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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo di Avvento

I Domenica

(27 novembre 2022)

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Is 2,1-5;  Sal 121 (122);  Rm 13,11-14a;  Mt 24,37-44

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Nell’ultima settimana dell’anno liturgico, la trentaquattresima, la chiesa ci ha accompagnati con questa antifona alla comunione: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo” – sono le ultime parole del vangelo di Matteo – e con la preghiera dopo la comunione: “O Dio, che in questi santi misteri ci hai dato la gioia di unirci alla tua stessa vita, non permettere che ci separiamo mai da te, fonte di ogni bene”.

Con l’inizio del nuovo anno liturgico, l’Avvento, quando la Chiesa ci invita alla vigilanza, allude alla capacità del cuore e dell’intelligenza di percepire proprio la ‘presenza’ del Signore Gesù che tutto attira a sé e al suo regno per consegnarlo nelle mani del Padre. Avvento non significa primariamente attesa, ma presenza. Il periodo liturgico dell’Avvento non è un’attesa della nascita di Gesù a Betlemme, ma la tensione a una capacità di sensazione, di intuizione cordiale della compagnia di Gesù che opera continuamente perché il suo regno conquisti i cuori e la storia. E se di attesa si parla, si tratta dell’attesa della manifestazione del Signore Gesù al nostro cuore.

Il profeta Isaia rivela la presenza nella storia di un movimento opposto a quello della torre di Babele, allorquando le genti si sono disperse sulla terra senza più comprendersi. La visione del profeta rivela che le genti tornano a riunirsi, verso l’alto. È la forza della parola del Signore che muove all’unità elevando. Si tratta della verità espressa dalla colletta: “O Dio, Padre misericordioso, che per riunire i popoli nel tuo regno hai inviato il tuo Figlio unigenito, maestro di verità e fonte di riconciliazione, risveglia in noi uno spirito vigilante, perché camminiamo sulle tue vie di libertà e di amore fino a contemplarti nell’eterna gloria”. Ecco descritto il movimento tipico della rivelazione: verità per la riconciliazione, verità in vista della riconciliazione. Gesù è inviato per mostrare al mondo la grandezza dell’amore del Padre e per riunire i figli di Dio dispersi. La verità riguarda la testimonianza di un amore, la riconciliazione lo scopo di quella testimonianza. Non è però un movimento troppo visibile; è necessaria una buona vigilanza, un’attenzione che non venga mai meno, che sia tesa a scoprire e favorire quel movimento, liberi dalle cose e dai desideri contrari, pieni di amore per non subire il fascino mortificante di una concentrazione su di sé.

Per questo s. Paolo ci esorta alla vigilanza scuotendoci dal sonno e invitandoci ad affrontare la vita rivestendoci dell’umanità di Gesù che ha vissuto in pienezza quel movimento di verità e riconciliazione, che ci fa intimi del Padre e solidali tra di noi. La vigilanza a cui ci invita la liturgia è così finalizzata ad uno scopo preciso: essere in condizione di realizzare la vocazione all’umanità che il Signore Gesù vive nel suo splendore originario. Paolo dichiara: “Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo”, per vivere la storia nella benevolenza, senza paure, tanto da essere addirittura custoditi da una armatura di luce: “indossiamo le armi della luce”. Luce, che consiste nell’assumere il principio della riconciliazione come unico fondamento dell’agire. Si esercita vigilanza nello spirito quando ci si sforza di radicarci sempre più autenticamente, sempre più profondamente, sempre più concretamente, in quella riconciliazione di cui Dio ci ha fatto dono, in Cristo, in modo da estenderla a tutto in noi e a tutti dovunque. La vigilanza ha senso nello stare fermi in quell’unico punto: se Dio ha fatto grazia di Sé a noi, allora anche noi possiamo fare grazia di noi a tutti. E così il mondo tornerà a risplendere, perché ognuno potrà sperimentare quello che dice il salmo: “il Signore si confida con chi lo teme: gli fa conoscere la sua alleanza” (Sal 24,14), da intendere, come del resto suggerisce lo stesso testo ebraico del versetto: il segreto (o l’intimità) del Signore, cioè la sua offerta di benevolenza nel dono di Sé che ci fa, vale per chi ne fa il punto fermo della sua vita e ha posto tutta l’attesa del suo cuore nel condividerne la gioia con tutti.

L’avvertimento di Gesù ai suoi discepoli: “Vegliate dunque” riguarda la tensione del cuore, come dicesse: non fate come al tempo di Noè quando, nonostante fosse avvertita, la gente non si avvide di nulla; scopritela, avvertitela, viveteci dentro, fatevene la ragione del vivere. E quando aggiunge ‘tenetevi pronti’ l’allusione evidente, come del resto suggeriscono le parabole del padrone che torna dalle nozze, è al servizio vicendevole perché tutti possano vedere lo splendore del regno e la manifestazione del suo amore. L’avvertimento contiene questa sfumatura, come ne dà testimonianza una mistica del sec. XIII, Hadewijch di Anversa: “Chi vorrà alleggerire la pena [l’inquietudine di non amare mai abbastanza] dovrà mettere tutto il suo cuore ad essere costantemente fedele in ogni circostanza. Soffrirà volentieri ogni pena per l’Amore … preferirà pazientare al di là delle sue forze perché non manchi nemmeno una virgola a ciò che è dovuto all’Amore”. In altre parole, il vegliare e il tenersi pronti riguarda la manifestazione del Signore nel suo amore per noi e nel nostro amore per i fratelli in ogni circostanza, in ogni dettaglio della vita.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo di Avvento

II Domenica

(4 dicembre 2022)

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Is 11,1-10;  Sal 71 (72);  Rm 15,4-9;  Mt 3,1-12

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Lungo tutta la settimana abbiamo pregato: “Mostra la tua potenza e vieni, Signore”. E abbiamo fatto memoria del fatto che nel Figlio il Padre ha rivelato agli uomini la sua gloria. Ora, di che potenza e gloria si tratta? Il profeta Isaia ci ha accompagnato per entrare nella speranza della promessa del Signore: “la gloria del Signore sarà sopra ogni cosa come protezione”; “ecco il nostro Dio; in lui abbiamo sperato perché ci salvasse”; “udranno in quel giorno i sordi le parole del libro; liberati dall’oscurità e dalle tenebre, gli occhi dei ciechi vedranno”; “a un tuo grido di supplica il Signore ti farà grazia; appena udrà, ti darà risposta”. Sono le esortazioni risuonate lungo tutta la settimana. Per quale contesto, per quale visione?

Il brano profetico odierno la prospetta così: “la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare”. E per questo tutto sarà in armonia, non ci saranno più opposizioni e violenze, né ingiustizie e oppressioni. Ma a quale condizione? Ce lo ricorda il Battista che apostrofa i farisei accorsi per farsi battezzare (più avanti nel vangelo Gesù rimprovererà i farisei di non aver creduto alla predicazione di Giovanni Battista e di essere rimasti alla finestra, senza farsi coinvolgere e pentirsi): “Fate dunque un frutto degno della conversione”. Non basterà rivendicare la discendenza da Abramo, non servirà gran che millantare una propria giustizia, non ci si potrà più riparare dietro pratiche esteriori senza che il cuore ne sia toccato: fate un frutto degno della conversione.

E se la fatica o il timore dell’impegno prospettato rende recalcitranti, interviene s. Paolo a ricordare che il Dio della perseveranza è ugualmente il Dio della consolazione. Perseveranza allude ad una generosa pazienza che dura nel tempo e consolazione alla gioia ritrovata che ci dà il senso del cammino, nel ritorno sempre più sincero e autentico all’alleanza col nostro Dio. Io interpreterei così: il Dio della nostra afflizione (l’asprezza e la fatica del cammino) diventi il Dio della nostra consolazione (il compimento e il godimento di una relazione affettuosa).

È il senso delle parole che Pietro rivolge ai fedeli ricordando gli anni del suo ministero di evangelizzatore: “Infatti, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo …” (2Pt 1,16). Credo sia l’unica volta, nelle esortazioni apostoliche, in cui ‘la venuta’ del Cristo è riferita al passato e non al futuro. L’Avvento ci predispone a percepire la potenza di salvezza, cioè la possibilità di vivere la nostra umanità, nello splendore di un cuore purificato, in giustizia-mitezza-pace, che, se, da una parte, esprimono l’esperienza dell’incontro col Signore, dall’altra, strutturano lo spazio interiore per l’incontro con gli uomini. Come san Paolo prega: “…vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti, sull’esempio di Cristo Gesù”. Si realizza in modo nuovo l’avvertimento dei profeti alla conversione come ritorno incondizionato all’alleanza col nostro Dio. Sarà appunto il dono per l’umanità del Natale di Gesù.

Sostando più direttamente sul brano evangelico si possono notare tre termini carichi di allusioni: deserto, forza, conversione. Il Battista predica nel deserto della Giudea. È lo stesso territorio dove, all’epoca dei Maccabei, la gente che era rimasta fedele al Signore si ritira e dove sono stati rinvenuti i cosiddetti manoscritti del Mar Morto. Narra il libro dei Maccabei: “Allora molti che ricercavano la giustizia e il diritto scesero nel deserto per stabilirvisi” (1Mac 2,29). Viene applicata al Battista la profezia di Isaia che annunciava la liberazione del popolo: “Una voce grida: Nel deserto preparate la via al Signore” (Is 40,3).

Nel presentare colui che verrà dopo di lui, il Battista lo definisce ‘più forte di me’. Viene applicato al Messia, a Gesù, la qualifica tipica di Dio nell’Antico Testamento: il Forte. Per fare qualche esempio: “Dio grande, forte e terribile” (Dt 10,17); “Tornerà il resto, il resto di Giacobbe, al Dio forte” (Is 10,21); “Tu sei un Dio grande e forte” (Ger 32,18). Ora, dove si manifesterà la forza del Messia? Nel perdono dei peccati, nell’ottenerci il perdono dei peccati e la comunione alla stessa vita di Dio. Quando il profeta Geremia descriverà il compimento della nuova alleanza, non potrà che indicare la stessa cosa: “Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: “Conoscete il Signore”, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato” (Ger 31,33-34). Tutti mi conosceranno, perché tutti potranno accogliere il perdono del Signore e si ritroveranno uniti nella misericordia del Signore che tutti accomuna.

L’invito, forte, del Battista alla conversione, ha proprio a che fare con la ritrovata possibilità di questa ‘conoscenza’ del Signore. Nel linguaggio dei profeti la conoscenza del Signore segue la distruzione delle false sicurezze, delle illusioni o dei miraggi mondani. La conversione procede dal fatto che il nostro cuore custodisce, anche se come sepolta, la coscienza di un’alleanza che gli è stata offerta da Dio e che Lui non si è mai rimangiata, la coscienza di una felicità possibile, forse persa, ma sempre desiderabile e, nella speranza, ancora vivibile. Non è però scontata e per questo la chiesa fa pregare: “Dio grande e misericordioso, prepara con la tua potenza il nostro cuore a incontrare il Cristo che viene”. Fondamentalmente la conversione è un credere ancora possibile per il nostro cuore la felicità promessa da Dio, che in Gesù si fa accessibile e godibile.

E la felicità, di cui il cuore custodisce l’anelito, non può provenire che da quella nuova umanità, fatta germogliare da Gesù, in giustizia-mitezza-pace, di cui parla la colletta di oggi: “Dio dei viventi, suscita in noi il desiderio di una vera conversione, perché rinnovati dal tuo Santo Spirito sappiamo attuare in ogni rapporto umano la giustizia, la mitezza e la pace, che l’incarnazione del tuo Verbo ha fatto germogliare sulla nostra terra”. Giustizia nel senso di tornare a sentirci non solo oggetto di amore, ma soggetti degni di amore; mitezza nel senso di non lasciarsi più deviare da nulla rispetto allo scopo da perseguire, che è la fedeltà al bene comunque; pace nel senso di quel regno di Dio giunto a noi, cercato sopra ogni cosa, che ci ricolloca nella giustizia e ci induce alla mitezza.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Solennità e feste

Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria

(8 dicembre 2022)

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Gn 3,9-15.20;  Sal 97;  Ef 1,3-6.11-12;  Lc 1,26-38

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Una piccola nota storica anzitutto. La solennità dell’Immacolata Concezione, già celebrata in oriente fin dal sec. VIII, si estese in occidente nel sec. XII, accolta prima dai francescani e poi iscritta nel calendario di Roma nel 1476. Pio IX, nel 1854, con la bolla Ineffabilis Deus definì come dogma di fede l’immacolato concepimento di Maria, che la cristianità ha visto confermata con le apparizioni di Lourdes del 1858. È una delle tre solennità mariane nell’attuale calendario liturgico romano, insieme a quella di Maria santissima Madre di Dio il primo gennaio e dell’Assunta il 15 agosto. La solennità è fissata all’8 dicembre in riferimento alla Natività di Maria all’8 settembre. I testi liturgici sono in gran parte gli stessi del 1863, composti in seguito alla definizione dogmatica di Pio IX nel 1854.

Mi piace riandare alla celebrazione di Maria nella poesia di Dante. Nell’ultimo canto del Paradiso, la Vergine Maria è presentata nello splendore del suo mistero:

“…. Donna, se’ tanto grande e tanto vali,

che qual vuol grazia e a te non ricorre,

sua disïanza vuol volar sanz’ali.

La tua benignità non pur soccorre

a chi domanda, ma molte fïate

liberamente al dimandar precorre.

In te misericordia, in te pietate,

in te magnificenza, in te s’aduna

quantunque in creatura è di bontate”.

E riassume lo stupore per la bellezza della Vergine nel verso: “Li occhi da Dio diletti e venerati …”. Sì, anche Dio è rapito dallo splendore della sua creatura, sulla quale non ha mai avuto presa neppure la più piccola ombra di peccato. Tanto che la benedizione, che Paolo implora ed annuncia nell’esordio della sua lettera agli Efesini, ha così ricoperto e intriso la Tutta Santa nella sua concretezza da prendere addirittura corpo: da lei nasce il Salvatore, che costituisce la Benedizione di Dio sugli uomini, benedizione oltre la quale non c’è davvero nulla di prezioso da desiderare. Come suggerisce Dante, nel desiderio intenso di vedere il volto del nostro Dio, già in questo mondo, preziosa è la sua preghiera: “perché tu ogne nube li dislieghi / di sua mortalità co’ prieghi tuoi, / sì che ‘l sommo piacer li si dispieghi”.

Godere della visione di Dio, non per essere rapiti in qualche angolo di cielo, ma per far risplendere la luce di Dio nella nostra terra, nella nostra vita quotidiana, nel nostro cuore. L’umanità della Vergine, in tutte le sue fibre, ha potuto godere di tale intimità col suo Dio perché è andata incontro al Signore in santità e purezza di spirito ed è diventata degna dimora del Figlio. Della sua umanità siamo fatti anche noi; con il suo Figlio condividiamo la stessa umanità perché anche noi possiamo tornare a far splendere e a far godere nel mondo la stessa benedizione, la dimora di Dio in mezzo a noi. L’aspetto assolutamente straordinario del disegno divino per l’uomo, come dice Paolo, è il fatto che prima della creazione del mondo siamo stati scelti, che la Vergine è scelta prima della creazione del mondo, che il Figlio è destinato al mondo prima che il mondo fosse. Una visione del genere, se non è una fantasia, significa che il senso delle cose, della vita, del mondo, ha radicalmente a che fare con l’incommensurabile amore di Dio, la cui luce tutto attraversa e struttura. L’evento dell’incarnazione del Verbo, che costituisce il mistero per eccellenza della storia, ha le sue radici non solo nell’intimità più segreta della Trinità, ma anche nel cuore di questa nostra sorella, la Vergine Maria: “Nel ventre tuo si raccese l’amore, / per lo cui caldo ne l’etterna pace / così è germinato questo fiore”.

A differenza di noi, la Vergine non è caduta nell’inganno che tormenta i figli degli uomini, inganno che presenta il brano della Genesi. Lei è stata duramente provata nella sua umanità e con l’offerta della sua umanità ha permesso all’amore di Dio di svelarsi al mondo; ha conosciuto la sofferenza dell’amore con il suo Figlio e ora accompagna ogni sofferenza umana perché venga aperta all’esperienza dell’amore. In lei la sofferenza non ha generato ribellione, il dramma non ha velato la fede, il desiderio non ha compromesso l’amore, l’agire non ha macchiato la coscienza. E questo perché l’unico rimedio all’inganno è “andare incontro al Signore”, così tipico dell’anima della Vergine.

L’uomo, invece, si dibatte nell’inganno: la nostra individualità ce ne certifica la compromissione con la ribellione e la gelosia, mentre la sofferenza della nostra umanità svela faticosamente le tracce della nostalgia di Dio. Se Dio proclama l’inimicizia tra satana e la donna, simbolo contemporaneamente di Maria e dell’umanità, significa che quell’inimicizia dichiarata da Dio è posta a salvaguardia della nostra umanità, che non può trovare beatitudine nell’inganno e quindi non potrà compiersi stando dalla parte dell’avversario.

Lei proclama: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. Come a dire: Dio solo sia benedetto, si realizzi la sua promessa, si manifesti in me, finalmente e compiutamente, il suo Bene all’umanità! Proclamandosi serva del Signore esprime il suo desiderio della dimora di Dio in mezzo agli uomini, di cui tutto il suo essere è testimonianza e intercessione per l’umanità intera. Ma esprime anche la preghiera di ogni credente, di ogni discepolo del Signore: avvenga per me secondo quello che hai stabilito fin dall’eternità, si compia in me quello che dalla fondazione del mondo hai promesso all’umanità, si veda realizzato in me quel Regno che nel tuo Figlio hai fatto venire. Così, il suo avere il Signore con lei è motivo di fiducia per noi di trovarlo, di essere accompagnati a lui, di stare in sua compagnia. Il Signore è con te diventa, nella nostra preghiera: “tu, che hai il Signore, supplicalo perché sia anche con noi, ora e sempre!”.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo di Avvento

III Domenica

(11 dicembre 2022)

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Is 35,1-6a.8a.10;  Sal 145 (146);  Gc 5,7-10;  Mt 11,2-11

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In preparazione alla festa del Natale di Gesù, il brano evangelico di oggi ha il pregio di porre la domanda essenziale. Chi vedremo nel bambino di Betlemme? Chi dobbiamo vedere? La serietà della domanda è sottolineata dal dramma vissuto da Giovanni Battista alla fine della vita. Si trova in prigione e sente parlare di quello che Gesù fa. Non era proprio quello che si era immaginato rispetto al messia che aveva indicato presente nel mondo: è lui o dobbiamo aspettare un altro? Ma con la domanda affidata ai suoi discepoli costringe Gesù a esporsi.

Probabilmente, non è che lui dubita di Gesù, ma i suoi discepoli. Come ultima cosa che può fare, invia i suoi discepoli a sincerarsi perché seguano colui che lui aveva indicato come l’Inviato. Gesù, nella sua risposta, parla la lingua del Battista, cita le Scritture e gli manda a dire che quello che i profeti avevano preannunciato, ora si compie. Le sue parole sono una composizione di passi del profeta Isaia (Is 26,19; 29,18; 35,5; 42,7; 61,1). Con due sottolineature. Gesù riassume la sua missione messianica con l’annuncio del vangelo ai poveri. Ma il testo di Isaia comportava l’unzione per colui che aveva il compito di evangelizzare i poveri: “Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore, il giorno di vendetta del nostro Dio, per consolare tutti gli afflitti, per dare agli afflitti di Sion una corona invece della cenere, olio di letizia invece dell’abito da lutto, veste di lode invece di uno spirito mesto” (Is 61,1-3). Il che significa che Gesù è proprio l’Unto, il Messia, Colui che fa l’opera di Dio a salvezza dei suoi figli, nonostante le sue opere siano diverse da quelle che ci si sarebbe aspettato dalla predicazione del Battista.

La seconda sottolineatura, una aggiunta specifica di Gesù ai passi scritturistici citati, suona: “E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo”. La sottolineatura rispecchia il dramma della domanda. La risposta di Gesù non chiude il problema, nel senso che resterà sempre aperta per tutti coloro che verranno dopo il Battista, poiché non sarà mai scontato il mistero della ‘debolezza’ di Dio. Gesù esalta la fede del Battista, lo rassicura. Gesù non gli risponde: sì, sono io il messia; ma: tu sei l’Elia che deve venire. Su quella assicurazione, il Battista comprende: è proprio lui il messia. Non c’è più motivo di scandalizzarsi perché la sapienza di Dio opera secondo i suoi segreti. Il senso però drammatico della domanda del Battista resterà in tutti i discepoli proprio perché la Sapienza di Dio opera secondo i suoi segreti.  Lo scandalo del Messia povero e disarmato non finisce mai nella nostra vita. La rivelazione di Dio sorpassa ogni pensiero, sorprende le attese del cuore perché “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18). Il volto di Dio lo vedono coloro che non si scandalizzano della sua piccolezza quando, ormai sfigurato sulla croce, allorché nemmeno d’uomo aveva più l’aspetto, accolgono tutto il mistero di Dio nel suo amore agli uomini, vedono cioè la sua scelta di essere Dio per gli uomini, non di sembrarlo soltanto.

La liturgia di oggi, consapevole della vicinanza del mistero del Natale che ci prepariamo a celebrare e della perenne portata di scandalo di quell’evento, indica la porta di accesso per il mistero di Dio in Gesù. Invita alla gioia, alla letizia, che suona scandalosa per la carne. Se l’uomo fosse davvero giusto, potrebbe gioire. Ma può l’uomo trovare nella sua giustizia la fonte della letizia? Se l’uomo potesse vantarsi di una scienza sicura e onnipotente potrebbe gioire. Ma può derivare all’uomo la letizia dalla potenza della scienza? Tutti ci rendiamo conto dell’illusione di una letizia che avesse tali radici.

Ora, proprio la possibilità di una letizia che non ha bisogno di trovare nella propria giustizia e nella propria scienza la radice della sua desiderabilità rivela al cuore dell’uomo la presenza finalmente del Dio con noi, del Dio che accondiscende alla nostra umanità perché risplenda della sua luce sanante. Gesù rivela proprio questo al Battista e quando ne tesse l’elogio non fa che mettere in risalto la grandezza della sua umanità, tutta protesa al mistero di Dio, ma che a paragone della ricchezza di verità che viene da Dio risulta essere assolutamente incompiuta. Ma l’ammissione di tale incompiutezza è espressione della vera grandezza del Battista, che riconosce nel Figlio dell’uomo la ‘grazia della verità’ che viene da Dio. Come dice il profeta Isaia, nella versione della LXX: “Ecco il nostro Dio ci rende e ci renderà giustizia, verrà lui stesso a salvarci” (Is 35,4).

Quando Giacomo, nella sua lettera, invita alla pazienza (nel testo italiano traduciamo con costanza: ‘siate costanti’), invita a camminare e a lavorare con generosità e fiducia in vista della manifestazione del Salvatore al nostro cuore, finché essa diventi radice di letizia: il Signore è con noi! Solo allora non scambieremo più le nostre opere con la pretesa di giustizia o la nostra scienza con la rivendicazione di potere e sapremo rapportarci a tutti nella condivisione di quella letizia che fa conoscere a tutti l’amore salvatore di Dio. Sarà il senso della gioia del Natale scoperta come radice di speranza per il mondo che trova nella presenza del ‘Dio con noi’ la ragione profonda della sua storia.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo di Avvento

IV Domenica

(18 dicembre 2022)

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Is 7,10-14;  Sal 23 (24);  Rm 1,1-7;  Mt 1,18-24

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Nella serie delle testimonianze a favore del Figlio di Dio che si fa uomo secondo la liturgia dell’avvento, Giuseppe è l’ultimo testimone e viene chiamato in causa proprio in rapporto alla profezia di Isaia. Paolo, nel saluto iniziale ai Romani, proclama: “… il vangelo di Dio, che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne”. Quel Figlio è la buona novella di cui tutte le Scritture raccontano la promessa e si fa uomo nella linea della discendenza davidica, discendenza che Giuseppe assicura. Quando l’angelo gli appare, chiama Giuseppe ‘figlio di Davide’. Naturalmente, Giuseppe non ha più nulla della gloria mondana di una discendenza regale, e tuttavia assicura a Gesù la verità del titolo ‘Figlio di Davide’.

L’interesse del vangelo di Matteo nel presentare Gesù è incentrato sul fatto che Gesù è generato dallo Spirito Santo, nella discendenza di Davide, secondo le promesse. Ieri è iniziata la novena del Natale e i vangeli dei primi due giorni riprendono la narrazione matteana della genealogia e della nascita di Gesù, brano proclamato oggi.  Il racconto di Matteo comporta molti particolari singolari. Non parla semplicemente della nascita di Gesù, ma specificamente della sua concezione ‘dallo Spirito Santo’. Matteo per Gesù usa il termine γενεσις (origine, generazione) e non γεννησις (nascita). Si richiama al libro della Genesi, perché parla dell’origine di Gesù e non semplicemente della sua nascita. Curiosamente si può notare che nella Bibbia, quando si presenta una genealogia, lo si fa nel senso di una discendenza, vale a dire dei figli (ad es., di Adamo, Gn 5,1), mentre per Gesù la si descrive nel senso di una ascendenza: ‘figlio di Davide, figlio di Abramo’. Siccome la promessa riguarda il regno di Davide, Matteo si premura di inscrivere la genealogia di Gesù nella discendenza davidica. Ed è caratteristico che nell’elenco genealogico il verbo ‘generò’ ricorre 39 volte, mentre la quarantesima volta, a proposito di Gesù, il verbo è al passivo ‘fu generato’. Ciò significa che con Gesù termina l’interesse per l’attesa messianica di ascendenza davidica, in quanto, se prima era sempre un uomo a generare, con lui è lo Spirito Santo a generare, la promessa è compiuta, il regno si è manifestato.

Ed è qui che Matteo inserisce la figura di Giuseppe. Due sono i crucci di Giuseppe. Sa dell’innocenza della sposa. Se è dichiarato giusto, lo è in ragione della presunzione di innocenza per la sua sposa che gli avrà parlato della cosa. Si trova confuso non perché sospetta della sua infedeltà, ma perché, secondo la legge, non potrebbe prendere come sposa una donna che aspetta un bambino da un altro. Nemmeno però ha mai pensato di ripudiarla perché sa che la sua sposa è innocente, sa che l’evento viene da Dio ma non sa come viverlo, forse non si sente all’altezza. Come fare? Questo è il secondo cruccio. Non ha deciso nulla, si trova a rimuginare questi pensieri senza decidersi sul da farsi. L’unica cosa certa è che non vuole causare offesa alla sua sposa.

A questo punto interviene l’angelo in sogno. Matteo è l’unico autore del Nuovo Testamento che riporta una rivelazione durante un sogno. Due cose lo convincono nelle parole dell’angelo che nel sonno percepisce nitidamente: tu devi dare il nome a questo bambino; si compie la profezia di Isaia. Dare il nome al bambino significa non solo che lui accoglie in casa la sua sposa, ma che accoglie il bambino come suo e in questo si sente invitato a un compito speciale direttamente da Dio. La conferma delle Scritture, che lui conosceva bene, lo convince nella fiducia che la cosa corrisponde al volere di Dio. Matteo cita il testo di Isaia dalla versione greca della LXX e non dal testo ebraico ma modificando un particolare che risulta convincente per Giuseppe. Il testo di Isaia suona: “Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà [chiamerai, secondo alcuni codici] Emmanuele”. Matteo riporta: “Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele”. Giuseppe sa che il nome che dovrà dare al bambino è Gesù, mentre tutti coloro che lo conosceranno lo riterranno l’Emmanuele, cioè il compimento della promessa di Dio nell’amore per l’umanità.

Giuseppe accoglie: la grazia viene dall’alto. Ma Giuseppe acconsente nella sua umanità: dalla terra germoglia il Salvatore. La sua vocazione può essere definita come l’accettazione del compito affidatogli in rapporto al disegno di Dio di rivelare il Suo Amore agli uomini. E la sua obbedienza si rivela nel fatto di accettare di svolgere una parte semplicemente a favore della sua sposa, dentro un disegno più grande di lui, che imparerà a decifrare lungo tutta la sua vita senza mai essere in primo piano. Di Giuseppe i vangeli non riportano alcuna parola; annotano solo i suoi pensieri, le sue decisioni, la sua obbedienza adorante e la sua premura per la sua sposa e il suo bambino. Entra nella gloria di Dio, che è splendore di amore per l’uomo, nella consapevolezza soltanto di permettere al Signore di realizzare le sue promesse d’amore all’umanità. Ma non sa in anticipo cosa questo gli richieda; sa solo che questo è il suo compito e in tutta obbedienza lo eseguirà, fedele in tutto e in ciò ritrovando gli aneliti supremi del suo cuore di uomo e di credente.

L’aveva proclamato solennemente la profezia di Isaia: “Stillate dall’alto, o cieli, la vostra rugiada e dalle nubi scenda a noi il Giusto; si apra la terra e germogli il Salvatore” (Is 45,8), ripresa dall’antifona di ingresso. Il testo è riportato secondo la versione della Volgata che attualizza messianicamente il testo ebraico più generico che parla solo di giustizia e di salvezza. Come è possibile che uno contemporaneamente scenda dall’alto e germogli dal basso? Viene dal cielo e germoglia dalla terra, come segno dell’azione di salvezza di Dio per l’uomo: “Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele”.

Così si manifesta la gloria del Dio-con-noi, che, mentre rivela la grandezza del suo amore per l’uomo, rende l’uomo capace di operare in quell’amore, tanto da indurre tutti a vedere la vicinanza di Dio. È appunto il mistero dell’agire divino che il profeta fa risaltare e che vale anche per noi. È la colletta a proclamarlo: “… concedi anche a noi di accoglierlo e generarlo [= Verbo della vita] nello spirito, con l’ascolto della tua parola, nell’obbedienza della fede”. Dio, non semplicemente viene vicino a noi, ma germoglia dalla nostra umanità. Ciò significa che Dio è più intimo a noi di noi stessi; che Dio costituisce il senso della nostra stessa umanità. Così la vocazione di ciascuno di noi, nella fede, non è che quella di acconsentire a che il disegno di amore di Dio per gli uomini ci raggiunga e si manifesti e ci abiliti a diventare dei segni nell’unico Segno che rivela compiutamente il volto d’amore di Dio, Gesù Cristo, Salvatore.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo di Natale

Natale del Signore

(25 dicembre 2022)

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Messa vespertina della vigilia:          Is 62,1-5; Sal 88; At 13,16-17.22-25; Mt 1,1-25

Messa della notte:                              Is 9,1-6; Sal 95; Tt 2,11-14; Lc 2,1-14

Messa dell’aurora:                             Is 62,11-12; Sal 96; Tt 3,4-7; Lc 2,15-20

Messa del giorno:                              Is 52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18

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La liturgia canta l’evento del Natale di Gesù in termini di luce: tutto è luminoso, nella gioia. Una delle antifone della novena aveva proclamato: “O Astro che sorgi, splendore della luce eterna, sole di giustizia, vieni, illumina chi giace nelle tenebre e nell’ombra di morte”. Risuona limpido nella messa del giorno il versetto del prologo di Giovanni: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta” (Gv 1,4). Sono però gli occhi del cuore, emozionati, a vedere la luce, perché gli occhi fisici vedono altro. Vedono un semplice neonato, in condizioni disagevoli, per quanto circondato di tenerezza. Per di più, nel dramma che incombe perché il bambino sarà cercato per essere ucciso, dovrà fuggire, nonostante la visita di personaggi illustri, anche se sconosciuti, che gli presentano doni specialissimi. Vivrà nel nascondimento, fino al giorno della sua manifestazione. Gli antichi pittori di icone avevano segnalato tutti questi elementi: il bambino giace in una grotta scura, la mangiatoria assomiglia a una tomba, i pannolini alludono alle fasce mortuarie. Eppure, c’è qualcosa nell’aria di irresistibilmente luminoso, che apre i cuori alla speranza. Il racconto evangelico lascia questa impressione.

