, esprima la gioia per qualcosa che ci è stato affidato.
  2. b) si alimenta con l’intercessione. La prima forma di responsabilità nei confronti dei nostri fratelli non è giocata davanti a loro, ma davanti a Dio. Esprime la tensione interiore di un movimento che pesca nel desiderio di Dio per la salvezza di tutti e che poi accompagniamo con la nostra testimonianza. L’intercessione è la condizione di fondo che permette di finalizzare ogni impegno e fatica a che all’uomo appaia esperibile la prossimità di Dio. Induce noi a non mescolare mai interessi nostri all’opera di Dio e favorisce negli uomini la ricevibilità dell’annuncio e della testimonianza di cui portiamo la responsabilità. Risponde alla domanda: è forse possibile dare il vangelo ad una persona senza che questa ci diventi cara? Come dice Paolo: “Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari” (1Ts 2,8). Solo a patto che una persona ci diventi cara, il nostro linguaggio saprà essere concreto, capace di offrire una rivelazione vissuta e vivente che può suscitare una risposta, un lasciarsi prendere dalla nostalgia di Dio, che già tutti portano racchiusa in loro.
  3. c) si traduce in testimonianza. Cosa è realmente in gioco nella testimonianza cristiana? Quando Gesù invia i suoi discepoli in missione, dopo aver ricordato loro le prove che li attenderanno, li esorta a non avere timore: temete Dio e non gli uomini! (cfr. Mt 10,26-28). Dicendo loro che “nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto, è come se dicesse: per quanto gli uomini cerchino di contrastarvi, se non cedete alla violenza ricordate al mondo che l’amore di Dio è più forte. L’amore di Dio non riguarda gli uni o gli altri semplicemente, ma gli uni in rapporto agli altri, perché a tutti venga partecipato e dentro ciascuno si accresca con la testimonianza degli uni per gli altri. Evidentemente Gesù non intende dire che verremo risparmiati, che non subiremo violenza o morte. Vuol dire più concretamente che Dio sarà con noi anche nella morte, che Dio è implicato nella nostra morte e quello che c’era di segreto nella nostra vita sarà manifestato. Tanti esempi di testimoni moderni sono lì a ricordarcelo.

 

VERSO QUALE OBIETTIVO INDIRIZZARE LE ENERGIE

DELL’IMPEGNO DELLA CHIESA NEL MONDO?

I cristiani sono definiti anche come ‘coloro che aspettano la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo’ (1Cor 1,7). Così Paolo si rivolge ai Corinzi, che descrive ricchi di ogni carisma per la testimonianza del vangelo nel mondo, pur nella fragilità della situazione in cui versano e di cui la lettera dà ampia dimostrazione: ἀπεκδεχομένους τὴν ἀποκάλυψιν τοῦ κυρίου ἡμῶν Ἰησοῦ Χριστοῦ. Il verbo greco comporta la doppia sfumatura di saper attendere con ferma pazienza e con la tensione del cuore che anela desideroso all’evento atteso. Non solo, ma denota la tensione del cuore che si esprime sia in estensione che in profondità. Vale a dire, riguarda l’evento nel tempo (attesa di ciò che verrà) e riguarda l’evento nel cuore (attesa di ciò che emergerà, di ciò che ci sarà dato di sperimentare nel nostro stesso agire, che è appunto la rivelazione del volto di Gesù). È la questione della tensione escatologica che sorregge la liturgia della chiesa e la pratica cristiana.

Ho voluto da subito metterla in evidenza perché proprio la coscienza viva di tale tensione libera la chiesa da ogni identificazione con qualsiasi progetto ideologico, con qualsiasi obiettivo politico, con qualsiasi forma di realizzazione puramente mondana. È ciò che contraddistingue la chiesa nella sua missione di essere lievito nella pasta finché tutta sia fermentata. Rivela la libertà di muoversi senza essere asservita a nulla e a nessuno, se non al suo Signore che vuole tutti riuniti alla mensa del suo amore.

La domanda di fondo resta la seguente: qual è l’obiettivo che persegue la chiesa nel mondo? La domanda può provenire da più o meno malcelata ostilità oppure, all’opposto, dal desiderio di fedeltà al vangelo. Papa Benedetto XVI mostrava l’intendimento della chiesa con questa annotazione: “… la volontà di far sì che il lavoro e la determinazione della storia da parte dell’uomo siano un collaborare con il Creatore, prendendo da Lui la misura. Dove questa misura viene a mancare e l’uomo eleva se stesso a creatore deiforme, la formazione del mondo può facilmente trasformarsi nella sua distruzione”.[31]

Formulerei la risposta in vari passaggi.

Primo passaggio.

