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(testo di p. Elia Citterio, pubblicato in AA.VV., a cura di G. Spirito, I Padri del deserto tra i francescani, Ed. Messaggero, Padova, 2007, pp. 247-263)

È interessante osservare l’esperienza di Francesco come testimonianza della ricchezza e della forza di tutta la Tradizione, d’Occidente e d’Oriente, della Chiesa indivisa[1]. Per Francesco la regola suprema è l’osservanza del santo vangelo, quando la distinzione tra precetti e consigli evangelici, sviluppatasi poi in Occidente, non era ancora spuntata. Così, quello che Giovanni Crisostomo esprime a proposito della vita cristiana, può essere sottoscritto tanto da Pacomio, Basilio Magno, Pseudo-Macario, Teodoro Studita come da Francesco: “Ora ti mostrerò qual è la vita cristiana: povertà di spirito, lacrime di compunzione, mansuetudine, pace, misericordia, elevazione contemplativa della mente verso Dio, disprezzo del denaro, odio per il mondo, frugalità, continenza, amare Dio che ci ha creato ed è morto per noi, sopra ogni cosa, più del coniuge, dei figli, dei genitori, dei fratelli. Sarebbe un errore mostruoso credere che il monaco deve condurre una vita più perfetta, mentre gli altri potrebbero anche non preoccuparsi … Gente del mondo e monaci hanno lo stesso dovere: tendere alla medesima cima di santità” [2].

Il ‘mysterium paupertatis’, che così singolarmente caratterizza la forma di vita francescana e che così acutamente viene rivelato in tutte le sue sfaccettature da Francesco nelle sue Admonitiones, uguali nello spirito e nella forma ai Detti dei Padri del deserto, procede dallo stesso intuito dei Padri che riflettono sul mistero dell’Incarnazione e che può essere espresso con Nicola Cabasilas: “ La povertà in spirito … di chi può essere se non di coloro che conoscono la povertà di Gesù? Essendo il Signore, ha condiviso la natura e il modo di vivere dei servi; essendo Dio, si è fatto carne; lui che ci fa ricchi ha scelto la povertà, il re della gloria ha sofferto l’ignominia, per la liberazione del genere umano si è lasciato ridurre in catene …” [3].

Povertà, per Francesco, accettata nella sua radicalità interiore ed esteriore tanto da diventare ‘pazzo per l’amore di Cristo’, da essere l’ultimo, disprezzato da tutti, mai desiderando di essere sopra gli altri, ma anzi servo e soggetto ad ogni umana creatura per amore di Dio[4]. L’Oriente ben conosce questa categoria agiografica. Ama questi ‘pazzi’ per il loro amore infinito al Cristo umile e crocifisso, per la loro profezia escatologica del Regno e lo smascheramento dell’ambiguità di questo mondo, identificati ai miserabili della terra, solidali con loro e con le loro sofferenze, così puri e semplici di cuore da apparire bambini. Uomini, come Francesco, dalla preghiera ininterrotta[5], capaci di ‘vedere Dio’ in un cuore dall’atmosfera tersa e luminosa[6], totalmente assorti nel loro Dio in una continua meditazione del nome di Gesù[7], avvolti dalla luce divina[8], secondo la più ortodossa tradizione esicasta.

Due tratti, in particolare, fanno risaltare l’originalità della persona e la vitalità della Tradizione della Chiesa indivisa in Francesco: la potenza del suo discorso teologico e la visione ‘fraterna’ delle creature.

  1. A) Nella Lettera a tutto l’Ordine Francesco dice di se stesso ‘ignorans sum et idiota’, ‘ignorante e incolto’[9]. Invita: “coloro che non sanno di lettere, non si preoccupino di apprenderle[10]. Riporta il Celano: “Mentre dimorava presso Siena, vi capitò un frate dell’Ordine dei predicatori, uomo spirituale e dottore in sacra teologia. Venne dunque a far visita al beato Francesco e si trattennero a lungo insieme, lui e il Santo in dolcissima conversazione sulle parole del Signore (cfr Gv 3,34). Poi il maestro lo interrogò su quel detto di Ezechiele: Se non manifesterai all’empio la sua empietà, domanderò conto a te della sua anima (Ez 3,18-20). Gli disse: «Io stesso, buon padre, conosco molti ai quali non sempre manifesto la loro empietà, pur sapendo che sono in peccato mortale. Forse che sarà chiesto conto a me delle loro anime?». E poiché Francesco si diceva ignorante e perciò degno più di essere da lui istruito, che di rispondere sopra una sentenza della Scrittura, il dottore aggiunse umilmente: «Fratello, anche se ho sentito alcuni dotti esporre questo passo, tuttavia volentieri gradirei a questo riguardo il tuo parere». «Se la frase va presa in senso generico, – rispose Francesco – io la intendo così: Il servo di Dio deve avere in se stesso tale ardore di santità di vita, da rimproverare tutti gli empi con la luce dell’esempio e l’eloquenza della sua condotta. Così, ripeto, lo splendore della sua vita ed il buon odore della sua fama, renderanno manifesta a tutti la loro iniquità». Il dottore rimase molto edificato, per questa interpretazione, e mentre se ne partiva, disse ai compagni di Francesco: «Fratelli miei, la teologia di questo uomo, sorretta dalla purezza e dalla contemplazione, vola come aquila (Gb 9,26). La nostra scienza invece striscia terra terra» (cfr Gen 1,20)” [11].