La ragione? Forse l’ha colta molto bene s. Efrem che canta: “Quanto sei audace, o bimbo, che a tutti ti concedi. A chiunque ti viene incontro tu sorridi e di chiunque ti guarda tu hai desiderio. È come se il tuo amore avesse fame degli uomini. Non fai distinzione tra i tuoi parenti e gli estranei, tra tua madre e le serve, tra colei che ti ha allattato e le donne impure. È questa la tua audacia o il tuo amore, o tu che tutti ami?”.

Davanti al Bambino che veniamo ad adorare, ci accompagna l’eco delle parole del Padre: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento” (Lc 3,22), proferite al battesimo di Gesù nel Giordano.  Nella genealogia di Gesù che Luca fa seguire, quel Bambino non risale ad Abramo, ma discende da Dio, assumendo Adamo: viene svelato il mistero della sua identità di Figlio di Dio, il mistero dell’amore di Dio nel quale prende origine la creazione dell’uomo e la storia di amore di Dio con l’umanità. Gesù è il sigillo di questa storia d’amore di Dio con l’umanità; è colui che ci introduce in questa storia e ce ne svela il senso. Come, sempre s. Efrem, canta nei suoi meravigliosi inni natalizi: “Benedetto colui che si è fatto piccolo senza misura, per farci diventare grandi senza misura… Beato chi ha fatto dimorare le tue gioie nel suo cuore e che ha smarrito in te le sue pene!… Benedetto colui che è venuto in ciò che è nostro e ci ha uniti a ciò che è suo!… Benedetto colui che è all’altezza dei nostri tormenti. Benedetto colui che ha trionfato nei nostri tormenti. Il nostro corpo è diventato il tuo vestito, il tuo Spirito è diventato il nostro abito. Benedetto colui che si è adornato e ci ha adornato”.

La liturgia bizantina gli fa eco con espressioni mirabili invitandoci però prima ad elevarci: “Eleviamoci divinamente per contemplare la divina discesa dall’alto a Betlemme, verso di noi, visibilmente” e proclama: “Gloria alla tua condiscendenza, o solo amico degli uomini”; “La tua nascita, o Cristo nostro Dio, ha fatto sorgere per il mondo la luce della conoscenza”. È il calore luminoso che si sprigiona dall’amore finalmente conosciuto nella sua concretezza che ti tocca: ‘Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio unigenito’ nella forma più accattivante e, nello stesso tempo povera, di un piccolo bambino. Fatto, che fa esclamare a Paolo nella sua lettera a Tito: “è apparsa la grazia”, “apparvero la bontà e l’amore”. Apparve, prende forma visibile, toccabile. Esperienza che risulterà evidente con la persona concreta di Gesù tanto che oramai Dio non può essere cercato che nell’umanità, perché con l’umanità si è confuso. Nel farsi bambino di Dio c’è tutto l’onore e la dignità dell’umanità da riscoprire nella sua luminosità. Abbiamo dimenticato che siamo fatti di luce. E la luce non è che l’irradiamento della santità di Dio come amore per noi. Proprio questo quel bambino, diventato grande, farà scoprire mostrando sia Dio come amore che ci cerca sia l’uomo che a quell’amore anela.

La luce, che rifulge nella notte di Natale, è la luce della gioia e dell’amore eterno di Dio per l’uomo, di cui il mondo è intessuto e da cui è attraversato, la luce della Presenza e della Dimora di Dio in mezzo agli uomini, che tutta la Rivelazione testimonia e che ora trova come il suo svelamento e il suo compimento. Come accennavo sopra, la luce non è semplicemente per gli occhi, ma per il cuore. È la luce che si irradia dagli occhi quando il cuore è capace di commuoversi alla percezione della Presenza di Dio che si fa toccabile in quel bambino. È interessante osservare che i salmi responsoriali delle tre messe natalizie fanno parte del gruppo di salmi che la tradizione ebraica proclama in ricevimento del sabato, sacramento della Presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Non si tratta solo di acutezza di sguardo, ma anche di commozione del cuore davanti all’amore del Signore che si accompagna a noi secondo le modalità della nostra umanità.

Se consideriamo le collette, la progressione della comprensione del mistero di quel Bambino, nato per noi, è delineata secondo la traiettoria: l’evento sprigiona una tale luce (notte) da investire il nostro agire (aurora) per partecipare alla stessa vita di Dio (giorno). “O Dio, che hai illuminato questa santissima notte con lo splendore di Cristo, vera luce del mondo …” (notte); “…fa’ che risplenda nelle nostre opere il mistero della fede che rifulge nel nostro spirito” (aurora); “…fa’ che possiamo condividere la vita divina del tuo Figlio…” (giorno) e questo è lo scopo di tutta la nostra gioiosa adorazione.

Possano i nostri cuori percepire quei segreti e scoprire le radici della letizia in questo mondo. La letizia dell’annuncio natalizio costituisca il vigore dell’anima e lo spazio di intelligenza del cuore per la vita propria e quella di tutti.

BUON NATALE A TUTTI.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Solennità e feste

Maria ss. Madre di Dio

(1 gennaio 2023)

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Nm 6,22-27;  Sal 66 (67);  Gal 4,4-7;  Lc 2,16–21

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Il nuovo anno inizia con la celebrazione dell’ottava del Natale, festa della divina maternità di Maria. È come un’invocazione di benedizione su tutto l’anno. Dal Padre, che ha benedetto la Vergine Maria, la quale porta ed ha dato alla luce il Benedetto, discende per noi ogni benedizione. Se la formula di benedizione riportata nel libro dei Numeri concerne Israele, il salmo 66 la estende a tutta l’umanità perché ormai Colui, che del Padre è lo splendore, è nato per noi. In Lui si concentra la pienezza di benedizione, in Lui che è nato nella pienezza dei tempi, come dice l’apostolo. Ciò significa che la Sua benedizione copre tutti i tempi e contemporaneamente ogni genere di tempo, tutto il tempo della vita in tutte le situazioni possibili.

Quando il canto al vangelo proclama: “Dio ha parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” allude non semplicemente al fatto che Colui che era stato annunciato dai profeti è venuto, ma che in Lui si compiono tutte le possibilità dei tempi.

Nessuno meglio della Vergine Maria ha visto l’estensione e la profondità della benedizione di Dio sull’umanità: “Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace” (Num 6, 24-26). La benedizione può essere così intesa:

– che tu possa sentirti dentro confini di benevolenza, possa sentire alleata la vita e Padre tuo il tuo Dio

– che il volto del Signore si riveli al tuo cuore e renda luminoso il tuo volto del suo splendore

– possa fare esperienza del Suo perdono, del Suo farsi grazia a te e sentirti fortificato, imprendibile, per il legame di intimità che ti custodisce nella Sua pace.

E così apparterrai al Suo amore, non desiderando altro se non di attrarre a questo amore tutto e tutti finché ci si possa riposare insieme nella Sua benedizione.

Così porranno il mio nome e io li benedirò” continua il testo dei Numeri, come a dire: poni su di te una Sua parola, la sua Parola e lei sarà la tua benedizione, ti custodirà e ti terrà compatto, dentro un’intimità, alle radici del cuore.

La colletta, quando prega: “Padre buono, che in Maria, vergine e madre, benedetta fra tutte le donne, hai stabilito la dimora del tuo Verbo fatto uomo tra noi…”, riprende la dichiarazione di Giovanni: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Ma anche la promessa di Gesù ai discepoli: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). La benedizione di Dio per l’uomo consiste proprio nel suo dimorare fra noi, in noi.

L’aspetto straordinario, sconvolgente, dell’amore di Dio per l’uomo, che però spesso nemmeno siamo più capaci di percepire, è dato dal fatto che possiamo essere accolti in quella stessa intimità di vita e di relazione che esiste tra il Padre e il Figlio e che ci è fatto dono di quella stessa intimità. Sembra strano, ma soltanto da dentro quella intimità possiamo sperare di compiere la volontà del Padre nella nostra vita e sentirci avvolti dalla sua benedizione. Se prima non si gusta la volontà di benevolenza di Dio nei nostri confronti, che si esprime nella benedizione che è il Cristo per noi, come poter arrivare alla gioia dell’osservanza dei comandamenti? Se non percepiamo come Cristo non antepose nulla all’amore per noi, come possiamo noi non anteporre nulla all’amore per Cristo e ritrovarci amati dal Padre, che nel suo Figlio ha posto tutta la sua compiacenza? Il mistero della benedizione di Dio sull’uomo sta tutto qui e tutta la vita della Vergine, come il suo parto prodigioso, è lì a dimostrarlo.

Gli angeli, apparendo ai pastori, annunciano “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà” (tradotto con più esattezza: ‘agli uomini che egli ama’). Il significato più veritiero di questa lode sta nell’affermare che, se gli uomini vogliono vedere il volto sorridente di Dio nei loro confronti, vogliono essere accolti dallo splendore del suo sguardo benevolo e compiaciuto, come descrive il libro dei Numeri, devono compiacersi di quel Figlio, in quel Figlio, sul quale si concentra tutta la benevolenza assoluta di Dio. E non in quel Figlio eterno, ma in quel Figlio fatto uomo, che ha preso carne, che conosce il nostro patire, che condivide le nostre aspirazioni, i nostri sentimenti. Quel Figlio è il Volto sorridente del Padre, quel Figlio è la benedizione invocata sull’umanità, quel Figlio è il nome pronunciato e posto sull’umanità perché l’uomo e Dio riconoscano la mutua appartenenza. È quello che la Vergine Maria proclama nella sua divina maternità, come le icone del Natale sottolineano. La Vergine non è rappresentata china sul proprio bambino, ma rivolta ai pastori e al mondo a proclamare che quel ‘figlio’ è la benedizione per loro.

La realtà dell’incarnazione comporta anche la variabile tempo. Ogni cosa ha il suo tempo, ogni cosa ha bisogno del suo tempo. Anche la Vergine Maria ha avuto bisogno di tempo per ‘assuefarsi’ all’agire di Dio. Il brano evangelico la descrive come colei che “custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore”. Evidentemente perché anche per lei la realtà non svelava il suo mistero di colpo. I due verbi significano più direttamente: teneva se stessa e queste cose insieme in cuore, facendole rimbalzare l’una sull’altra in modo da ottenerne una visione d’insieme. Sono termini che illustrano il metodo di lettura delle Scritture: una parola si illumina con un’altra parola ed il senso che ne scaturisce si riverbera nel cuore aprendo la parola al cuore ed il cuore alla parola. E non se ne tralascia nessuna: ‘tutte queste cose’ del testo sono sia le parole udite (dall’angelo, dai profeti, dai pastori) sia gli eventi successi; non si cerca solo quella ‘adatta’ a me, ma ci si ‘adatta’ a loro tutte, insieme. Non si preferisce un tempo (il tempo della gioia, del godimento), ma si tengono insieme tutti i tempi (anche il tempo del dubbio, dell’afflizione). Allora, poco a poco, anche al nostro cuore si svelerà quella ‘benedizione’ che Dio ha posto sull’umanità e la vita tornerà a risplendere della presenza del nostro Dio.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Solennità e feste

Epifania del Signore

(6 gennaio 2023)

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Is 60,1-6;  Sal 71 (72);  Ef 3,2-3a.5-6;  Mt 2,1-12

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La festa di oggi, che in Oriente si festeggia insieme al Natale, viene presentata così nel Martirologio romano: “Solennità dell’Epifania del Signore, nella quale si venera la triplice manifestazione del grande Dio e Signore nostro Gesù Cristo: a Betlemme, Gesù Bambino fu adorato dai Magi; nel Giordano, battezzato da Giovanni, fu unto dallo Spirito Santo e chiamato Figlio da Dio Padre; a Cana di Galilea, alla festa di nozze, mutando l’acqua in vino, manifestò la sua gloria”. Delle tre manifestazioni, soprattutto la prima costituisce il tema della liturgia odierna.

È caratteristico che, come seconda lettura, venga riportata la definizione di ‘mistero’ a proposito della festa di oggi. Mistero è “che le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo” (Ef 3,6). La sottolineatura è la seguente: il progetto eterno di Dio per l’umanità è unico per tutti, per sempre. Si realizza la visione profetica di Isaia: “Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria” (Is 66,18). Gloria, che proprio l’umanità di quel bambino, adorato dai magi, manifesterà nel suo splendore più bello. L’antifona di ingresso della messa si richiama al libro del profeta Malachia, l’ultimo libro dell’Antico Testamento nella versione greca che i cristiani hanno fatto propria: “È venuto il Signore nostro re: nelle sue mani è il regno, la potenza e la gloria”. La cosa straordinaria è che un bambino venga proclamato ‘sovrano, potente e glorioso’! La proclamazione comporta qualcosa di radicalmente nuovo per gli occhi umani o, se vogliamo, comporta la visione di una realtà con occhi radicalmente nuovi.

Stessa novità che sta dietro la proclamazione nei vangeli di Gesù come re (soltanto durante la sua passione Gesù accetta il titolo di re) e particolarmente come re della gloria (titolo che fornisce, da una parte, la ragione della condanna sul patibolo della croce e, dall’altra, per la visione di fede dei credenti, la ragione dell’amore di Dio per l’uomo che proprio sulla croce risplende). È in ragione di quella novità che la manifestazione di Gesù può conquistare le genti e può convincere Israele. Quando la colletta fa pregare: “O Dio, che in questo giorno, con la guida della stella, hai rivelato alle genti il tuo unico Figlio, conduci benigno anche noi, che ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la grandezza della tua gloria”, guida i credenti alla percezione di quella novità e li predispone a cogliere e a vivere dello splendore di quell’amore, che costituisce ormai la ragione di senso del vivere nella storia.

In effetti, come tutti i racconti sulla nascita e sull’infanzia di Gesù, ciò che viene riferito va letto in contrappunto ai racconti della sua passione-morte-risurrezione. Nella narrazione dei Magi che arrivano a Gerusalemme in cerca del re dei Giudei (solo dei pagani potevano chiamare così il nuovo re; un israelita l’avrebbe chiamato ‘re d’Israele’) è presentato il conflitto che opporrà alle autorità ufficiali il vero re e salvatore del suo popolo. Colui che le guide della nazione si rifiutano di ricevere è adorato dalle nazioni; Colui che doveva essere noto a coloro che conoscevano le Scritture, perché di lui le Scritture parlano, viene rivelato a coloro ai quali, non potendo le Scritture parlare, parlano gli astri, messaggeri di Dio. L’episodio dell’adorazione dei Magi non sembra potersi ricondurre a un evento storico preciso, ma, nella logica narrativa di Matteo, la rivelazione è che Dio guida la storia perché sia conosciuto il suo Figlio. Ogni cosa può agire da messaggero di Dio, se il nostro cuore sa guardare in alto. E tutto alla fine conduce a lui, il Salvatore, Colui che rivelerà definitivamente e in tutta pienezza, anche per il nostro cuore, quaggiù o di là, l’infinito amore del Padre per gli uomini, Colui che compirà in tutta la loro estensione i nostri desideri di vita, di santità, di comunione.

La visione dei popoli che si ritrovano a Gerusalemme, ripresa anche dal salmo 71 e celebrata dal salmo 87, mostra come ormai non esista più motivo di distinzione tra gli uomini perché la loro dignità deriva da un’unica radice. In ciò che è essenziale, nella vita, tutti desideriamo le stesse cose, tutti siamo fatti per le stesse cose, tutti siamo chiamati a godere le stesse cose. La dignità degli uomini parla dell’amore di Dio che si è rivelato in quel Figlio di Dio fatto uomo e che nella liturgia odierna è adorato da tutte le genti. Quando Paolo ricorda agli Efesini che il mistero manifestato ora agli uomini è il fatto che i Gentili sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità di Israele, rivela che davanti a Dio sussiste un’unica famiglia umana, destinataria e portatrice allo stesso tempo del Suo amore.

Se il Signore, come dice il salmo 71, interviene a favore del povero e del debole, categorie che attraversano la diversità dei popoli e si riferiscono all’umanità di tutti, significa che chi calpesta il povero e il debole ferisce la propria dignità umana e non rispetta l’immagine di quel Figlio che si è confuso con l’umanità di tutti. Davanti a quel Figlio, bambino, adorato dalle genti – dice il salmo, eco del pensiero di Dio: chiunque tu sia, da qualunque paese provenga, qualsiasi sia stata la tua storia, a qualsiasi cultura appartenga, sappi che qui sei nato, di qui trai vita e qui conducono i tuoi desideri perché qui si compiono i miei progetti: nel mio Figlio! Non è evidentemente una forma di imposizione spirituale all’umanità. Si tratta invece di una visione lucida, nella fede, sulla realtà delle cose e del mondo. Non si tratta di contrapporre una visione ad altra visione, una fede ad altra fede. Si tratta di imparare a stupirsi a tal punto dei pensieri di Dio per l’umanità che la modalità stessa di vivere e testimoniare quella visione non può che essere evangelica, portatrice della buona novella per l’umanità. Per questo l’amore è l’ultima parola convincente, sebbene non sia una parola potente. La debolezza di Dio è più forte della forza degli uomini e la stoltezza di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini: per questo a tutti gli uomini, di ieri, come di oggi e di domani, a tutti spetta questa eredità, che è il Figlio di Dio fatto uomo. E come dice s. Massimo Confessore: “Dall’oriente una stella che brilla in pieno giorno guida i magi verso il luogo dove il Verbo ha preso carne, per dimostrare misticamente che il Verbo contenuto nella legge e nei profeti supera ogni conoscenza dei sensi e conduce le genti alla suprema luce della conoscenza”.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Solennità e feste

Battesimo del Signore

(8 gennaio 2023)

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Is 42,1-4.6-7;  Sal 28 (29);  At 10,34-38;  Mt 3,13-17

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Con la festa del battesimo di Gesù si chiude il ciclo natalizio. Il suo battesimo al Giordano è appunto celebrato nell’ottica natalizia, come una manifestazione di Gesù. Un’antifona della festa dell’Epifania riassume così il mistero celebrato: “Oggi la Chiesa, lavata dalla colpa nel fiume Giordano, si unisce a Cristo, suo Sposo; accorrono i magi con doni alle nozze regali e l’acqua cambiata in vino rallegra la mensa”. Un tropario della liturgia bizantina canta: “Ti sei manifestato al mondo, tu che hai fatto il mondo, per illuminare quanti siedono nelle tenebre. O amico degli uomini, gloria a te”. L’invocazione “o amico degli uomini” comporta tutta la risonanza dell’intimità di un rapporto, come nel Cantico dei cantici l’amata è chiamata amica. Si tratta dell’immagine di fondo del mistero di Dio che si rivela all’uomo: Dio cerca l’uomo, Dio sposa l’umanità. Il mistero d’amore intravisto con la nascita a Betlemme, rivelato essere l’eredità di tutte le genti con l’adorazione dei magi, espresso nella sua valenza redentrice con il battesimo al Giordano, celebrato nella sua gioia messianica alle nozze di Cana e ripresentato ad ogni celebrazione eucaristica, qui è intuito nel suo percorso di attuazione con la solidarietà dell’agnello innocente con i peccatori, in attesa che si realizzi compiutamente con la sua morte-risurrezione. La deduzione immediata che ne scaturisce è che oramai l’umanità appartiene in proprio a Dio, oramai l’umanità, pur con tutto il suo carico di ferite e di paure, è carne del Figlio di Dio, che se l’è assunta nella sua realtà, integralmente. Non si può più parlare di umanità senza che sia Dio ad esserne implicato. Non si può più gemere sull’umanità senza aver compassione di Dio!

S. Efrem canta: “Siete diventati figli di Dio, fratelli e amici di Cristo, congiunti dello Spirito nel battesimo, figli della luce in virtù delle acque. Benedetto colui che ha moltiplicato la vostra bellezza”. E così intravede la compassione di Dio per l’uomo: “Dio, nella sua misericordia, si è chinato ed è sceso, per mescolare la sua clemenza alle acque e unire la natura della sua maestà ai deboli corpi degli uomini. Nelle acque ha trovato il modo di scendere e dimorare in noi, come il modo della misericordia quando scese e dimorò nell’utero. Oh misericordia di Dio, che si cerca tutti i modi per prendere dimora in noi”.

È quanto risalta dalla risposta di Gesù al Battista, riluttante nel battezzarlo. La sua riluttanza è segno della sua giustizia: come è possibile che l’Innocente venga a chiedere a me peccatore il battesimo? Eppure Gesù gli risponde: “Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia”. Non è più però la giustizia secondo la legge, la giustizia dell’uomo a compiersi, ma quella di Dio. Gesù solidarizza con i peccatori, perché il mistero dell’amore di Dio per i suoi figli appaia in tutto il suo splendore. Più tardi sarà accusato di stare con i peccatori, di frequentarli, di essere un mangione e un beone, ma così viene svelata la giustizia di Dio, che è amore per noi.

Così, la voce del Padre non rivela qualcosa di Dio in rapporto a Dio, ma qualcosa di Dio in rapporto all’uomo. Dio si compiace in Gesù per la sua modalità di vivere l’umanità assunta in totale intimità con il suo amore per noi e in totale solidarietà con noi per essere conquistati al suo amore. È il risvolto tutto speciale del mistero del battesimo di Gesù nelle acque del Giordano. Lo sguardo di predilezione del Padre sul Figlio non concerne più oramai solo la persona del Verbo, ma il Verbo nella sua umanità, il Capo con le sue membra. La lettura del profeta Isaia riguarda proprio l’identificazione di Gesù come il servo, l’identificazione del Messia nella sua natura di servo. Non dimentichiamo che questo brano di Isaia ricorre nella liturgia del lunedì della Settimana Santa, a sottolineare la dimensione pasquale di quell’identificazione. In quella natura di servo siamo noi, nella nostra umanità, ad essere considerati. Non dobbiamo perciò pensare che lo sguardo di compiacimento del Padre attenda a posarsi su di noi allorquando saremo capaci di seguire Cristo in una vita santa; è esattamente il contrario. Potremo impegnarci in una vita santa solo se sentiremo sulla nostra umanità peccatrice, ferita e piena di paure, questo sguardo di compiacimento perché Dio ama per primo, perché a Lui apparteniamo, perché siamo la sua stessa carne. Ed è proprio perché la nostra fede squarcia l’orizzonte per introdurci in questa visione che possiamo pregare: “… trasformaci nel Cristo tuo Figlio, che ha congiunto per sempre a sé la nostra umanità”.

La voce del Padre è quella di cui Gesù dirà: “Io sono nel Padre e il Padre è in me” (Gv 14,10); “Io dico quello che ho visto presso il Padre” (Gv 8,38); “Io invece lo conosco” (Gv 8,55); “Faccio quello che il Padre mi ha comandato” (Gv 14,31). Amato non dice soltanto tutta l’intimità goduta tra il Padre e il Figlio, ma illustra anche lo sconfinato amore per l’umanità che i due condividono. Amato o unico o preferito fa pensare ad Abramo, pronto ad immolare il figlio Isacco (Gen 22,2); rimanda al figlio della parabola dei vignaioli omicidi (Mc 12,6); ha attinenza con “Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16), ha attinenza al mistero dell’amore del Padre per l’umanità di cui il Figlio è il rivelatore, lui che è il Volto visibile del suo splendore. È l’amato perché il Suo Amore di Padre in lui è perfetto nel senso che in lui si compie perfettamente il Suo volere di benevolenza per l’umanità e lui non ha altro volere che quello di compierlo perfettamente: “Mio cibo è fare la volontà del Padre” (Gv 4,34). È amato perché non solo il Suo Amore si volge verso di lui, in lui si posa, ma anche si riposa, sta soddisfatto, ne ottiene la risposta più piena.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo Ordinario

II Domenica

(15 gennaio 2023)

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Is 49,3.5-6;  Sal 39 (40);  1 Cor 1,1-3;  Gv 1,29-34

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Dopo il battesimo di Gesù al Giordano, la chiesa celebra il mistero del Cristo secondo la testimonianza degli apostoli così espressa nel prologo del vangelo di Giovanni: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14). I vangeli raccontano appunto la ‘gloria’ contemplata nella persona di Gesù. Il primo capitolo del vangelo di Giovanni si premura come di fissare con poche pennellate quella gloria, in un lasso di tempo di sei giorni, dopo i quali, il settimo giorno, si narra la venuta di Gesù a Gerusalemme per la Pasqua. Il brano di oggi è collocato il primo giorno dopo il battesimo di Gesù, che Giovanni non racconta, ma di cui parla spiegando come lui ha vissuto quell’evento. Gli eventi sono narrati sul modello del racconto della creazione della Genesi: con il battesimo di Gesù ha inizio la nuova creazione.

Se entriamo nel brano di vangelo di oggi con il canto all’alleluia scopriamo il senso della testimonianza del Battista: “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; a quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio”. Il Battista testimonia: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29). A garanzia di verità della sua affermazione, riporta la sua esperienza: ‘ho visto scendere e rimanere su di lui lo Spirito’. L’essere agnello comporta l’essere pieno dello Spirito. Cosa significa? S. Paolo, nella sua lettera ai Romani, spiega: “tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!»” (Rm 8,14).

È lo Spirito a guidare Gesù nel suo essere agnello, cioè obbediente fino alla morte e alla morte di croce, perché così si manifesta in tutto il suo splendore l’amore di Dio per noi. Lo Spirito fa fare esperienza totale a Gesù dell’amore del Padre per noi, da viverlo in totale solidarietà con la nostra umanità, tanto che i cristiani hanno riferito a Gesù il titolo di Servo, come leggiamo nel profeta Isaia, servo dell’amore del Padre per noi in tutta profondità e intensità. Nella lingua aramaica, parlata da Gesù, servo e agnello sono definiti da un unico termine ‘talya’. Non solo. Ma nell’evento del battesimo al Giordano, quando si ode la voce del Padre, le parole intuite, come riporta il testo di Matteo, sono: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento” (Mt 3,17). Si chiude il cerchio. Servo-Agnello-Figlio: ecco il mistero della persona di Gesù contemplato nella sua ‘gloria’.

Quella ‘gloria’, accogliendo la persona di Gesù nel suo mistero, si comunica a noi, nel senso che in lui anche noi diventiamo figli e come figli possiamo agire, come Gesù nella sua umanità, rispetto alla grandezza dell’amore del Padre per noi. E qual è il tipo di azione che caratterizza i figli di Dio? L’essere guidati dallo Spirito, cioè l’essere guidati nell’esperienza dell’amore del Padre per noi e per tutti lungo la nostra storia, in tutti gli eventi della nostra storia, finché, come dice Paolo, Dio sia tutto in tutti. È questa la prospettiva che presiede alla contemplazione della ‘gloria’ di Gesù.

Un particolare della testimonianza del Battista è assolutamente prezioso, letto nell’ottica pasquale. Quando il Battista vede venire verso di lui Gesù all’indomani del suo battesimo esclama: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo”. Gesù toglie nel senso che prende su di sé il peccato del mondo, ma non lo toglie dal mondo. Il mondo sarà sempre lì a testimoniare la sua contrarietà al volere di Dio, all’agire di Dio, nella storia e nel cuore degli uomini. Ma chi aderirà a Gesù, chi lo seguirà, chi si farà guidare dallo Spirito di cui lui è ripieno, non subirà danno dal male che imperversa in questo mondo. Come è stato per lui. Proprio quando il male si è come concentrato su di lui per distoglierlo dal suo segreto, proprio allora lui l’ha vinto con la sua assoluta fedeltà all’amore per noi, nella più totale intimità con il Padre suo che ama noi suoi figli. Di sé Gesù dirà: io ho vinto il mondo! Così anche i suoi discepoli, ma nella stessa via, negli stessi modi. Come leggevo in una testimonianza di una donna lacerata dal dolore per le vessazioni e le ingiustizie subite: il male si vince davvero solo con il bene.

Gesù è servo del volere di salvezza del Padre nei nostri confronti. L’aver accettato di prendere un corpo e di vivere nella natura di servo sottolinea l’obbedienza a questa volontà di salvezza del Padre per noi. Se Gesù prende un corpo, lo prende non solo per compiere il volere di salvezza di Dio per l’uomo, ma anche per mettersi in condizioni di compiere quella salvezza in termini di splendore di amore e di nient’altro. Non c’è ombra di ‘potenza’ nell’amore che Gesù manifesta nascendo come un bambino, vivendo da uomo, presentandosi al battesimo come un peccatore e morendo sulla croce; eppure, non c’è potenza più forte di quell’amore che non si fa vincere da nulla. È l’amore che magnifica il Signore davanti all’uomo e l’uomo davanti a Dio.

L’aspetto più straordinario poi è dato dal fatto che questa obbedienza fino all’immolazione in croce è vissuta in quanto Figlio, intimo del Padre. La sua intimità di sentire e di agire con il Padre è definita in rapporto all’amore per noi: tutti e due condividono lo stesso immenso amore per noi. E proprio la visione della discesa e permanenza su Gesù dello Spirito, dopo il battesimo al Giordano, rivela questa comunanza del Figlio con il Padre nell’opera della nostra salvezza. È lo Spirito che, colmando Gesù nella sua natura di servo, lo rende solidale con l’amore del Padre per noi da indurlo a fare sempre la volontà del Padre, cioè a cercare in ogni modo, senza alcuna riserva, con tutto lo splendore di amore che comporta, la nostra salvezza. In altre parole, Gesù tende a inglobare noi, per mezzo dello Spirito, nella stessa comunione di amore che lo lega al Padre e a noi. E sarà per questo che il segno dell’esperienza di salvezza per noi verrà individuato nell’amore a Dio e nella solidarietà piena con i nostri fratelli, in Cristo.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo Ordinario

III Domenica

(22 gennaio 2023)

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Is 8,23b-9,3;  Sal 26 (27);  1 Cor 1,10-13.17;  Mt 4,12-23

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Dopo che l’evangelista ha narrato il battesimo di Gesù e le sue tentazioni nel deserto, presenta la sua predicazione. Alcuni particolari sono estremamente significativi. Gesù inizia la sua predicazione in Galilea, regione che allora era abitata promiscuamente da ebrei e pagani. Fin dall’inizio, anche se poi non ne farà più cenno, Gesù è presentato nella sua valenza universale: è il Salvatore di ebrei e pagani, dei due forma un popolo solo, tutti invitati alla stessa mensa dell’amore di Dio, di cui lui è il testimone per eccellenza. Incomincia a predicare dopo l’incarcerazione del Battista. Gesù non si sovrappone al Battista, comincia a predicare dopo che il Battista non può più farlo. Non sta nella stessa regione del Battista, la Giudea, ma ritorna in Galilea, e non alla sua casa di sempre ma va ad abitare a Cafarnao, la città dei primi discepoli. E della sua predicazione si riporta che consiste nell’insegnare, nell’annunciare e nel guarire (cf. Mt 4,23), mostrando così la differenza con la predicazione del Battista perché di lui non si dice che percorreva i villaggi, che insegnava e che guariva ogni sorta di malattia e infermità.