Parto da due testimonianze recenti. Madre Teresa di Calcutta: “Senza la nostra sofferenza, il nostro lavoro sarebbe soltanto assistenza sociale”; “Siamo tutti figli di Dio, perciò è importante condividere i suoi doni. Non preoccuparti di sapere il perché dei problemi del mondo, limitati a rispondere alle esigenze della gente. Alcuni mi dicono che fare la carità significa ridurre le responsabilità del governo verso i bisognosi e i poveri. Di questo io non mi preoccupo, perché i governi, di solito, non offrono amore”.[32] Penso a Jef De Veuster (1840-1889), p. Damiano di Molokai, l’isola dei lebbrosi nell’arcipelago delle Hawai, la cui recente canonizzazione nel 2009 da parte di papa Benedetto XVI era stata fortemente patrocinata da Madre Teresa di Calcutta: non poteva non toccare, non abbracciare i suoi lebbrosi perché diversamente avrebbe significato fare loro del bene, ma non amarli. E amarli, con la sua presenza fisica, faceva la differenza rispetto a tutti gli sforzi di curarli. Tanto che il ‘paese dei pazzi’, come era chiamata l’isola lebbrosario, è diventata terra di uomini.[33]

Questi santi non fanno che riprendere l’esperienza di s. Paolo, che invita alla carità come alla via, non semplicemente più eccellente di altre, ma alla via in assoluto eccellente. Nel cap. 13 della sua prima lettera ai Corinzi, prima di descrivere le caratteristiche della carità, ne mette in risalto l’assoluto valore con il contrapporla a quanto di più desiderabile e di più elogiativo esiste tra gli uomini. Parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, possedessi tutta la scienza, fossi così generoso da dare tutti i miei beni e perfino me stesso per sfamare gli uomini, senza avere la carità, farei solo un buco nell’acqua. Le affermazioni sono evidentemente paradossali, ma sottolineano che l’amore, richiesto ai cristiani, non è filantropia, ma partecipazione alla vita stessa di Dio, che è amore. Tanto che, stilisticamente parlando, questi primi tre versetti hanno come soggetto un ‘io’, mentre i seguenti hanno come soggetto la carità stessa. Ciò significa che l’io è svuotato di tutto il suo peso egoistico ed è diventato puro supporto all’azione della carità che ci viene donata direttamente da Dio. Quello che s. Paolo dice in altri passi delle sue lettere: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). E del Figlio di Dio che viene nel mondo dice: “svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo …” (Fil 2,7). Se è vero che la chiesa, soprattutto quando si rivolge a tutti gli uomini di buona volontà, parla il linguaggio della ragione, che tutti possono condividere in base alla stessa appartenenza alla famiglia umana, nella varietà delle ricchezze delle singole culture, il fuoco di esperienza che dà intensità alle sue ragioni è l’amore di Gesù, vera ragione fondante del suo agire e del suo parlare. La visione di umanità che cerca di esplicitare nella storia, con le sempre nuove problematiche che insorgono e i cambiamenti di orizzonti culturali che si impongono nel vivere sociale, dipende sempre dall’esperienza di intimità con l’umanità di Gesù. In tal senso, l’invito della voce celeste sul monte della trasfigurazione: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo” (Mc 9,7), comporta questa sfumatura: restate così uniti a lui, nella sua umanità, da vivere la sua stessa vita, la vita di Dio, che è amore; amate con il suo stesso amore. Il corollario, evidente per un credente, ma non affatto scontato, è che fare il bene non è ancora amare. E la chiesa non invita semplicemente a fare il bene, ma ad amare i propri fratelli.[34]

Secondo passaggio.

Che tipo di fraternità umana ha in mente la chiesa quando parla di famiglia umana? L’evangelista Matteo pone la fraternità nell’orizzonte degli annunci della passione, dentro la logica pasquale, per cui al centro non ci sono i valori o gli ideali, bensì le ferite che vengono assunte e curate. Se la fraternità è radunata nel nome di Gesù, lo è in quanto accoglie nel suo nome le ferite e i bisogni dei più piccoli, dei deboli, dei peccatori. È così che viene redenta l’ansia di grandezza degli uomini. È questa l’immagine che vale nella chiesa. Le annotazioni evangeliche a proposito della fraternità sono la declinazione, nel concreto della vita, della risposta alla domanda degli apostoli: “Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?” (Mt 18,1). Gesù aveva invitato non semplicemente a farsi piccolo, ma a umiliarsi come un piccolo: “Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli” (Mt 18,4). Il testo comporta il verbo ‘umiliare’ e la traduzione sarebbe: ‘chi umilierà se stesso come un bambino’. Gesù è proprio colui che ha umiliato se stesso, facendo risplendere, nella sua umiliazione, tutta la potenza dell’amore di Dio per gli uomini e questo è motivo della sua grandezza. Le specificazioni della vita fraterna conseguono a questa ‘umiliazione’ perché splenda l’amore.

Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te …” (Mt 18,15). È l’invito a vivere da riconciliati, a gustare il segreto di Dio che in questo comandamento si nasconde. Tanto che il progresso nella fede è concepito come un crescere nella condizione di vivere il perdono come segno di quella comunione di vita con il Cristo.

 “Tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo…” (Mt 18,18) assume il senso: se tu leghi, sarai legato; se tu sciogli, sarai sciolto. Tratteniamo un’ingiustizia? Anche Dio la trattiene nei nostri confronti. Siamo generosi con un fratello? Anche Dio lo sarà con noi. Da questo punto di vista, non è importante preoccuparsi di fare il bene, ma di non trattenere, di non legare il male di nessuno.