La teologia di Francesco procede dall’esperienza dello Spirito: “Poiché Dio è Spirito, non può essere visto che con lo Spirito; è infatti lo Spirito che dà la vita, la carne invece non giova a nulla[12], nella più pura tradizione patristica, come dice lo Pseudo-Macario: “Le cose di Dio infatti vengono conosciute nella verità, grazie alla sola esperienza, da coloro nei quali i misteri operano degnamente” [13]. Ed operano in tutta sapienza e semplicità[14] nel cuore di Francesco dove agisce con potenza l’energia dello Spirito: “ E fermamente sappiamo che non appartengono a noi se non i vizi e i peccati. E dobbiamo godere quando siamo esposti a diverse prove (Gc 1,2), e quando possiamo sostenere qualsiasi angustia o afflizione di anima e di corpo in questo mondo in vista della vita eterna.  Quindi tutti noi frati guardiamoci da ogni superbia e vana gloria.  Difendiamoci dalla sapienza di questo mondo e dalla prudenza della carne (cfr. Rm 8,6-7).  Lo spirito della carne, infatti, vuole e tenta di parlare molto ma di fare poco, e cerca non la religiosità e la santità interiore dello spirito, ma vuole e desidera una religiosità e una santità che appaia al di fuori agli uomini.  È di questi che il Signore dice: In verità vi dico, hanno ricevuto la loro ricompensa (Mt 6,2).  Lo spirito del Signore invece vuole che la carne sia mortificata e disprezzata, vile, abbietta,  e ricerca l’umiltà e la pazienza, la pura e semplice e vera pace dello spirito;  e sempre e soprattutto desidera il timore divino e la divina sapienza e il divino amore del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo[15].

L’esperienza religiosa di Francesco, come quella dell’oriente cristiano, è visione della santa Trinità: del Padre come mistero di Carità; del Figlio ad immagine del quale l’uomo è stato fatto e tramite il quale è redento fino a diventare ‘in tutto simile a Cristo’; dello Spirito nel quale il Padre, attraverso Cristo, cessa di essere mistero inaccessibile e diventa il Dio-con-noi. Quello Spirito che non solo ha ispirato le Scritture, ma che le rende vive e attuali per noi che le leggiamo oggi operando la nostra salvezza; quello stesso Spirito che ci unisce a Cristo e continua a ‘cristificarci’ con il mistero dell’eucaristia; quello Spirito che geme in ogni cosa e che rende il cuore dell’uomo santo interprete e voce di e per tutte le creature nella lode al Creatore.

  1. B) Qui si innesta il secondo tratto di cui si diceva, la capacità ritrovata di una nuova visione ‘fraterna’ delle creature in un respiro universale. Per Francesco il termine ‘fratello’ o ‘sorella’ resta l’appellativo privilegiato per rivolgersi agli esseri creati, come annota il Celano : “E finalmente chiamava tutte le creature col nome di fratello e sorella, intuendone i segreti in modo mirabile e noto a nessun altro, perché aveva conquistato la libertà della gloria riservata ai figli di Dio. Ed ora in cielo ti loda con gli angeli, o Signore, colui che sulla terra ti predicava degno di infinito amore a tutte le creature[16]. Questo senso della fraternità universale, esteso anche al mondo animale ed inanimato, appartiene alla storia del cristianesimo orientale e ci è ritornato familiare, al di là dei grandi testi patristici, con la scoperta dei famosi racconti del Pellegrino russo. Vi si possono leggere espressioni come queste: “Quando con queste cose in mente io pregavo nel profondo del cuore, tutto ciò che mi stava intorno mi appariva sotto un aspetto stupendo: gli alberi, l’erba, gli uccelli, la terra, l’aria, la luce, tutto sembrava dirmi che ogni cosa esiste per l’uomo, testimonia l’amore di Dio per lui, e tutte le cose pregavano e cantavano Dio e la sua gloria. Così compresi quella che la Filocalia chiama ‘la conoscenza del linguaggio di tutte le creature’ e colsi la possibilità che ha l’uomo di dialogare con le creature di Dio”[17]. La brama infinita per la salvezza universale di un Isacco Siro, talmente solidale con tutte le creature da credere di non potersi salvare se non in totale comunione con tutto il creato[18]; la sensibilità spirituale di un Silvano del Monte Athos che sente il ‘profumo’ della gloria di Dio, della sua bontà e della sua misericordia in tutte le creature[19]; la conoscenza del linguaggio della creazione in un Serafino di Sarov[20]; tutte queste esperienze non si rispecchiano forse nel profondo sentimento di ‘fraternità’ di Francesco con tutte le creature?

Ora tale fraternità non deriva che da quella umiltà-povertà ricercata al di là di ogni rivendicazione di diritti per poter vivere pienamente del dono di Dio, il suo amore per gli uomini, accolto in Cristo. Come dice Francesco: “E attribuiamo al Signore Dio altissimo e sommo tutti i beni e riconosciamo che tutti i beni sono suoi e di tutti rendiamo grazie poiché procedono tutti da lui. E lo stesso altissimo e sommo solo vero Dio abbia, e gli siano resi, ed egli stesso riceva tutti gli onori e l’adorazione, tutta la lode e tutte le benedizioni, ogni rendimento di grazie e ogni gloria, poiché ogni bene è suo ed Egli solo è buono (Lc 18,19)”[21].  Così la santità di Dio può risplendere nel mondo e il mondo diventa il luogo della proclamazione della sua santità. Il Regno di Dio è rivelato al cuore dell’uomo.