Un dettaglio poi sembra essere stato aggiunto da Matteo a bella posta: “Da allora Gesù cominciò a predicare …” (Mt 4,17). Nel vangelo di Matteo per due volte viene riportato: “Da allora Gesù cominciò …”. Il primo stacco temporale, come nel brano odierno, riguarda l’inizio della predicazione di Gesù alle folle, dopo che Giovanni Battista è stato incarcerato: “Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino»”. Il secondo, dopo la confessione di fede di Pietro a Cesarea, Gesù comincia ad annunciare ai discepoli la sua passione (cfr. Mt 16,21). Si tratta di decisioni precise di Gesù che vive il suo mandato messianico in vista della rivelazione della grandezza dell’amore di Dio per l’uomo.

Convertitevi, dice Gesù, riprendendo la stessa predicazione di Giovanni Battista. Come ci dicesse: ‘aprite gli occhi, riconoscete la via di Dio; tornate a sentire la bontà di Dio per voi; rinverdite il cuore, svegliatelo all’intelligenza degli eventi, alla libertà del desiderio, svegliatelo all’amore; tornate a gustare la vita nella comunione col vostro Dio’! Siccome nella lingua ebraica e aramaica il termine cielo non esiste al singolare, Gesù chiama il suo regno ‘regno dei cieli’, cioè il regno di Dio. Intendendo due cose: quel regno non è relegato nei cieli ma si manifesta sulla terra; quel regno è diverso dai regni della terra, è di natura celeste. Proprio quel regno è vicino, vale a dire è venuto a voi, lo potete vedere e toccare. Toccare, sì, toccare. Quando i discepoli di Gesù hanno provato a riassumere la loro esperienza del Maestro si sono espressi così: “quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita …” (1Gv 1,1).

Gesù, proprio per sottolineare la possibilità perenne di toccarlo per quanti lo incontreranno, sceglie gli apostoli, che il vangelo di Marco dirà “perché stessero con lui e per mandarli a predicare” (Mc 3,14). La realtà della vicinanza di quel regno è tale che può toccare i cuori, che può muoverli a non desiderare altro se non quel regno da condividere con tutti perché ti riempie la vita. Non si tratta tanto di raccontare da parte dell’evangelista la cronaca della vocazione degli apostoli, ma di mostrare la potenza dell’iniziativa di Dio che dà corso alla sua opera di salvezza. Quando commento questo passo, riporto sempre la spiegazione di Gregorio Magno, il quale, rilevando la prontezza dei pescatori a seguire la chiamata di Gesù, riflette sul fatto che a dire il vero quegli uomini avevano ben poco da lasciare essendo poveri. Ma, aggiunge “ha molto lasciato chi non ha tenuto nulla per sé”. È appunto il senso della fede genuina. Non importa lasciare poco o tanto; l’importante è non conservare nulla per sé, vale a dire fidarsi fino in fondo di Colui che si è incontrato e che ci ha incontrati, per tutto il cammino, con tutte le fatiche che comporta, in modo che la grazia dell’incontro possa rivelare tutti i suoi frutti, nel tempo.

Non si può non notare il fatto che gli apostoli non sono stati chiamati semplicemente alla sequela di Gesù, ma alla sequela di Gesù che è inviato a portare a tutti la salvezza e la consolazione (vi farò pescatori di uomini). Seguire Gesù comporta un’esperienza di vita, la condivisione del suo insegnamento e della sua missione; dice prima di tutto quanto l’intimità di vita con il Signore sia sconfinata nel senso che non può ripiegarsi su se stessa, ma continuamente si traduce in condivisione della misericordia di Dio per l’umanità. L’intimità con Dio comporta sempre una buona dose di sana angoscia per i propri fratelli e per questo non sta mai chiusa: fin dove c’è un uomo, fin dove c’è un livello di umanità non ancora aperto alla grazia dell’incontro, fin dove c’è una malattia da curare, l’apostolo, come Gesù, non si dà pace. Più profonda è la pace che viene dalla grazia dell’incontro, meno pace si dà finché tutti i fratelli possano godere della stessa grazia. Il senso del guarire ogni sorta di malattie e di infermità da parte di Gesù in missione, come avverrà per gli apostoli inviati in missione (imporranno le mani ai malati e questi guariranno, Mc 16,18), è proprio questo: condividere la misericordia di Dio per l’umanità.

Altro particolare estremamente significativo è il fatto che Gesù chiama non semplicemente a seguirlo, ma a mettersi dietro a lui, come poi dirà Gesù a Pietro quando lo rimprovererà per aver pensato non secondo Dio (cfr. Mt 16,23). Corrisponde a quanto il salmo fa dire al fedele: “Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita”. Qual è l’unica cosa necessaria da domandare? Tutto dipende dalla profondità che nei nostri cuori ha raggiunto la conversione al vangelo del regno.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo Ordinario

IV Domenica

(29 gennaio 2023)

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Sof 2,3; 3,12-13;  Sal 145 (146);  1 Cor 1,26-31;  Mt 5,1-12a

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Dopo aver descritto Gesù che percorre i villaggi insegnando, annunciando il regno e guarendo le malattie, Matteo si premura di presentare, come in una magna carta che dovrà servire di riferimento fondamentale, cosa Gesù insegni: le sue beatitudini. Da notare subito: insegna, non semplicemente parla o annuncia. L’insegnamento partecipa del contesto che Paolo descrive nella sua lettera ai Corinzi: “Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio”. È da quel contesto che vanno ascoltate le beatitudini. In pratica, si ascoltano come una deduzione dall’aver contemplato la vita, la morte e la risurrezione di Gesù nella sua potente testimonianza della grandezza dell’amore del Padre per noi. Le beatitudini parlano di lui, della sua manifestazione della grandezza dell’amore di Dio, del frutto dell’accoglienza del regno.

Gesù non sta esortando ad essere felici; sta rivelando l’accesso alla felicità, sta mostrando come partecipare alla sua intimità di Figlio inviato a mostrare la grandezza dell’amore di Dio per l’uomo.  Molto spesso noi prendiamo il vangelo come una specie di correttore/perfezionatore della nostra visione umana del mondo. La sua, però, di Gesù dico, non è una visione complementare alla nostra, ma una visione radicale, che svela i segreti della nostra umanità.

L’uomo aspira alla felicità? Allora Gesù ne traccia le coordinate che la strutturano perché il cuore dell’uomo non fallisca lo scopo della vita. Potremmo anche domandarci: perché è venuto meno il timbro della gioia nell’esperienza della vita cristiana in questo mondo? Perché la sequela del Signore ci lascia piuttosto indifferenti quanto alle energie del cuore, perché sembra suscitare più timore che felicità? Non ci siamo più premurati di cogliere le beatitudini come porte di accesso al mistero di Dio che viene a noi e al mistero dei cuori quanto agli aneliti che li attraversano, limitandoci a vederle come un ideale di perfezione da perseguire, di fatto però irraggiungibile e perciò ininfluente sulle energie di vita dei cuori.

La liturgia ce le fa leggere dentro la prospettiva del Regno, come il salmo responsoriale 145 sottolinea, esplicitando la profezia di Sofonia: “Il Signore regna per sempre”. L’espressione corrisponde a quanto proclamerà la moltitudine dei santi in paradiso: “La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all’Agnello” (Ap 7,10). Se l’uomo non può darsi la salvezza, nemmeno può darsi la felicità. Il salmo lo dichiara a chiare lettere quando nei primi versetti dichiara: “non confidate nei potenti, in un uomo che non può salvare”, da rendere con più precisione, secondo la versione greca: ‘in un uomo che non ha salvezza’.

La felicità è paradossale. Tutti sappiamo che il piacere te lo puoi prendere, ma la gioia non te la puoi dare. La gioia o la felicità non si prende dove sembra di vederla, ma la si ottiene spesso con ciò che sembra il contrario. Perché in gioco è la credibilità stessa di Dio che viene incontro all’uomo, senza però mai poterlo convincere all’evidenza. Nella felicità è in gioco non semplicemente l’esaudimento di un cuore, ma l’incontro di due, la comunione di due.

Le beatitudini sono otto. La prima e l’ultima comportano la stessa promessa: ‘perché di essi è il regno dei cieli’ e racchiudono le altre sei. C’è un doppio movimento nell’elenco delle beatitudini: un movimento di concatenazione e un movimento circolare. La concatenazione riguarda lo spazio definito dalla seconda alla settima, mentre il movimento circolare è dato dal ritornare dell’ottava alla prima per riavviare, a livelli sempre più profondi, la concatenazione. Se non si coglie il dono di quel ‘regno dei cieli che è venuto a noi con Gesù’, come poter afferrare la potenza di quella felicità nuova promessa? In effetti, la felicità è definita nei termini di una appartenenza (‘di essi è il regno dei cieli’), appartenenza che allude a una comunione di amore ardentemente desiderata e finalmente goduta. Corrisponde al godimento del regno proclamato nella parabola profetica del giudizio finale, alla gioia del banchetto messianico, alla consumazione di un amore che aveva ferito il cuore. Solo che le condizioni che la permettono sono paradossali: si parla di povertà e di persecuzione. Il significato mi sembra questo: l’esperienza promessa è nuova rispetto a tutto ciò che può produrre il mondo. Ma è tale che può portare a compimento tutto ciò che nel mondo si vuol vivere.

In effetti, le promesse di compimento rispetto alle condizioni elencate (beati gli afflitti, i miti, gli affamati della giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace) parlano di qualcosa che i nostri cuori cercano comunque: essere consolati, godere ciò che ci appartiene, essere saziati negli aneliti più profondi, essere graziati anche nella nostra indegnità (=misericordia), essere fatti capaci di vedere, vivere nella comunione del Padre da figli felici.

Tenuto conto che Gesù parla a cuori che si stanno aprendo alla rivelazione del regno giunto a loro, la felicità scaturisce dai passaggi indicati:

se ti affliggi solo per la potenza del male che ti domina e dal quale vuoi esserne liberato;

se non avrai altro motivo di ira se non quello di opporti al maligno e così custodirti dolce con tutti;

se cercherai la giustizia al di sopra del tuo interesse;

se condividerai con tutti la misericordia che avrai gustato nel perdono di Dio;

se sarai così privo di rivendicazioni e pretese da vedere tutto e tutti nella luce di Dio di cui godrai la presenza;

se seguirai l’opera di Dio che è la fraternità tra gli uomini,

allora – è la promessa della settima beatitudine – sarai come il Figlio di Dio che, per essere venuto a testimoniare quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini, non ha preferito se stesso all’amore che lo divorava e ha accettato di essere consegnato nelle mani degli uomini.

Se nella persecuzione l’uomo non perde la sua gioia, allora vuol dire che la potenza del Regno l’ha lambito, che la sua felicità non dipende più dal mondo. Non avrà più bisogno di cercare altra affermazione di sé perché ha trovato quella capace di soddisfare l’anelito del suo cuore, che così sarà confermato nella rinuncia alla brama di ogni bene che non sia espressione di quell’esperienza. Tanto che si affliggerà ancora più profondamente del male che in lui si annida e ripercorrerà la concatenazione dei passaggi a livelli sempre più coinvolgenti, finché tutto in lui splenda della bellezza del Regno.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo Ordinario

V Domenica

(5 febbraio 2023)

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Is 58,7-10;  Sal 111 (112);  1Cor 2,1-5;  Mt 5,13-16

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Gesù proclama: “Voi siete il sale della terra… Voi siete la luce del mondo…”. Quel ‘voi’ si riferisce ai discepoli la cui vita esprime la potenza delle beatitudini che immediatamente prima Gesù aveva proclamato. Si tratta di quei discepoli che, insultati, perseguitati, sparlati, custodiscono la letizia dell’incontro con il Signore Gesù, che è diventato per loro ragione di vita e principio dell’agire. Non per nulla la liturgia fa leggere, abbinato al brano evangelico di Matteo, un passo del profeta Isaia dove si profetizza l’esistenza dell’Israele gradito a Dio come una esistenza ricca di misericordia per tutti, ricca del dono della fraternità a tutti perché segno della comunione realizzata con Dio, che si è reso presente in mezzo a loro. La luce di cui risplende l’umanità abitata da Dio è la luce della fraternità condivisa.

Fermiamoci un momento sul passo del profeta Isaia. Fa capire bene il senso della parola di Gesù ai discepoli. Certamente noi vorremmo percepirci luminosi, ma tutti facciamo i conti con la tenebra che oscura il nostro cuore in termini di chiusura, oppressione, angoscia. Il profeta proclama: “Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio … allora brillerà fra le tenebre la tua luce”. Siamo abituati a riferire la luce all’intelligenza. Ma la Scrittura suggerisce un riferimento diverso. La luce sorge se si spezza il pane con l’affamato, se si ha misericordia del prossimo. La luce viene per l’agire del cuore. All’esercizio dell’intelligenza va abbinato il calore del cuore,  perché è il cuore il luogo della presenza, dell’incontro. Solo in questo calore l’intelligenza è retta. Quando Matteo dirà: “siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (5,48), lo dirà in seguito all’invito ad amare i propri nemici e Luca interpreta: “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso” (6,36).

In pratica il profeta Isaia elenca le cinque condizioni, tre negative e due positive, per diventare luce. Occorre prima togliere l’oppressione, il puntare il dito, il parlare empio. Nella versione della LXX si specifica: togliere il laccio, lo stendere la mano, la parola di lamentela. Per dirla con le mie parole: va eliminato ogni tipo di inganno, accusa e parola malevola contro il prossimo. Le due condizioni positive sono: aprire il cuore all’affamato, saziare l’afflitto di cuore. Con la sfumatura della versione greca: dare a chi ha fame il pane di cuore, saziare una persona umiliata. Vale a dire: non basta sfamare il corpo, occorre saziare anche l’anima del prossimo quando è afflitto. E fare questo con tutto il cuore. È allora che sorge la luce, espressione della sensazione di Dio, sempre con noi, quando il cuore non si perde in altro, ritrovandosi saziato nei suoi desideri.

Quando Massimo Confessore spiega l’invocazione ‘non ci indurre in tentazione’ nella preghiera del Padre Nostro, ha l’ardire di precisare: “La Scrittura rivela infatti con questo come chi non ha perfettamente perdonato a chi cade e non ha presentato a Dio un cuore privo di tristezza, reso splendente dalla luce della riconciliazione con il prossimo, non otterrà la grazia dei beni per cui ha pregato, e, per giusto giudizio, sarà consegnato alla tentazione e al Maligno. Imparerà così a purificarsi dalle colpe, eliminando le sue lagnanze contro gli altri …”. Ci dice in sostanza che non subiremo tentazioni se avremo la capacità, da assimilare poco a poco, di non accusare nessuno perché allora – continua Isaia – “implorerai aiuto ed egli dirà: Eccomi!”. Quando il cuore non accusa nessuno, neanche se stesso, non può cedere all’oppressione, perché il Signore è con lui. Non c’è sventura o afflizione capace di ferirlo a tal punto da aver bisogno di cercare la sua giustizia o la sua rivalsa contro qualcuno, distogliendolo dall’intimità con il suo Signore.

Quando Gesù chiede ai discepoli di essere luce del mondo non possiamo non riferirci al fatto che di se stesso Gesù dice che è la luce del mondo. È detto in due passi del vangelo di Giovanni: “veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,9; “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12). Gesù non chiede ai discepoli di essere ciascuno una luce, ma rivela che tutti insieme, innestati in lui, sono luce perché partecipano della sua luce. Un’antica glossa bizantina spiega il passo di Matteo così: “Non dice: voi siete luci, ma voi siete luce, perché essi [discepoli] tutti insieme sono il corpo del Messia che è la luce del mondo” (cfr. Gv 3,19; 8,12). Diventano luce del mondo nel senso che la presenza di Dio, resa come visibile nel mondo attraverso il loro agire secondo le beatitudini, costituisce l’orizzonte di senso della vita. Le beatitudini non sono se non le vie per le quali si può partecipare alla effusione nell’universo della carità pura di Dio. È la carità a custodire i cuori preservandoli dalla corruzione e facendo gustare il sapore genuino della vita (ecco l’azione del sale) e li illumina aprendoli alla verità e riscaldandoli (ecco l’azione della luce).

Quanto al sale, la potenza dell’immagine risiede nel fatto che il sale dà sapore alle cose ma le cose non possono dare il sapore al sale. Il che significa: i discepoli sono chiamati a permeare il mondo con la sapienza del vangelo, ma non servono a nulla se il mondo permea loro con la sua sapienza. I discepoli, mantenendo il mondo degli uomini nell’alleanza con il loro Dio, che li vuole in comunione con lui e tra di loro, tornano a far splendere la Sua presenza tra di loro e rendono la vita desiderabile e amabile.

Se Gesù chiede ai discepoli di essere la luce del mondo, vuol dire che chiede loro di essere il segno della misericordia di Dio tra gli uomini, come lo è lui stesso. Non si tratta di una possibilità, ma di una grazia: è la grazia di un incontro, che si è tradotto in comunione di vita. La testimonianza di Gesù si risolve nel far vedere quanto è grande l’amore del Padre per gli uomini, che vuole riuniti nella comunione con lui e fra di essi. La forza che realizza tale comunione è lo Spirito donato da Gesù, Spirito la cui opera precipua è proprio quella di realizzare un’umanità solidale, in Cristo Gesù. Quando i discepoli, che hanno condiviso con Gesù il segreto del Padre, si lasciano travolgere dalla stessa dinamica di rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini, diventano sale della terra e luce del mondo.

In questo senso l’invito e il comando ad essere sale e luce si riferisce all’attuazione di quello che Gesù dirà ai suoi discepoli alla fine del vangelo: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli … insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28,19-20). Se le nostre opere buone devono risplendere davanti agli uomini, secondo il comando di Gesù, ciò significa che le nostre opere buone devono essere a vantaggio, per profitto degli uomini [così si dovrebbe tradurre il ‘davanti agli’ uomini] permettendo loro di sperimentare l’amore di Dio per loro.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo Ordinario

VI Domenica

(12 febbraio 2023)

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Sir 15,15-20;  Sal 118 (119);  1Cor 2,6-10;  Mt 5,17-37

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Nella tradizione ebraica si trova questa affermazione: “La Torà che si impara in questo mondo non è nulla in confronto alla Torà del Messia” (Midrash Qohelet 11,8). Il vangelo di Matteo interpreta la Legge con gli occhi di Gesù perché Gesù è la Torà vivente. Benché il suo insegnamento sia riportato con una serie di antitesi: “Avete inteso che fu detto … ma io vi dico”, non si tratta di contrapporre Antico e Nuovo Testamento. Gesù parla di compimento, di pienezza. Cosa significa? L’insegnamento di Gesù consiste nello sviscerare quello antico, interpretandolo secondo l’autorità che aveva all’origine. Risale all’intenzione stessa di Dio nel dare la Torà.

È caratteristico che la finestra di luce per cogliere il vangelo nella sua portata di rivelazione sia costituito dalla lode che Gesù innalza al Padre vedendo i suoi discepoli tornare contenti dopo la predicazione: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché ai piccoli hai rivelato i misteri del regno” (Mt 11,25). Sta dicendo loro che la gioia che provano non dipende dalla grandezza delle opere compiute, ma dal vivere la comunione con Dio che vuole la salvezza di tutti. Tale principio di comunione non tiene in alcun conto la grandezza degli uomini, tanto che quando Gesù dovrà svelare il suo destino di Messia annunciando la sua passione si premurerà di tenere i suoi discepoli al riparo da ogni meschina grandezza, così ambita dagli uomini. La cosa è ribadita nel brano evangelico di oggi dicendo che gli uomini, davanti a Dio, non saranno grandi se faranno cose grandi, ma se terranno aperte le cose piccole, ogni cosa più piccola, al mistero del Regno, alla percezione del Regno. Quello che vale per le Scritture, vale anche per la nostra vita.

Unico è il principio di fondo, riconducibile all’eccedenza del vangelo rispetto alla legge: “se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5,20). Potremmo interpretare così. Cercare di arrampicarsi fino al cielo con l’esibizione delle proprie opere è fatica vana. In altri termini: cercare semplicemente di essere irreprensibili non porta alla gioia. E siccome il regno dei cieli è la condivisione della gioia di Dio che si appressa all’uomo attirandolo a sé, inondandolo del suo amore e indirizzandolo a vivere di quell’amore verso tutti, pensare alla propria irreprensibilità è fatica sprecata. Le parole del Signore, i suoi comandamenti, non sono semplici ingiunzioni o precetti alla cui osservanza è promessa la nostra beatitudine futura. Sono assai di più, sono rivelazione di Lui, modalità di partecipazione alla stessa vita divina, spazi di comunione con lui e con i fratelli, luoghi di intimità. Gesù allude sempre nel suo annuncio del Regno a una eccedenza, a una sovrabbondanza rispetto alla giustizia che cerchiamo con le nostre opere. In effetti, il senso della nostra vita si gioca non nel fare il bene, ma nel farlo per entrare nel segreto di Dio. È un’intimità, che fa vivere la vita dentro un’obbedienza e un’alleanza che sperimentiamo a nostro favore; un’intimità capace di riempire il cuore, di rendere la vita degna di essere vissuta.

In questa luce, la ‘giustizia superiore’ alla quale Gesù invita i suoi discepoli non si riferisce ad opere diverse da quelle comandate in precedenza, come esistesse un’opera maggiore rispetto a quelle di prima, ma alla capacità di percezione e alla fedeltà all’intenzione segreta di Dio a cui le opere richieste rimandano. Il ‘compimento’ di cui parla Gesù non allude all’aggiunta di qualcosa, ma alla radicalità dell’esperienza che rimanda direttamente a Dio e alla sua rivelazione. Il compimento di Gesù, che risalterà in tutto il suo splendore con la sua passione e morte, mostra la profondità di provenienza dei comandamenti e la bellezza della promessa di Dio racchiusa nei comandamenti perché l’uomo possa finalmente godere della comunione con il suo Dio, dentro un’umanità solidale, e non semplicemente ‘tenerlo buono’ con la propria giustizia, dal momento che la propria giustizia non fa splendere il cuore.

Così, gli esempi che Gesù porta dicono ciò che conta nell’osservanza dei comandamenti, cioè la tensione del cuore. Non basta non uccidere fisicamente per non essere condannati davanti a Dio. Se il cuore coltiva l’ira contro il proprio fratello, non sarà mai luminoso. I padri del deserto hanno ben interpretato il senso di questi versetti: hai offeso tuo fratello? L’hai ucciso! È la radicalizzazione dell’amore ottenuto con la vigilanza sul cuore per custodirlo nella mitezza e rapportarsi al fratello nella benevolenza di Dio. La stessa cosa vale per la preghiera. Sarebbe vano cercare di tirare Dio dalla nostra parte facendo valere le nostre ragioni. Dio accorre in un cuore che splende della benevolenza verso il prossimo. D’altra parte, quella luminosità non si può ottenere se non si è in armonia con il proprio mondo interiore. È il detto sul mettersi d’accordo con il proprio avversario prima del giudizio. Detto, che i Padri hanno sempre interpretato nel senso di non fare mai nulla contro la propria coscienza, che agisce come il nostro accusatore. Fare armonia significa vivere unificati e solo a questo livello non si è passibili di giudizio.

Anche rispetto all’adulterio vale la stessa osservazione. Senza la purità dello sguardo, il cuore non può restare puro. Purità, che si ottiene con la rinuncia a un certo uso dei sensi esteriori per non atrofizzare il senso interiore. È l’esemplificazione paradossale dell’invito: rinnega te stesso! Ma siccome Gesù ha di mira la tensione del cuore, il valore dell’invito non può essere negativo. Gli atti negativi non hanno plausibilità per il cuore. L’invito significa invece: fai spazio a ciò che davvero conta, fai crescere ciò che risponde al desiderio profondo del cuore, sii creativo nel bene e non semplicemente negatore del male. Come l’antica colletta ben esprime: “O Dio, che hai promesso di essere presente in coloro che ti amano e con cuore retto e sincero custodiscono la tua parola, rendici degni di diventare tua stabile dimora”.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo Ordinario

VII Domenica

(19 febbraio 2023)

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Lv 19,1-2.17-18;  Sal 102 (103);  1Cor 3,16-23;  Mt 5,38-48

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Le specificazioni di Gesù sondano in profondità il comando di Dio proclamato nella prima lettura: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo” (Lv 19,2), che il salmo responsoriale riprende con la rivelazione del nome di Dio: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore” (Sal 102,8). Se riandiamo al contesto in cui quel nome era stato proclamato possiamo cogliere la portata della santità che definisce Dio nei confronti dei suoi figli e che abilita i suoi figli ad essere tali, come a Lui è gradito, per rivelare al mondo la grandezza del suo amore. Il popolo nel deserto, esasperato e impaziente, costruisce il vitello d’oro e rifiuta l’alleanza con il suo Dio che non sentiva più accanto. Quando Mosè discende dal monte e vede l’idolo eretto nell’accampamento si infuria, spezza le tavole della Legge e cade in profonda prostrazione: cosa farà ora il Signore? Starà ancora dalla parte del suo popolo? E di me che ne sarà? Mosè sta solidale con la sua gente, ricorda a Dio che questo è il suo popolo e per essere confermato chiede a Dio di vedere la sua gloria. E quando la gloria del Signore gli si manifesta, ode la proclamazione del nome: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso …” (Es 34,6). È la seconda volta che Dio rivela il suo nome e questa volta nel dramma più assoluto, confermandosi comunque e sempre a favore del suo popolo.

Quando Gesù, a sigillo dei suoi inviti ad andare oltre la Legge, dirà: “Voi dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”, non farà che far emergere in tutto il suo splendore la luminosità della santità di Dio che si rivela nella sua misericordia senza limiti all’uomo. In effetti, non c’è scritto da nessuna parte nell’Antico Testamento di amare il prossimo e odiare il nemico. Quella espressione non appartiene alla rivelazione di Dio. Al cuore dell’uomo sembrava di poter interpretare il comandamento di Lv 19,18: “Amerai il tuo prossimo come te stesso” nel senso di: “tu devi amare il tuo compagno, ma sei dispensato dall’amare il tuo nemico”. Gesù ricollega l’amore del prossimo all’imitazione di Dio, il cui nome, rivelato a Mosè sul Sinai, suona appunto: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore”. La misericordia è tipica di Dio. Nell’Antico Testamento l’aggettivo ‘misericordioso’ è attribuito solo a Dio e mai all’uomo, mentre nel Nuovo Testamento l’aggettivo ‘perfetto’ si dice dell’uomo e mai di Dio. Il che significa che ciò che fa splendere il cuore dell’uomo è l’amore pieno di misericordia: esprime la partecipazione alla santità di Dio e la natura della ‘perfezione’ richiesta all’uomo.

La giustizia basata sul principio della reciprocità alla quale gli uomini in genere si attengono non rivela ancora lo splendore di Dio. Gesù invita alla santità come comunione di vita con Dio, alla santità come partecipazione all’amore di Dio per i suoi figli. L’invito allude alla natura stessa del cuore dell’uomo, che ha una profonda nostalgia di Dio. Non tanto però di Dio in generale, ma dei comportamenti secondo Dio, comportamenti che strutturano i sogni del cuore degli uomini. Con l’invito a quell’eccedenza, Gesù non fa che svelare le possibilità del cuore dell’uomo una volta che si lasci toccare dalla rivelazione del regno dei cieli, che in lui si fa manifesto e partecipabile.

Se poi consideriamo il passo parallelo di Luca, con gli esempi che adduce, cogliamo ancora meglio la natura della perfezione richiesta all’uomo per godere della rivelazione del regno dei cieli:

fate del bene a coloro che vi odiano’: agite in modo che risplenda il bene per coloro che vi odiano;

benedite coloro che vi maledicono’: portate in pace la maledizione che vi viene dagli uomini senza scadere nella vendetta delle parole; mantenete il cuore nella pace senza corromperlo con la rabbia di parole insolenti; non ricambiate con parole irose chi vi ferisce, né in voi stessi né in presenza d’altri, custodendo l’onore per la persona che l’ha calpestato;

pregate per coloro che vi trattano male [che vi calunniano]’: resistete alla tristezza che vi invade quando siete calunniati per malevolenza e invidia; la preghiera sincera vi custodirà nella carità.

Così la ‘ricompensa’ di cui parla Matteo allude all’agire che esprime la gioia del Regno di Dio che ha lambito il cuore e che rende capace l’uomo di comportarsi non in termini di pura reciprocità, ma in una logica di sovrabbondanza. È la capacità che il Messia dona ai suoi discepoli, quello che l’antica colletta domanda: “possiamo conoscere ciò che è conforme alla tua volontà e attuarlo nelle parole e nelle opere”. Da interpretare: possiamo aprire il nostro cuore alla promessa di vita che la parola del Signore cela e possiamo aprire gli eventi della nostra vita al Regno che viene.

Se la Legge aveva stabilito quella che siamo soliti chiamare la legge del taglione nel tentativo di arginare la sete di vendetta di fronte alle offese, Gesù ricorda di non opporsi nemmeno al malvagio, nel senso di rispondere al male con il bene perché il male non si propaghi. Gli esempi hanno un valore simbolico per sottolineare l’eccedenza nel volere il bene comunque (come racconta Gv 18,22-23, Gesù non ha offerto l’altra guancia a colui che l’aveva schiaffeggiato di fronte al Sommo Sacerdote, ma ha custodito comunque il bene!). ‘Chi ti costringe ad accompagnarlo per un miglio’ allude al diritto dei funzionari del re di costringere chiunque all’aiuto richiesto, come sarà il caso del cireneo che porterà la croce di Gesù per un tratto di strada e Gesù invita ad agire non per dovere o sotto costrizione, ma in benevolenza. Tra l’altro, il verbo italiano angariare deriva dall’obbligo di una prestazione forzata imposta dalla pubblica autorità. La finale, che riassume il senso di tutti gli esempi riportati: “Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”, richiama proprio la santità di Dio, che è amore per tutti i suoi figli, il cui bene precede l’agire degli uomini e quindi non ne dipende. L’eccedenza, a cui allude Gesù, ha proprio a che fare con questo ‘Bene’ di Dio che in Gesù si comunica all’uomo perché l’uomo non dipenda mai dal male, anche se lo subisce. La legge potrebbe essere definita come la fatica di arginare il male, mentre l’evangelo la possibilità di vincerlo. Alla fin fine solo la fiducia in quella possibilità ci rende capaci di neutralizzare il male, di non dar spazio al male.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo di Quaresima

I Domenica

(26 febbraio 2023)

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Gn 2,7-9; 3, 1-7;  Sal 50 (51);  Rm 5,12-19;  Mt 4,1-11

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La preghiera della Chiesa così commenta l’episodio delle tentazioni nella vita di Gesù: “…concedi al tuo popolo di intraprendere con la forza della tua parola il cammino quaresimale, per vincere le seduzioni del maligno …” (colletta) e “Egli consacrò l’istituzione del tempo penitenziale con il digiuno di quaranta giorni, e vincendo le insidie dell’antico tentatore ci insegnò a dominare le seduzioni del peccato …” (prefazio). L’uomo è soggetto alle seduzioni del maligno e del peccato, questo è il fatto! Per non soccombere, la Chiesa, guardando a Gesù, su cui è fondata, inaspettatamente suggerisce l’unica via di uscita possibile: “… concedi a noi tuoi fedeli di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo …” (antica colletta) e “Il pane del cielo che ci hai dato, o Padre, alimenti in noi la fede, accresca la speranza, rafforzi la carità, e ci insegni ad aver fame di Cristo, pane vivo e vero, e a nutrirci di ogni parola che esce dalla tua bocca” (orazione dopo la comunione).

