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La vita religiosa, intesa come un determinato stile di vita nella Chiesa, come una sequela particolare di Gesù secondo i consigli evangelici di castità, obbedienza e povertà, è forse chiamata a titolo speciale nella Chiesa all’esercizio della misericordia? Se la Chiesa non è che il mistero della riconciliazione in atto nella storia (cfr. 2Cor 5,19: “Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo, affidando a noi la parola della riconciliazione”), allora la vita religiosa è vita consacrata nel senso appunto che è tutta dedita a mostrare in atto l’opera della riconciliazione nel mondo. Ma la riconciliazione è il mistero stesso di Dio svelato nelle sue viscere di misericordia per i suoi figli, che vuole in comunione con sé, nel suo Figlio dato per noi, tanto che il loro amore vicendevole faccia splendere la Sua Presenza. È il sogno, per noi stessi e per tutti: avere la possibilità concreta di vivere nella benevolenza senza antagonisti né avversari né tanto meno nemici. È la realizzazione della vocazione dell’uomo come essere per la comunione. La vita religiosa sarebbe lo spazio di visibilità nel mondo per la realizzazione appunto della vocazione all’umanità, radicati in Cristo, mossi dal suo Spirito.

La testimonianza nel mondo della vita religiosa.

Se la vita religiosa prende il suo senso dal mistero della riconciliazione, allora non può che fiorire nella tensione di assecondare ad ogni costo, al di sopra di tutto, ciò che di quella riconciliazione è l’anima, cioè la misericordia. Non che la vita religiosa costituisca il contesto ideale per l’esercizio della misericordia. La misericordia vale per la vita religiosa come per la vita familiare, allo stesso titolo. La differenza va ricercata in un altro aspetto. Se per la vita familiare vale la misericordia nel contesto di legami affettivi sanciti dal dono reciproco dell’uno per l’altra, liberamente scelti, nella vita religiosa l’esercizio della misericordia deriva dalla radicalità di fedeltà alla parola del Signore, vissuta come radice di affetti secondo l’invito di Gesù: “Poi, tendendo la mano verso i suoi discepoli, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre» (Mt 12,49-50). Il religioso è colui che fa professione della possibilità di vivere la comunione con i fratelli, partendo da quelli che con lui scelgono lo stesso tipo di vita senza però scegliersi per poterlo vivere, realizzando la sua umanità, proprio in ragione della sequela di Gesù. Da questo punto di vista, la vita religiosa ha qualcosa di speciale di cui portare testimonianza, nella Chiesa, di fronte al mondo.  Perché coltivare la misericordia non vuol dire sforzarsi di essere generosi con il proprio fratello, ma coltivarsi nell’apertura all’esperienza dell’amore di Dio, al riconoscimento del suo agire nella nostra vita, allo splendore della sua presenza, alla condivisione dei suoi sentimenti.

Perché Dio cerca la misericordia? Perché essa sola è segno della Sua presenza, splendore della Sua grazia. In effetti, il ‘sacrificio’ che non parla della Sua misericordia mortifica e basta. La ragione profonda mi sembra questa: ciò che conta nella testimonianza della vita è l’accondiscendenza allo splendore del Suo amore. Più risulta autentica quell’accondiscendenza, più il suo amore, supplicato, accolto e condiviso, risplende nel mondo. E questo corrisponde alla gloria di Dio. Ora, l’accondiscendenza a quello splendore ci fa gustare la misericordia di Dio e ci dispone a ricercarla e a viverla come dono supremo, come il tesoro più prezioso del cuore.

La dimensione evangelica della vita religiosa.

Il fatto che la misericordia riveli il buon stato di salute della vita religiosa deriva dalla dimensione evangelica della vita fraterna. L’evangelista Matteo pone la fraternità nell’orizzonte degli annunci della passione, dentro la logica pasquale, per cui al centro non ci sono i valori o gli ideali, bensì le ferite che vengono assunte e curate. Se la fraternità è radunata nel nome di Gesù, lo è in quanto accoglie nel suo nome le ferite e i bisogni dei più piccoli, dei deboli, dei peccatori.

Così viene redenta l’ansia di grandezza degli uomini. Le annotazioni evangeliche a proposito della fraternità sono la declinazione, nel concreto della vita, della risposta alla domanda degli apostoli: “Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?” (Mt 18,1). Gesù aveva invitato non semplicemente a farsi piccolo, ma a umiliarsi come un piccolo: “Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli” (Mt 18,4). Il testo comporta il verbo ‘umiliare’ e la traduzione sarebbe: ‘chi umilierà se stesso come un bambino’. Gesù è proprio colui che ha umiliato se stesso, facendo risplendere, nella sua umiliazione, tutta la potenza dell’amore di Dio per gli uomini e questo è motivo della sua grandezza. Le specificazioni della vita fraterna conseguono a questa ‘umiliazione’ perché splenda l’amore.

Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te …” (Mt 18,15). È l’invito a vivere da riconciliati, a gustare il segreto di Dio che in questo comandamento si nasconde. Tanto che il progresso nella fede è concepito come un crescere nella condizione di vivere il perdono come segno di quella vita immortale condivisa con il Cristo.

 “Tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo…” (Mt 18,18) assume il senso: se tu leghi, sarai legato; se tu sciogli, sarai sciolto. Non tratteniamo un’ingiustizia? Anche Dio non la trattiene nei nostri confronti. Siamo generosi con un fratello? Anche Dio lo sarà con noi. Da questo punto di vista, non è importante preoccuparsi di fare il bene, ma di non trattenere, di non legare il male di nessuno.

Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro’ (Mt 18,20) non allude principalmente alla preghiera, ma al perdono scambievole, alla riconciliazione accolta che testimonia proprio la presenza di Cristo non solo in noi, non solo in mezzo a noi, ma nel mondo, perché l’evento della riconciliazione parla direttamente al mondo della presenza di Dio. La pace fra fratelli, data e accolta, costituisce l’unica condizione di sincerità della preghiera e quindi del suo esaudimento.

Proprio quello che fa dire perentoriamente a Paolo: “pienezza della Legge infatti è la carità” (Rm 13,10). Da intendere: assolto ogni altro dovere di lealtà, di onestà, di onore, verso tutti, rimane insolvibile sempre questo debito, la carità, l’unico debito di cui i fratelli portano credito sempre nei nostri confronti. Ma questo debito è percepito tale se la carità riguarda la condivisione del segreto di Dio che, nella sua misericordia, vuole gli uomini suoi figli alla tavola della vita. Al centro c’è sempre il mistero dell’amore perdonante di Dio, che libera la creatura dalle sue rivendicazioni.

Avviene, per i fratelli che vivono insieme, quello che è avvenuto per Balaam, come è raccontato nel libro dei Numeri. Balaam era stato cooptato da Balak, re di Moab, per maledire i suoi nemici, cioè Israele (per favorire noi il diavolo sempre ha bisogno di muoverci contro i fratelli!). Nonostante le buone intenzioni per favorire il suo re, l’indovino sapeva che non si sarebbe sottratto alla visione che il Signore gli avrebbe ispirato. E così, invece di maledire Israele, si trovò a benedirlo. Interessante la sua dichiarazione di accettazione della visione: “Oracolo di Balaam, figlio di Beor, e oracolo dell’uomo dall’occhio penetrante; oracolo di chi ode le parole di Dio e conosce la scienza dell’Altissimo, di chi vede la visione dell’Onnipotente, cade e gli è tolto il velo dagli occhi” (Nm 24,15-16). Il punto di verità è la visione dell’Onnipotente, non nel senso di vedere l’Onnipotente, ma nel senso di vedere ciò che vede l’Onnipotente. Il cuore è sincero se punta a quella verità, la verità dell’amore di benevolenza di Dio che non si piega a nessuna ragione contraria, per quanto pressante possa apparire.

La misericordia custodisce la verità della benevolenza di Dio.

Come custodirci per vedere sempre quella verità? Qui collocherei l’esercizio della misericordia tipico della vita religiosa. Si tratta di aver accesso a quella sapienza evangelica, definita nella lettera di Giacomo come una ‘sapienza che viene dall’alto, pura, pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera’ (cfr. Gc 3,17). Tutte le caratteristiche che Giacomo descrive sono esemplificate in termini di sottomissione, umiltà, magnanimità, pazienza, senza lamentele vicendevoli. Perché? Per assaporare la vicinanza del regno dei cieli. La sapienza come visione e gusto di quella vicinanza: questa è la testimonianza, nel mondo, della vita religiosa. E la misericordia non è semplicemente uno degli elementi necessari a costituire quella sapienza, ma il timbro, il sapore, lo splendore di quella sapienza evangelica, quella che la rende amabile, desiderabile, bella, nei confronti dei nostri fratelli.

In particolare, esemplificherei l’esercizio concreto della sapienza evangelica in due inviti precisi che faranno splendere la misericordia:

1) Quando il profeta Isaia rivela che l’inviato di Dio è ripieno dello Spirito del Signore, secondo il passo che Gesù si applicherà nella sinagoga di Nazaret, lo mostra nella sua azione di dare agli afflitti “olio di letizia invece dell’abito di lutto” (Is 61,3). Il segnale inequivocabile della presenza dello Spirito del Signore è la disposizione interiore a usare l’olio della letizia senza lasciarsi contaminare dall’amarezza della vita. Come a dire: non c’è nulla nella vita capace di intaccare la letizia della misericordia. Così è stato per Gesù, così sarà dei suoi discepoli che vogliono vivere una fraternità evangelica.

2) Paolo, nella sua lettera ai Filippesi, prima di indicare l’esempio di Gesù che “svuotò se stesso assumendo una condizione di servo” invitando ad avere i suoi stessi sentimenti, chiede due cose specifiche ai figli che ha generato nella fede: “Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri” (Fil 2,3-4). Agire diversamente vorrebbe dire perseguire la grandezza in termini carnali; vorrebbe dire voler diventare grandi sulla piccolezza degli altri, cosa abominevole presso Dio e lesivi della fraternità, l’opposto della misericordia.

Tenendo presenti queste tre leggi dell’agire secondo lo Spirito, leggi che agiscono come le condizioni per vivere la misericordia:

  1. a) cercare la gloria che viene da Dio (cfr. Gv 5,44). Significa cercare solo l’aspetto grazioso delle cose liberandosi da ogni altro vincolo. Sotto questo aspetto di grazia le cose potrebbero benissimo essere diverse nella vita, ma non migliori. Rendersi conto di questo libera da mille rivendicazioni inutili.
  2. b) la domanda di fondo non suona: cosa devo fare per entrare nel Regno? Piuttosto: cosa devo tener presente nel mio fare perché la luce del Regno splenda e conquisti il mio cuore e renda tutto godibile? Ogni cosa si può aprire su un ‘di più’ che costituisce la dimensione del senso che renda al cuore godibile tutto, in vista del Regno.
  3. c) non è possibile attingere l’assoluto se non nella contingenza più concreta. Niente è limite; tutto è porta di accesso. Se la realtà della vita non fosse percepita in questa eccedenza che apre sul Regno resteremmo soffocati o illusi e incapaci di vera solidarietà in umanità. In altre parole, incapaci di adorare e di vivere in letizia, i battenti della porta della misericordia.