La santità come luogo di rivelazione di Dio

Se Dio è santo, come canta la chiesa nella Divina Liturgia, allora la santità è il luogo della rivelazione di Dio. Un uomo santo, vera icona di Dio, ‘in tutto simile a Cristo’ come viene definito nella tradizione bizantina, è la finestra attraverso la quale s’irradia sul mondo la luce di Dio. Luce di trasfigurazione, splendore di un cuore capace di guardare in modo nuovo, luminoso, da dentro la beatitudine evangelica: “beati i puri di cuore, perché vedranno Dio” (Mt 5,8). Ma anche spazi di trasfigurazione, dove non sono più ostruiti i sentieri interiori verso chiunque o qualunque cosa tanto che il mondo può risplendere ancora della primitiva luce di Dio, ormai liberato dai confini angusti e irrigiditi in cui chiudiamo noi stessi ed i nostri fratelli, secondo l’altra beatitudine: “Beati i miti, perché erediteranno la terra” (Mt 5,5). Mitezza e purità sono il paradigma di tutte le disposizioni buone  nell’uomo, quando l’io diventa capace di una misura piena ‘scossa e traboccante’(cfr. Lc 6,38), come costituisse l’esito finale e maturo di una ascesi che tende a generare un nuovo modo di volere in cui l’accento non sia posto tanto sull’affermazione di sé quanto sulla disponibilità a servire ciò che è voluto, ad accompagnarlo al suo destino, servitori e testimoni di un mistero che ci supera e ci racchiude. Santità fondata sulla fede, in funzione cioè dell’intimità di un rapporto e non dell’esercizio di un potere, neanche quello su se stessi, per la propria perfezione. La risposta di s. Francesco a frate Masseo che si interrogava sul perché venisse concesso a Francesco tanto fascino e splendore, è illuminante: «Vuoi sapere perché a me? vuoi sapere perché a me? vuoi sapere perché a me tutto ’l mondo mi venga dietro? Questo io ho da quelli occhi dello altissimo Iddio, li quali in ogni luogo contemplano i buoni e li rei: imperciò che quelli occhi santissimi non hanno veduto fra li peccatori nessuno più vile, né più insufficiente, né più grande peccatore di me; e però a fare quell’operazione maravigliosa, la quale egli intende di fare, non ha trovato più vile creatura sopra la terra; e perciò ha eletto me per confondere la nobiltà e la grandigia e la fortezza e bellezza e sapienza del mondo, acciò che si conosca ch’ogni virtù e ogni bene è da lui, e non dalla creatura, e nessuna persona si possa gloriare nel cospetto suo; ma chi si gloria, si glorii nel Signore, a cui è ogni onore e gloria in eterno»[22].

Un cuore del genere è totalmente remissivo alla rivelazione di Dio. E la rivelazione di Dio che costituisce il grande annuncio della nostra fede non è che questa: “Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4,32). Letteralmente: “Dio ha fatto grazia di Sé a voi in Cristo” (ὁ Θεὸς ἐν Χριστῷ ἐχαρίσατο ὑμῖν). Continuando: “se anche voi perdonerete, cioè farete grazia di voi a tutti in Cristo”, il mondo risplenderà della Sua presenza, fino a che Dio sarà tutto in tutti, definitivamente, compiutamente. L’unica perfezione desiderabile è appunto quella di lasciarsi penetrare fin nelle midolla da questo far grazia di Sé da parte di Dio agli uomini  in Cristo per la potenza del suo Spirito. Come dice stupendamente s. Francesco, sintesi dell’intera Tradizione: “ciò che devono  desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”[23]. La volontà del Padre è vedere l’uomo investito dal suo Spirito, consegnato alla sua misteriosa operazione, quella cioè di compiere quel mistero di riconciliazione rivelato a noi in Cristo. La santità dell’uomo non è che la volontà di compiere quel compito, la risposta a quell’ appello che viene dal desiderio di Dio di essere in comunione con gli uomini. E Francesco è il testimone per eccellenza di questa santità. Come nella visione di frate Pacifico, quando scorge risplendere luminosissimo sulla fronte di Francesco il sigillo a forma di tau[24]. Gli eletti, nella visione dell’Apocalisse, portano in fronte il sigillo del Dio vivente e proclamano: “La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all’Agnello” (Apoc 7,10). La proclamazione, a livello sonoro, esprime quello che il tau significa a livello visivo: Dio è santo, a Lui la salvezza! Il sigillo e le parole rivelano la comprensione di Dio da parte degli uomini secondo la definizione giovannea: Dio è amore (1Gv 4,8). Come a dire: ora sappiamo per esperienza che il Dio che conosciamo è un Dio pieno di amore per noi! Ora ammiriamo la sua gloria nel vedere che Lui è tutto in tutti. E’ appunto lo splendore che emana da questa rivelazione al cuore dell’uomo a testimoniare la presenza della santità di Dio in mezzo agli uomini, quello splendore che promana così chiaramente dal poverello di Assisi.

L’itinerario di Francesco, proposto ai suoi frati ma valido per tutti i credenti in Cristo perché lo vivano nel quotidiano delle loro esistenze, si snoda essenzialmente per la via della povertà. Non intesa semplicemente come una scelta radicale della povertà sociale (rifiuto di ogni proprietà, del denaro, ecc.), che del resto egli non propone ai cristiani che vivono nel mondo. Prima di manifestarsi nella povertà materiale, che ne è una sorta di sacramento visibile, essa consiste in tre dinamiche radicali:

1) riconoscere che tutti i beni sono di Dio;

2) riconoscere che solo il nostro male e la nostra infelicità ci appartengono;

3) portare ogni giorno la croce di Cristo che consiste nella sottomissione a tutti, e nell’accettazione del disprezzo, della malattia e della morte.