Proprio quello che fa dire perentoriamente a Paolo: “pienezza della Legge infatti è la carità” (Rm 13,10). Da intendere: assolto ogni altro dovere di lealtà, di onestà, di onore, verso tutti, rimane insolvibile sempre questo debito, la carità, l’unico debito di cui i fratelli portano credito sempre nei nostri confronti. Ma questo debito è percepito tale se la carità riguarda la condivisione del segreto di Dio che, nella sua misericordia, vuole gli uomini suoi figli alla tavola della vita. Al centro c’è sempre il mistero dell’amore perdonante di Dio, che libera la creatura dalle sue rivendicazioni. Ciò che rende la sapienza evangelica amabile, desiderabile, bella, nei confronti dei nostri fratelli, è appunto la misericordia, il cui esercizio esemplificherei in due atteggiamenti:

1) Quando il profeta Isaia rivela che l’inviato di Dio è ripieno dello Spirito del Signore, secondo il passo che Gesù si applicherà nella sinagoga di Nazaret, lo mostra nella sua azione di dare agli afflitti “olio di letizia invece dell’abito di lutto” (Is 61,3). Il segnale inequivocabile della presenza dello Spirito del Signore è la disposizione interiore a usare l’olio della letizia senza lasciarsi contaminare dall’amarezza della vita. Come a dire: non c’è nulla nella vita capace di intaccare la letizia della misericordia. Così è stato per Gesù, così sarà dei suoi discepoli che vogliono vivere una fraternità evangelica.

2) Paolo, nella sua lettera ai Filippesi, prima di indicare l’esempio di Gesù che “svuotò se stesso assumendo una condizione di servo” invitando ad avere i suoi stessi sentimenti, chiede due cose specifiche ai figli che ha generato nella fede: “Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri” (Fil 2,3-4). Agire diversamente vorrebbe dire perseguire la grandezza in termini carnali; vorrebbe dire voler diventare grandi sulla piccolezza degli altri, cosa abominevole presso Dio e lesivi della fraternità, l’opposto della misericordia; vorrebbe dire vedere la chiesa come un’organizzazione di partito.

E aggiungerei, per non cedere allo sconforto o alla tristizia davanti alla difficoltà del compito, che vanno tenute presenti le tre leggi dell’agire secondo lo Spirito, leggi che costituiscono le condizioni del vivere nel concreto la misericordia:

  1. cercare la gloria che viene da Dio (cfr. Gv 5,44). Significa cercare solo l’aspetto grazioso delle cose liberandosi da ogni altro vincolo. Attendere a questo libera da mille rivendicazioni inutili, che intralciano continuamente il desiderio di bene degli uomini.
  2. non si tratta di risolvere, ma di affrontare la vita con i suoi problemi e le sue complessità. Non si tratta di sapere che cosa fare, ma che cosa devo tener presente nel mio fare perché la luce del Regno splenda e conquisti. Ogni cosa si può aprire su un ‘di più’ che costituisce la dimensione del senso che renda al cuore fruibile il tutto, in vista del Regno.
  3. non è possibile attingere l’assoluto se non nella contingenza più concreta. È la legge del mistero dell’incarnazione. Così, nell’approccio con la realtà, che io non produco ma di cui sono invitato ad accogliere il mistero nella logica di rivelazione che comporta, niente è limite; tutto è porta di accesso. Se la realtà della vita non fosse percepita in questa eccedenza che apre sul Regno resteremmo soffocati o illusi e incapaci di vera solidarietà in umanità.

Terzo passaggio.

Questa visione comporta una scelta precisa dei metodi e dei mezzi per viverne lo splendore. Forse non ci si rende sufficientemente conto che il bene dell’uomo che si persegue nella società dipende dalla concezione che dell’uomo ci si fa. Ammessa una certa concezione, ne consegue l’indicazione del bene da perseguire e dei mezzi atti a raggiungerlo. Se la chiesa è avversata, credo lo sia fondamentalmente per la visione antropologica che illustra e difende a partire dalla sua fede in Gesù. Qui rientrano i grandi temi della famiglia, dell’uomo e della donna, della tutela della vita, della scelta dei poveri, dell’ordine della natura. Da questo punto di vista la visione cristiana è assolutamente singolare nel panorama culturale e religioso del mondo e diventa per noi assolutamente determinante intuirne le coordinate e la profondità, anche per discernerne le modalità operative corrispondenti senza ambiguità di sorta.

Richiamo la distinzione paolina nella sua prima lettera ai Corinzi, distinzione che permette di cogliere il senso dei suoi avvertimenti e delle sue esortazioni rispetto ai vari problemi che erano insorti nella comunità. Prima ne delimita l’orizzonte: “Vi esorto pertanto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, a essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di sentire” (1Cor 1,10). Non ci devono essere particolarismi, non ci devono essere accaparramenti ideologici di sorta, non valgono i carismi se non in riferimento all’unico Spirito che li suscita concordi per il bene comune. E continua: “Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani …Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1,22-23.25).

Per avvicinare i cuori degli uomini Dio ha messo da parte la sua potenza preferendo la debolezza (cfr Fil 2,8). Questa debolezza di Dio non svela solo l’immensità dell’amore di Dio per l’uomo, ma anche il bisogno dell’uomo per essere tale, compiuto nella sua umanità. Ed il mistero scaturisce proprio qui: l’uomo, per scoprire la sua umanità, non può non guardare a questa debolezza di Dio. Tutto ciò che è fuori da tale debolezza, risulterà illusione e causerà ulteriore sofferenza, ma sorda, tragica, insensata, che porterà divisione e non comunione, che porterà rabbia e non riposo. Ad esempio, voler il bene dell’umanità senza amare gli uomini si concluderà inevitabilmente con ulteriori sofferenze.