Senza tentazioni non c’è verità, dicevano i nostri padri. Nella percezione psicologica la lotta spirituale sembra tesa a ‘dominare le seduzioni’ del male, che non smette mai di far sentire la sua presenza ingombrante e spesso angosciosa con la scusa di attirarci a qualcosa di attraente e fascinoso. Ma nella dinamica spirituale, tipica del nostro cuore, la lotta è per crescere nella ‘conoscenza del mistero di Cristo’, vale a dire per aprirci ad un’umanità che Gesù ha fatto splendere e che il nostro cuore sogna. Il dilemma dell’uomo, alla fine, non è tra dipendenza e libertà, ma tra autosufficienza e libertà. L’illusione è l’indipendenza intesa come autosufficienza. Non per nulla Gesù risponde agli attacchi del maligno con le parole della Scrittura, con la sottomissione radicale alla parola di Dio, che libera. Gesù non appare come l’eroe o il superuomo che sa combattere e vincere, ma come colui che sta sottomesso in modo così radicale da godere della libertà di Dio, che è amore per noi.

Il maligno, non essendo stupido, non tenta certo di distogliere Gesù da Dio per indurlo al male. La sua azione è più raffinata. Gli suggerisce che ci sarebbe un modo più diretto ed efficace per arrivare al suo scopo. L’inganno sta nel fatto di fargli fare qualcosa in nome di Dio senza condividere il segreto di Dio, senza il compiacimento di Dio. Le tentazioni hanno appunto lo scopo di distoglierci dall’obiettivo vero per suggerirne uno fasullo. Le tre tentazioni sono precedute dall’annotazione che, dopo quaranta giorni di digiuno, Gesù ebbe fame. Non si tratta solo di una fame materiale (solo la prima tentazione alluderebbe direttamente al desiderio di cibo) ma del suo desiderio di realizzare il compito di cui è stato investito come Messia: manifestare l’amore di Dio, portare tutti a Dio. Il suo aver fame richiama il grido sulla croce: ho sete (Gv 19,28). Ha fame e sete degli uomini. È nel suo zelo per gli uomini che viene tentato.

La scena richiama l’esperienza del popolo di Israele in viaggio verso la terra promessa nel suo peregrinare nel deserto, luogo della rivelazione di Dio e nello stesso tempo luogo di terribili tentazioni. Le risposte che Gesù dà al diavolo sono tutte citazioni prese dal libro del Deuteronomio (Dt 8,3; 6,16; 6,13), soprattutto da quel capitolo 6 che contiene la professione di fede del pio israelita, lo Shema Israel.

Dal punto di vista di Dio, che consente il sopraggiungere della tentazione, in gioco è la verità della sua promessa al nostro cuore: ci è promessa la vita, ma non secondo il proprio piacere; ci è promesso il soccorso, ma dentro una provvidenza che impariamo ad accogliere; ci è promessa la gloria, ma non per i propri interessi.

Le parole di satana nella seconda tentazione sono rivelate in tutta la loro portata nel momento cruciale della vita di Gesù allorché, appeso in croce, si sente apostrofare: “Ha salvato altri e non può salvare se stesso! È il re d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui. Ha confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: ‘Sono Figlio di Dio’!” (Mt 27, 42-43). Vi sono racchiuse in sintesi tutte e tre le tentazioni. Nella logica del maligno, di cui gli uomini fanno le spese nella loro vita, veramente Gesù non può salvare se stesso (non si sfama con un miracolo), non può dimostrare nulla (non si butta dal pinnacolo) e non viene liberato dalla morte (adora davvero Dio solo). Eppure, proprio quel non salvare se stesso, non voler dimostrare nulla, non essere liberato dalla morte, comporterà la rivelazione del vero amore di Dio che riempie la sua vita e che riverbererà sul cuore degli uomini che non vorranno più illudersi.

Le risposte di Gesù frantumano l’illusione con la quale il diavolo irretisce per impedirci di essere liberi e veritieri. In effetti, il vero scopo della tentazione non è mai diretto, è subdolo, perché l’intenzione del maligno resta segreta al nostro cuore: se mi adorerai, tutto sarà tuo! Nemmeno ci accorgiamo che nella tentazione è in gioco la cattura della nostra libertà come figli di Dio. Lo scopo del vincere l’illusione lo rivela assai bene s. Francesco nel suo commento al Padre nostro: “sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra: finché ti amiamo con tutto il cuore, sempre pensando a te; con tutta l’anima, sempre desiderando te; con tutta la mente, orientando a te tutte le nostre intenzioni e in ogni cosa cercando il tuo onore. E con tutte le nostre forze, spendendo tutte le nostre energie e sensibilità dell’anima e del corpo a servizio del tuo amore e non per altro; e affinché amiamo il nostro prossimo come noi stessi, trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo amore, godendo dei beni altrui come dei nostri e compatendoli nei mali e non recando offesa a nessuno”. È l’illusione infranta, la libertà acquisita, lo spazio nuovo dell’umanità da riempire.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo di Quaresima

II Domenica

(5 marzo 2023)

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Gn 12,1-4a;  Sal 32 (33);  2Tm 1,8b-10;  Mt 17,1-9

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L’esperienza sul Tabor ha senso per un cuore che canta con il salmo: “Il mio cuore ripete il tuo invito: ‘Cercate il mio volto!’. Il tuo volto, Signore, io cerco” (Sal 26/27,8). Reso nella versione latina con il trasporto dell’emozione, come dentro un’attesa amorosa: “Tibi dixit cor meum: exquisivit te facies mea; faciem tuam, Domine, requiram”. Quel volto che, sul monte, ai tre discepoli brilla come il sole. Un attimo, sufficiente però a imprimere indelebile quella visione negli anfratti del cuore se, dopo tanti anni, rimane intatta nella memoria di Pietro: “Egli infatti ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: «Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento». Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte” (2Pt 1,17-18).

L’esperienza però non è esaltante. È drammatica. Non è un caso che la trasfigurazione sia collocata tra due annunci della passione, a sottolineare che il Figlio di Dio risorto e il Figlio dell’uomo che soffre devono stare insieme nella fede dei discepoli. La consegna del silenzio riguarda proprio la natura della gloria di Gesù. Non si tratta di parlare di Gesù in termini di divinità gloriosa e potente, ma in termini pasquali: colui che ha sofferto la passione è colui che viene esaltato con la risurrezione. E questo non poteva essere colto che alla conclusione della storia di Gesù. La cosa ha un risvolto potente, che non è mai assimilato una volta per tutte dai credenti. La profezia di Daniele sul figlio dell’uomo: “Gli furono dati potere, gloria e regno: tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto” (Dn 7,14) risponde all’essenza di quel silenzio perché l’unico potere di vittoria che Gesù si arroga è quello dell’amore crocifisso. Tanto da far dire al papa Leone Magno: “è più importante pregare per la pazienza che per la gloria”.

In tal senso, trovo decisivo per i discepoli non ciò che accade sul monte, ma dopo, quando si ritrovano davanti Gesù solo, senza la gloria intravista e senza la compagnia celeste di Mosé ed Elia.  Tra l’altro, proprio in quell’occasione Mosé ed Elia vengono illuminati da Gesù sul significato della loro opera e sul segreto di Dio che la loro opera voleva manifestare. Tanto che quando Gesù resta solo, viene come sottolineato che oramai tutto prende luce solo in Gesù. E se Pietro si perde in vaneggiamenti, non fa che riesprimere quello che gli era stato difficile comprendere una settimana prima a Cesarea, quando non riusciva ad accogliere il destino di passione di Gesù.

La sincerità del cuore credente è abbinata all’accoglienza della rivelazione della passione, ad accogliere lo scandalo della croce, come Gesù ripetutamente insegna ai suoi discepoli. Nelle antiche icone della trasfigurazione, i tre apostoli sono raffigurati scaraventati a terra e solo come di soppiatto riescono a intravedere la scena straordinaria che si presenta ai loro occhi. Il testo del vangelo li descrive nell’atto di svegliarsi come da un sonno, resi capaci per un attimo di restare abbagliati dalla visione di Gesù con i suoi interlocutori mentre questi si congedano da lui. Più che la visione il testo accentua la voce: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo”. Sensazione rimarcata dal fatto che la voce orienta gli sguardi, non alla gloria di Gesù, ma al Gesù solo, al Gesù dell’aspetto di sempre, quello che gli apostoli conoscevano bene, quello che con decisione andrà a Gerusalemme per subirvi la passione.

Nel contesto della narrazione evangelica l’evento della trasfigurazione si presenta come la firma all’intero vangelo, che si concluderà con la confessione di fede del centurione sotto la croce e con la glorificazione di Gesù, il Crocifisso. Quel Gesù, di cui è detto alla fine dell’evento della trasfigurazione: “Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo”, è proprio il Figlio di Dio che annuncia agli uomini la volontà del Padre e l’evangelo del Regno. I discepoli sono invitati a cogliere l’invisibile nel visibile, la divinità nell’umanità e proprio nell’umanità calpestata, che resta fedele all’amore.

Nel cammino degli apostoli l’evento della trasfigurazione, riservato ai tre discepoli che presenzieranno al dramma del Getsemani, ha un valore di conferma della loro fede in Gesù, fede che sarà duramente messa alla prova al tempo della passione. Non che l’evento risparmi agli apostoli la prova, ma farà in modo che i loro cuori, quando saranno smarriti e confusi, non si separeranno dal loro maestro, anche se momentaneamente lo abbandoneranno. È anche lo scopo segreto della preghiera. Non si tratta di godere di una visione, ma di essere confermati nel cuore per poter sostenere la prova e seguire il Signore fino a gustarne la compagnia nelle afflizioni sopportate per amore di lui. Quella ‘sopportazione’ non riguarda la propria fedeltà, ma la solidarietà con i nostri fratelli fino a far splendere davanti a loro la bontà del Signore che non vuole che nessuno si perda, ma che tutti abbiano la vita. Lì conduce la visione della ‘gloria’ di Gesù, il Testimone per eccellenza dell’amore del Padre per gli uomini. E questo è il senso della preghiera della Chiesa nel tempo quaresimale.

L’esempio di Abramo è eloquente. Sente la voce di Dio: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre”. L’espressione singolarissima, nel testo ebraico, è ‘lek leka’, che traduciamo con ‘vattene’, ma che andrebbe resa, secondo la vocalizzazione tradizionale: ‘vai a te’, ‘vai verso te stesso’, ‘vai per te stesso’. Contemporaneamente un esodo e un ritorno. Un esodo da qualcosa che impedisce la scoperta del senso pieno del vivere e un ritorno a ciò che ci costituisce nell’intimo per vivere in gratuità e servizio la nostra vocazione all’umanità. Abramo non conosce nulla del nuovo paese: sa solo che Dio gliene fa promessa. Sarà il suo ascoltare che gli consentirà di vedere la benedizione realizzarsi. Proprio perché accetta la relazione con colui che lo coinvolgeva nella sua storia sacra fino a diventare il suo Dio, lascia la sua casa (se scegli il Padre celeste, devi lasciare quello terreno; se scegli il regno di Dio, devi lasciare ogni altro regno; se ti accetti da Dio, di Dio e secondo Dio devi vivere, come dirà Cipriano nel suo commento al Padre nostro) e per questo, oltre a godere della benedizione di Dio, diventa benedizione lui stesso per tutti perché rivela la grandezza dell’amore di Dio e lo splendore che si irradia su tutto.

L’accento è sulla voce e non sulla visione, nella linea di un’obbedienza luminosa. Abramo ascolta Dio, Gesù ascolta il Padre, i discepoli ascoltano Gesù e il frutto della benedizione promessa rivelerà il suo splendore. Per gli uomini, quello splendore consisterà nel condividere, nella loro umanità aperta a tutti, lo sguardo di compiacenza del Padre, che riposa tutto sul suo Figlio benedetto, fatto uomo. L’ascolto condurrà così alla visione di colui che, mentre ci squaderna il segreto di Dio per l’uomo, fa rilucere il mondo dello splendore della sua bellezza.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo di Quaresima

III Domenica

(12 marzo 2023)

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Es 17,3-7;  Sal 94 (95);  Rm 5,1-2.5-8;  Gv 4,5-42

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Anticamente i fedeli che si preparavano al battesimo, che avrebbero ricevuto nella solenne veglia pasquale, venivano accompagnati con delle catechesi, la prima delle quali cominciava con la liturgia di oggi. Nel colloquio con la samaritana al pozzo di Giacobbe, Gesù si definisce Acqua viva, sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna. Nella prossima, con la vicenda del cieco nato, Gesù è definito Luce; nella terza, con la risurrezione di Lazzaro, Gesù si presenta come Vita.

La liturgia quaresimale indica i percorsi della conversione del cuore con le domande di fondo essenziali. Una di queste domande, forse non sempre espressa, ma continuamente serpeggiante nel cuore, è quella del popolo di Israele, esasperato nel deserto dalla fame e dalla sete: “Il Signore è in mezzo a noi sì o no?” (Es 17,7). La domanda del popolo non è provocatoria o irriverente; semplicemente, è angosciante: il Signore è con noi? Ogni prova fa emergere il dubbio: ma Dio vuole davvero il nostro bene? L’insinuazione dell’antico serpente disturba i sogni di felicità dell’uomo.

Nel riferirci a Dio, quello che forse il nostro cuore stenta a credere è sentirlo pieno di desiderio di noi, è sentire la sua ‘sete’ di noi. Nel prefazio della messa di oggi la chiesa proclama: “Egli, chiedendo alla Samaritana l’acqua da bere, già aveva suscitato in lei il dono della fede e di questa fede ebbe sete così grande da accendere in lei il fuoco del tuo amore”. In effetti è Gesù che chiede da bere alla samaritana, è lui che ha sete. Evidente il rimando alla sete di Gesù sulla croce: “Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: ‘Ho sete’” (Gv 19,28). Come a dire che tutta la Scrittura è l’espressione della sete di Dio per noi. Gesù è affaticato da un viaggio e si siede sul pozzo, assetato; Gesù è sulla croce, riarso dalla sete, come spasimo di un corpo ormai distrutto. Eppure, l’annotazione dell’evangelista non ha un valore cronachistico, ma simbolico, teologico. Ciò che aveva colto madre Teresa, tanto da far scrivere sull’abside di tutte le cappelle delle sue comunità: Ho sete!

Non so se un dettaglio del racconto evangelico abbia anch’esso un valore simbolico, insieme a tanti altri dettagli. Ho notato che il testo, parlando del pozzo di Giacobbe, quando riferisce l’annotazione delle Scritture e quando parla Gesù, il termine che viene usato è ‘sorgente’, quando parla la samaritana è ‘pozzo’. Sorgente si riferisce all’acqua corrente, all’acqua viva; pozzo al deposito di acqua. Davanti all’acqua che Gesù promette di dare, ogni altra acqua non è che acqua stagnante.

Il brano dell’incontro di Gesù con la samaritana è uno di quei brani di cui ci sfuggono continuamente le allusioni dandoci netta l’impressione di sentirci davvero stranieri in casa nostra. Il brano acquista ben altre risonanze se teniamo presenti le reminiscenze legate al luogo, Sichem (cfr. Gen 12,6; 34; 37; Gs 24; 1Re 12) e soprattutto al pozzo, carico di una simbolica nuziale. Nota era la leggenda targumica legata al pozzo di Giacobbe raccontata a commento del passo di Gen 29,10, quando Giacobbe leva la pietra dal bordo del pozzo per dare da bere al gregge di Labano: “Quando il nostro padre Giacobbe levò la pietra da sopra la bocca del pozzo, la fonte zampillò su e venne alla sua bocca e zampillava e veniva alla bocca per vent’anni – tutti i giorni che abitò ad Haran”. Nel sogno popolare il pozzo di Giacobbe trasbordava spontaneamente, senza bisogno di attingere e irrigava, con i suoi quattro bracci, tutto il campo di Israele come il fiume del paradiso terrestre in Gen 2,10-14. Quando la samaritana si rivolge a Gesù come a uno che si vorrebbe più grande di Giacobbe, allude esattamente a quel ‘sogno’ e rivela indirettamente che Gesù è proprio colui che quel sogno realizza per l’uomo. Dire che la samaritana ha avuto cinque mariti e che quello che aveva non era suo marito vuol dire alludere al trasferimento di cinque popolazioni pagane in Samaria per opera del re di Assiria (cfr. 2Re 17,24) e al traviamento rispetto all’alleanza con il Signore non più servito in santità.

È anche possibile leggere il brano con le allusioni alla passione del Signore: l’ora sesta è l’ora in cui ha luogo la crocifissione; la sete di Gesù allude alla sua sete degli uomini, che manifesta sulla croce; l’acqua che zampilla fa riferimento al costato, aperto dalla lancia del soldato, da dove fuoriescono sangue e acqua; la proclamazione finale dei samaritani che Gesù è il salvatore del mondo allude al riconoscimento sotto la croce che Gesù è davvero Figlio di Dio.

Il brano poi è suddiviso in due scene: il colloquio con la samaritana incentrato sull’immagine dell’acqua e il colloquio con i discepoli incentrato sull’immagine del cibo. Ci sono due tipi di acquietamento della sete e della fame che non soddisfano l’uomo alla ricerca di relazione, di senso, di vita, di felicità. Voler praticare la Legge come un assolvimento di obblighi e una esibizione di innocenza provoca delusione e tristezza. Non è questa l’adorazione in spirito e verità che cerca il Signore. Il punto nevralgico del racconto dei due colloqui è dato dal fatto che l’uomo, desideroso di acqua viva e cibo vero, si trovi aperto alla rivelazione donata da Dio: lì davanti c’è colui che, unico, ha il potere di dare la vita, di fornire la fonte dell’acqua, di dare il cibo di vita eterna, il suo stesso corpo. “Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio unigenito…”: cogliere questa rivelazione in quell’uomo che ti parla, che ti ha voluto incontrare, che ti segue nei meandri del tuo cuore e che, facendoti emergere il desiderio di verità e di vita che vi sta sepolto, lo può soddisfare, è il mistero della conversione. Conversione che si riassume nell’espressione della Scrittura: ‘guarderanno a colui che hanno trafitto’, vale a dire: incontro rigenerante con colui che ti disseta e sfama con l’amore che quella ferita ha mostrato al mondo. Quando, rimirando quell’innocente appeso sulla croce, ci si rende conto del mistero dell’amore di Dio che è arrivato agli uomini, allora la parola di verità ascoltata si fa parola vera del mio cuore, la promessa di vita diventa vita mia, la sua sete e fame di noi si fa acqua e cibo per la vita del nostro cuore, dono di Dio e volontà di bene di Dio per noi.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo di Quaresima

IV Domenica

(19 marzo 2023)

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1Sam 16,1b.4.6-7.10-13;  Sal 22 (23);  Ef 5,8-14;  Gv 9,1-41

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Già il profeta Isaia aveva prospettato la rivelazione di Dio al popolo in termini di luce: “Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla su di te …” (Is 60,1-2). Se poi teniamo conto della prima lettura, con l’episodio della consacrazione regale di Davide da parte del profeta Samuele, allora possiamo comprendere l’immagine della luce in termini molto concreti, come avverrà per il cieco guarito. La luce, sempre allusiva del battesimo, è l’irradiazione della santità di Dio, splendore di amore per noi, nelle nostre persone rese re-sacerdote-profeta, secondo l’umanità di Gesù. E potremmo spiegare così: chi non serve nessun idolo non è schiavo di niente (re); chi sa benedire per ogni cosa il suo Dio celebra il culto a lui gradito (sacerdote); chi si fa illuminare dalla Parola di Dio non può che annunciare al mondo il mistero di Dio che si è fatto prossimo all’uomo (profeta).

Ora, proprio perché Gesù è la luce di santità di Dio che irradia dalla sua umanità, può rimodellare la nostra umanità e schiuderla al Regno, alla Presenza. Nel brano evangelico odierno ci sono molti particolari che vanno raccordati tra loro per cogliere il segreto del racconto. Il capitolo 8 di Giovanni si era concluso con l’annotazione che Gesù deve nascondersi e uscire dal tempio perché lo vogliono lapidare. E proprio nell’uscire dal tempio vede il cieco. Non lo guarisce subito, ma gli ordina di andare a lavarsi alla piscina di Siloe dopo aver impastato del fango con la sua saliva e averglielo spalmato sugli occhi. Va notato che impastare fango e applicarlo agli occhi in funzione terapeutica era espressamente proibito di sabato, secondo l’interpretazione rigorista della Legge. Il nome Siloe (piscina, dalla quale veniva attinta l’acqua portata solennemente verso il tempio e versata attorno all’altare nella solennità della festa delle capanne) significa ‘chi invia [le acque]’ma Giovanni, rendendolo al passivo, ‘Inviato’, vuole indicare che la nostra guarigione si trova in Gesù, che poco prima si era definito ‘inviato’ dal Padre, v. 4). Nelle parole del cieco guarito Gesù è indicato prima come ‘quell’uomo che si chiama Gesù’, poi ‘un profeta’, poi ‘che è da Dio’ e infine, davanti alla domanda di Gesù che lo va a cercare dopo che è stato cacciato dai farisei: “Tu credi nel Figlio dell’uomo?”, risponde: “Io credo, Signore!”.

La progressione segnala la dinamica spirituale del credente. Dalle cose si passa a scoprire un Volto e da questo Volto si torna, nuovi, alla propria vita, alla propria storia. Gli eventi ci sono dati per scoprire il Volto di colui che il nostro cuore cerca e la scoperta di questo Volto ci rimanda agli eventi perché siano vissuti nella luce e nella vita che da lui promanano.

Il brano è introdotto dalla interrogazione dei discepoli: “chi ha peccato, lui o i suoi genitori?”. La domanda esprimeva il tentativo di sfuggire all’angoscia del male da parte di una coscienza religiosa. Noi non formuleremmo più la domanda in quei termini, ma non per questo l’interrogativo di fronte al male ha perso la sua angoscia lancinante. Gesù non dà risposta in termini ‘ragionevoli’. Invita più semplicemente, ma più potentemente, a distogliere lo sguardo dal passato e volgerlo al futuro: “ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. Cosa significa? Vuol solo alludere al fatto che Gesù si appresta a fare il miracolo? No, certamente. Gesù indica la prospettiva per vivere la vita segnata dal male, nella fede in lui. Cercare la causa del male ‘indietro’ ci inchioda al non-senso e alla rabbia della frustrazione. La motivazione va cercata ‘in avanti’, rispetto a un qualcosa che per noi deve ancora farsi, deve ancora rivelarsi. Ma non si tratta più semplicemente di cose, di eventi, bensì di incontri, di volti. È il mistero stesso della fede. La vita scaturisce dalla fede nel senso che la si può vivere ricevendola dalle mani di colui che ci è venuto incontro ed ha mostrato il suo Volto. Del resto, il mistero dell’amore umano trova qui le radici del suo insopprimibile fascino, nonostante le ferite e le delusioni alle quali così spesso ci condanna.

L’unico modo per riscattare il male è quello di aprirsi allo spazio futuro, nella consapevolezza però di non stupirsi che il male ci venga a cercare. Ma se il male ci viene a cercare, è perché si manifestino in noi le opere di Dio. È l’insegnamento della Tradizione sulle tentazioni: “quando sopraggiunge una tentazione, non cercare perché o a causa di chi è venuta: ma in che modo sostenerla con rendimento di grazie, senza tristezza e senza rancori”; “Prega perché non venga su di te la tentazione. Ma se poi viene, accettala non come cosa estranea, ma tua” (Marco Asceta, A quelli che si credono giustificati, 198; La legge spirituale,164). E per quale scopo se non per rinunciare definitivamente alla rivendicazione dei nostri diritti e fidarsi invece del Bene di Colui che ci viene incontro? Non stare inchiodati al passato significa percepire che Qualcuno si è mosso per venirci incontro.

Il canto al vangelo che riporta la promessa di Gesù: “Io sono la luce del mondo; chi segue me avrà la luce della vita” (Gv 8,12), rivela la ragione della proclamazione del salmo responsoriale: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”. Quando non è vero che il Signore è il mio pastore perché ci lamentiamo di tutto, allora è vero che il Signore non è la luce del nostro cuore. Il brano del cieco guarito finisce con l’osservazione di Gesù ai farisei: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane”. E noi possiamo interpretare così. Le ragioni addotte dalle nostre lamentele rivelano la cecità del cuore. Se il cuore riconosce per valide le sue ragioni resta cieco; se invece riconosce la sua cecità torna luminoso per la luce del Signore.

Quando il salmo 22 proclama che il pastore fa riposare le pecore in pascoli erbosi e presso acque tranquille, allude proprio al dono della sua vita, che è vita eterna, sovrabbondante. Le acque tranquille – in ebraico, le acque di ‘menuchot’- richiamano la creazione del riposo/ristoro nel settimo giorno della creazione. Il testo della Genesi, dopo aver narrato la creazione di tutte le cose, dice: “Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto”. Gli antichi rabbini intravedono un atto di creazione anche nel settimo giorno: “Che cosa è stato creato il settimo giorno? La ‘menuchà’, la tranquillità, la serenità, la pace e il riposo” (Cfr Gen Rabbà, 10, 9). È lo stato in cui non vi è contesa né lotta, né paura né diffidenza; è felicità, pace e armonia; vita del mondo futuro, vita eterna. Proprio quella ‘vita abbondante’ che Gesù riconsegna agli uomini che lo accolgono. È la gioia di un amore che non sarà più mortificato da nulla, amore che, testimoniato nel suo splendore sul calvario, è donato come Spirito di vita agli uomini che nel ‘crocifisso’ colgono il compimento della promessa di Dio per l’uomo.

Non solo. Ma quando Gesù dice “Io sono la luce del mondo” non si può non risalire al racconto della creazione in Genesi 1,3, quando fu creata la luce. Non è semplicemente la luce fisica, quella che deriva dal sole, creato solo nel quarto giorno. È la luce della santità di Dio, splendore di amore per noi, che attraversa il mondo, luce che però è stata nascosta. È la luce che fa cogliere il mondo dentro uno sguardo unico. È la luce che il messia rivelerà. È la luce che Gesù ha fatto risplendere liberando gli uomini succubi dell’illusione dell’antico serpente che li ha privati della gloria di Dio. Come fa pregare l’orazione dopo la comunione: “O Dio, che illumini ogni uomo che viene in questo mondo, fa risplendere su di noi la luce del tuo volto [il Signore nostro Gesù Cristo], perché i nostri pensieri siano sempre conformi alla tua sapienza e possiamo amarti con cuore sincero”. Come spiega Francesco di Assisi nel suo commento al Padre nostro: “sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra: finché ti amiamo con tutto il cuore, sempre pensando a te; con tutta l’anima, sempre desiderando te; con tutta la mente, orientando a te tutte le nostre intenzioni e in ogni cosa cercando il tuo onore. E con tutte le nostre forze, spendendo tutte le nostre energie e sensibilità dell’anima e del corpo a servizio del tuo amore e non per altro; e affinché amiamo il nostro prossimo come noi stessi, trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo amore, godendo dei beni altrui come dei nostri e compatendoli nei mali e non recando offesa a nessuno”.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo di Quaresima

V Domenica

(26 marzo 2023)

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Ez 37, 12-14;  Sal 129 (130);  Rm 8,8-11;  Gv 11,1-45

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Alla notizia della malattia dell’amico, Gesù non va subito a trovarlo ma deliberatamente aspetta. La sua spiegazione: questa malattia non è per la morte ma per la gloria di Dio. Cosa siamo invitati a scoprire? Non credo voglia alludere solo al fatto che compirà un miracolo strepitoso per cui tutti daranno gloria a Dio. Tra l’altro, a miracolo compiuto, non sarà esaltata la sua persona e il capitolo finisce con la decisione di mettere a morte Gesù. La gloria di cui parla Gesù riguarda appunto la disponibilità sua a morire crocifisso perché si conosca la grandezza dell’amore del Padre per noi. L’andare da Lazzaro, lasciando prima che la morte faccia il suo corso, ha lo scopo di scatenare la sua ora, di andare incontro alla sua morte. Nel racconto giovanneo, la risurrezione di Lazzaro è il settimo ‘segno’, l’ultimo, prima del racconto della sua passione-morte-risurrezione.

Il grido davanti alla tomba: Lazzaro, vieni fuori!, va allora inteso: vieni a me, venite a me se volete la vita. E la scena non si conclude con un abbraccio vicendevole di soddisfazione tra Gesù e i suoi amici, Lazzaro e le sue sorelle, ma con l’invito: scioglietelo e lasciatelo andare. Chi viene a Gesù è rimandato alla fraternità perché lo spazio in cui si gioca la vita, che da lui è stata donata, è appunto la fraternità. Corrisponde alla finale dei racconti di miracoli: vai, la tua fede ti ha salvato. Testimonia nella tua vita la grandezza dell’amore di Dio che si è rivelato al tuo cuore.

Quando Marta, davanti al sepolcro del fratello, ricorda a Gesù il fetore dei morti, si sente dire: “Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?”. Dal punto di vista degli affetti umani, sembra che la domanda di fondo che serpeggia per tutto il brano non sia: perché la morte?, ma: perché Dio non impedisce la morte? Gli amici della famiglia di Lazzaro così pensano. Per noi invece la domanda che rimbalza può essere formulata così: sarà mai possibile vedere la gloria di Dio nella nostra vita tormentata?

È la stessa domanda della fede di Marta, che inaspettatamente risponde a Gesù, non di credere a quello che gli ha detto, ma: “Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo”. Non dice: io credo che tu hai il potere di far risorgere i morti, ma piuttosto: io credo che tu sei il Figlio di Dio. Afferma la verità del suo incontro con lui, del suo amore; ha piena fiducia in lui. Per questo potrà vedere la gloria di Dio. E sarà per questo che potrà seguire il suo Gesù, con sua sorella Maria, fino alla fine, fino a che la sua glorificazione appaia al mondo. Il vedere Gesù che fa ritornare in vita Lazzaro non induce ad una esaltazione della sua persona, ma fa presagire come e perché Gesù abbia tale potere e quindi mette in risalto la sua disponibilità a morire per manifestare in tutta la sua potenza l’amore del Padre, da cui scaturisce la sua glorificazione e la vita per noi.