La vera e più profonda povertà è possedere tutto per dono di Dio, senza avere nulla di proprio[25].

Il cammino, esigente, va percorso con la pazienza, l’umiltà e la gioia che Dio stesso possiede e che è. Gioia, che si sperimenta nella meditazione della parola di Dio, è compagna della povertà[26], può essere così forte da dimorare nell’uomo e custodirlo nella pace anche quando tutto il resto lo abbandona. Francesco invita sempre i suoi fratelli a «essere lieti nel Signore, giocondi e amabili come si conviene»[27]. L’uomo, animato non più dallo spirito della carne, ma dalle ‘sante virtù che per grazia e illuminazione dello Spirito santo vengono infuse nei cuori dei fedeli’[28], può guardare il mondo che lo circonda con occhi purificati come ha fatto Francesco componendo verso la fine della sua vita e in momenti dolorosi il suo Cantíco delle creature. Questo canto ‑ lode rivolta all’onnipotente e buon Signore che nessun uomo è degno di nominare, cui solo appartengono la gloria e la benedizione ‑ orienta il nostro sguardo, un altro sguardo, sull’ordine e la bellezza del mondo fraterno. Ivi tutto irradia bellezza e armonia; le ferite umane, la prova, la malattia, la stessa morte, trovano il loro posto, trasfigurate come sono da un’invisibile luce. Iniziato nello sforzo e nella fatica, l’itinerario si apre, in questa vita stessa, alla gioia della risurrezione.

La povertà, con l’umiltà e la gioia che l’accompagnano, assai più di una spoliazione di beni, è vissuta come assenza di rivendicazioni, di diritti, per vivere in rapporti fraterni, con il creato e gli uomini, senza proprietà. Francesco esorta e comanda senza esitazione: “Io ti dico, come posso, per quello che riguarda la tua anima, che quelle cose che ti sono di impedimento nell’amare il Signore Iddio, ed ogni persona che ti sarà di ostacolo, siano frati o altri, anche se ti coprissero di battiture, tutto questo devi ritenere come una grazia. E così tu devi volere e non diversamente. E questo tieni in conto di vera obbedienza da parte del Signore Iddio e mia per te, perché io fermamente riconosco che questa è vera obbedienza. E ama coloro che agiscono con te in questo modo e non esigere da loro altro se non ciò che il Signore darà a te. E in questo amali e non pretendere che diventino cristiani migliori” [29]. La santità dell’amore che parla al cuore degli uomini è quella che li fa sentire degni di essere amati e non semplicemente che sono oggetto di amore. L’amore ‘buono’, di quella bontà alla quale alludeva Gesù quando diceva ‘nessuno è buono, se non Dio solo’ (Mc 10,18), è quello animato solo dal desiderio che Dio sia tutto in tutti, allorquando il desiderio di ciascuno è compiuto nella totalità dell’esistenza di tutti. E’ l’esperienza di tale amore a trasformare la massa degli uomini nella moltitudine degli eletti, la somma degli individui in comunione di fraternità, la famiglia umana nella chiesa di Dio, nella chiesa dei redenti, secondo l’ideale evangelico di Francesco.

L’intelligenza delle Scritture

Un luogo prezioso di osservazione della comunione profonda dei santi è costituito dalla loro intelligenza delle Scritture. Un confronto tra l’esegesi dei Padri del deserto e Francesco, soprattutto nelle sue Admonitiones, è altamente eloquente. Ogni pratica ispirata dalle Scritture implica una interpretazione. Gli uomini e le donne di cui parlano gli Apoftegmi sono venuti nel deserto per cercare la salvezza e tale sollecitudine guiderà la loro lettura della Bibbia[30]. Spesso è difficile identificare i passi biblici precisi a cui riferire tale o tal altro consiglio spirituale sull’umiltà o sul non giudicare il prossimo o sull’onorare sempre i fratelli. È nell’insieme delle Scritture che i Padri attingono per farne una sintesi personale. Per farsi però un’idea dell’esegesi pratica dei Padri del deserto, basta scegliere un passo evangelico spesso citato negli Apoftegmi e vedere come sia stato interpretato[31]. L’interpretazione è essenzialmente ‘pratica’; spesso consiste semplicemente nella pura e semplice messa in pratica della parola ascoltata o letta, ma si noterà che esiste un’osmosi tra la lettura, la pratica e la comprensione. Se la lettura rinvia alla pratica, questa fa scoprire dimensioni nuove e insospettate della parola e tale rilettura dà origine ad atti, gesti, atteggiamenti più evangelici. Così la Parola lavora il monaco e conduce a diventare simili al Cristo.