Credo sia da vedere in questa drammaticità della rivelazione la dimensione dell’amore del Padre che si svela nello scandalo della passione di Gesù. Tutto ciò che si riferisce al Regno (il che significa: tutto ciò che ha attinenza con il compimento dei desideri profondi del cuore nella vita) passa per l’accettazione della debolezza di Dio, che è più forte della forza degli uomini. Forse non riusciamo più a cogliere il mistero di Bene che il Signore ci squaderna. Possiamo ancora sentire la verità di quel “beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano”, eco della preghiera di lode di Gesù: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11,25) e della comunanza di vita che Gesù ci offre: “chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre” (Mt 12,50)?

La conferma della sapienza dall’alto, che apre a noi la verità della sua parola, si fonda sull’apertura di credito alla dinamica di rivelazione di Gesù, come ci suggerisce la lettera di Paolo ai Corinzi: “Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1,25). È proprio quella ‘debolezza’ che i capi dei giudei non hanno compreso, che i discepoli hanno stentato molto a comprendere, che la cultura odierna rifiuta (sembra che le due qualità che fanno difetto alla sensibilità degli uomini di oggi siano proprio l’umiltà e la gioia, che invece sono segnali della buona salute dello spirito!), che i nostri cuori, a volte, temono perfino di comprendere, ma che costituisce l’unica via di grazia per l’esperienza dell’amore di Dio e per il perseguimento del bene comune. Mirare a quella ‘debolezza’ vuol dire tenere rivolti al Signore i nostri occhi nella tensione del cuore che non si perde nelle cose, ma delle cose cerca il senso; che non si confonde con i propri pensieri, ma li apre al sogno che racchiudono per compierli in verità.

Quarto passaggio.

La prima lettera ai Corinzi si conclude con questo invito: “Vigilate, state saldi nella fede, comportatevi in modo virile, siate forti” (1Cor 16,13). È il paradosso cristiano. Proprio chi guarda alla ‘debolezza’ di Dio, chi non ricerca grandezza mondana, chi si dispone a servire i fratelli, chi si oppone a ogni violenza, proprio a lui è detto: ‘combatti’, ‘lotta’, ‘non cedere mai’, stai forte!

Quell’invito riguarda l’agire nel tempo. Come ha ricordato Emmanuel Lévinas: “il tempo non fa parte del modo d’essere di un soggetto isolato e solo, ma è la relazione stessa del soggetto con gli altri”; “la condizione del tempo sta nel rapporto fra gli esseri umani”[35]. E potremmo tradurre così il senso del tempo nella storia: ogni volta che un uomo è responsabile del fratello il tempo diventa luogo di salvezza.

Forse è eccessivo, ma sembra che prevalga nella sensibilità comune dei cristiani una certa fasulla compassione, come prevalesse una specie di irenismo incapace di un dialogo serio, dove la verità non sia esclusa e la mondanità invece rifiutata. Non si tratta evidentemente di trattare tutti come possibili proseliti, ma solo di fierezza di testimonianza, di fedeltà a un dono dato all’umanità perché fiorisca in fraternità. Da questo punto di vista, a carico dei credenti, coniugherei la cattolicità della chiesa, di cui abbiamo parlato sopra, in funzione del futuro.  In altri termini, anche il futuro fa parte della Tradizione. Non è forse così terribilmente e tragicamente facile ingombrare la bellezza e la verità evangeliche con l’impedire al futuro di ereditarle per la nostra miopia? Se io sono così miope che per le mie strettezze ideologiche, per le mie chiusure mentali, per le mie paure o altro, impedisco ad un altro, che ha un’altra storia, un’altra cultura, un altro orientamento, di poter accedere al vangelo, a tutto il vangelo, sono un cattivo testimone. Va sottolineato con forza che l’esercizio dell’intelligenza comporta sempre un esercizio di ‘cattolicità’ e viceversa. Il dimenticarsene, permette alle nostre paure o presunzioni di avere il sopravvento. E questo non lede solamente l’intelligenza della fede, ma anche la fraternità ecclesiale e umana e mina la credibilità dell’annuncio del vangelo. Se il Vangelo è promesso alle genti, fin tanto che tutte le genti non l’hanno conosciuto, la nostra stessa conoscenza del Figlio di Dio è manchevole, resta limitata. È la tensione costitutiva della chiesa alla missione. Come in un’amicizia: fin tanto che non ho trovato qualcuno che voglia bene a me, io non potrò scoprire quello che sono in verità, quello che porto e di cui sono capace. Così è con Dio. Fin tanto che tutti non l’hanno conosciuto, Dio non ha ancora avuto modo di manifestarsi in tutta la sua ricchezza. Attendere questa manifestazione, nel cuore di tutti, rende umili e adoranti e risponde al comandamento dell’amore verso tutti, anche verso i nemici, finché la gloria di Dio si manifesti compiutamente.[36]

Se Dio è il misericordioso, sperimentato nella situazione di massima lontananza da lui e non respinge il pentimento dei suoi figli[37], ciò significa che tutte le virtù o l’agire buono degli uomini, se non introducono nella misericordia verso i propri fratelli, provengono dalla millantata giustizia umana, che non ha nulla a che fare con la santità di Dio. Gli effetti da osservare sono questi: quando l’agire buono trasborda in misericordia, si è fecondi, generosi di cuore, portatori di comunione; quando l’agire buono non si traduce in misericordia, ci si irrigidisce, si resta sterili e si rende la vita temibile. Non si dimentichi che il termine ebraico che esprime misericordia è collegato all’utero materno, non solo perché allude al legame viscerale tra madre e figlio, ma soprattutto al fatto che dall’utero materno scaturisce la vita. La misericordia favorisce sempre la vita, altrui e nostra.