L’antica colletta fa pregare: “Vieni in nostro aiuto, Padre misericordioso, perché possiamo vivere e agire sempre in quella carità che spinse il tuo Figlio a dare la vita per noi”. Quella carità è il frutto della sua glorificazione che ci viene elargito dallo Spirito Santo. Il combattimento spirituale, la lotta contro il male, l’osservanza dei comandamenti altro non è che una partecipazione alla potenza della risurrezione, allorché la vita viene vissuta nella carità del Cristo che niente e nessuno può mortificare. È il principio della vita eterna, quello di una vita che non abbia altra consistenza se non come carità. L’incontro con Gesù apre a questa dimensione. Se lui è ‘datore di vita’ lo è perché, facendo vivere nella sua carità, impedisce alla morte di tenere prigioniero il nostro cuore.

Il nostro gridare, nel salmo responsoriale: “Dal profondo [secondo la versione greca: Dalle profondità] a te grido, o Signore; Signore, ascolta la mia voce”, deriva dalla coscienza della nostra mortalità, non semplicemente come termine della vita biologica, ma come abisso della mortificazione della vita che stenta ad accedere alla carità di Dio. Proprio quella ‘mortificazione della vita’ il Signore vince. Nel salmo la preghiera dell’uomo ruota attorno a due verbi: attendere e sperare. Sono i verbi della fede. Si resta pazienti e fiduciosi nell’attesa di una parola di salvezza perché si spera nella misericordia di Dio che ci soccorre.

Se Gesù non ha voluto risparmiare la prova ai suoi amici e viene a condividerla, tanto da restarne intimamente e profondamente scosso, la ragione è da ricercare nel fatto che così facendo si espone alla sua prova, anzi la provoca con l’arresto e la morte imminenti. Ma la sua non è una semplice condivisione della sofferenza umana. Lui vive il dolore riscattandolo perché lo assume da dentro un amore che non viene mai meno. Il suo rendere grazie l’attraversa, lo porta fino in fondo. È però più forte della morte e se esulta, non è per aver impedito il suo corso, ma per aver trionfato su di essa dopo averle lasciato esprimere tutto il suo potere. Ciò che Gesù ci ottiene non è la vita dopo la morte, ma la vita nella morte. È la rivelazione dell’amore come vita eterna, immortificabile perché piena.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo di Quaresima

Domenica delle Palme e della Passione del Signore

(2 aprile 2023)

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Ingresso in Gerusalemme      Mt 21,1-11

Is 50,4-7;  Sal 21(22);  Fil 2,6-11;  Mt 26,14-27,66

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Ha inizio la Grande Settimana, la Settimana Santa. La liturgia mostrerà fino a che punto Dio ha amato il mondo, fino a che punto Gesù ha obbedito a questo amore, fino a che punto l’uomo è prezioso agli occhi di Dio.

La liturgia di oggi è suddivisa in due momenti distinti. Prima, viene commemorato l’ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme: i toni sono festosi, esultanti. Dopo, viene proclamato il racconto della passione: i toni sono accorati, mesti.

Nella narrazione di Matteo questa è l’unica volta che Gesù viene a Gerusalemme. Vi entra trionfalmente, ma per consegnarsi alla sua passione e morte. Chi se ne avvede? Sembra che nessuno si renda conto. Eccetto una donna (nel racconto di Giovanni è Maria, la sorella di Lazzaro, che Gesù aveva richiamato in vita). Il brano, che precede immediatamente il racconto della passione, è proclamato nella liturgia ambrosiana della domenica delle palme. Versando un profumo preziosissimo sul capo (secondo Giovanni, sui piedi) ella unge il corpo di Gesù per la sepoltura. Così Gesù interpreta e rimprovera gli apostoli che gridano allo spreco. Nel racconto di Matteo, il mattino di Pasqua, le donne che vanno al sepolcro non vengono per l’unzione del corpo di Gesù ma per trovare solo la tomba vuota. L’invito della liturgia è di seguire il racconto della passione accompagnando Gesù con i sentimenti e la devozione di questa donna che nel suo cuore ha percepito il segreto di Gesù.

Secondo la profezia messianica di Zaccaria, Gesù entra in città seduto sull’asina, tra i gesti di devozione dei discepoli che lo accompagnavano salendo da Gerico verso Gerusalemme e dalla piccola folla che da Gerusalemme gli si fa incontro festante. La scena ha sapore regale perché ricorda la proclamazione di Salomone come re di Israele sulla mula di Davide (1Re 1,33-34); ricorda i patriarchi (Abramo si incammina verso il monte Moria per il sacrificio di Isacco a dorso di asino); richiama il re Messia mite e pacifico, che disdegna i cavalli perché simbolo di guerra.

La proclamazione della passione è introdotta con il terzo canto del Servo del Signore di Isaia (primo canto: 42,1-9; secondo canto: 49,1-7; terzo canto: 50,4-10; quarto canto: 52,13-53,12) e l’inno di Paolo nella sua lettera ai Filippesi: “… svuotò se stesso assumendo una condizione di servo … umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (Fil 2,7.8). La risposta dell’assemblea è espressa con le parole del salmo 21 (22) che traduce in parole i sentimenti dei credenti alla vista del Servo del Signore percosso e messo a morte. L’aspetto straordinario di rivelazione messo in risalto dal testo paolino è il fatto che il movimento di svuotarsi (non ritenere un privilegio l’essere come Dio) continua nel suo essere uomo, perché vive la sua umanità nel farsi servo, nel farsi schiavo fino a essere calpestato e ucciso. Però Gesù vive la sua umanità nell’obbedienza, vale a dire nella condivisione più intima dell’amore del Padre per i suoi figli, di cui Gesù è il Testimone per eccellenza. Così il suo svuotarsi diventa un inno d’amore, il dono di accessibilità per tutti a godere di questo grande amore. È tutto il mistero della redenzione che i riti della settimana santa illustreranno.

Nel racconto della passione vorrei sottolineare alcuni dettagli tipici di Matteo. Solo lui ricorda la somma del tradimento: trenta monete d’argento. Il dato è pieno di reminiscenze bibliche tanto che il dettaglio richiama la paga con cui il Signore si fa valutare ironicamente nella profezia di Zaccaria 11,12, richiamando Es 21,32 che fissa il prezzo di uno schiavo a trenta monete. Nelle parole di Giuda per la richiesta del denaro ai dignitari del tempio non viene nominato Gesù tanto che il discorso sembra riferirsi a un povero sconosciuto venduto come schiavo.

Nel Getsemani, Gesù chiede sostegno ai discepoli ma questi non sembrano all’altezza tanto che, alla fine della sua angosciosa preghiera, quando ritorna da loro e di nuovo li trova addormentati, dice loro: ‘dormite pure e riposatevi! Ecco l’ora è vicina…’. Sarebbe meglio però rendere la frase a modo di dolce rimprovero: ‘dormite ancora? …’. La sottolineatura, come poi verrà direttamente espresso dopo la cattura, è che Gesù entra solo nella sua passione. Invece, la sua preghiera al Padre, nel Getsemani, dice come lui non sia mai solo. Si rivolge al Padre con l’espressione ‘Padre mio’ (Marco, a sottolineare l’intimità di rapporto in questo momento drammatico, mette sulle labbra di Gesù il nome ‘Abbà’). L’espressione ‘Padre mio’ riprende il colloquio di Isacco con Abramo nel salire sul monte Moria per il sacrificio e dice tutta l’intimità di rapporto tra i due, come anche la comunanza di intimità con il loro Dio. Matteo narra i fatti come tenendo sempre presente il compimento delle Scritture. Gesù costituisce la pienezza della rivelazione perché risponde totalmente alla promessa di Dio. Non solo, ma mostrando che in lui si compiono le Scritture, indica Gesù, il Cristo, come la chiave delle Scritture.

Matteo inizia il racconto della passione annotando: “Terminati tutti questi discorsi”. La vera parola finale, di tutta la tradizione evangelica, è la parola della Croce e della tomba vuota. Il racconto della passione dice ciò che è impossibile esprimere altrimenti che in termini narrativi. Nessun’altra sequenza evangelica narrativa ha la densità e la consequenzialità nella sua cronologia più di quella degli ultimi tre giorni di Gesù a Gerusalemme. Noi non siamo solo ascoltatori, ma, nella proclamazione liturgia, diventiamo spettatori coinvolti e presenti agli eventi di questo momento supremo della vita di Gesù.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo di Pasqua

Pasqua di Risurrezione del Signore

(9 aprile 2023)

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At 10,34a.37-43; Sal 117 (118); Col 3,1-4; Gv 20,1-9

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IL SIGNORE È RISORTO! È VERAMENTE RISORTO!

Questo è l’annuncio che oggi risuona in tutto il mondo dalle chiese cristiane (per gli Ortodossi l’annuncio risuonerà da domenica 16 aprile). L’annuncio è tanto più evocativo quanto più gli occhi hanno contemplato nei giorni precedenti l’Uomo dei dolori, colui che Pilato aveva presentato: ‘Ecco l’uomo’! È l’Uomo che aveva dato inizio al suo cammino di passione celebrando con i discepoli la sua ultima cena pasquale, diventata per noi ‘la cena del Signore’, l’eucaristia, memoriale perenne della sua passione, morte e risurrezione. In quella celebrazione, con la lavanda dei piedi, l’amore è stato definito nel suo mistero di dono (“questo è il mio corpo, che è per voi”) e di servizio (“Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri”). La posta in gioco sarà oramai ‘aver parte con lui’. Si ha parte con lui sia celebrando l’eucaristia sia lavandosi i piedi a vicenda, perché unico è il segreto che viene svelato al mondo: la grandezza dell’amore di Dio per i suoi figli.

Dopo la crocifissione, Giuseppe di Arimatea si era presentato a Pilato per avere il corpo di quell’uomo. La liturgia bizantina così proclama: “Dammi questo straniero, che dall’infanzia come straniero si è esiliato nel mondo. Dammi questo straniero, che i suoi fratelli di razza hanno odiato e ucciso come straniero. Dammi questo straniero, di cui stranito contemplo la morte strana. Dammi questo straniero, che ha saputo accogliere poveri e stranieri. Dammi questo straniero, che gli ebrei per invidia hanno estraniato dal mondo. Dammi questo straniero, perché io lo seppellisca in una tomba, giacché, come straniero, non ha ove posare il capo. Dammi questo straniero, al quale la Madre, vedendolo morto, gridava: O Figlio e Dio mio, anche se sono trafitte le mie viscere e il mio cuore dilaniato al vederti morto, tuttavia ti magnifico, confidando nella tua risurrezione”.

Colui che abbiamo trattato da straniero, era colui di cui Isaia aveva preannunciato: “Si compirà per mezzo suo la volontà del Signore” (Is 53,10). Non tanto nel senso che la volontà del Signore fosse di condurlo alla passione, ma piuttosto nel senso che la volontà di bene e di salvezza da parte di Dio per gli uomini potesse risplendere in tutta la sua forza e il suo splendore proprio per mezzo della sua passione. E Giovanni interpreta con il profeta Zaccaria 12,10: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (da leggere, secondo il testo ebraico e greco della LXX: “Guarderanno verso di me che hanno trafitto”).

Senza però il sigillo della risurrezione, quel mistero non sarebbe stato colto e non avrebbe potuto essere immesso nel mondo. Le donne, i discepoli, la domenica di Pasqua, attendono o corrono al sepolcro per trovare un morto; l’unico orizzonte possibile è ancora avere il corpo del loro amato Signore! Ma con la risurrezione, che avviene nel giorno uno della settimana, si dischiude un tempo completamente diverso, un tempo nel quale tutto ciò che è stato compiuto fino a quel momento si rivela in tutta la sua novità. Il primo personaggio che ci conduce alla soglia di questa novità è Maria Maddalena. A differenza dei sinottici, Giovanni non aveva menzionato per la circostanza della sepoltura la presenza delle donne. La mistura di mirra e aloe era stata portata da Nicodemo e Giuseppe di Arimatea. I sinottici narrano dell’arrivo al sepolcro, all’alba, delle donne con gli oli per completare l’unzione del corpo di Gesù. Giovanni sorvola su tutto questo. Parla solo di Maria Maddalena e l’accento è posto sulla motivazione profonda, interiore, della sua presenza al sepolcro. Essa vive un’angoscia personale, un sentimento di assenza irrimediabile; per lei oramai il Signore è l’Assente; non può che sentirlo che così. Per prima vede la pietra del sepolcro tolta via e corre ad avvertire i discepoli: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove lo hanno posto”. Dall’angoscia dell’assenza passa all’angoscia dello smarrimento. Ma Giovanni parla della pietra tolta via dal sepolcro per sottolineare, in questo Giorno della Risurrezione, che viene tolto l’ultimo impedimento alla ‘vista’, alla ‘visione’, come poi il brano dirà a proposito di Giovanni entrato nel sepolcro.

L’episodio dei due discepoli che corrono al sepolcro lo conferma in una tensione crescente per giungere, alla fine, alle straordinarie parole: “Allora entrò anche l’altro discepolo …e vide e credette”. È come una richiesta che viene sussurrata al cuore degli ascoltatori del vangelo, la richiesta di avanzare nella conoscenza del mistero, di salire fino all’intelligenza della risurrezione che viene svelata poco a poco: “Vide e credette”. La tensione di questa intelligenza riprende tutto ciò che era stato compiuto e detto da Gesù in precedenza e si apre sul tempo futuro che non potrà essere vissuto se non nella luce di quella intelligenza.

Per questo, con la liturgia bizantina, i fedeli proclamano: “Giorno della risurrezione! Irradiamo gioia per questa festa solenne e abbracciamoci gli uni gli altri. Chiamiamo fratelli anche quelli che ci odiano: tutto perdoniamo per la risurrezione, e poi acclamiamo: Cristo è risorto dai morti, con la morte ha calpestato la morte, e ai morti nei sepolcri ha elargito la vita”.

È la gioia di essere riconsegnati all’amore del Padre perché “per riempire della tua gloria tutte le cose, sei disceso nelle profondità della terra; a te infatti non era nascosta la mia persona in Adamo: sepolto e corrotto tu mi rinnovi, o amico degli uomini”. Fatti a immagine di Dio, con l’Uomo, che ha patito, è morto e risorto per noi, possiamo diventargli somiglianti perché la lode dell’amore del Padre tutto conquisti. È nell’umanità di quell’Uomo, Figlio di Dio, morto e risorto, che Dio dimora, con lo splendore di un amore che a tutti è rivolto e tutti vuole inglobare.

Buona Pasqua!

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo di Pasqua

II Domenica di Pasqua

(16 aprile 2023)

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At 2,42-47;  Sal 117 (118);  1Pt 1,3-9;  Gv 20,19-31

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Il ritornello del salmo 117 illustra bene il senso della letizia pasquale: “Il suo amore è per sempre”. È proprio la percezione di quell’amore, avvertita nell’incontro con il Signore risorto, che porta un’energia gioiosa al cuore credente. Partiamo dall’invito della lettera di Pietro: “Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove … Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui” (1Pt 1,6.8). La situazione dei cristiani a Roma è drammatica. È appena scoppiata la persecuzione di Nerone contro i cristiani. Siamo nell’anno 64. Forse è l’anno in cui trova la morte lo stesso Pietro (alcuni la datano all’anno 67). Nel 66 scoppia la ribellione a Gerusalemme e Nerone manda Vespasiano e Tito a ristabilire l’ordine in Palestina. Nel 70 è incendiato il tempio di Gerusalemme e nel 73 cade Masada, l’ultimo baluardo della resistenza. La comunità romana dei cristiani è violentemente perseguitata.

L’onda lunga della confessione di Tommaso “Mio Signore e mio Dio” perdura nella fede gioiosa dei cristiani in mezzo alle prove e alle afflizioni sopportate per il nome di Gesù. È caratteristico come Pietro descriva i credenti: “voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui”. Da intendere: senza averlo potuto vedere, voi l’amate; senza poterlo ancora vedere, voi credete gioiosi. Si realizza quello che Gesù dice a Tommaso: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”. Qui ‘credere’ non ha il significato generale di prestar fede a qualche verità, ma comporta il significato intensivo di esperienza di incontro, incontro con il Crocifisso Risorto.

Se seguiamo nei dettagli il racconto del vangelo di Giovanni a proposito delle apparizioni del Risorto ce ne rendiamo conto subito. Sono collocate non nel primo giorno della settimana, ma nel Giorno Uno, giorno che apre un tempo nuovo, che dà senso al succedersi del tempo senza dipendere dal tempo. La sera di quel Giorno Uno si chiude con l’espressione decisa di Tommaso, che non era stato presente quando Gesù era apparso ai discepoli: “io non credo!”. Così il Giorno Uno ha il suo corrispondente nel Giorno Ottavo quando, presente Tommaso, Gesù riappare ai discepoli. La cosa straordinaria è l’annotazione della corrispondenza tra il vedere e il toccare. Per l’apostolo Giovanni, il discepolo dallo sguardo di aquila, dallo sguardo acuto che sa vedere oltre il visibile, il senso tipico della fede è il ‘vedere’: “vide e credette”. Tommaso, invece, arriva al vedere tramite il toccare, il senso forse più terra terra, ma anche quello che dà immediata certezza.

La liturgia bizantina canta: “O straordinario prodigio! Il fieno ha toccato il fuoco ed è rimasto indenne. Tommaso ha infatti messo la mano nel costato igneo di Gesù Cristo Dio, e non è stato bruciato da questo contatto; con ardore ha infatti mutato in bella fede l’incertezza dell’anima, e dal profondo dell’anima ha gridato: Tu sei il mio Sovrano e Dio, risorto dai morti. Gloria a te”. E ancora: “O straordinario prodigio! Giovanni ha riposato sul petto del Verbo, Tommaso ha ottenuto di toccare il suo costato: e l’uno ne ha tremendamente tratto l’abisso della teologia, mentre l’altro è stato reso degno di iniziarci all’economia [= manifestazione all’esterno del mistero di Dio nel suo amore per noi], perché chiaramente ci presenta le prove della sua risurrezione, esclamando: O mio Signore e mio Dio, gloria a te”.

La confessione di Tommaso è la confessione di fede più solenne (è l’unico passo in tutto il vangelo in cui Gesù è chiamato ‘mio Dio’) e più intima (dove il cuore di ciascuno è implicato nel modo più personale). Del resto, tutta la narrazione evangelica tende a portare il possibile lettore a quella medesima confessione. Per noi, che veniamo dopo l’era apostolica, è finito il tempo di una certa visione, ma perdura evidentemente il tempo della ‘fede’, della possibilità reale di incontro con il Signore risorto, a cui il dono della pace fa riferimento e di cui la gioia è il segnale per eccellenza.

Ne dà testimonianza il racconto degli Atti degli apostoli, dove la caratteristica dei credenti è quella di ‘perseverare’, ‘durare nella fede gioiosa nel tempo’: perseverare nell’annuncio della Parola, nella nuova fraternità, nell’unione con Cristo, nella costanza della preghiera.

Se osserviamo la successione dei comportamenti pasquali di Gesù, come sono narrati nel vangelo di Giovanni, intuiamo la natura della fede in lui. Quando appare la sera di Pasqua ai discepoli tutti riuniti Gesù, prima dona la sua pace, la pace messianica, quella capace di attraversare ogni afflizione possibile perché l’amore del Signore è invincibile; poi invia i discepoli nel mondo, a prosecuzione del suo invio al mondo perché tutti conoscano l’amore del Padre; poi soffia su di loro lo Spirito per il perdono dei peccati; poi, l’ottavo giorno, con Tommaso, si lascia toccare nelle sue ferite, in particolare nella sua ferita al costato, da dove scaturisce la conoscenza più profonda del mistero di Gesù. La pace è in rapporto al segno dei chiodi e alla ferita del costato (è la pace pasquale, che deriva dall’agnello immolato, che invita a far dono di sé perché quella pace tutti conquisti); l’invio nel mondo è in rapporto alla missione di Gesù (adombrata dal fatto che lo Spirito, di cui è ripieno al battesimo nel Giordano, lo spinge nel deserto e lo conduce a consegnarsi alla passione perché l’amore di Dio possa splendere su tutto); il dono dello Spirito è in rapporto alla adozione a figli con il perdono dei peccati (Dio non è mai stato separato da noi ma noi possiamo vivere separati da Dio e dai fratelli, cosa che costituisce la sostanza del peccato. Se veniamo perdonati, ritroviamo la possibilità della nostra dignità di figli, che vivono secondo i sentimenti del Padre, il quale vuole tutti alla mensa del suo amore). Se Gesù risorge, e Tommaso ce ne procura l’assicurazione, vuol dire che il peccato non ha più potere definitivo sul cuore dell’uomo, che può vivere della vita del Risorto, cioè di quell’amore che non può più essere mortificato da nulla. Credere in Gesù per avere la vita, questa è la confessione di fede nel Risorto, che ha patito per noi, a cui il vangelo di Giovanni vuole portare ogni lettore. La prima comunità cristiana di questo è testimone nel mondo.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo di Pasqua

III Domenica di Pasqua

(23 aprile 2023)

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At 2,14a.22-33;  Sal 15(16);  1Pt 1,17-21;  Lc 24,13-35

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Secondo il racconto del vangelo di Luca sulla risurrezione di Gesù, tre sono i passaggi per l’esperienza del Risorto, colto come la chiave delle Scritture. Il primo è definito dalla memoria commossa dei due discepoli di Emmaus: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava [letteralmente: ci apriva] le Scritture?”. L’intelligenza di ciò che si ascolta deriva dal calore del cuore. È l’antico principio: senza fuoco le Scritture restano chiuse. Il primo movimento di intelligenza della parola di Dio avviene con il fatto di ascoltarla con piacere, in benevolenza, con il cuore che si scalda alla voce di colui che ci ama e ci comunica il suo amore. È la predisposizione all’intelligenza.

Il racconto dei due discepoli di Emmaus lo esprime in modo drammatico.  Sono come rassegnati alla loro tristezza. Avevano iniziato un’avventura entusiasmante e ora si dichiarano delusi nelle loro aspettative. Se ne tornano a casa, col volto triste. “Speravamo” dicono al misterioso pellegrino riferendo dei fatti di cui sono stati testimoni. I due discepoli conoscevano le Scritture, ma restavano loro chiuse. La loro vicenda potrebbe essere riassunta in questo modo: proprio a partire dalla loro fede nel Dio di Israele erano stati affascinati dalla figura di Gesù e avevano creduto in lui; l’avevano seguito, ma forse in funzione delle loro attese secondo la storia di Israele, perché avevano, sì, sentito Gesù predire la sua passione, ma a passione avvenuta non si raccapezzavano più e cedettero alla delusione. S. Agostino spiega: “Nel tempo trascorso con loro prima della passione, infatti, egli aveva predetto ogni cosa: che avrebbe patito, che sarebbe morto, che il terzo giorno sarebbe risorto. Aveva predetto tutto, ma la sua morte fu per loro come una perdita di memoria. Quando lo videro sospeso al patibolo furono così turbati che dimenticarono i suoi insegnamenti, non attesero più la sua risurrezione, non rimasero saldi nelle promesse”. I due discepoli non avevano però rinunciato alla loro storia con Gesù e quando il viandante che si accompagna loro ritorna alle Scritture, che loro stessi conoscevano, pur senza essere capaci di aprirle, il loro cuore torna a ardere, sommessamente; quando vogliono con loro quel pellegrino e lo invitano a cena e Gesù si fa riconoscere, la loro storia si riaccende, tutto si collega e prende vita; devono tornare a Gerusalemme dai compagni che a loro volta hanno fatto la stessa esperienza e nella gioia che tutti insieme provano vivranno ormai la loro storia aperta sul mondo, che ha diritto anch’esso a quella letizia.

Il secondo passaggio riporta il carico della prova della risurrezione non tanto alla visione del corpo glorioso di Gesù (Luca sembra voglia avvalorare la realtà del corpo con il fatto che può addirittura mangiare) ma al duplice raccordo del Risorto al Crocifisso e dell’evento salvifico di Gesù alle Scritture. L’azione specifica del Risorto è quella di aprire la mente alle Scritture e le Scritture alla mente. La testimonianza suprema resta il fatto che Gesù ha patito ed è morto mostrando la grandezza dell’amore di Dio per gli uomini e la risurrezione è la conferma che questo amore è vita eterna, vita divina comunicata a noi perché anche noi, in Gesù, possiamo vivere del suo stesso amore. La prova della risurrezione non è il corpo glorioso di Gesù non più soggetto alle leggi fisiche del mondo, ma il corpo crocifisso: il risorto è il crocifisso. E siccome la crocifissione è la manifestazione suprema dell’amore di Dio per gli uomini nella sua massima concretezza e evidenza, allora si comprende come tutte le Scritture in realtà di questo parlano, fin dalla creazione del mondo. Tutto è racchiuso nell’amore di Dio che struttura il mondo e ne costituisce il senso. L’aspetto straordinario di questa rivelazione è il fatto che Gesù apre sia le Scritture che il cuore. Ciò significa che sia il cuore che le Scritture anelano a Colui che mostra tutto l’amore del Padre per i suoi figli. 

Il terzo passaggio si risolve nel fatto che i credenti nel Cristo risorto diventano i suoi testimoni nel mondo. È la conclusione del brano dei discepoli di Emmaus: una volta che gli occhi si sono schiusi e la fede si è fatta ‘visione’ per la parola e per il corpo del Signore Gesù, il cuore mette fretta ai piedi in due direzioni: una, verso la chiesa, nel senso di vedere confermata e condivisa la propria visione; l’altra, verso il mondo, perché nessuno possa restare privo di questa visione, tanto racconta la verità di Dio e la verità del cuore dell’uomo. In questa comunione condivisa, testimoniata, cercata, donata, accolta, il cuore può riposarsi perché gode lo stesso riposo di Dio: si faccia una sola famiglia, nel regno di Dio. E non per nulla il corpo glorioso di Gesù reca i segni della sua passione d’amore, che soltanto in questo mondo poteva ricevere. Ciò significa che tutto può essere riscattato e attraversato dallo splendore di Dio e il luogo da cui questo si esprime è proprio il nostro cuore, che alimenta il suo ardore lasciando bruciare le sue delusioni.

Il luogo poi per eccellenza di riconoscimento del Signore è la celebrazione eucaristica, in cui risuona la parola che scalda il cuore e la comunione con il suo corpo dato per noi, in modo da imprimere alla vita dei credenti lo stesso movimento di invio al mondo del Figlio dell’uomo perché il mondo creda e abbia la vita. Perché per tutti suonino assolutamente condivisibili le espressioni del salmista: “il mio Signore sei tu: il mio bene non è che in te”. Come a dire: se non ho te, nessun bene mi soddisfa; se ho te, qualsiasi cosa si tramuta in bene per me.

Il messaggio del brano evangelico è dunque questo: quando celebrate l’eucaristia (cosa che i lettori del vangelo già facevano regolarmente) avviene per voi come per i discepoli di Emmaus. Alla lettura della parola di Dio si scalderà il vostro cuore, vedendo come in Gesù si compiono tutte le promesse di Dio e lo riconoscerete presente in mezzo a voi comunicando al suo stesso corpo dato per noi. Questa ‘emozione’ del cuore metterà ali ai piedi per dire al mondo la verità dell’amore del Signore finalmente goduto e condiviso. Corrisponde al saluto finale della celebrazione liturgica: la messa è finita, andate in pace. Avete celebrato l’amore del Signore per voi, di cui tutte le Scritture portano testimonianza e ora condividete con tutti la pace che scaturisce da quell’amore condiviso.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo di Pasqua

IV Domenica di Pasqua

(30 aprile 2023)

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At 2,14a.36-41;  Sal 22 (23);  1Pt 2,20b-25;  Gv 10,1-10

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Gesù si presenta come il Buon Pastore, ma il brano di oggi si limita all’affermazione che lui è la porta delle pecore. La porta per entrare dove? Sembra che l’immagine si riferisca alla porta delle pecore come ingresso per il tempio di Gerusalemme e quindi l’affermazione si riferisca al fatto che lui è il vero tempio, il luogo della Presenza. È proprio questo che si stenta a comprendere, ma proprio qui Gesù vuole portare i suoi ascoltatori.

I brani di oggi potrebbero essere ascoltati in questa ottica. Con l’invito di Pietro alla conversione, riportato dagli Atti degli apostoli, ci si chiede di riconoscerci non solo seguaci di Gesù, ma di entrare nel segreto della sua rivelazione e così essere da lui guidati a condividere la stessa vita divina. Il salmo 22 lo proclama: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla …”. Non manco di nulla perché ricevo dal mio pastore vita e vita in abbondanza. Da intendere, come spiega lo stesso Pietro nella sua lettera: il tornare a Dio (=conversione) comporta l’essere seppellito con Gesù rispetto a tutto ciò che questo mondo esalta sotto l’azione del principe di questo mondo (potere, prestigio, supremazia, gloria), in modo da essere guidato dallo Spirito a vivere ogni situazione unicamente nell’esperienza dell’amore di Dio. Questo significa appunto essere ricondotto al pastore e custode delle anime nostre.

Quando Pietro descrive Gesù, nel suo essere pastore delle nostre anime, lo descrive così: “soffrendo non minacciava vendetta”. A questo io collego l’espressione forte di Gesù rispetto a noi che lo vogliamo seguire: “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore” (Gv 10,14-15). Il conoscere è in rapporto alla disponibilità a porre in gioco la propria vita. Gesù si definisce ‘buon pastore’ perché pone la sua vita a favore delle pecore.  La particolarità dell’espressione di Gesù sta nel fatto che, non solo dà la sua vita per le pecore, ma che dà la vita alle pecore. Fa in modo cioè che la vita sua passi a noi, perché anche noi viviamo di quella stessa vita, che è splendore di amore. È l’azione dello Spirito Santo nei nostri cuori.  Per questo possiamo dire che il Signore è il nostro pastore e non manchiamo di nulla, perché, una volta che si sia entrati nella prospettiva di una vita vissuta nell’amore, non c’è nulla che ci potrà distogliere, non ci sarà nulla capace di rapircela, nulla sarà superiore all’amore. Non è però una conquista puntuale, ma un vero e proprio processo di vita, il vero processo di conversione.

La conversione potrebbe essere definita come un tornare a dar credito alla potenza salvatrice di Dio che, per mezzo di quel pastore buono, ha realizzato la sua promessa di vita, la quale non è che l’offerta incondizionata della sua comunione perché tutto e tutti possano godere del suo amore. Proprio come chiediamo nella colletta: “O Dio, nostro Padre, che nel tuo Figlio ci hai riaperto la porta della salvezza, infondi in noi la sapienza dello Spirito, perché fra le insidie del mondo sappiamo riconoscere la voce di Cristo, buon pastore, che ci dona l’abbondanza della vita”. ‘Infondi in noi la sapienza del tuo Spirito’ allude alla possibilità di accogliere la comunione con Gesù perché il suo amore sia reso noto in questo mondo.