Ma l’obbedienza alla Parola ascoltata è inseparabile dall’avventura spirituale di ciascun monaco. La traiettoria che si può veder delineata risulta allora la seguente: la pratica dell’esegesi, agli inizi letterale, si fa via via più spirituale nella misura in cui il monaco è investito dalla carità che viene effusa nel suo cuore dal dono dello Spirito Santo. Come a dire: una lettura pratica non può essere dissociata da una vita nello Spirito, da cui deriva la crescita progressiva della carità e, insieme, di una lettura nello Spirito capace di cogliere il senso profondo della Parola. I Padri del deserto considerano la Scrittura come la Parola sempre attuale e potente che nutre, guida, rischiara, riscalda e incendia, perché ascoltata, ruminata, pregata assiduamente, ma ancor più perché colta come Parola fatta carne. In effetti, è rimirando e cercando di imitare il Signore Gesù che i Padri hanno condotto il loro combattimento della fede nel deserto, per cogliere, per quanto possibile all’uomo, colui che in se stesso è la Salvezza, nella solidarietà più radicale con i fratelli, perché in questo consiste la vita nello Spirito.

È significativo osservare che nell’esperienza dei padri del deserto la tentazione, che sempre accompagna l’uomo nel suo cammino di vita verso il Regno, si presenta contro la determinazione di non essere divisi (cfr. 1 Cor 7,34). La vittoria sulla tentazione scaturisce dalla capacità, sostenuta dalla grazia e scoperta nella resistenza al male, di cogliere il demonio come straniero e di riconoscere invece propria la Parola di Dio che agisce con potenza nell’uomo. E l’oggetto proprio della tentazione demoniaca è l’unità restaurata da Cristo che ci fa membra gli uni degli altri: è la formulazione più radicale delle esigenze dell’amore fraterno. La tentazione dunque ha fondamentalmente a che fare con la possibilità di vivere la relazione. Non per nulla i doni dello Spirito, elencati da Paolo in Gal 5,22: “Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”, hanno tutti a che fare con la relazione fraterna ed è per questo che tutte le fatiche ascetiche sono viste in funzione della carità, della vita nello Spirito.

Quando ci domandiamo: qual è l’opera precipua dello Spirito Santo? La risposta non è che una: la fraternità realizzata. Tutta la liturgia lo proclama solennemente. Basta leggere i canoni eucaristici, al momento della preghiera di epiclesi: “Ti preghiamo umilmente: per la comunione al corpo e al sangue di Cristo lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo”; “e a noi, che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito”[32]. Lo stesso mistero dell’eucaristia indirizza là. In effetti, l’amen che rispondiamo alle parole ‘Corpo di Cristo’ proferite dal sacerdote al momento della comunione significa: sì, riconosco di far parte di quel corpo e accetto di vivere in modo da non ferire mai l’unità di quel corpo. È il mistero della comunione con Dio e tra gli uomini diventato lo scopo supremo dell’agire dell’uomo salvato. Per questo Francesco ricorda che, avvicinandoci alla mensa eucaristica per ricevere il Corpo del Signore, ci si deve chiedere: “Chi riceve il corpo di Cristo?”. “[…] lo Spirito del Signore, che abita nei suoi fedeli, egli stesso riceve il santissimo corpo e sangue del Signore; tutti coloro che non partecipano del medesimo Spirito e presumono accogliere il Signore,’mangiano e bevono la loro condanna’ ”(1Cor 11,29)[33].      

Ma se è lo Spirito del Signore che riceve il Corpo del Signore, allora si comprende come non ci si possa accostare all’eucaristia con un cuore diviso dai fratelli perché l’opera eminente dello Spirito è appunto la fraternità. Parafrasando il Padre Nostro, s. Francesco così commenta l’invocazione ‘dacci oggi il nostro pane quotidiano’:  “ ‘Il nostro pane quotidiano’, il tuo Figlio diletto, il Signore nostro Gesù Cristo, ‘dà a noi oggi: in memoria, comprensione e reverenza dell’amore che egli ebbe per noi e di tutto quello che per noi disse, fece e patì[34].

Se è vero che l’esperienza dell’amore di Dio per l’uomo, rivelatasi in Cristo e condivisa dai suoi discepoli, ha rivoluzionato la percezione interiore delle prime generazioni cristiane a tal punto da costituire la radice di una nuova umanità vissuta in totale solidarietà con tutti, allora l’esperienza significativa della vita risulta essere proprio la ‘conoscenza’ di quel ‘Figlio diletto’ che ci apre gli spazi di una sconfinata ‘dilezione’, ricevuta e condivisa. Qui risiede tutto il discorso sulla sapienza cristiana tipico di Francesco[35] e dei padri del deserto. E così Francesco può proclamare: “Considera, o uomo, in quale sublime condizione ti ha posto Dio che ti creò e ti fece a immagine del suo diletto Figlio secondo il corpo, e a sua ‘similitudine’ (Cfr Gen 1,26) secondo lo spirito. E tutte le creature, che sono sotto il cielo, ciascuna secondo la sua natura, servono e conoscono e obbediscono al loro Creatore meglio di te. E anche i demoni non lo crocifissero, ma tu con essi lo crucifiggesti e ancora lo crucifiggi col dilettarti nei vizi e nei peccati. Di che dunque puoi gloriarti? Infatti se tu fossi tanto intelligente e sapiente che tu avessi tutta la scienza e tu sapessi interpretare tutte le lingue e acutamente perscrutare le cose celesti (Cfr 1Cor 13,1-4), in tutto questo non ti puoi gloriare; poiché un solo demonio seppe delle cose celesti e ora sa di quelle terrene più di tutti gli uomini insieme; benché ci sia stato qualche uomo che ricevette dal Signore una speciale cognizione della somma sapienza. Ugualmente se tu fossi più bello e più ricco di tutti e anche se tu facessi cose mirabili, come scacciare i demoni, tutte queste cose ti sono d’ostacolo e non sono di tua pertinenza e in queste non ti puoi gloriare per niente; ma in questo possiamo ‘gloriarci, nelle nostre infermità’ (Cfr 2Cor 12,5) e portare ogni giorno la santa croce del Signore nostro Gesù Cristo[36].