Quando Gesù, a sigillo dei suoi inviti ad andare oltre la Legge, ma compiendone i misteri che alludono alla rivelazione di Dio nella sua persona, dirà: “Voi dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”, non farà che far emergere in tutto il suo splendore la luminosità della santità di Dio che si rivela nella sua misericordia senza limiti all’uomo. In effetti, non c’è scritto da nessuna parte nell’Antico Testamento di amare il prossimo e odiare il nemico. Quella espressione non appartiene alla rivelazione di Dio. Al cuore dell’uomo sembrava di poter interpretare il comandamento di Lv 19,18: “Amerai il tuo prossimo come te stesso” nel senso di: “tu devi amare il tuo compagno, ma sei dispensato dall’amare il tuo nemico”. Gesù ricollega l’amore del prossimo all’imitazione di Dio, il cui nome, rivelato a Mosè sul Sinai, suona appunto: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore”. La misericordia è tipica di Dio. Nell’Antico Testamento l’aggettivo ‘misericordioso’ è attribuito solo a Dio e mai all’uomo. Il che significa che ciò che fa splendere il cuore dell’uomo è l’amore pieno di misericordia: esprime la partecipazione alla santità di Dio e la natura della ‘perfezione’ richiesta all’uomo.

A modo di conclusione.

La giustizia basata sul principio della reciprocità, alla quale gli uomini in genere si attengono, non rivela ancora lo splendore di Dio. Gesù invita alla santità come comunione di vita con Dio, alla santità come partecipazione all’amore di Dio per i suoi figli. L’invito allude alla natura stessa del cuore dell’uomo, che ha una profonda nostalgia di Dio. Non tanto però di Dio in generale, ma dei comportamenti secondo Dio, comportamenti che strutturano i sogni del cuore degli uomini. Con l’invito a quell’eccedenza, Gesù non fa che svelare le possibilità del cuore dell’uomo una volta che si lasci toccare dalla rivelazione del regno dei cieli, che in lui si fa manifesto e partecipabile.

La ‘ricompensa’ di cui parla Matteo allude all’agire che esprime la gioia del Regno di Dio che ha lambito il cuore e che rende capace l’uomo di comportarsi non in termini di pura reciprocità ma in una logica di sovrabbondanza. È la capacità che il Messia dona ai suoi discepoli, quello che un’antica colletta domanda: “possiamo conoscere ciò che è conforme alla tua volontà e attuarlo nelle parole e nelle opere”. Da interpretare: possiamo aprire il nostro cuore alla promessa di vita che la parola del Signore cela e possiamo aprire gli eventi della nostra vita al Regno che viene.

Se la Legge aveva stabilito quella che siamo soliti chiamare la legge del taglione nel tentativo di arginare la sete di vendetta di fronte alle offese, Gesù ricorda di non opporsi nemmeno al malvagio, nel senso di rispondere al male con il bene perché il male non si propaghi. Gli esempi che Mt 5,39-48 riporta hanno un valore simbolico per sottolineare l’eccedenza nel volere il bene comunque (come racconta Gv 18,22-23, Gesù non ha offerto l’altra guancia a colui che l’aveva schiaffeggiato di fronte al Sommo Sacerdote, ma ha custodito comunque il bene). ‘E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio’ allude al diritto dei funzionari del re di costringere chiunque all’aiuto richiesto, come sarà il caso del cireneo che porterà la croce di Gesù per un tratto di strada e Gesù invita ad agire non per dovere o sotto costrizione, ma in benevolenza. Tra l’altro, il verbo italiano angariare deriva dall’obbligo di una prestazione forzata imposta dalla pubblica autorità. La finale, che riassume il senso di tutti gli esempi riportati: “Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”, richiama proprio la santità di Dio che è amore per tutti i suoi figli, il cui bene precede l’agire degli uomini e quindi non ne dipende. L’eccedenza a cui allude Gesù ha proprio a che fare con questo ‘Bene’ di Dio che in Gesù si comunica all’uomo perché l’uomo non dipenda mai dal male, anche se lo subisce. La legge potrebbe essere definita come la fatica di arginare il male, mentre l’evangelo la possibilità di vincerlo. Alla fin fine solo la fiducia in quella possibilità ci rende capaci di non dar spazio al male, in tutti gli ambiti in cui si manifesta.


p. Elia Citterio

Fratelli contemplativi di Gesù

www.contemplativi.it


[1] BENEDETTO XVI, Caritas in veritate (2009), n. 5.

[2] Papa FRANCESCO, Laudato si’ (2015), n. 226.

[3] Faccio notare che, nella tradizione ebraico-cristiana (cfr Es 20, con la proclamazione del decalogo), Dio viene denominato a partire dal riferimento della liberazione del popolo dalla schiavitù dell’Egitto: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile”. Ciò significa che fondamentalmente Dio è definito come Dio della libertà nella storia, vale a dire che la storia è considerata come una continua rivelazione della graduale crescita della libertà e della giustizia sulla terra.