Nel seguito del discorso di Gesù riportato nel capitolo 10 di Giovanni, Gesù pungola la nostra fede vacillante con due affermazioni. “Vi ho parlato e non credete!” (Gv 10,25). Deduzione: avevano sentito con gli orecchi, ma non con il cuore. Se il cuore resta chiuso, la parola non comunica vita. Eppure, l’evangelista aveva fatto notare che proprio la sua parola aveva ridato la vista ai ciechi. Se la sua parola è stata potente per alcuni, perché per me non è potente? E se è vero che noi abbiamo creduto in Dio, perché non possiamo credere a Colui che Dio ha inviato? Sarebbe il contenuto dell’affermazione con cui Gesù sigilla l’intero suo discorso: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30). Quell’affermazione risalterà in tutto il suo splendore di rivelazione proprio nella passione di Gesù, dove lui e il Padre sono totalmente intimi nel loro amore per noi a volere la comunione con noi. Allora, la conversione sarà compresa nel perdono di Dio che sopravanza tutte le colpe e ogni genere di colpa.

L’estensione e la profondità del processo di conversione sono segnalate dall’equiparazione tra l’intimità del Padre con il Figlio e tra quella del Figlio con i suoi discepoli. La corrispondenza è giocata sulla disponibilità a dare la vita: il Padre ama il Figlio perché lui pone la vita a favore di, così il Figlio ama i suoi discepoli nell’attrarli dentro lo stesso movimento del dare la vita a favore di. Lo scopo è il medesimo: perché su tutto splenda l’amore di Dio e tutti ne restino conquistati.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo di Pasqua

V Domenica di Pasqua

(7 maggio 2023)

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At 6,1-7;  Sal 32 (33);  1Pt 2,4-9;  Gv 14,1-12

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Gesù sta introducendo i suoi discepoli al mistero della sua persona e della sua morte-risurrezione. A quale promessa allude con le solenni parole con le quali si rivolge ai suoi discepoli: “… vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi?”. Dopo che Gesù ebbe lavato i piedi ai discepoli, Giuda se ne era andato. Solo dopo l’uscita di scena del traditore, Gesù parla del comandamento nuovo e rivela: “dove vado io, voi non potete venire”. A cosa allude quel ‘dove’? I discepoli non comprendono. Intervengono allora con domande puntuali. Il primo a esporsi è Pietro: “Signore dove vai? … Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la vita per te!”. Rispondendogli, Gesù non gli preannuncia semplicemente il tradimento, ma dice anche altro. Gesù non può accettare che Pietro dia la vita per lui. Sarà Gesù a dare la vita perché l’amore del Padre per gli uomini sia noto a tutti gli uomini. Quando segue Gesù, il discepolo non è invitato a sacrificare la sua vita a Dio, ma viene trasformato in dono di Dio sempre più pieno all’umanità, come Gesù. Così l’uomo finisce di percorrere il suo cammino quando giunge a essere dono totale di Dio ai suoi fratelli. Gesù non chiede la vita del discepolo per lui, ma chiede che il discepolo, in lui, dia la sua vita a tutti perché l’amore di Dio splenda nel cuore di tutti e si faccia una sola famiglia.

I discepoli non sono ancora pronti a entrare in questa prospettiva e restano bloccati sul timore della predizione. Gesù allora li esorta: “non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” (Gv 14,1). Ed è per sciogliere questo turbamento che promette loro di tornare indietro da dove andrà perché “dove sono io siate anche voi” (Gv 14,3). Il mistero è dato da quel ‘dove’. Dove è Gesù? Quel ‘dove’ esprime il punto in cui rimanere con lui. Ma qual è?

Se ritorniamo al principio del racconto evangelico di Giovanni noteremo che la prima domanda che i discepoli fanno a Gesù è: “maestro, dove rimani” (abiti, dimori, stai, vivi)? In greco, il verbo è sempre il medesimo: rimanere. Lo stesso verbo, che ricorre nell’ultima cena quando Gesù dice: ‘rimanete in me e io in voi’. Rimanere in lui dove? È questa la sfumatura di senso da cogliere. Sebbene i discepoli non riescano a comprendere, intuiscono però che il discorso verte sul fatto che l’amore di Dio risulterà manifesto. Di quell’amore sarà testimone proprio il loro maestro, per cui aver fiducia in Dio comporta l’aver fiducia in Gesù. È caratteristico come Gesù spieghi la ragione della fiducia che contemporaneamente suona come la sua promessa: io tornerò perché vi voglio presso di me, voglio che dove sono io siate anche voi.

Ecco il passaggio nevralgico. Il ‘dove’ è definito dalla risposta di Gesù a Tommaso, l’uomo ardente e con i piedi per terra: ma se non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via? L’impossibilità per i discepoli di capire è proprio data dal fatto di non collegare luogo e movimento. Il dove è una via, non è un posto. La via ha una valenza dinamica potente perché corrisponde alla direzione del movimento di riportare tutto al Padre. Il dove è il movimento in cui essere trascinati con Gesù nel dare testimonianza al mondo della grandezza dell’amore del Padre perché tutto torni a splendere proprio nel suo amore. Ecco perché Gesù non ha bisogno di chiedere ai suoi discepoli di dare la vita per lui. Lui trascina i suoi discepoli perché, in lui, diano la loro vita ai fratelli perché tutti conoscano l’amore di Dio. Ora, questo movimento non è che il movimento dell’emergere della verità dell’amore che prevale su tutto e l’amore non è che vita eterna, vita cioè non più soggetta ad alcuna mortificazione o confinamento o restrizione. È la descrizione della stessa vita divina, della vita della Trinità che, in Gesù, ci viene partecipata. In questo senso si può comprendere anche la frase finale: “chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre” (Gv 10,12). Con la glorificazione di Gesù presso il Padre con la sua morte-risurrezione-ascensione al cielo, lo splendore dell’amore di Dio rifulge in tutta la sua potenza e di questa potenza i discepoli saranno resi partecipi, perché in loro dimorerà il Cristo nella potenza del suo Spirito.

Quando il salmo responsoriale annuncia: “dell’amore del Signore è piena la terra”, allude proprio al mistero dell’invio di Gesù al mondo perché il mondo torni a vivere della comunione con il suo Dio, comunione che fa la sua bellezza e il suo compimento. La fede in Gesù non è che la visione e la condivisione di questo movimento a favore del mondo. È da dentro questa prospettiva che prende risalto il comandamento nuovo, l’amore vicendevole, consegnato da Gesù ai suoi discepoli quando ancora non ne potevano capire la portata.

Così la fede dei discepoli non può non avere una tensione ‘apostolica’: per credere al Cristo occorre ritrovarsi nel suo stesso ‘essere inviati’ perché il mondo conosca che amiamo il Padre e facciamo quello che il Padre ha comandato, cioè di amare tutti. Solo a mistero pasquale compiuto gli apostoli si rendono conto della reale posta in gioco del loro seguire il Signore e della grazia concessa al mondo. Tanto che possiamo dire: noi siamo il luogo della gloria di Dio (cfr. Gv 1,14)! Grazia e responsabilità tremenda per i discepoli.

Se Filippo incalza: “Signore, mostraci il Padre e ci basta” e Gesù risponde: “Io sono nel Padre e il Padre è in me”, vuol dire che si ripresenta l’antica richiesta di Mosè: “Mostrami la tua Gloria” (Es 33,18).  Filippo non si rende conto che chiedere di ‘mostrare il Padre’ significa voler vedere il Dio che salva e il Regno di Dio venire con potenza; significa cioè voler vedere risplendere in Gesù l’amore di Dio per gli uomini dall’alto della croce.

L’ultimo sigillo sarà posto con l’intervento Giuda, non l’Iscariota: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?” (Gv 14,22). La rivelazione di Dio non atterra nessuno, non si impone a nessuno, non costringe nessuno. Dio si svela nell’amore per lui, scoperto in Gesù e quello che è avvenuto per i suoi discepoli, così avverrà per tutti e i discepoli si presenteranno a tutti con l’invito a entrare nella stessa via, per vedere la stessa verità e avere la stessa vita.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo di Pasqua

VI Domenica di Pasqua

(14 maggio 2023)

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At 8,5-8.14-17;  Sal 65 (66);  1Pt 3,15-18;  Gv 14,15-21

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Tutta la liturgia di oggi è incentrata sulla promessa dello Spirito Santo. Tra due settimane sarà Pentecoste e domenica prossima è l’Ascensione, che sigillerà appunto la promessa dello Spirito. A che scopo Gesù intercede presso il Padre perché venga inviato a noi lo Spirito Santo? I brani di oggi celano collegamenti segreti che parlano più al cuore che alla mente, ancora bloccata nelle sue fissazioni. Non per nulla il seguito del brano proclamato oggi comporta l’intervento di Giuda di Giacomo, stupìto e perplesso nel constatare che quello che si immaginava non corrisponde al senso delle parole di Gesù: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?” (Gv 14,22).

Primo collegamento: la Parola comporta la dinamica di manifestazione di Colui che quella parola proferisce. Ecco il primo scopo dell’invio dello Spirito Santo: agirà nel senso di procurarci un’intimità di conoscenza del Signore Gesù, in cui crediamo. La sottolineatura è la seguente: non si tratta semplicemente di credere a certe cose, a certi fatti, ma di dedurre dalla fede in quei fatti, che riguardano la persona di Gesù, una potenza di vita che investe tutta la nostra esistenza. Intimità comporta sia profondità sia vivacità. E non può che riferirsi al legame con il Signore Gesù, nostro Salvatore. La conoscenza di Gesù comporterà l’intimità di condivisione con lui dell’invio al mondo perché il mondo conosca la grandezza dell’amore del Padre per i suoi figli.

A questo proposito il testo del vangelo è costruito in modo mirabile, in perfetta corrispondenza tra quello che avviene in Gesù e quello che avverrà nei discepoli. Di sé Gesù dirà alla fine del capitolo 14: “…viene il principe del mondo; contro di me non può nulla, ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così io agisco” (Gv 14,30-31). Il diavolo eserciterà contro di me tutta la sua violenza cercando di piegarmi ai suoi voleri ma non otterrà nulla, anzi, resterà scornato e sconfitto. Il testo però dice espressamente: viene il principe di questo mondo e in me non ha nulla. Cercherà qualcosa di suo in me, ma non troverà nulla. Il diavolo cerca ciò che appartiene a questo mondo nei suoi valori di potere, prestigio, gloria, superiorità, ecc., ma di tutto questo nell’umanità di Gesù non c’è neppure l’ombra. In lui c’è solo ed esclusivamente tutto l’amore del Padre per noi. Gesù descrive il discepolo che ama lui e accoglie la sua parola alla stessa maniera perché dice: “Chi accoglie (letteralmente: ha) i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv 14,21). Vuol dire: chi nel suo cuore non trattiene nulla di questo mondo ma ha solo la mia parola, allora è pieno dell’amore del Padre come me, perché la mia parola è espressione di questo amore per tutti voi. Ora è esattamente l’azione dello Spirito in noi quella di custodire la parola di Gesù nel nostro cuore perché tutto sia mosso da questo amore.

Ecco il secondo collegamento. Quando Gesù dovrà spiegare più in dettaglio l’azione dello Spirito che promette di mandare dirà: “Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito” (Gv 16,13). Guidare a tutta la verità, ecco l’azione dello Spirito. Ma anche qui, il testo non dice di guidare alla verità come moto a luogo, ma come stato in luogo. Vale a dire: guiderà a che la verità dell’amore di Dio emerga in tutte le situazioni della vita e farà in modo che solo la verità dell’amore prevalga nel cuore, anche quando subiremo violenza e ingiustizia, perché non venga meno nel mondo la manifestazione della presenza di Dio nel suo amore per tutti. A questo allude la prima lettera di Pietro. Nella promessa di Gesù va colta l’urgenza per i discepoli di ricevere il dono dello Spirito Santo perché nel mondo essi si troveranno a testimoniare la fede in Gesù in situazione di persecuzione. Dovranno vivere quel “rimanete in me e io in voi” che Gesù dirà loro subito dopo (Gv 15,4) nel contesto di una lotta senza respiro, perché l’amore di Dio prevalga e redima il mondo. Come è stato per il Maestro, così per i discepoli. Tanto che la traduzione italiana della lettera di Pietro ‘adorate il Signore nei vostri cuori’ non rende la drammaticità di quello che quell’adorazione comporta. Il termine greco è ‘santificate il Signore’, alludendo al profeta Isaia quando dice: “Non chiamate congiura ciò che questo popolo chiama congiura, non temete ciò che esso teme e non abbiate paura. Il Signore degli eserciti, lui solo ritenete santo. Egli sia l’oggetto del vostro timore, della vostra paura” (Is 8,12-13). Il contesto è quello della persecuzione, quando il principe di questo mondo si scatena e il profeta invita a restare fermi nella fede in Dio: solo lui è il Santo, nessun altro va temuto. Proprio come un vecchio detto chassidico spiega: “Rabbi Michal diceva: “Questa è la nostra vergogna, che noi temiamo qualcun altro fuori di Dio”.

L’abbinamento: parola/manifestazione evoca il senso del comandamento come la verità di un legame, di un’alleanza. Il comandamento non ha a che fare con un dovere morale; ha a che fare con l’esperienza di un amore. Come a dire: chi ha in sé la parola, il comandamento di Dio, non offre presa alcuna al potere del demonio e quindi il demonio non può rapirgli quell’amore che lo abita. Come è per Gesù, così per i discepoli.

Lo Spirito ci è inviato perché i nostri cuori godano del ‘manifestarsi’ di Gesù nel suo essere Signore e Salvatore e dell’intimità di quel ‘dimorare’ della Trinità nel cuore perché ogni tipo di prova che si subisce nella vita del mondo non ci svii né dall’amore di Dio né dall’amore dei fratelli, mai. Avviene quello che Gesù aveva appena detto loro: “Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete” (Gv 14,19). Questa è la distinzione tra il discepolo e il mondano: il discepolo vede con gli occhi del cuore, percepisce quello che l’altro non vede né può vedere. È lo sguardo aperto della fede. A questa fede, alla potenza di questo sguardo, nemmeno gli apostoli erano pronti. Si immaginavano una specie di rivelazione costringente tanto che tutti avrebbero dovuto riconoscere la potenza di Dio, come atterrati. Noi ora sappiamo bene che non è così e lo sappiamo per l’azione dello Spirito Santo che ci toglie dalle nostre fissazioni per spingerci nel movimento di amore capace di conquistare il cuore e di svelare la presenza del Signore nel mondo, comunque il mondo ci tratti.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Solennità e feste

Ascensione del Signore

(21 maggio 2023)

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At 1,1-11;  Sal 46 (47);  Ef 1,17-23;  Mt 28,16-20

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L’immagine più potente, che definisce il senso dell’ascensione, mi sembra sia quella descritta da s. Ambrogio nel commento del salmo 23, dove, incalzanti, si susseguono le grida dei custodi delle porte celesti al vedere un uomo salire nel cielo: “Chi è questo re della gloria? … Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi, soglie antiche ed entri il re della gloria”: “Angeli e arcangeli lo precedevano, ammirando il bottino fatto sulla morte. Sapevano che niente di corporeo può accedere a Dio e tuttavia vedevano il trofeo della croce sulla sua spalla: era come se le porte del cielo, che l’avevano visto uscire, non fossero più abbastanza grandi per riaccoglierlo. Non erano mai state a misura della sua grandezza, ma per il suo ingresso di vincitore occorreva una via più trionfale: davvero non aveva perso nulla ad annientarsi!”.

Ecco: il senso dell’ascensione risiede in questo riportare l’umanità nella gloria di Dio. Tuttavia, non sembra che la narrazione dei Vangeli e degli Atti degli apostoli sia su questo che insista. Il contesto del racconto dell’ascensione comporta due orizzonti di senso che si sovrappongono: l’orizzonte della missione degli apostoli nel mondo e l’orizzonte della interiorizzazione della presenza di Gesù nel cuore degli apostoli, che lo sperimenteranno sempre con loro proprio nel loro essere inviati al mondo.

Il vangelo di Marco termina con le parole: “Allora essi partirono e predicarono dappertutto” (16,20).

Il vangelo di Matteo: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (28,18).

Il vangelo di Luca: “Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia” (24,51-52).

Nel vangelo di Marco ciò che colpisce è una specie di forza potente che muove tutto: il cuore degli apostoli come l’insieme del mondo e lo stesso desiderio di Dio per l’uomo. Nel vangelo di Luca viene sottolineato lo stato interiore dei discepoli che trovano nella benedizione di Gesù il segno della sua presenza in loro da riempirli di gioia. Nel vangelo di Matteo, è rimarcata la nota di compiutezza, universalità, totalità del mistero che si compie perché per quattro volte si ripete la parola tutto: “ogni potere … tutti i popoli … tutto ciò che vi ho comandato … tutti i giorni”.

Nel concludere il racconto del vangelo con l’ascensione di Gesù, Matteo si premura di riassumere in quaranta parole (contate!) tutto l’annuncio del vangelo di Gesù. Chi ascolta le sue parole ha modo di ripercorrere in filigrana tutto il vangelo e tutto l’insegnamento di Gesù. Possiamo intravedere nel suo racconto i rimandi al vangelo attraverso cinque parole:

1. Parla di un monte, senza specificare quale. Il lettore del vangelo può riandare almeno a tre monti che ha ritrovato nel racconto di Matteo: il monte altissimo della tentazione (proprio quello dove il diavolo ha chiesto a Gesù di prostrarsi in adorazione a lui), il monte delle beatitudini dove Gesù ha proclamato la novità del suo insegnamento, il monte della trasfigurazione dove Gesù ha svelato la luce della sua divinità;

2. Parla dell’adorazione dei discepoli, ma annotando che serpeggiavano ancora dubbi. Matteo non presenta mai la fede dei discepoli sicura, definitiva, totale. La fede è sempre passibile dell’incertezza del cuore, incertezza che si risolve nel riferirsi fiducioso alla persona di Gesù;

3. Parla di un potere: “a me è stato dato ogni potere in cielo e in terra”. È forse il termine più ambiguo per i nostri cuori. Di quale potere Gesù si arroga? È il potere dell’obbedienza all’amore del Padre, del servizio, dello stare in mezzo ai discepoli come colui che serve. Questo potere è lo splendore della divinità. Come Figlio di Dio, ha tutto il potere di rivelare il vero volto del Padre, che è amore misericordioso per noi; ha il potere della verità su Dio. Come Figlio dell’uomo, ha il potere di portare a compimento tutti gli aneliti di fondo della umanità; quel disporsi al servizio, quello stare solidale anche con coloro che lo oltraggiano, quel custodire l’amore nell’ingiustizia, rivela una pienezza di umanità desiderabile;

4. Parla di un comando: “fate discepoli tutti i popoli”. È il comando che riassume il senso stesso del discepolato di Gesù. Credere in Gesù significa accettare di essere assunti nella dinamica del suo stesso invio al mondo per far conoscere la grandezza dell’amore del Padre. In pratica, quella che è stata l’esperienza dei discepoli rispetto all’agire di Gesù con loro, diventa il modello di riferimento per l’agire dei discepoli verso il mondo;

5. Parla di una presenza costante: “Io sono con voi tutti i giorni”. Con questo è giustificata la gioia dei discepoli rispetto alla sottrazione di Gesù ai loro sguardi. Ciò significa che nella percezione degli apostoli l’ascensione è colta come un dono di presenza, come un’interiorizzazione di rapporto, che non solo non perde nulla della sua realtà con la sottrazione della fisicità di Gesù, ma acquista profondità e intensità insospettate. Se volessi riassumere con mie parole la sensazione degli apostoli, direi che si è trattato dell’esperienza di una gioia assolutamente dinamica, capace di allargare i confini del cuore e le energie corrispondenti in maniera illimitata. Come per loro, così per noi.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Solennità e feste

Pentecoste

(28 maggio 2023)

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At 2,1-11;  Sal 103 (104);  1Cor 12,3b-7.12-13;  Gv 20,19-23

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Nella novena in preparazione alla Pentecoste, la preghiera della chiesa ha insistentemente chiesto per noi di poter aderire pienamente alla volontà del Padre, di trovarci conformi alla sua volontà, di trasformarci in tempio della sua gloria. L’assicurazione di Paolo ci ha accompagnati: “l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5). Ecco il punto: l’effusione dello Spirito ha a che vedere con la volontà di bene di Dio per l’uomo perché se ne renda conto, ne resti conquistato e lo testimoni dovunque. E siccome la volontà di bene del Padre si è manifestata in tutta la sua potenza salvatrice con l’invio del Figlio, allora l’effusione dello Spirito ha a che fare con lo splendore dell’amore di Dio rivelato e testimoniato nell’umanità di Gesù.

Se si potesse riassumere in pochi cenni il mistero dell’effusione dello Spirito Santo, mi esprimerei così. Lo Spirito fa vivere ogni discepolo nella potenza della risurrezione con la vittoria dell’amore. La risurrezione di Gesù è la consacrazione dell’abbassamento del Figlio per far risplendere l’amore di Dio nel mondo. Ecco allora che le preghiere della chiesa, che hanno preceduto la festa, acquistano tutto il loro senso: “Venga su di noi, o Padre, la potenza dello Spirito Santo, perché aderiamo pienamente alla tua volontà, per testimoniarla con amore di figli” (colletta del lunedì); “Venga, o Padre, il tuo Spirito e ci trasformi interiormente con i suoi doni; crei in noi un cuore nuovo, perché possiamo piacere a te e cooperare alla tua volontà” (colletta del giovedì). Si realizza la promessa di Gesù: “Riceverete la forza dello Spirito Santo, che scenderà su di voi, e mi sarete testimoni sino agli estremi confini della terra” (At 1,8), intendendo terra non solo in senso geografico ma spirituale, vale a dire in ogni circostanza, in ogni situazione, in ogni prova, in ogni afflizione interiore ed esteriore. E siccome si tratta di testimonianza della grandezza dell’amore del Padre nel nostro vivere quotidiano, come faremmo, se non riempiti e accesi del fuoco del suo stesso amore?

Se consideriamo il racconto di Giovanni, la Pentecoste coincide con la Pasqua. Gesù compare agli apostoli, riuniti a porte chiuse nel cenacolo, la sera di Pasqua. Offre loro il saluto pasquale per eccellenza: shalom, pace a voi. La pace sta in relazione con il mostrare le cicatrici delle ferite della passione, non solo per rimarcare che il risorto è proprio il crocifisso, ma per suggerire che la pace che annuncia è il frutto della passione. È una pace che scaturisce dal crogiolo dell’amore, di un amore così obbediente da consegnare se stesso senza ombra di rivendicazione. Di questa pace fa dono (l’aveva già proclamato nell’ultima cena: ‘vi do la mia pace non come la dà il mondo’) per la missione di cui investe i suoi discepoli, come lui a sua volta è stato investito dal Padre.

La fede in Gesù, che è gioia della sua presenza, vale in rapporto all’essere trovati nello stesso movimento di invio al mondo perché tutti conoscano la grandezza dell’amore del Padre. Proprio nella prospettiva di tale invio Gesù ‘soffia’ lo Spirito Santo. Il termine corrisponde al soffio dello Spirito all’inizio della creazione, per cui quel ‘soffiare’ equivale a ‘ricreare’, ridare la vita secondo la potenza divina di un amore che tutto ha conquistato. E in che cosa viene descritta questa potenza? Nel perdono dei peccati. È la presentazione più radicale del compito missionario evangelico: il perdono è la cifra storica della pace divina che tiene insieme tutto e tutti nell’amore di Dio. Lo Spirito è colui che disporrà e guiderà i discepoli alla realizzazione di questo supremo volere di Dio testimoniato da Gesù nella sua preghiera sacerdotale: che si faccia una cosa sola, tu in me e io in loro, perché tutti conoscano te! La preghiera della chiesa: “Vieni, Santo Spirito, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore” non è che l’invocazione pressante perché quel ‘volere’ di Dio si compia finalmente. Gesù abilita i discepoli a far arrivare a tutti la sua buona notizia e a far sì che tutti formino una sola famiglia alla mensa dell’amore di Dio. È la venuta del regno, secondo l’invocazione della preghiera del Padre Nostro.

La prima lettura invece riporta la descrizione di Luca dell’evento della Pentecoste. Il racconto va letto in filigrana con il racconto della torre di Babele quando gli uomini non si sono più capiti perché Dio ha confuso le loro lingue. Gli ebrei erano spaventati dalla potenza assira e si sono accorti che il principio del dominio universale, che l’impero assiro richiamava, non corrispondeva al piano di Dio per l’uomo. L’uomo sente la potenza dell’unità e della coesione, ma la gioca sul registro del dominio su tutti, secondo il principio di forza. Da ciò deriva schiavitù, non felicità. Quando, a Pentecoste, lo Spirito è effuso, assume la forma di lingue di fuoco a sottolineare che sarà lo Spirito dell’amore a realizzare quell’unità e quella coesione tra gli uomini attraverso l’armonia delle differenze, sul registro della comunione. Tutti, diversi tra loro, sentiranno la stessa cosa e tutti, nelle loro diversità, si troveranno uniti a lodare Dio per la stessa cosa. Se la Scrittura aveva fatto intervenire Dio a mettere scompiglio tra gli uomini in modo che non si capissero più, non è per invidia o gelosia, ma per significare che, se il tentativo di unità procede dalla forza, non si realizzerà mai quella comunione che corrisponde al progetto di Dio per l’uomo. Così, non viene condannato l’anelito all’unità, ma solo il modo perverso di realizzarla. La cosa non è scontata nemmeno oggi. Quante perversioni per raggiungere l’unità senza la comunione! Quello che solitamente si dice: comunione, non uniformità. Ma nelle differenze serpeggia la paura di essere da meno, di essere messi da parte, di essere prevaricati. Così si preferisce la menzogna di un’unità imposta piuttosto che la fatica di una comunione cercata.

Qui allora è bene ricordare le caratteristiche dell’azione dello Spirito Santo secondo la descrizione di Gesù, come ci ha promesso: ‘il Padre vi darà un altro Paraclito perché rimanga sempre con voi, egli vi insegnerà ogni cosa, vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto, vi guiderà a tutta la verità’. Lo Spirito è colui che non permetterà a nessuno di arrogarsi qualche diritto speciale sugli altri (quando l’uomo se l’arrogasse questo diritto, non è ‘spirituale’ e perciò perde in umanità e calpesta quella di tutti). È colui che custodirà nel cuore dei discepoli la potenza di salvezza delle parole di Gesù. È colui che farà in modo che ogni circostanza, soprattutto di afflizione o di persecuzione, si possa aprire all’esperienza dell’amore di Dio, tanto che niente e nessuno possa disperdere o mortificare il fuoco che ha acceso. È colui che, conoscendo la lingua della comunione, conoscerà tutte le lingue, potrà ascoltare tutti con benevolenza e custodire la dignità di tutti.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Solennità e feste

Santissima Trinità

(4 giugno 2023)

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Es 34,4b-6. 8-9;  Dn 3,52.56;  2Cor 13,11-13;  Gv 3,16-18

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I brani delle letture di oggi sono una mirabile sintesi della rivelazione di Dio testimoniata dalle Scritture. Dio è unico ma Trinità, vale a dire un fuoco di amore che dà esistenza a tutto e tutto ingloba nel suo amore. Il Padre creatore, il Figlio redentore, lo Spirito santificatore, in un’unica comunione d’amore in se stesso e con noi. Potremmo interpretare sinteticamente le letture di oggi in questo modo. Siccome il nome del Signore è ‘Dio misericordioso’, il Padre ha mandato il Figlio perché mostri quanto ha amato il mondo, affinché la vita di Dio, che è splendore di amore, diventi per tutti godibile e piena nel suo Spirito.

Il brano della seconda lettera ai Corinzi riporta la formula trinitaria più chiara di tutto il Nuovo Testamento, formula che è diventata il saluto liturgico iniziale della celebrazione eucaristica: “La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio [Padre] e la comunione dello Spirito santo siano con tutti voi” (2Cor 13,13). La risposta a questo saluto si avrà alla conclusione della grande preghiera eucaristica quando, dopo aver fatto memoria della grande opera di salvezza del Cristo e del dono dello Spirito Santo, la chiesa proclama: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli”. È l’eco della lode eterna che l’Apocalisse descrive come l’esultanza dei redenti davanti alla manifestazione dell’amore eterno di Dio per i suoi figli.

Il saluto e la risposta della chiesa acquistano tutto il loro valore nella doppia testimonianza del libro dell’Esodo e del vangelo di Giovanni. Dopo il peccato del vitello d’oro e l’angoscia tragica che ne era seguita per l’eventualità del ritiro di Dio e quindi della distruzione del popolo, Mosé si era interposto tra il popolo e Dio per ottenere misericordia. I capitoli 32-34 dell’Esodo sono tra i brani più eccelsi di tutta la Bibbia. Mosé era riuscito nella sua intercessione, aveva ottenuto che Dio continuasse a stare con il suo popolo ma si chiede: potrò mai vedere il volto di Dio? E domanda: “Mostrami la tua gloria” (Es 33,18). Voglio vederti in faccia, voglio sapere chi davvero sei! Richiesta oltremodo pericolosa, sapendo che non si può vedere Dio e restare in vita. Dio però si concede al suo servo e si dichiara in modo da infuocare il cuore di Mosé: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà” (Es 34,6). Insieme al brano del roveto ardente (Es 3,2) e alla rivelazione al profeta Elia sull’Oreb nella brezza leggera (‘un silenzio sottile’, secondo il termine ebraico, 1Re 19,12), qui si raggiunge l’apice della rivelazione di Dio nell’AT.

Ora, quel NOME, così carico della Presenza di Dio da significarne la natura intima, è proprio quello che il Figlio rivela con la sua passione-morte-risurrezione. Gesù anticipa questa rivelazione nel suo colloquio con Nicodemo dicendogli: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,19).  Gesù è la rivelazione del volto del Padre, che è misericordia. Se Gesù fornisce la ragione di questa sua rivelazione (‘perché abbiano la vita eterna’) non è per motivare la sua opera, ma per mostrare il fuoco che anima lui e la sua opera redentiva fin dall’eternità, negli abissi divini delle relazioni trinitarie. La sottolineatura resta la seguente: se l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio, vuol dire che è stato concepito perché potesse, lui, creatura, godere dello stesso amore che costituisce Dio in se stesso, nelle sue relazioni trinitarie. La rivelazione ha dell’inaudito. L’uomo è chiamato a condividere la stessa vita divina, che è splendore di amore in se stesso. Vita eterna e amore dicono la stessa realtà perché definiscono la natura intima di Dio.

Tutta la Scrittura ricorda come quell’esperienza sia la più sublime e la più tormentosa, la più agognata e la più temuta. Non è così facile spiegarne il perché nonostante non ci manchino le ragioni di comprensione, che però il cuore stenta ad accogliere. Eppure, anche per noi risulta vera la proclamazione evangelica: “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1,16-17). Se l’uomo cerca la verità, la verità di cui ha sete il suo cuore è una verità di grazia e contemporaneamente una grazia di verità. La festa di oggi invita ciascuno a vivere la propria vita nell’atteggiamento di chi si dispone ad accogliere nel suo cuore la grazia di verità che il Signore Gesù testimonia rivelando l’amore del Padre e donandoci il suo Spirito.

Così, avere la vita eterna comporta l’essere conquistati radicalmente dall’amore (per questo è effuso lo Spirito Santo) in modo che quell’amore divino diventi radice e splendore di vita, nella lode al Dio delle misericordie, come lo è stato per l’umanità di Gesù. La richiesta di Mosé: “Mostrami la tua gloria”, con Gesù che rivela il volto del Padre, assume un significato nuovo: possiamo conoscere personalmente il Dio che ci ha amati così tanto da darci il suo Figlio.