E qui risiede anche tutta la forza dell’ascesi che è vissuta in rapporto all’esperienza della conoscenza di quel Figlio diletto, percepito nel suo desiderio di comunione con gli uomini, da sottomettersi a tutti perché su tutto prevalga lo splendore del Suo amore. All’espressione dell’Abate Isaia: “In fin dei conti, io non vedo in tutte le Scritture che Dio abbia altra volontà sull’uomo se non che si umilii in tutto davanti al suo prossimo, che rinunci in tutto alle sue volontà, che supplichi incessantemente  il Suo soccorso e custodisca i suoi occhi dal sonno della dimenticanza[37], rispondono le espressioni di Francesco: “Beato il servo, che non si ritiene migliore, quando è onorato e esaltato dagli uomini, di quando è ritenuto vile e semplice e disprezzato, poiché l’uomo quanto vale davanti a Dio, tanto vale e non più . Guai a quel religioso, che è posto dagli altri in alto e per sua volontà non vuol discendere. E beato quel servo, che non si pone in alto di sua volontà e sempre desidera mettersi sotto i piedi degli altri” (Ammonizione XX)[38] e “Al servo di Dio nessuna cosa deve dispiacere eccetto il peccato. E in qualunque modo una persona pecchi, il servo di Dio che si lasciasse prendere dall’ira o dallo sdegno per questo, a meno che non lo faccia per carità, accumula per sé – come un tesoro – (Cfr Rm 2,5) la colpa degli altri. Quel servo di Dio che non si adira né si turba per alcunché, vive giustamente e senza nulla di proprio. Ed è beato colui che non si trattiene niente per sé, ‘rendendo a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio’ (Mt 22,21) (Ammonizione XI)[39].

I Padri del deserto come Francesco non sono preoccupati di descrivere le altezze o le bellezze della vita nello Spirito, della carità fraterna, ma solo di indicare le vie di accesso per poterla gustare in verità. Per questo le loro presentazioni suonano paradossali, ma solo per chi cerca la realizzazione della carne, che anche nella via spirituale resta ben dissimulata. Il racconto della perfetta letizia è quanto mai significativo: “ .. Un giorno il beato Francesco, presso Santa Maria degli Angeli, chiamò frate Leone e gli disse: «Frate Leone, scrivi». Questi rispose: «Eccomi, sono pronto» «Scrivi – disse – cosa è la vera letizia». «Viene un messo e dice che tutti i maestri di Parigi sono entrati nell’Ordine; scrivi: non è vera letizia. Così pure che sono entrati nell’Ordine tutti i prelati d’Oltr’Alpe, arcivescovi e vescovi, non solo, ma perfino il Re di Francia e il Re d’Inghilterra; scrivi: non è vera letizia. E se ti giunge ancora notizia che i miei frati sono andati tra gli infedeli e li hanno convertiti tutti alla fede, oppure che io abbia ricevuto da Dio tanta grazia da sanar gli infermi e da far molti miracoli; ebbene io ti dico: neppure qui è vera letizia». «Ma cosa è la vera letizia?». «Ecco, tornando io da Perugia nel mezzo della notte, giungo qui, ed è un inverno fangoso e così rigido che, all’estremità della tonaca, si formano dei ghiacciuoli d’acqua congelata, che mi percuotono continuamente le gambe fino a far uscire il sangue da siffatte ferite. E io tutto nel fango, nel freddo e nel ghiaccio, giungo alla porta e dopo aver a lungo picchiato e chiamato, viene un frate e chiede: ” Chi sei ? ” Io rispondo: ” Frate Francesco “. E quegli dice: ” Vattene, non è ora decente questa di arrivare, non entrerai “. E mentre io insisto, l’altro risponde: ” Vattene, tu sei un semplice ed un idiota, qui non ci puoi venire ormai; noi siamo tanti e tali che non abbiamo bisogno di te “. E io sempre resto davanti alla porta e dico: ” Per amor di Dio, accoglietemi per questa notte “. E quegli risponde: ” Non lo farò. Vattene dai Crociferi e chiedi là “. Ebbene, se io avrò avuto pazienza e non mi sarò conturbato, io ti dico che qui è la vera letizia e qui è la vera virtù e la salvezza dell’anima».[40]

Perfetta letizia sta con perfetta povertà, come Francesco aveva proclamato con l’Ammonizione XIV: “Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,3). Ci sono molti che applicandosi insistentemente a preghiere ed uffici, fanno molte astinenze e molte mortificazioni nei loro corpi; ma per una sola parola che sembra ingiuria della loro persona, o per qualsiasi altra cosa che è loro tolta, scandalizzati, tosto si irritano. Questi non sono poveri di spirito, poiché chi è veramente povero di spirito odia sé (Cfr Lc 14,26) e ama quelli che lo percuotono nella guancia (Cfr Mt 5,39)” [41]. Ma è la stessa cosa che proclamano i Padri del deserto: “Un fratello chiese a un anziano: “Se digiuno, mi salvo?”. L’anziano rispose: “No”. Il fratello disse: “Se fuggo gli uomini, mi salvo?”. L’anziano gli rispose: “No”. Il fratello disse: “Se ho amore per i miei fratelli, mi salvo?”. L’anziano rispose: “No. Ma essere salvato consiste in questo: portare il rimprovero di se stessi e in nulla affliggere il proprio fratello, perché così Dio dà misericordia all’uomo” [42].  “Un fratello chiese a un anziano: “Dimmi cosa fare”. L’anziano rispose: “Taglia via da te ogni spirito di contestazione in qualunque cosa e tu sarai salvato[43].