[4] CCC 830-856.

[5] Cirillo e Giovanni di Gerusalemme, Le catechesi ai misteri. Traduzione, introduzione e note a cura di A. Quacquarelli, Roma 1977, Città Nuova: Catechesi XVIII prebattesimale, n. 23, pag. 40. Nella versione latina di PG 33, 1043-1044: “Catholica enimvero [seu universalis] vocatur eo quod per totum orbem ab extremis terrae finibus ad extremos usque fines diffusa est. Et quia universe et absque defectu docet omnia quae in hominum notitiam venire debent dogmata, sive de visibilibus et invisibilibus, sive de coelestibus et terrestribus rebus. Tum etiam eo, quod omne hominum genus recto cultui subjiciat, principes et privatos, doctos et imperitos. Ac denique, quia generaliter quidem omne peccatorum genus quae per animam et corpus perpetrantur, curat et sanat; eodem vero omne possidet, quovis nomine significetur, virtutis genus, in factis et verbis, et spiritualibus cujusvis specie donis”.

[6] Dalla Lumen Gentium: “E siccome la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano, continuando il tema dei precedenti Concili, intende con maggiore chiarezza illustrare ai suoi fedeli e al mondo intero la propria natura e la propria missione universale” (LG 1); “Tutti gli uomini sono chiamati a formare il popolo di Dio. Perciò questo popolo, pur restando uno e unico, si deve estendere a tutto il mondo e a tutti i secoli, affinché si adempia l’intenzione della volontà di Dio, il quale in principio creò la natura umana una e volle infine radunare insieme i suoi figli dispersi” (cfr. Gv 11,52) (LG 13); “E invero il Cristo, quando fu levato in alto da terra, attirò tutti a sé (cfr. Gv 12,32 gr.); risorgendo dai morti (cfr. Rm 6,9) immise negli apostoli il suo Spirito vivificatore, e per mezzo di lui costituì il suo corpo, che è la Chiesa, quale sacramento universale della salvezza” (LG 48).

[7] Si veda Louis GINZBERG, Le leggende degli ebrei, a cura di Elena Loewenthal, Milano 1995-2003, Adelphi, 4 voll.

[8] Cfr. Louis GINZBERG, Le leggende degli ebrei, vol. I, Dalla creazione al diluvio, Milano 1999, 2° ed., Adelphi, p. 23-26.

[9] Cfr. Timothy VERDON, Cristo nell’arte europea, Milano 2006, Electa, p. 16-18.

[10] L’invio dello Spirito a Pentecoste unisce tutti nella stessa lode. Si veda E. CITTERIO, L’intelligenza spirituale delle Scritture, Bologna 2008, EDB, pagg. 242-250.

[11] A Diogneto, in I padri apostolici. Traduzione, introduzione e note a cura di Antonio Quacquarelli, Roma 1976, Città nuova, pp. 353-363: VI,357-358. L’edizione critica è a cura di Henri Irénée Marrou, A Diognète, Paris 1965, 2° ed., Du cerf (Sources chrétiennes n. 33 bis).

[12] Nella riflessione di Marrou, le parole tra virgolette sono parole del card. Charles Journet, teologo svizzero, creato cardinale da Paolo VI nel 1966, che ha giocato un ruolo considerevole nella redazione della Costituzione Gaudium et Spes del Concilio Ecumenico Vaticano II, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. Si trovano nel suo Exigences chrétiennes en politique, Paris, 1945, p. 426-427. La citazione in A Diognète, SC 33 bis, p. 175.

[13] A Diognète, p. 175-176.

[14] Un esempio tipico è il commento al Padre Nostro da parte di Massimo Confessore. Il testo si può leggere in E. CITTERIO, La vita spirituale, i suoi segreti, Bologna 2005, EDB, pp. 213-235.

[15] Cfr. Alberto MELLO, Evangelo secondo Matteo, Bose 1995, Qiqajon, p. 110.

[16] Come dice s. Cirillo di Alessandria: “La Chiesa è una città santa, i cui abitatori ritengo siano coloro che raggiungono la santità per mezzo del pane vivo”, Sull’adorazione in spirito e verità, lib. 3, PG 68,290.

[17] Come splendidamente diceva Paolo VI nella sua omelia al Quezon Circle di Manila nel 1970: “Gesù Cristo: voi ne avete sentito parlare; anzi voi, la maggior parte certamente, siete già suoi, siete cristiani. Ebbene, a voi cristiani io ripeto il suo nome, a tutti io lo annuncio: Gesù Cristo è il principio e la fine; l’alfa e l’omega; Egli è il Re del nuovo mondo; Egli è il segreto della storia; Egli è la chiave dei nostri destini; Egli è il mediatore, il ponte, fra la terra e il cielo; Egli è per antonomasia il Figlio dell’uomo, perché Egli è il Figlio di Dio, eterno, infinito; è il Figlio di Maria, la benedetta fra tutte le donne, sua madre nella carne, e madre nostra nella partecipazione allo Spirito del Corpo mistico.
Gesù Cristo! Ricordate: questo è il nostro perenne annuncio, è la voce che noi facciamo risuonare per tutta la terra (Cfr. Rom. 10, 18), e per tutta la fila dei secoli (Rom. 9, 5). Ricordate e meditate: il Papa è venuto qua fra voi, e ha gridato: Gesù Cristo!”.