L’aspetto drammatico, che continua a essere tale per noi nonostante l’assolutezza e la definitività di questa rivelazione, sta nel fatto che non si tratta di un riconoscimento fattuale, puntuale, ma di un inglobamento totale della nostra esistenza in quella rivelazione, dentro una storia che tende a mettere continuamente in discussione la sua verità. Non per nulla la definizione di Dio che l’Apocalisse riporta suona: “Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!” (Ap 1,8). Vale a dire: l’assorbimento degli effetti di questa straordinaria rivelazione si gioca nella successione degli eventi, belli e brutti, beati e dolorosi, della nostra vita. Non veniamo custoditi per il fatto che tutto avverrà come piace a noi, ma per il fatto che comunque avremo l’opportunità di fare esperienza della grandezza dell’amore di Dio, perché, come dice s. Paolo, tutto concorre al bene di coloro che amano Dio.

È caratteristico che il cristiano, tracciando il segno di croce sulla propria persona, l’accompagni con la confessione trinitaria: Padre, Figlio, Spirito Santo. Come a dire: l’amore di Dio per gli uomini, che si è rivelato in tutto il suo splendore a partire dalla croce di Gesù, riempia e copra tutta la mia persona partecipando alla stessa comunione di vita che intercorre tra le tre Persone divine. E quando quel segno si traccia sulle cose o prima delle varie azioni si intende accedere alla dimensione di rivelazione dell’amore di Dio per il nostro cuore che quegli atti comportano nella sua provvidenza per noi.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Solennità e feste

Corpus Domini

(11 giugno 2023)

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Dt 8,2-3.14b-16a;  Sal 147;  1Cor 10,16-17;  Gv 6,51-58

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L’origine di questa festa, propria dell’Occidente latino, va messa in rapporto con il possente risveglio della devozione eucaristica che dal secolo XII in poi si sviluppò, accentuando particolarmente la presenza reale di Cristo nel sacramento e quindi la sua adorazione. Furono le visioni di Giuliana di Cornillon, monaca agostiniana di Liegi, ad avere un influsso decisivo nell’introduzione della festività, che per la prima volta si celebrò nella diocesi di Liegi nel 1247. Urbano IV, già arcidiacono di Liegi e confessore di Giuliana, la prescrisse per tutta la Chiesa nel 1264. Qui, a Capriata d’Orba, si può vedere un segno del passaggio di s. Bernardino da Siena, grande predicatore e fautore della devozione eucaristica nel sec. XV. Sulla parete di un cascinale troneggia il suo stemma a raggiera raffigurante l’ostia eucaristica con la scritta IHS: Iesus hominum salvator (Gesù salvatore degli uomini).

Quando s. Agostino si domanda quale sia la virtù specifica dell’Eucarestia, non può che rispondere: “La virtù propria di questo nutrimento è quella di produrre l’unità, affinché, ridotti ad essere il corpo di Cristo, divenuti sue membra, siamo ciò che riceviamo”. In effetti, quando ci accostiamo alla comunione eucaristica, l’amen che il fedele risponde non significa: sì, credo che quel pezzo di pane sia il corpo di Cristo, ma, più in verità: sì, so che faccio parte di quel corpo e accetto di vivere come un corpo solo!

La sottolineatura è che, mangiando il Corpo di Cristo, rimaniamo in lui e lui in noi, con il corollario evidente che, rimanendo in lui, rimaniamo nel suo amore, cioè nell’amore del Padre per noi che la sua venuta tra noi ha rivelato nella sua umanità. L’essere uno in Cristo, il rimanere in lui come lui rimane in noi, esprime tutta l’intensità e la profondità dell’unione del discepolo con il suo Maestro nella stessa dinamica di vita che lo caratterizza: inviato per mostrare la grandezza dell’amore del Padre e per fare di tutti un’unica famiglia. Se la chiesa prega per l’unità e per la pace è perché la pace riguarda la dimensione di quell’unità nella storia, nel senso che tutti gli uomini sono fratelli perché l’unico pane è per l’unico corpo. Il ‘vero pane’ disceso dal cielo, come Gesù dichiara nel vangelo, ha lo scopo di nutrire, vale a dire portare vita, accrescere la vita, renderci partecipi della sua potenza di ‘eternità’. Da non intendere: per ereditare domani la vita eterna in paradiso, ma: per avere oggi la qualità eterna della vita come splendore di amore immortificabile.

Il vangelo esprime questa tensione con termini estremamente realistici. Noi traduciamo: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me e io in lui”. In realtà, il testo dice: ‘chi mastica la mia carne’. Esprime il realismo del mangiare. Già l’espressione di Gesù sembra irricevibile (in effetti, nel brano di Gv 6, i farisei respingono la cosa), ma l’accentuazione realistica la rende ancora più assurda. L’accentuazione sottolinea la veridicità del mistero, il realismo del mistero. Come comprenderlo?

Il mangiare allude al partecipare alla dinamica che fa la vita ‘eterna’. Potremmo spiegare così. Chi mangia il corpo di Gesù, che si è consegnato nelle mani degli uomini perché fosse nota la grandezza dell’amore del Padre, resta abilitato, come Gesù e in Gesù, a consegnarsi a sua volta perché quell’amore, che l’ha conquistato, splenda nel mondo e lo trasfiguri (in effetti Gesù non dice solo che lui è il pane vivo, ma che è il pane disceso dal cielo e che lui darà per la vita del mondo), in modo da far entrare la concretezza della vita quotidiana nel movimento dell’amore divino. Questo significa vivere per il regno, secondo l’espressione programmatica di Gesù: “Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6,33).

In questo senso il riferimento alla manna e al suo significato nel racconto del Deuteronomio resta essenziale. La liberazione dalla schiavitù aveva comportato un periodo di umiliazione e di prova perché emergesse la verità dei cuori. Vale a dire, se fossero davvero disposti a seguire il loro Dio, a fidarsi di lui (ecco il segno della manna), a adorare solo lui. Mosè dice loro di tenere a mente, di fare memoria che in realtà non si tratta tanto di essere soddisfatti nella fame materiale (non sparire come popolo) ma di essere nutriti della parola che esce dalla bocca di Dio (vivere nella e della santità di Dio). È come se ricordasse loro l’emozione delle origini quando Dio era intervenuto, quando Dio aveva fatto sentire la sua voce, quando Dio si è messo alla guida del popolo tramite Mosè.

L’eucaristia è entrare nell’emozione delle origini per il cammino tormentato della vita. È fare memoria della grazia delle origini, così potente da inglobare tutto il cammino nella sua luce e nella sua energia di vita. Il mangiare l’eucaristia, il corpo di Cristo dato per noi, vuol dire ricevere sostentamento ed energia per realizzare quello che significa: diventare un corpo solo, a immagine della comunità dei santi uniti nella lode dell’amore sovrano di Dio. È l’eucarestia, come dice s. Francesco, a comunicare al cuore dell’uomo credente, che fa affidamento alla logica che viene dall’alto, la potenza di una memoria, di una intelligenza e di un sentimento per un amore grande che ci ha toccati, per Colui che si è rivelato al nostro cuore come capace di amore per noi. Sperimentando questo, allora le sue parole, il suo agire ed il suo soffrire, si impastano con il nostro, lo lievitano e, mossi ormai dalla sua stessa dinamica di vita, impariamo a stare solidali con tutti, in quell’umanità che ci rende un unico corpo, un corpo solo con il nostro Dio.

Come i farisei di allora, anche noi mettiamo avanti le nostre resistenze, le nostre perplessità. Perché, quello che appare così tanto desiderabile, spesso non convince i nostri cuori nel viverne tutte le implicazioni nella vita concreta? Se rileggiamo tutto il capitolo 6 di Giovanni riusciamo a intuire la natura di questa difficoltà. Gesù si presenta come il pane disceso dal cielo, ma gli ascoltatori, che pure avevano goduto del miracolo della moltiplicazione dei pani, sono incapaci di riconoscere nel concreto la via di Dio che a loro si sta rivelando. Perché, pur desiderando la vita, non l’accolgono? Forse la risposta va cercata proprio in quel movimento di discesa che caratterizza l’agire di Dio. Il discendere dal cielo non indica semplicemente la provenienza di Gesù; indica piuttosto il movimento dell’abbassarsi di Dio per comunicare il suo amore e far vivere. Gli uomini non amano abbassarsi, benché vogliano la vita e desiderino l’amore. Pensano sempre in termini di grandezza, ma mondana, dove il potente prevale sul debole, il grande la spunta sul piccolo e l’affermazione di sé è una questione di innalzamento. Gesù invece, quando parla di innalzamento, allude sempre al suo essere innalzato sulla croce, cioè al suo abbassamento, perché è lì che risplende l’amore di Dio per l’uomo.

Il dimorare in Gesù, mangiando la sua carne e bevendo il suo sangue, allude al rimanere in questo movimento di discesa per essere testimoni dello splendore dell’amore di Dio in mezzo agli uomini, non avendo altro tesoro più prezioso da custodire. Dovremmo imparare a collegare il mangiare e il rimanere in funzione della manifestazione al mondo dell’amore di Dio.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Solennità e feste

Sacratissimo Cuore di Gesù

(16 giugno 2023)

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Dt 7, 6-11;  Sal 102;  1Gv 4,7-16;  Mt 11,25-30

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L’immagine del cuore di Gesù, spalancato sul mondo, che la ferita del colpo di lancia del soldato al calvario lascia intravedere, è espressa con le parole del salmo 33 riprese dall’antifona di introduzione: “Ma il disegno del Signore sussiste per sempre, i progetti del suo cuore per tutte le generazioni”. Ecco, i nostri pensieri sono mutevoli, i nostri progetti pure, ancor più i nostri desideri, ma ciò che Dio ha desiderato per l’uomo non viene mai meno. Percepire questo, significa cogliere e accogliere il segreto di amore che regge il mondo. Il fatto stesso che tale segreto possa essere svelato in tutto il suo splendore solo nel momento più drammatico della vita di Gesù la dice lunga sul fatto che quell’amore non sia scontato coglierlo e viverlo, per quanto desiderabile.

L’affermazione del Deuteronomio: “Il Signore si è legato a voi … perché vi ama” resta il fondamento dell’esperienza dei credenti. E quando il salmo 102, v. 8, proclama: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore” non fa che sottolineare la verità di quell’affermazione. Corrisponde alla rivelazione del Nome di Dio a Mosè sul Sinai dopo il peccato del vitello d’oro, quando l’angoscia del possibile rifiuto di Dio tormentava i cuori (cfr. Es 32-34). L’uomo ha paura che Dio si allontani da lui, ma Dio non si allontana mai.

Proprio come dice Giovanni nella sua prima lettera: “In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito … non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi” (1Gv 4,7.9). Il nostro guaio è che restiamo così insensibili alle vicende di quel ‘Figlio dato per noi’, così poco toccati nell’intimo dalla testimonianza della sua vita per noi da vivere la nostra vita più nella lamentela che nel rendimento di grazie, più nell’affanno che nella consolazione, più nel tormento e nel disprezzo che nella pace.

Potessimo comprendere quello che Gesù proclama solennemente davanti ai discepoli: “Tutto è stato dato a me dal Padre mio ...”! Vale a dire: tutta la verità a cui anela il cuore dell’uomo, tutto il bene di cui è capace il cuore dell’uomo, tutto il contenuto dei pensieri e dei desideri dell’uomo, tutta la gloria che un uomo può portare, tutti gli aneliti del cuore degli uomini nella loro immensità e profondità, tutto trova in lui il compimento, ha in lui il suo sigillo. È per questo che può continuare a dire: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”. Quello che cercate, quello che, non trovandolo, vi procura oppressione, quello per cui vanamente vi affaticate, tutto potrete avere in me! Gesù riprenderà questa affermazione alla fine del vangelo, prima di ascendere al cielo: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra” (Mt 28,18). In ragione dell’amore che tutto l’occupava, Gesù si conferma nel potere di rivelare il vero volto di Dio e nel potere di compiere ogni desiderio del cuore dell’uomo. In lui l’umanità si fa trasparente e della sua origine divina e della comunione fraterna nell’amore dell’unico Padre. Ed è per questo che ancora aggiunge: “Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero”. La struttura della sua umanità è commisurata alla nostra e ci raggiunge là dove più misterioso è il segreto delle sue origini: siamo nel mondo, ma non del mondo.

Due particolari sono da rilevare nel passo evangelico proclamato: la beatitudine dei piccoli e l’invito a imparare. Non è convinzione psicologica, ma principio di sapienza spirituale: per amare è necessario farsi piccoli (piccolo è contrapposto a dotto, non a grande. In pratica significa che solo con l’amore si resta aperti alla meraviglia della vita, come lo sono i bambini); l’amore è rivelazione, non conquista. Gesù si è fatto ‘piccolo’, così piccolo da dimenticare totalmente la sua gloria e poter far arrivare agli uomini l’amore di Dio. Ora, la sua piccolezza ha a che fare con la situazione degli uomini, incapaci di vedere Dio perché non più capaci di amare (“Chi non ama non ha conosciuto Dio”), non più aperti alla rivelazione dell’amore (potrebbe essere spiegata così la situazione di peccato in cui versano gli uomini che tanto li inasprisce). Quando gli uomini si accorgono, guardando Gesù morire sulla croce, dell’amore di Dio per loro e chiedono perdono (chiedono cioè di uscire dalla corrosione della loro umanità ferita), non vogliono semplicemente mettersi a posto, ma vogliono tornare a godere dell’amore di Dio, in umiltà. Più l’umiltà sarà sincera e profonda, più faranno esperienza della tenerezza di quell’amore e più saranno disposti a condividerlo con tutti.

Se Gesù invita: “Imparate da me”, che cosa dobbiamo imparare? Credo che nel fatto di ‘imparare’ vada letta la sfumatura di significato di ‘essere attratti’, come si può arguire dal discorso di Gesù alla folla dei giudei riportato in Gv 6,45 (“Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me”). Imparare ed essere attratti comportano lo stesso movimento, alludono alla condivisione di una intimità di vita e di sentire che diventa potenza di azione. Imparare da Gesù significa perciò essere attratti a lui, per vivere della sua stessa vita donata. Significa imparare da lui a conoscere Dio e imparare ancora da lui a conoscere noi stessi, la nostra umanità. Se rispetto al male che devasta la nostra umanità noi ci giustifichiamo con l’attrattiva e la propensione che ci agita, subendo la tristezza del diavolo, rispetto al bene noi ci muoviamo secondo la forza di una nostalgia che ci abita, nostalgia che l’umanità del Signore ci accende.

Quando verrà meno la nostra diffidenza e verremo toccati da quella mitezza e umiltà che ci mostra il cuore di Gesù, potremo comprendere meno confusamente come le due definizioni di Dio dell’apostolo Giovanni (“Dio è amore”, 1Gv 4,8.16; “Dio è luce”, 1Gv 1,5) siano un tutt’uno. La luce allude alla santità di Dio nel suo splendore di amore per l’uomo, come l’amore è la dimensione della santità di Dio che rende l’uomo somigliante a sé. Il cuore di Gesù mostra sia l’amore di Dio che la sua santità. Non siamo attratti allo stesso titolo dall’amore e dalla santità e forse per questo l’amore, che è così desiderabile, ci riesce così irraggiungibile. Eppure, l’amore fa la santità della persona e la santità di vita non può che risolversi in splendore di amore. È quello che ci rammenta il cuore di Gesù, con la liturgia di oggi.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo Ordinario

XI Domenica

(18 giugno 2023)

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Es 19,2-6a;  Sal 99 (100);  Rm 5,6-11;  Mt 9,36-10,8

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Partiamo dal canto al vangelo: “Il regno di Dio è vicino: convertitevi e credete nel Vangelo” (Mc 1,15). Che cosa significhi regno e cosa significhi vicino è illustrato dalle letture di oggi. L’aspetto sorprendente della liturgia di oggi è il collegamento tra la compassione di Gesù e il regno che viene. E prima ancora, il collegamento tra alleanza di Dio con il popolo che ha fatto sua proprietà e compassione del Figlio.

Gesù “vedendo le folle, ne sentì compassione” (Mt 9,36). Così inizia il brano della costituzione dei dodici e del loro invio. Certo Matteo non si preoccupa della paradossalità delle prerogative degli apostoli: guarire gli infermi, risuscitare i morti, purificare (sanare) i lebbrosi, scacciare i demoni. Come si trattasse di qualcosa di normale! A Matteo non interessa sottolineare la straordinarietà di tali prerogative, ma quella di far rimarcare da dove quelle prerogative provengono: dalla compassione di Gesù. Il ministero degli apostoli sarà quello di far giungere a tutti, in ogni dove, in ogni circostanza di vita, il profumo e il potere sanante della compassione di Gesù. In questo far arrivare, far sentire, dare espressione alla compassione di Gesù si può avvertire che il regno di Dio è vicino.

Quel regno si innesta sulla alleanza di Dio con il popolo perché originata da un movimento di compassione: “Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa” (Es 3,7-8). Il brano odierno dell’Esodo sottolinea che quella compassione ha la potenza di un legame d’amore tanto da poter dire: “Voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli”. Non si tratta di possedimento, ma di appartenenza e l’appartenenza è concepita in termini amorosi, come dirà l’amata del Cantico: “il mio amato è mio e io sono sua” (2,16); “Io sono del mio amato e il mio amato è mio” (6,3); “io sono del mio amato e il suo desiderio è verso di me” (7,11). L’appartenenza non dà diritti; si muove nella gratitudine e nell’impegno di modellarsi sull’amore di Colui che mi ha reso suo.

La compassione di Gesù, che manifesta quel legame d’amore eterno di Dio con i suoi figli e ne svela tutta l’intensità e infinità, è proprio quella che risalta nel comandamento finale del vangelo rivolto agli apostoli: “fate [miei] discepoli tutti i popoli”. Vale a dire: a tutti è rivolta la mia compassione, di tutti vi dovete prendere premura perché conoscano il mio amore. Il regno vicino sarà la gloria dell’appartenenza.

Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni malattia e infermità” recita il v. 35, che precede l’inizio del nostro brano. Quando chiama i discepoli, li fornisce delle stesse sue prerogative: “diede loro potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia e ogni infermità” (Mt 10,1). Nessuno può proclamare la verità della vita a titolo proprio, come nessuno può procurare ristoro al cuore degli uomini a titolo proprio. La verità e il ristoro procedono dall’alto, esprimono la compassione di Dio che raggiunge il cuore degli uomini, in Cristo. E se il discepolo non lascia intravedere chiaramente tale rimando, non è un chiamato, un inviato, lavora per la sua gloria e non potrà sanare nessuno.

Tanto che Gesù, nel suo inviare i discepoli, di ieri come di oggi, sembra comandare incredibilmente di fare miracoli: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, cacciate i demoni” (Mt 10,8). Parlavo poco sopra della paradossalità di questo invito. I discepoli si presentano nello stesso movimento di compassione di Gesù. Lui ha operato in quel modo, i discepoli non possono che rifarsi al suo esempio nell’annunciare il vangelo. In pratica, la compassione otterrà la guarigione dei cuori dall’invidia dei demoni. Sono i demoni, per la volontà di far condividere agli uomini la loro scelta di separazione da Dio, di grandezza ricercata sulla piccolezza degli altri, di gloria ottenuta sulla vergogna altrui, a turbare la vita, ad ammorbarla, a opprimerla e a mortificarla. Cacciare i demoni significa tornare a far risplendere l’umanità nella sua vocazione di dignità e di comunione con Dio, con il creato, con i fratelli; significa ridare speranza ai cuori che incominciano a vedere splendere in mezzo a loro la presenza del loro Dio, Salvatore; significa tornare a far giungere ai cuori la compassione di Dio. Significa tornare a godere di appartenere a Dio. È questo il potere del vangelo. Al di là del dono particolare, fatto a qualche discepolo, qualche volta, di fare miracoli, credo che il valore di queste guarigioni stia tutto nel senso di procurare quel ristoro che rende un cuore pieno di vita, colmo di gratitudine, solidale e ricco in umanità, puro da vedere Dio e da desiderare il bene di tutti perché Dio sia conosciuto e il suo amore riconosciuto. È il regno veduto vicino.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo Ordinario

XII Domenica

(25 giugno 2023)

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Ger 20,10-13;  Sal 68 (69);  Rm 5,12-15;  Mt 10,26-33

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Nell’inviare in missione i suoi discepoli Gesù non parla di successi, ma di persecuzioni. La sensazione, però, che lascia, non è affatto di paura, bensì di confidenza. Avviene nei cuori quello che il canto al vangelo proclama: “Lo Spirito della verità darà testimonianza di me e anche voi date testimonianza”, riportando il passo di Gv 15,26-27.

Non temete gli uomini, temete Dio: questo l’invito. La paura che prendesse il discepolo nella persecuzione non equivarrebbe semplicemente alla mancanza di coraggio, ma alla mancata intimità con il proprio maestro. Il contrario della paura non è il coraggio, ma la confidenza; non si conquista con l’esibizione, ma con l’intimità. Tale è l’ottica di lettura per i brani di oggi. Sul principio: “Un discepolo non è da più del maestro, né un servo da più del suo padrone; è sufficiente per il discepolo essere come il suo maestro e per il servo come il suo padrone” (Mt 10,24-25).

La verità che lo Spirito farà risplendere nel cuore è appunto la verità, accolta, del mistero della persona di Gesù, di cui si è condiviso la vita e l’insegnamento, imparando a riconoscerne l’amore e a viverne la dinamica di rivelazione che comporta. Davanti alla tribolazione che sorprende il discepolo, quando subirà persecuzione dagli uomini, quando subirà ingiustizie e oppressione, quando si sentirà ingiustamente canzonato, egli potrà mostrare su chi fa affidamento, di che cosa il suo cuore è pieno, che cosa costituisce il suo tesoro.

La persecuzione è descritta nei tre ambiti delle relazioni: quelle familiari per gli affetti, quelle comunitarie per l’appartenenza, quelle civili per il rispetto. Gesù distingue tra quello che possono fare gli uomini e quello che può fare Dio. Gli uomini ti possono sottrarre l’affetto, ti possono ostracizzare, ti possono mettere in prigione e perfino ucciderti. Ma non hanno potere sull’anima. È la sottolineatura del brano di Geremia. La sua vita scaturiva dal legame con il suo Signore che gli aveva rapito il cuore. Così la sua supplica: “possa io vedere la tua vendetta su di loro, poiché a te ho affidato la mia causa” significa: che il povero, per paura del malvagio, non venga meno alla sua dignità, non desista dal fare il bene e non ceda al male. Alla vendetta degli uomini contro il giusto corrisponde la vendetta di Dio contro i malvagi. Da intendere: in modo che il giusto resti nell’intimità con il suo Dio e non ceda alla vendetta. La vendetta non appartiene al giusto.

Singolare è la motivazione di Gesù per infondere fiducia nei suoi discepoli: “nulla vi è di nascosto che non sarà svelato …”. Proprio quello che nella più personale intimità di incontro col Signore costituisce la verità nascosta del proprio cuore, cioè il suo amore, proprio quello andrà gridato in tutti modi, perché tutto sarà svelato a suo tempo, a tutti apparirà chiara la verità di quel segreto a suo tempo. Forse Gesù allude a un proverbio popolare: tutto finisce per arrivare al grande giorno. Ciò che ora è ancora un segreto, sarà la verità più limpida e convincente per tutti a suo tempo. Non temete dunque, conclude Gesù: fate risuonare quel segreto, fate risplendere davanti a tutti quella verità.

Gesù contrappone la forza di quel segreto, che descrive come timore di Dio, con la paura degli uomini. Chi teme Dio, non ha più paura di nessuno, nemmeno dei suoi persecutori. Proprio come ne fa fede un aneddoto chassidico: “Rabbi Michal diceva: “Questa è la nostra vergogna, che noi temiamo qualcun altro fuori di Dio. È questo che si deve intendere quando di Giacobbe è detto: “Ed egli temette e fu angosciato” (Gen 32,8). Noi dobbiamo angosciarci del nostro timore di Esaù”.  Non è che l’uomo possa restare senza timore (finirebbe per essere arrogante); deve solo temere Dio e nessun altro, per nessun motivo. Ora, il temere Dio è il corrispettivo della forza di intimità goduta con lui: “Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza che il volere del Padre vostro”. Come a dire: il Padre vostro è sempre con voi; voi siete cari al Padre vostro. Tutto quello che vi capita non è un incidente, ma ha lo scopo di mostrare il suo desiderio di comunione con gli uomini, desiderio che in voi è diventato il vostro segreto di vita. Se il male che ci viene dagli altri uccide la nostra anima nel senso che ci distoglie dalla comunione con Dio e soffoca il suo amore, come potrà il mondo ancora risplendere della presenza di Dio? Come la salvezza di Dio potrà ancora lambire i cuori? Di questo i discepoli sono testimoni.

Un’ultima annotazione sulla corrispondenza tra il riconoscimento di Gesù davanti agli uomini e il riconoscimento suo davanti al Padre. Letteralmente, il testo evangelico suona: ‘Chi confesserà in me davanti agli uomini, anch’io confesserò in lui davanti al Padre mio’. Si tratta di un’espressione aramaizzante per indicare il fatto di riconoscersi dalla parte di qualcuno. Noi potremmo interpretare: non si può confessare il Signore Gesù se non a partire da un’intimità di vita con lui, per cui riconoscerlo significa godere dell’intimità che ci offre. E la cosa avviene davanti agli uomini nel senso che quell’intimità si svela nell’amore verso gli uomini, alla comunione coi quali tende il desiderio di Dio, e proprio quando gli uomini, rifiutando di rispondere a quel desiderio, contestano e opprimono coloro che vivono secondo quel desiderio, che è diventato il loro segreto. Il riconoscere di Gesù davanti al Padre significa mostrare al cuore la verità dell’amore salvatore di Dio per gli uomini che prevale in ogni circostanza, anche la più drammatica o la più affliggente.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo Ordinario

XIII Domenica

(2 luglio 2023)

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2Re 4,8-11.14-16a;  Sal 88 (89);  Rm 6,3-4.8-11;  Mt 10,37-42

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Gesù si dilunga nelle raccomandazioni ai suoi apostoli inviati in missione. Li aveva appena invitati a confessarlo apertamente al mondo senza paura. E di fronte alle inevitabili resistenze che incontreranno, non si facciano illusioni. Così rincara la dose: “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada. Sono infatti venuto a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera; e nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa” (Mt 10, 34-36). Sono i versetti che precedono il brano evangelico proclamato oggi.

Gesù parla da profeta. E i rimandi sono tutti profetici, nel senso che le sue parole sono intessute di reminiscenze scritturistiche che danno ad esse una consistenza e profondità particolari. “Chi ama padre o madre più di me non è degno di me …”  fino a “chi avrà perduto la propria vita per causa mia la troverà”. È tirata in ballo la profezia di Michea sulla corruzione inarrestabile che dilaga nel popolo: “L’uomo pio è scomparso dalla terra, non c’è più un giusto fra gli uomini: tutti stanno in agguato per spargere sangue; ognuno con la rete dà la caccia al fratello…. Il figlio insulta suo padre, la figlia si rivolta contro la madre, la nuora contro la suocera e i nemici dell’uomo sono quelli di casa sua” (Mi 7,2.6). Gesù la commenta con la benedizione dei figli di Levi (cfr Dt 33), in rapporto all’atteggiamento avuto a fianco di Mosè, che aveva decretato la purificazione del popolo dopo il peccato del vitello d’oro mettendo a morte tutti i trasgressori. Dei figli di Levi si dice: “Disse loro: «Dice il Signore, il Dio d’Israele: “Ciascuno di voi tenga la spada al fianco. Passate e ripassate nell’accampamento da una porta all’altra: uccida ognuno il proprio fratello, ognuno il proprio amico, ognuno il proprio vicino”». I figli di Levi agirono secondo il comando di Mosè e in quel giorno perirono circa tremila uomini del popolo” (Es 32,27-28).

L’esempio profetico è illustrato per sottolineare che, se la salvezza viene da Dio, allora vale la pena riferirsi a Dio in modo assoluto, senza assommargli anche i nostri interessi. Tanto più che l’assolutezza di Dio è compresa nei termini di una compassione viscerale, eterna, per i suoi figli, di cui cerca la comunione perché godano con lui del Bene di cui li investe.

Ed è per questo che la seconda parte del brano illustra la dignità e l’onore che Gesù riserva ai suoi discepoli. Gesù non si confonde solo con il ‘povero’ a cui il vangelo va annunciato; si confonde pure con il discepolo che manda ad annunciare tanto da promettere che chiunque tratterà con onore il suo discepolo, riceverà la ricompensa stessa del discepolo.

Noi potremmo spiegare così. In rapporto al mistero del regno di Dio che è venuto ad annunciare e a realizzare, tutto il resto è secondario, perfino gli affetti più naturali e oggetto del comandamento di Dio. Anche Gesù si è trovato nella circostanza se preferire i legami familiari di parentela o l’ardore per il regno. Chiara la sua scelta: chi fa la volontà del Padre mio, questi è madre, fratello e sorella per me. Quando racconta le parabole del regno, la sottolineatura evidente è: entrare nella familiarità con Gesù significa stabilire un legame ancora più forte dei legami di sangue. È il mistero dell’alleanza svelato nelle sue radici di intimità che portano pienezza al cuore dell’uomo, tanto che non si resterà più chiusi nella cerchia della propria parentela, ma si accoglierà ogni uomo nella parentela con il Figlio di Dio. Tutto questo però ha un costo perché, quando i due movimenti entreranno in conflitto, il cuore deve saper scegliere. Di quale dignità si vuol godere? Risuonano qui le espressioni del vangelo di Matteo: “Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta … se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 6,33; 5,20).

L’invito: “Chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me” lo riprenderà allargando a tutti l’ammonizione a Pietro dopo la confessione di Cesarea: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16,23-24). Il prendere la croce ha a che fare con il voler essere discepolo di Gesù, con il voler stare dove lui sta, con l’andare dove lui va. Non si tratta di pazientare con la propria croce, ma di cogliere il segreto che regge questo invito: cosa cerchi? per quale tesoro ti angosci? Si tratta di cogliere la promessa che sta racchiusa in ogni parola di Gesù: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo” (Mt 25,34). Il prendere la croce vuol dire portare ogni cosa in vista di godere di quel regno, non nell’attesa del regno che verrà, ma del regno che è davanti a noi, che è alla nostra portata, perché Gesù ce lo apre. Così il discepolo rinuncia a tutti i beni, non nel senso che non ne gode, ma nel senso che non li preferisce all’amore di Gesù, nel senso che non ne fa motivo di ira e tristezza se gli vengono tolti pur di custodire la sequela di Gesù. Senza percepire però la verità e l’emozione interiore della promessa del regno non sarà possibile prendere la propria croce e andar dietro Gesù.