Di tale concretezza di ricerca di salvezza sono maestri i padri del deserto e Francesco. Concretezza che rivela tutta la passione dei loro cuori nell’ascoltare la Parola e nel viverne in modo radicale la dinamica di vita che contiene, solidali con i loro fratelli perché tutti abbiano a godere dello splendore dell’amore del Signore che per tutti è venuto, ha patito, è morto ed è risuscitato.

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[1] Si veda in particolare Yannis SPITERIS, Francesco e l’oriente cristiano. Un confronto, Roma 1999, Istituto storico dei Cappuccini (Bibliotheca ascetico-mystica 8). L’Istituto ha aperto un sito in Internet: http://users.iol.it/ist.cap

[2] Giovanni Crisostomo, Contro i detrattori della vita monastica, III, 14, PG 47,372C.

[3] N. Cabasilas, La vita in Cristo, a cura di U. Neri, Torino 1981, Utet (Classici delle religioni), p. 308.

[4]  “Non dobbiamo essere sapienti e prudenti secondo la carne (1Cor 1,26), ma piuttosto dobbiamo essere semplici, umili e puri.  E disprezziamo noi stessi, poiché tutti, per colpa nostra, siamo miseri, putridi, fetidi e vermi, così come dice il Signore per mezzo del suo profeta: Io sono un verme e non un uomo, sono l’obbrobrio degli uomini e lo spregio del popolo (Sal 21,6).  Mai dobbiamo desiderare di essere sopra gli altri, ma anzi dobbiamo essere servi e soggetti ad ogni umana creatura per amore di Dio (1Pt 2,13)” , 2 Lettera ai fedeli, FF 199.

[5] Cfr. Regola non bollata XXXIII, 11, in FF 71; Vita Seconda di Tommaso da Celano, 95, in FF 682.

[6] Cfr. Regola non bollata, XXII, 26, in FF 60; Ammonizioni XVI, 2, in FF 165

[7] “I frati che vissero con lui, inoltre sanno molto bene come ogni giorno, anzi ogni momento affiorasse sulle sue labbra il ricordo di Cristo; con quanta soavità e dolcezza gli parlava, con quale tenero amore discorreva con Lui. La bocca parlava per l’abbondanza dei santi affetti del cuore (Mt 12,34), e quella sorgente di illuminato amore che lo riempiva dentro, traboccava anche di fuori. Era davvero molto occupato con Gesù. Gesù portava sempre nel cuore, Gesù sulle labbra, Gesù nelle orecchie, Gesù negli occhi, Gesù nelle mani, Gesù in tutte le altre membra. Quante volte, mentre sedeva a pranzo, sentendo o pronunciando lui il nome di Gesù, dimenticava il cibo temporale e, come si legge di un santo, «guardando, non vedeva e ascoltando non udiva». C’è di più, molte volte, trovandosi in viaggio e meditando o cantando Gesù, scordava di essere in viaggio e si fermava a invitare tutte le creature alla lode di Gesù. Proprio perché portava e conservava sempre nel cuore con mirabile amore Gesù Cristo, e questo crocifisso, perciò fu insignito gloriosamente più di ogni altro della immagine di Lui, che egli aveva la grazia di contemplare, durante l’estasi, nella gloria indicibile e incomprensibile seduto alla «destra del Padre», con il quale l’egualmente altissimo Figlio dell’Altissimo, assieme con lo Spirito Santo vive e regna, vince e impera, Dio eternamente glorioso, per tutti i secoli. Amen!”, Vita Prima  di Tommaso da Celano, 115, in FF 522. Oppure, nella testimonianza dei Fioretti “… e finalmente egli udì la voce di santo Francesco e, appressandosi, il vide stare ginocchioni in orazione con la faccia e con le mani levate al cielo, e in fervore di spirito sì dicea: «Chi se’tu, o dolcissimo Iddio mio? Che sono io, vilissimo vermine e disutile servo tuo?». E queste medesime parole pure ripetea, e non dicea niuna altra cosa. Per la qual cosa frate Leone forte maravigliandosi di ciò, levò gli occhi e guatò in cielo, e guatando sì vide venire dal cielo una fiaccola di fuoco bellissima e splendentissima, la quale discendendo si posò in capo di santo Francesco…”, in FF 1915.

[8] Nella Preghiera davanti al Crocifisso:  “O alto e glorioso Dio, illumina el core mio.  Dame fede diricta, speranza certa, carità perfecta, humiltà profonda,  senno e cognoscemento che io servi li toi comandamenti. Amen“, in FF 276. Testimonia s. Bonaventura: “E l’uomo di Dio, restandosene tutto solo e in pace, riempiva i boschi di gemiti, cospargeva la terra di lacrime, si percuoteva il petto e, quasi avesse trovato un più intimo santuario, discorreva col suo Signore. Là rispondeva al Giudice, là supplicava il Padre, là dialogava con l’Amico. Là pure, dai frati che piamente lo osservavano, fu udito interpellare con grida e gemiti la Bontà divina a favore dei peccatori; piangere, anche, ad alta voce la passione del Signore, come se l’avesse davanti agli occhi. Là, mentre pregava di notte, fu visto con le mani stese in forma di croce, sollevato da terra con tutto il corpo e circondato da una nuvoletta luminosa: luce meravigliosa diffusa intorno al suo corpo, che meravigliosamente testimoniava la luce risplendente nel suo Spirito”, Leggenda maggiore, 4, in FF 1180.