[18] “Tutti i giusti, a partire da Adamo, dal giusto Abele fino all’ultimo eletto, saranno riuniti presso il Padre nella Chiesa universale”, LG 2.

[19] “Essere non di questo mondo non significa non essere nel mondo, non essere qui, ma significa avere un proprio essere interiore libero dalle cose di questo mondo, al di sopra delle cose di questo mondo, e dunque avere in sé il segno della vittoria sul mondo e vincerlo (Gv 16,33; Ap 2,21; 5,5). La trascendenza al mondo dell’essere e l’immanenza al mondo dell’azione: questo significa essere santi o essere non di questo mondo”: Pavel A. FLORENSKIJ, Il concetto di chiesa nella sacra Scrittura, a cura di N. Valentini e L. Zak, Cinisello Balsamo MI 2008, San Paolo, p. 198.

[20] Si vedano due interventi memorabili di papa Paolo VI nell’allocuzione all’ultima sessione pubblica del Concilio Ecumenico Vaticano II del 7 dicembre 1965 e l’Omelia del 29 novembre 1970 a Manila.

[21] Ora edito con il titolo: L’aubaine d’être né en ce temps. Pour un apostolat de l’apocalypse, Paris 2015, Editions de l’Emmanuel.

[22] È curioso osservare che, se è raro incrociare un ateo militante, è molto frequente incontrare un fan del buddhismo. Nel campus di Google, non ci sono chiese, ma una sala di meditazione zen, perché il buddhismo è prima di tutto una tecnica di meditazione.

[23] Nella Laudato si’, papa Francesco ama parlare di ‘sviluppo sostenibile e solidale’ e di ‘ecologia integrale’, anche se mette in guardia sull’uso del termine sostenibile: “In questo quadro, il discorso della crescita sostenibile diventa spesso un diversivo e un mezzo di giustificazione che assorbe valori del discorso ecologista all’interno della logica della finanza e della tecnocrazia, e la responsabilità sociale e ambientale delle imprese si riduce per lo più a una serie di azioni di marketing e di immagine” ( n. 194). Invece in Evangelii gaudium papa Francesco non sfrutta il termine ‘sostenibile’, ma quello di ‘integrale’.

[24] Si veda il recente volume dell’economista Branko MILANOVIC, Global inequality, ora tradotto in italiano: Ingiustizia globale. Migrazioni, disuguaglianze e il futuro della classe media, 2017, Luiss university press.

[25] Dalla Laudato si’, n. 158: “Il principio del bene comune si trasforma immediatamente, come logica e ineludibile conseguenza, in un appello alla solidarietà̀ e in una opzione preferenziale per i più poveri. Questa opzione richiede di trarre le conseguenze della destinazione comune dei beni della terra, ma, come ho cercato di mostrare nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium [nn. 186-201], esige di contemplare prima di tutto l’immensa dignità̀ del povero alla luce delle più profonde convinzioni di fede. Basta osservare la realtà̀ per comprendere che oggi questa opzione è un’esigenza etica fondamentale per l’effettiva realizzazione del bene comune”.

[26] In termini di etica, non vale solo la responsabilità individuale, ma quella oggettiva, adiaforica, che si riscontra nelle istituzioni economico-politiche e deriva da una successione sedimentata di abitudini. È il discorso sulle ‘strutture di peccato’, ripreso in particolare da Giovanni Paolo II nella sua Sollicitudo rei socialis (1987).

[27] Vita e detti dei Padri del deserto, a cura di Luciana Mortari, Roma 1975, Città nuova, vol. I, p. 148 (Apollo, 3).

[28] Io richiamerei qui all’esercizio di quella intelligenza che Paolo VI esortava a perseguire: “E se è vero che il mondo soffre per mancanza di pensiero, Noi convochiamo gli uomini di riflessione e di pensiero, cattolici, cristiani, quelli che onorano Dio, che sono assetati di assoluto, di giustizia e di verità: tutti gli uomini di buona volontà. Sull’esempio di Cristo, Noi osiamo pregarvi pressantemente: “Cercate e troverete”, aprite le vie che conducono, attraverso l’aiuto vicendevole, l’approfondimento del sapere, l’allargamento del cuore, a una vita più fraterna in una comunità umana veramente universale” (Populorum progressio, 85).

[29] Cfr. Evangelii gaudium (2013), n. 261.

[30] Cfr. Laudato si’, 121: “Si attende ancora lo sviluppo di una nuova sintesi che superi le false dialettiche degli ultimi secoli. Lo stesso cristianesimo, mantenendosi fedele alla sua identità e al tesoro di verità che ha ricevuto da Gesù Cristo, sempre si ripensa e si riesprime nel dialogo con le nuove situazioni storiche, lasciando sbocciare così la sua perenne novità”. E cita Vincenzo di Lérins (morto verso il 450), Commonitorio, c. 23: “Anche il dogma della religione cristiana deve seguire queste leggi. Progredisce, consolidandosi con gli anni, sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età. È necessario però che resti sempre assolutamente intatto e inalterato”.

[31] Intervento di Papa Benedetto XVI al Collège des Bernardins nel 2008.

[32] Madre Teresa con Lucinda Vardey, Il cammino semplice, Milano 1995, Mondadori.

[33] Si veda Jan de VOLDER, San Damiano di Molokai. L’apostolo dei lebbrosi, Cinisello Balsamo (MI) 2010, San Paolo. Interessante e ben documentato il film del 1999 diretto da Paul Cox, Molokai: The Story of Father Damien.

[34] Ecco un testo molto bello di San Zenone di Verona sulla carità: “29. O carità, quanto sei pia, quanto sei ricca, quanto sei potente! Nulla possiede chi non possiede te. Tu sei stata capace di mutare Dio in uomo. Tu, dopo averlo ridotto entro limiti umani, per qualche tempo l’hai fatto peregrinare lontano dall’immensità della sua potenza sovrana. Tu per nove mesi l’hai relegato in un carcere verginale. Tu hai reintegrato Eva in Maria. Tu in Cristo hai rinnovato Adamo. Tu al mondo, ormai perduto, hai procurato la croce santa per la sua salvezza. Tu, a Dio insegnando a morire, hai debellato la morte. È tuo merito che, quando Dio, Figlio di Dio onnipotente, viene ucciso dagli uomini, nessuno d’entrambi si adiri. 30. Tu hai l’anima del popolo celeste, in quanto assicuri la pace, custodisci la fede, abbracci l’innocenza, coltivi la verità, ami la pazienza, additi la speranza. Tu, per la comune natura, rendi uomini diversi per costumi, età, potere, un solo spirito e un solo corpo. Tu permetti che nessun tormento, nessun nuovo genere di morte, nessuna ricompensa, nessuna amicizia, nessun vincolo d’affetto — senza dubbio più temibile d’ogni carnefice per lo strazio provocato dalla tenerezza — distolgano i gloriosi martiri dal confessare il nome cristiano. 31. Tu sei lieta di essere nuda per vestire chi è nudo. Se un povero affamato mangia il tuo pane, la fame diventa per te sazietà. La tua ricchezza consiste nel possedere tutto ciò che possiedi per soccorrere i bisognosi. Tu sola non sai essere pregata. Tu prontamente trai in salvo gli oppressi, in qualunque angustia si trovino, anche a prezzo della tua vita. Tu sei l’occhio dei ciechi. Tu sei il piede degli zoppi. Tu sei per le vedove validissimo scudo. Tu per i pupilli sei padre migliore d’entrambi i genitori. Compassione o gioia non consentono che i tuoi occhi rimangano mai senza lacrime. Tu ami talmente i tuoi nemici, che nessuno riesce a distinguere quale differenza ci sia per te tra loro e i tuoi cari. 32. Tu, lo affermo, unisci gli arcani celesti agli umani, gli umani ai celesti. Tu custodisci i divini misteri. Tu nel Padre comandi, Tu nel Figlio obbedisci a te stessa, tu esulti nello Spirito Santo. Tu, pur essendo una in tre, non sei in alcun modo divisa, non ti lasci turbare dalle interpretazioni maligne della curiosità umana. Dalla fonte del Padre ti riversi interamente nel Figlio, e tuttavia, pur riversandoti tutta, non vieni meno. Giustamente ti chiamano Dio, perché sola governi la potenza della Trinità”, in I Discorsi, Milano-Roma 1987, Biblioteca ambrosiana-Città nuova (Scrittori dell’area santambrosiana, 1), Disc. I, 36, 29-32, p. 155-157. Un altro testo assai prezioso è il libricino del pastore protestante, missionario in Africa, Henry Drummond, The greatest thing in the world, pubblicato da Bompiani a cura di Paulo Coelho con il titolo Il dono supremo, Milano 2007, 2° ed., da me consultato in versione digitale del 2014, dove viene presentato il messaggio della prima lettera di Paolo ai Corinzi, con l’inno alla carità.

[35] E. LÉVINAS, Il tempo e l’altro, Genova 2001, 3° ed., Il melangolo, p. 17 e 57.

[36] Un suggerimento positivo è quello fornito da Frère JOHN DI TAIZÉ, Un’amicizia e i molti amici. Reimmaginare la Chiesa cristiana nel tempo della mondializzazione, Bologna 2012, EDB.

[37] Occorre riandare al contesto in cui il nome di Dio era stato proclamato per cogliere la portata della santità che definisce Dio nei confronti dei suoi figli e che abilita i suoi figli ad essere tali, come a Lui è gradito, per rivelare al mondo la grandezza del suo amore. Il popolo nel deserto, esasperato e impaziente, costruisce il vitello d’oro e rifiuta l’alleanza con il suo Dio che non sentiva più accanto. Quando Mosè discende dal monte e vede l’idolo eretto nell’accampamento si infuria, spezza le tavole della Legge e cade in profonda prostrazione: cosa farà ora il Signore? Starà ancora dalla parte del suo popolo? E di me che ne sarà? Mosè sta solidale con la sua gente, ricorda a Dio che questo è il suo popolo e per essere confermato chiede a Dio di vedere la sua gloria. E quando la gloria del Signore gli si manifesta, ode la proclamazione del nome: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso …” (Es 34,6). Dio è ‘colui che usa misericordia’ e Gesù questo svela nella sua persona e nella sua vita e la Chiesa se ne fa testimone nel mondo.