[9] FF 226

[10] Regola bollata, VIII, in FF 104.

[11] Vita Seconda di Tommaso da Celano, CIII, in FF 690.

[12] Ammonizione I, in FF 141.

[13] Omilia 10, 3. Vedi  Macario/Simeone, Discorsi e Dialoghi/ 1, a cura di Moscatelli, Abbazia di Praglia 1988, Scritti monastici, p. 196.

[14] Cfr. Saluto alle Virtù 1, in FF 256: “O regina sapienza, il Signore ti salvi con la tua sorella, la pura e santa semplicità”.

[15] Regola non bollata XVII, in FF 48

[16] Vita prima di Tommaso da Celano, LXXXI, in FF 461.

[17] Racconti di un pellegrino russo, tr. di Martinelli, Milano 1973, 2° ed., Rusconi, p. 57.

[18] Vedi Isaac le Syrien, Oeuvres spirituelles, Paris 1981, Desclée de Brouwer (Théophanie), Trattato 81, dove alla domanda di cosa sia un cuore compassionevole si risponde : « E’ un cuore che s’infiamma di carità per la creazione intera, per gli uomini, gli uccelli, per gli animali, per i demoni, per tutte le creature … ».

[19] Si possono leggere i passi relativi nell’opera dell’archimandrita Sofronio, Silvano del Monte Athos. La vita, la dottrina, gli scritti, Torino 1973, Gribaudi, p. 105-107

[20] Vedi l’opera di Gorainoff, Serafino di Sarov.Vita, colloquio con Motovilov, scritti spirituali, Torino 1981, Gribaudi, p. 50.

[21] Regola non bollata, XVII, in FF 49

[22] Dai Fioretti, X, in FF 1838

[23] Regola bollata, X, in  FF 104.

[24] Cfr. Leggenda maggiore di san Bonaventura, IV,9 in FF 1079 e  Vita seconda di Tommaso da Celano, LXXII,106, in FF 693

[25] Al servo di Dio nessuna cosa deve dispiacere eccetto il peccato. E in qualunque modo una persona peccasse e, a motivo di tale peccato, il servo di Dio, non più guidato dalla carità, ne prendesse turbamento e ira, accumula per sé come un tesoro quella colpa. Quel servo di Dio che non si adira né si turba per alcunché, davvero vive senza nulla di proprio. Ed egli è beato perché, rendendo a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio, non gli rimane nulla per sé (Ammonizione XI); Beato l’uomo che offre un sostegno al suo prossimo per la sua fragilità, in quelle cose in cui vorrebbe essere sostenuto da lui, se si trovasse in un caso simile. Beato il servo che restituisce tutti i suoi beni al Signore Iddio, perché chi riterrà qualche cosa per sé, nasconde dentro di sé il denaro del Signore suo Dio, e gli sarà tolto ciò che credeva di possedere (Ammonizione XVIII); Beato quel servo il quale non si inorgoglisce per il bene che il Signore dice e opera per mezzo di lui, più che per il bene che dice e opera per mezzo di un altro. Pecca l’uomo che vuol ricevere dal suo prossimo più di quanto non vuole dare di sé al Signore Dio (Ammonizione XVII).

[26] Cfr. Ammonizioni, XXVII,  in  FF 177

[27] Regola non bollata, VII, 16,  in FF 27

[28] Cfr. Saluto alla Vergine, in FF 260

[29] Lettera a un ministro, in FF 234

[30] Assai istruttivo l’articolo di suor Jean-Thérèse:  “Comment les Pères lisaient la Bible ou l’exégèse des Pères du désert”, in CONNAISSANCE DES PERES DE L’EGLISE, 30 (1988), p. 6-16.

[31] Dell’immensa ormai bibliografia esistente, rimando ai testi di Douglas BURTON-CHRISTIE, La parola nel deserto. Scrittura e ricerca della santità, Bose 1998, Qiqajon, e a quello di Rowan WILLIAMS, La sapienza del deserto, Torino 2006, Claudiana (Piccola collana moderna, serie teologica, 118).

[32] Canone eucaristico II e III.

[33] Ammonizioni, I, FF 143.

[34] FF 271.

[35] Come scrive Francesco nella sua lettera a tutti i fedeli: “Questi non hanno la sapienza dello spirito, poiché non hanno il Figlio di Dio in sé, che è la vera sapienza del Padre”, FF 203.

[36] Ammonizioni,  V, FF 153-154

[37] Cfr. ABBE ISAIE, Recueil ascétique. Introduction par Dom Lucien Regnault et traduction par Dom Hervé de Broc, Bellefontaine 1985, 3° ed., Abbaye de Bellefontaine (Spiritualité orientale, 7 bis), Logos 22, 9, p. 189. Nella traduzione italiana si veda ISAIA DI GAZA, Ascetikòn, Napoli 1998, ed. Grafite (collana ‘starets’, 2), p. 126.

[38] FF 169

[39] FF 160

[40] FF 278

[41] FF 163

[42] Apoftegmi, c. X, Discernimento, n. 133 (ed.  SC 474).

[43] Apoftegmi, c. X, Discernimento, n. 179  (ed. SC 474).