San Paolo, per riassumere la sapienza evangelica, che suona paradossale alle nostre orecchie, non troverà di meglio che definirla così: “La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio … Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1,18.25). Di modo che: “Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). Da intendere: nel mondo non c’è nulla da preferire all’amore di Gesù e in me non c’è nulla che può essere portato a compimento se disattende o mortifica l’amore di Gesù.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo Ordinario

XIV Domenica

(9 luglio 2023)

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Zc 9,9-10;  Sal 144 (145);  Rm 8, 9.11-13;  Mt 11,25-30

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Nel suo racconto evangelico Matteo incastona questa perla straordinaria. Presenta Gesù come il Profeta escatologico, il Maestro, il Figlio, che conosce e fa conoscere la misericordia del Padre. Dopo aver rimproverato la sua generazione per l’incredulità nei confronti di Giovanni Battista e le città di Galilea, che erano state testimoni di molti suoi miracoli senza convertirsi, Gesù svela che comunque l’opera di Dio si sta realizzando, si confida pubblicamente e prorompe in un grido di esultanza: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza”. Matteo non specifica la circostanza, ma il passo parallelo di Lc 10,17-22 lo dice chiaramente. Tornano dalla missione di predicazione i 72 discepoli che Gesù aveva inviato davanti a sé, tutti contenti per il successo registrato. L’esultanza di Gesù si riferisce all’accondiscendenza di benevolenza del Padre per gli uomini, che possono godere del suo amore senza averne alcun titolo.

La prima lettura del profeta Zaccaria, che tratteggia così il re di Israele che entra in Gerusalemme: “giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina”, dà rilievo alla affermazione di Gesù: “imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita”. I due testi fanno convergere l’attenzione sul racconto della passione di Gesù, allorquando quella mitezza e umiltà costituiranno il sigillo definitivo dell’assoluta volontà di benevolenza di Dio per noi uomini. La mitezza è riferita alla disposizione di mai lasciare la benevolenza e l’umiltà al fatto di mai preferire la propria gloria all’amore.

La condivisione da parte di Gesù del compiacimento di Dio non allude semplicemente al fatto che a Dio piace rivelarsi ai piccoli, ma alla condizione essenziale perché Dio possa rivelarsi, come a dire: appena ci si fa piccoli, nella misura in cui ci si fa piccoli, Dio si rivela a noi. Qui si cela il segreto dell’obbedienza al Padre di Gesù, dell’obbedienza del discepolo al suo Maestro, dell’obbedienza della fede. L’esultanza di Gesù come del credente deriva da qui.

C’è un’insistenza speciale nelle parole di Gesù. Dice che tutto gli è stato dato, a tutti si rivolge. Quel ‘tutto’ è riferito al Regno di Dio e ai suoi segreti. Di quei segreti è l’unico depositario sia nel senso che solo lui li conosce intimamente sia nel senso che solo lui ce ne può rendere partecipi. Nessuno può conoscere la bontà di Dio se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo. Cosa significa? Dal momento che ai piccoli vengono rivelati i misteri del Regno, quel ‘colui’ non può che alludere a chi è piccolo. La sfumatura di senso risulta essere questa: non si tratta semplicemente di accogliere la parola che dice Gesù (in altri termini, non è la spiegazione che Gesù dà a colpire) ma di godere della presenza che la sua parola benevola suscita. È la presenza in intimità a svelare i misteri del Regno. Così, ‘piccolo’ è colui che gode del suo esserci, del suo stare con noi, in intimità, senza perdersi in nessun altro pensiero o pretesa, proprio come i bambini che dipendono in tutto dal bene voluto loro. In questo senso risuona potente l’affermazione di Giovanni: “In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10).

Per questo può parlare di ‘giogo dolce e di peso leggero’. Non si tratta più tanto di portare il giogo della Legge, ma il suo giogo, vale a dire portare la fatica nella forza della sua presenza. Non per nulla, il brano parallelo di Luca finisce con la dichiarazione: “E, rivolto ai discepoli, in disparte, disse: Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete” (Lc 10, 23-24). È da dentro quella beatitudine che si percepisce la presenza del Regno che viene, perché è rivelazione della misericordia benevolente di Dio. Come domandiamo nella preghiera del Padre nostro: venga il tuo regno! Venga il tuo regno in noi, si manifesti in noi, diventi godibile da noi, conquisti i cuori di tutti, perché tutti si ritrovino nella medesima lode dell’amore di Dio.

E come il salmo responsoriale celebra la cosa? Dicendo: “appaga il desiderio di quelli che lo temono”, che l’antica versione greca e latina rende con “farà la volontà di quelli che lo temono”. Non è più l’abituale richiesta di compiere noi la volontà di Dio, ma la singolare constatazione che Dio fa la volontà di coloro che a lui si affidano.  Qui si esprime tutto l’amore di Dio, qui si mostra la verità del suo Nome, come il salmo riprende dalla rivelazione sul Sinai dopo il peccato del vitello d’oro: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore” [in latino: patiens et multum misericors]. Non sono qualità di Dio, insieme ad altre; no, è la verità di Dio, è Dio in se stesso. E Gesù è venuto a far conoscere proprio il volto di Dio, quel volto, il vero volto di Dio. Se si pensa che il salmo 145 è composto di 150 parole, non si può non vederlo come il salmo conclusivo di tutto il salterio (a parte la dossologia finale dei salmi 146-150) e così non si può non constatare che tutta la preghiera dell’uomo tende a far entrare l’uomo nella benedizione del regno: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo” (Mt 25,34). Quel regno che Gesù dice essere il ‘ristoro per la vostra vita’.

Un’ultima annotazione. Se non esiste via d’uscita alla fatica del vivere, è però possibile aprirsi alla grazia che la feconda. In effetti, se consideriamo il racconto della creazione nel libro della Genesi, scopriamo che Dio: “cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro che aveva fatto” (Gn 2,2). L’espressione ‘cessare da ogni lavoro’ corrisponde a ‘riposare’. Ora, ‘riposare’, ‘riposo’, non sono concetti negativi, ma intrinsecamente positivi. Ciò che rende completa la creazione è quel ‘riposo’, sinonimo di pace, armonia, felicità, pienezza, vita eterna. Il termine greco usato nella Bibbia dei LXX per rendere ‘riposo’ è lo stesso che viene usato per le parole di Gesù: “Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita”. Il ‘ristoro’ che dà Gesù è quel ‘riposo’ che caratterizza la completezza della creazione. Ciò significa che Gesù costituisce davvero il compimento della nostra umanità; che in lui la nostra umanità si compie, si realizza e si ‘riposa’ (cfr. Mt 5,5). Non solo, ma che le caratteristiche del cuore di Gesù, mitezza e umiltà, costituiscono le coordinate di ogni possesso in pienezza, la cifra dello splendore dell’amore che ‘soddisfa’ il cuore dell’uomo. La dolcezza e leggerezza della legge evangelica derivano da qui, sebbene all’inizio e ad uno sguardo superficiale la legge evangelica appaia esigente e pesante, come del resto altri passi del vangelo dichiarano senza reticenze.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo Ordinario

XV Domenica

(16 luglio 2023)

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Is 55,10-11;  Sal 64 (65);  Rm 8,18-23;  Mt 13,1-23

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Per tre domeniche consecutive verranno proclamate le parabole del regno dal capitolo 13 del vangelo di Matteo. La prima cosa da notare è il contesto nel quale queste parabole sono narrate. Seguono la solenne dichiarazione di Gesù: “Poi tendendo la mano verso i suoi discepoli, disse: ‘Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre” (Mt 12,48-50). Possiamo comprendere: accogliere la parola significa diventare familiari di Dio, condividere i suoi segreti, diventare eredi del Regno del Padre. Proprio quello che Gesù dirà alla fine di tante parabole: “prendi parte alla gioia del tuo padrone” (Mt 25,21).

Non solo. Ma nel dare ragione del perché solo ora viene svelato il mistero del regno, Gesù annuncia: “Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!” (Mt 13,16-17). L’intelligenza si accende se si partecipa a questa beatitudine e si può partecipare a questa beatitudine se ci si colloca nella storia degli uomini che da sempre hanno ricercato verità e sapienza. Se il cuore non accoglie le parole di Gesù come risposta agli aneliti più profondi e pressanti che gli uomini da sempre hanno coltivato, non può coglierne la densità, la potenza, la grazia. La novità di intelligenza è data da lui, lui che è il Figlio, inviato perché l’uomo conosca la grandezza e la bellezza dell’amore del Padre.

Tanto più che Gesù, parlando a gente che conosceva le Scritture, ma che restava dura di cuore, cita la famosa profezia di Isaia: “Ascoltate pure, ma non comprenderete, osservate pure, ma non conoscerete. Rendi insensibile il cuore di questo popolo, rendilo duro d’orecchio e acceca i suoi occhi, e non veda con gli occhi né oda con gli orecchi né comprenda con il cuore né si converta in modo da essere guarito” (Is 6,9-10).

Quelle parole, che il profeta Isaia sente dopo la sua visione della maestà di Dio e che sancisce la sua vocazione di profeta, sono il suggello della durezza di cuore dell’uomo che avrà bisogno come della tragedia della storia per ritornare al suo Dio. Non sono però parole di condanna, ma di esortazione sia al profeta, che è invitato a credere nella potenza salvatrice di Dio sia al popolo che non viene rifiutato perché recalcitra.

In questo senso, la prima lettura di oggi, se considerata nell’insieme dei cap. 54 e 55 di Isaia, che concludono il cosiddetto Libro della consolazione, rivela chiaramente quali sono i sentimenti di Dio davanti alla durezza di cuore del suo popolo, sentimenti che noi possiamo attribuire al seminatore della parabola di Gesù: “In un impeto di collera ti ho nascosto per un poco il mio volto; ma con affetto perenne ho avuto pietà di te, dice il tuo redentore, il Signore…. Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace, dice il Signore che ti usa misericordia… Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri” (Is 54,8.10; 55,8-9).

L’esempio che segue, quello della pioggia, che non cade sul terreno senza farla germogliare, è l’illustrazione della potenza della parola del Signore che si esprimerà con la promessa, mantenuta: “Voi dunque partirete con gioia, sarete ricondotti in pace” (Is 55,12). La generosità del seminatore, l’abbondanza del suo seminare, il suo non temere di sprecare il seme, alludono alla fedeltà di Dio alle sue promesse comunque. La parabola è narrata sottolineando la stessa azione di Gesù che esce e del seminatore che esce: “Quel giorno Gesù uscì di casa … Ecco, il seminatore uscì a seminare”.  Gesù, Verbo del Padre, lascia il Padre e viene tra gli uomini, non solo seminando la Sua parola nei cuori, ma seminando Sé, Sua Parola Vivente, nei cuori. Il seminatore esce per svelare il volto del Padre che è misericordia per noi e per riunirci alla mensa del suo amore. Così c’è identità tra il seminatore e il seme, perché Colui che semina e la cosa che viene seminata è la stessa realtà, Gesù stesso. Ognuno è chiamato a far nascere e far crescere Gesù dentro il proprio cuore. E questo è il significato profondo della parabola. L’eredità del Regno è proprio Lui, quel Figlio dell’uomo che riunisce la famiglia degli uomini nella gioia del Padre che vuole la comunione con i suoi figli.

Così, la parabola del seminatore, la prima delle sette parabole del regno, non è semplicemente la prima di una serie, ma quella che fa da perno, quella secondo la quale è da intendere tutta l’attività di predicazione di Gesù.

Non si può non tener conto, però, che la rivelazione dell’amore del Padre avviene nello scandalo della passione di Gesù. Tutto ciò che si riferisce al Regno (il che significa: tutto ciò che ha attinenza con il compimento dei desideri profondi del cuore nella vita) passa per l’accettazione della debolezza di Dio, che è più forte della forza degli uomini. Il dramma è che non riusciamo più a cogliere il mistero di Bene che il Signore ci squaderna. Riprendendo quello che dicevo sopra, siamo ancora capaci di sentire la verità di quel “beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano”, eco della preghiera di lode di Gesù: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11,25) e della comunanza di vita che Gesù ci offre: “chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre” (Mt 12,50)? Con le parabole del Regno Gesù ci invita appunto alla sua comunanza di vita con il Padre, che è amore per noi, come ci fa pregare l’antica colletta per tutta l’umanità: “Accresci in noi, o Padre, con la potenza del tuo Spirito la disponibilità ad accogliere il germe della tua parola …perché riveli al mondo la beata speranza del tuo regno”.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo Ordinario

XVI Domenica

(23 luglio 2023)

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Sap 12,13.16-19;  Sal 85 (86);  Rm 8,26-27;  Mt 13,24-43

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Con le sue parabole Gesù ci illustra come funziona la vita se vogliamo godere del regno che lui è venuto a manifestarci. Il salmo responsoriale di oggi ha un’espressione straordinaria che forse riassume al meglio tutte le invocazioni del cuore davanti al Signore: “Insegnami, Signore, la tua via: camminerò nella tua verità. Unifica il mio cuore perché tema il tuo Nome” (Sal 85/86,11). Ecco: lasciar lavorare la parola ascoltata nel cuore, lasciarla crescere, comporta il processo di unificazione del cuore perché tutto risponda all’amore di Dio che l’ha conquistato.

La parabola della zizzania risponde alla domanda angosciante: perché il male? La spiegazione di Gesù illustra la prospettiva nella quale vivere il presente della storia, segnata dalla presenza dei malvagi e dall’imperversare del male. Come convivere con i malvagi è domanda più pertinente del perché ci sono i malvagi (i servi della parabola chiedono al padrone da dove viene la zizzania). L’unico buon atteggiamento possibile resta quello del padrone: “Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura”. Secondo l’espressione del salmo: non lasciate che i malvagi mandino in pezzi il vostro cuore.

La prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, ha un modo singolare di presentare la questione che angoscia i giusti: “Perché Dio non toglie di mezzo i malvagi? Perché Dio lascia spazio al male?”. Dopo aver ricordato che Dio ha compassione di tutti perché tutto può e che chiude gli occhi sui peccati degli uomini aspettando il loro pentimento (Sap 11,23) il testo dichiara: “Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento”. ‘Tale modo di agire’ fa riferimento all’indulgenza e alla mitezza con cui Dio, dotato di forza onnipotente, agisce verso gli uomini e li giudica. Quel ‘deve amare gli uomini’ sarebbe, letteralmente, ‘è necessario che il giusto sia amante degli uomini’ o, ancora meglio, ‘il giusto deve essere ricco di umanità’. Dove la Scrittura segnala un ‘deve’, vuol dire che allude a una radice e a un compimento divini, a un esito divino della vita umana.

In effetti, per noi è importante cogliere cosa sta dietro alla volontà del padrone di lasciar crescere insieme grano e zizzania. Sarà proprio su quella ‘volontà’ che i buoni potranno misurare la loro bontà condividendo la pazienza del padrone verso tutti. Il regno dei cieli, come la parabola illustra, sta esattamente nello splendore di quella pazienza condivisa con Dio. Il regno dei cieli è una questione di fede: la fiducia nei sentimenti di Dio! Quando Gesù dice: ‘il regno dei cieli è simile a’, vuole squadernarci l’orizzonte della fede. Dio non toglie di mezzo i malvagi perché sono oggetto della sua pazienza, perché i giusti possano rivelare ai malvagi la forza di Dio, che non rinuncia al suo amore perché l’uomo lo disattende e i giusti saranno tanto più giusti quanto più faranno risplendere la potenza dell’amore paziente di Dio.

All’uomo giusto il malvagio non interessa per il giudizio, ma per la segreta provvidenza che comporta. Là dove il male imperversa si acuisce la sofferenza, ma chi accoglie la sofferenza degli altri permette alla propria umanità di splendere. Solo così il mondo è passibile della rivelazione del Regno e se il malvagio non viene meno è solo perché, nella pazienza di Dio, il bene risplenda nella scoperta di nuove dimensioni di umanità, cosa che fa presagire la presenza accompagnatrice di Dio nel mondo.

Il Signore vuol fare degli uomini i figli del Regno, ma insieme, di nascosto, è all’opera anche il maligno che invece vuole renderli suoi figli. L’esito della contesa tra l’uno e l’altro è scontato: prevarrà il Regno di Dio. Il problema nasce dal fatto che, se il Regno di Dio è reale per noi e dentro di noi, non è ancora però manifesto, per cui l’uomo si sperimenta come un campo di tensioni contrapposte, che la venuta di Gesù rende ancora più evidenti. Il nemico con cui si è confrontati è subdolo, lavora segretamente, per cui non è semplice acconsentire alla ‘volontà’ del padrone. La parabola ha proprio lo scopo di svelare le trame segrete del maligno, di non farsi turlupinare: in gioco è lo splendore della somiglianza con Dio in umanità.

Le altre due parabole rispondono alla domanda: perché l’inizio del Regno è così insignificante? Dove si rivela l’evidenza del Regno? È per mostrare come la pazienza abbia un impatto straordinario nella vita dei cuori che Gesù racconta le parabole della senape e del lievito: da una realtà minuscola deriva una potenza straordinaria. La parabola del seme non insiste tanto sulla sua piccolezza, ma sulla potenza che possiede nonostante la sua piccolezza. La parabola del lievito mostra come l’evidenza del Regno non riguardi una cosa o l’altra. Del ‘regno’ non si può dire: eccolo qui, eccolo là. Riguarda l’insieme del mondo, della vita, dei rapporti, dell’agire e del sentire, dell’essere e del fare. Girolamo spiega come il lievito sia la conoscenza e la comprensione delle Scritture, la conoscenza del mistero del Figlio di Dio fatto uomo per noi e dice che la potenza del lievito è quella di portare tutto all’unità: all’unità delle potenze dell’anima, all’unità di spirito/anima/corpo, all’unità della famiglia umana. È la tensione divina che attraversa la nostra storia, che per questo è sempre storia sacra.

Il particolare delle tre misure di farina risponde alla quantità di farina usata da Sara per preparare da mangiare ai tre visitatori, come è raccontato in Genesi 18. Le tre misure (nel testo, tre sea, una misura antica di capacità che corrisponderebbe a circa 15 litri) è una quantità enorme. Si tratterebbe di quasi mezzo quintale di farina, una misura sproporzionata per tre persone. Con quella quantità si sarebbe sfamato un centinaio di persone! Così i Padri hanno collegato Sara alla donna della parabola di Gesù, che pone il lievito in un impasto di tre misure di farina. Il significato risulta:  se la fede di Abramo ha fatto regnare Dio in questo mondo, l’annuncio del vangelo trasfigura il mondo intero.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo Ordinario

XVII Domenica

(30 luglio 2023)

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1Re 3,5.7-12;  Sal 118;  Rm 8,28-30;  Mt 13,44-52

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Potremmo partire dalla confessione di Paolo nella sua lettera ai Romani quando riassume la sua esperienza di comunione con Gesù così: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?… Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,35.38-39). Ecco, il tesoro di cui parla Gesù è proprio lui, nel suo amore per noi.

Con l’immagine del Regno come del tesoro nascosto e scoperto Gesù sigilla la rivelazione dell’Antico Testamento, che aveva illustrato il timore del Signore come il tesoro del cuore dell’uomo retto. Nel profeta Isaia tr

oviamo scritto: “C’è sicurezza nei tuoi giorni, sapienza e conoscenza sono ricchezze che salvano; il timore del Signore è il suo tesoro” (Is 33,6). E quando il libro del Siracide riprende il tema del timore del Signore così lo descrive: “Il timore del Signore è come un giardino di benedizioni e protegge più di qualsiasi gloria” (Sir 40,27). Il tesoro comporta ogni tipo di benedizioni e prevale su ogni altra possibile gloria.

Matteo aveva riportato le parole di Gesù a proposito del tesoro nell’esposizione delle beatitudini perché “dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore” (Mt 6,21). Paolo l’aveva confermato con il dichiarare che in Gesù sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza (cfr Col 2,3). Se il cuore possiede Gesù, vuol dire che è messo a parte di tutti i tesori della sapienza e della conoscenza, cosa assolutamente desiderabile e fonte di beatitudine. È ancora Paolo a descrivere la sua esperienza di incontro con Gesù là dove riporta: “Noi infatti non annunciamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore: quanto a noi, siamo i vostri servitori a causa di Gesù. E Dio, che disse: «Rifulga la luce dalle tenebre», rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo. Noi però abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi” (2Cor 4,5-7).

E questa è la scoperta singolare. Il tesoro non è solo una ricchezza, ma una potenza, la potenza di un amore che conquista e trascina, potenza che è riferita all’amore misericordioso di Dio che, prevalendo su tutto, rende libero il cuore con la gioia che dona. Non si tratta evidentemente di una gioia soddisfatta, ma di una gioia che fa attraversare tribolazioni e prove pur di non perdere mai l’amore, pur di far arrivare a tutti l’amore. È per questo che l’immagine del tesoro rende bene la natura del Regno annunciato da Gesù. Luca l’aveva proclamato con la parola di Gesù che commentava la scelta di Maria: “di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta” (Lc 10,42). Da intendere perciò: il cuore cerca il suo tesoro; un solo tesoro conta! L’affermazione non riguarda solo la cosa, cioè il tesoro, ma anche il cuore, vale a dire: il cuore è strutturato per godere del tesoro che lo riempie.

A dire il vero, l’accento delle parabole di oggi non è posto sulle cose (tesoro o perla) ma sull’azione della scoperta. Come se Gesù dicesse: il regno dei cieli è simile a quando un uomo scopre un tesoro e pieno di gioia vende tutto quello che possiede per impossessarsene. Così, l’uomo non è chiamato a lasciare tutto per il Regno dei cieli, ma che lascia tutto perché trasportato dalla gioia di una scoperta che gli riempie il cuore. Il Regno non si contrappone a nulla di per sé. Non è la perla più bella delle altre. È, più semplicemente ma più potentemente, la perla di ‘grande valore’; è il tesoro tra i beni e non un bene più prezioso degli altri beni. È l’unica cosa di cui c’è bisogno (da intendere: l’unica cosa che può riempire il cuore, l’unica cosa che durerà per sempre, l’unica cosa che dà valore a tutto il resto e in funzione della quale tutto il resto è vissuto).

Saper cogliere questo è frutto di sapienza e la colletta fa pregare: “concedi a noi il discernimento dello Spirito, perché sappiamo apprezzare fra le cose del mondo il valore inestimabile del tuo Regno, pronti ad ogni rinunzia per l’acquisto del tuo dono”. L’espressione della preghiera è paradossale: ‘acquistare il dono’. Se è dono non si acquista, ma si riceve. Si parla di acquisto per indicare la disponibilità alle condizioni che permettono l’accoglimento del dono. Lo rilevano le dinamiche nascoste delle parabole. Dinamica di ricerca: non si scopre a caso. Non sono sufficienti, al cuore dell’uomo, le cose che arriva a possedere; ha bisogno di cogliere quello che dentro le cose vive e attira, quello che solo può colmare il suo desiderio. Dinamica di compravendita: ciò che è prezioso non sta insieme a ciò che è vile, ciò che è profondo a ciò che è superficiale, ciò che ha sostanza con ciò che ha solo apparenza. Perlomeno, insieme non possono stare tanto tempo e difatti viene il momento in cui ci si deve disfare di una cosa per comprare l’altra. Dinamica di rischio: più grosso è l’affare, più alto il rischio. Il tutto di cui ci si disfa è direttamente proporzionale alla preziosità del tesoro trovato. La molla che permette, anzi che spinge al rischio della compravendita è appunto la gioia, con un cuore mai sazio del suo Signore come mai sazio di vita e di amore.

Alla fine Gesù dichiara: “Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (Mt 13,52). Intendendo: non si tratta di tenere nella memoria quanto ho in precedenza imparato, ma di aprire ogni evento che succede all’esperienza dell’amore del Signore in modo che la novità dell’evento si innesti nella testimonianza di cui custodisco la memoria come ravvivandola, confermandola.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Solennità e feste

Trasfigurazione del Signore

(6 agosto 2023)

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Dn 7,9-10.13-14;  Sal 96 (97);  2Pt 1,16-19;  Mt 17,1-9

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Agli antichi lettori del vangelo non poteva sfuggire la densità simbolica dell’evento, raccontato sulla falsariga della grande rivelazione di Dio a Mosè sul Sinai. Il Tabor rispecchia il Sinai. Il punto cruciale della narrazione non consiste nella visione, ma nell’ascolto della voce, proprio come al Sinai. Non solo, ma la voce, una replica a quella già udita al battesimo di Gesù nel Giordano, proclama la compiacenza su Gesù come facendo una sintesi di tutte le Scritture. La dichiarazione: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo” unisce la profezia messianica di Sal 2,7, il riferimento a Isacco, il figlio amato, di Gn 22,2, la proclamazione del Servo di Is 42,1 e la profezia di Mosè che annuncia la venuta di un nuovo profeta che dovrà essere ascoltato di Dt 18,15. Se guardiamo all’evento con gli occhi dei discepoli vediamo che in Gesù si riassumono e si compiono tutte le Scritture, il che significa che la volontà di salvezza di Dio per il suo popolo si esprime compiutamente oramai in Gesù.

Nel contesto della narrazione evangelica l’evento della trasfigurazione si presenta come la firma all’intero vangelo, che si concluderà con la confessione di fede del centurione sotto la croce e con la glorificazione di Gesù, il Crocifisso. Quel Gesù, di cui è detto alla fine dell’evento della trasfigurazione: “Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo”, è proprio il Figlio di Dio che annuncia agli uomini la volontà del Padre e l’evangelo del Regno. Non è un caso che la trasfigurazione è collocata tra due annunci della passione, a sottolineare che il Figlio di Dio risorto e il Figlio dell’uomo che soffre devono stare insieme nella fede dei discepoli. La consegna del silenzio riguarda proprio la natura della gloria di Gesù. Non si tratta di parlare di Gesù in termini di divinità gloriosa e potente, ma in termini pasquali: colui che ha sofferto la passione è colui che viene esaltato con la risurrezione. E questo non poteva essere colto che alla conclusione della storia di Gesù. La cosa ha un risvolto potente, che non è mai assimilato una volta per tutte dai credenti. La profezia di Daniele sul figlio dell’uomo: “Gli furono dati potere, gloria e regno: tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto” (Dn 7,14) risponde all’essenza di quel silenzio perché l’unico potere di vittoria che Gesù si arroga è quello dell’amore crocifisso. Tanto da far dire al papa Leone Magno: “è più importante pregare per la pazienza che per la gloria”.

In effetti ciò che è decisivo per i discepoli non accade sul monte, ma dopo, quando si ritrovano davanti Gesù solo, senza gloria e senza la compagnia celeste di Mosè ed Elia e devono ridiscendere per annunciare a tutti la verità di Gesù. Mi ricorda la rivelazione di Dio ad Elia che si sente come rimproverare del fatto di attardarsi sul monte e viene invitato a scendere per compiere la sua missione, obbedendo alla voce del suo Dio. Matteo, a differenza di Marco e Luca che senza mezzi termini riferiscono della sua ‘incoscienza’, non infierisce su Pietro che si perde come in un vaneggiamento: “Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne …”. Origene ha un commento meraviglioso. Come pretende di tenere separati Gesù dalla Legge e dai Profeti? Proprio in quell’occasione Mosè ed Elia vengono illuminati da Gesù sul significato della loro opera e sul segreto di Dio che la loro opera voleva manifestare. Tanto che quando Gesù resta solo, viene come sottolineato che oramai tutto prende luce solo in Gesù. E se Pietro si perde in vaneggiamenti, non fa che riesprimere quello che gli era stato difficile comprendere una settimana prima a Cesarea, quando non riusciva ad accogliere il destino di passione di Gesù.

Nel cammino degli apostoli l’evento della trasfigurazione, riservato ai tre discepoli che presenzieranno al dramma del Getsemani, ha un valore di conferma nella loro fede in Gesù, fede che sarà duramente messa alla prova nel tempo della passione. Non che l’evento risparmi agli apostoli la prova, ma farà in modo che i loro cuori, quando saranno smarriti e confusi, non si separeranno dal loro maestro, anche se momentaneamente lo abbandoneranno. È anche lo scopo segreto della preghiera. Non si tratta di godere di una visione, ma di essere confermati nel cuore per poter sostenere la prova e seguire il Signore fino a gustarne la compagnia nelle afflizioni sopportate per amore di lui. Quella ‘sopportazione’ non riguarda la propria fedeltà, ma la solidarietà con i nostri fratelli fino a far splendere davanti a loro la bontà del Signore che non vuole che nessuno si perda, ma che tutti abbiano la vita. Lì conduce la visione della ‘gloria’ di Gesù, il Testimone per eccellenza dell’amore del Padre per gli uomini.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo Ordinario

XIX Domenica

(13 agosto 2023)

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1Re 19,9a.11-13a;  Sal 84 (85);  Rm 9,1-5;  Mt 14,22-33

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Con l’antifona di ingresso la liturgia esprime la supplica del credente tormentato dalle afflizioni e dalle prove: “Sii fedele, Signore, alla tua alleanza, non dimenticare mai la vita dei tuoi poveri” (Sal 73/74,20.19). Strano, ma il senso delle letture di oggi si fonda sull’immagine del Dio ‘che passa’ (sembra passare oltre) e proprio per far scaturire il grido di supplica per essere salvati.

Il racconto del libro dei Re presenta la rivelazione del Dio che passa al profeta Elia. Il profeta era sfuggito per un soffio alle grinfie della regina Gezabele, che lo vuole morto. È arrivato al Sinai con il sostegno di un cibo speciale. È invitato a uscire, sul monte, alla presenza di Dio, che passa nella voce di un silenzio sottile, come si dovrebbe rendere letteralmente l’espressione tradotta come ‘il sussurro di una brezza leggera’. Il racconto però non indugia sulla sublimità di quell’esperienza, ma insiste come sul rimprovero di Dio al profeta: “Che cosa fai qui, Elia?”, svelandogli l’inconsistenza del suo pensiero interiore. No, lui non è l’unico testimone dell’alleanza. Il Signore si è riservato i suoi testimoni senza l’aiuto del profeta. E viene rimandato al popolo: sarà questa obbedienza a sottolineare la verità della ‘visione’. Assolutamente determinante per il significato della scena la descrizione della visione come il Signore che passa davanti al profeta, sottintendendo che il profeta vede le spalle, come Mosè al Sinai e come risalta dalla descrizione del passo parallelo di Marco del vangelo di oggi. Lo stesso verbo greco ricorre nei tre brani.

Nel racconto evangelico Gesù ha appena sfamato la folla e, almeno secondo il racconto parallelo di Giovanni, temendo che la gente venisse per farlo re e intuendo il pericolo dell’esaltazione messianica prima del tempo, costringe i suoi discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva. Lui si ritira solo a pregare sul monte e vi resta fino a notte inoltrata. Nel vangelo di Matteo è molto rara l’indicazione che Gesù si ritiri a pregare e qui dunque è sottolineata l’estrema importanza della situazione. Così, quando torna dai discepoli camminando sulle acque, vedendoli alle prese con un forte vento contrario che impediva loro di arrivare alla meta, il racconto allude a una rivelazione speciale. La descrizione dell’episodio ricalca le apparizioni del Risorto quando Gesù si rivolge ai discepoli impauriti: “Coraggio, sono io, non abbiate paura”. Per un ascoltatore antico del vangelo l’espressione ‘sono io’ faceva risuonare nelle orecchie la voce di Dio al roveto ardente che parla a Mosè svelandogli il suo nome: Io-sono! (cfr. Es 3,14; Is 41,4).

Ma la rivelazione speciale non consiste nella sottolineatura della divinità di Gesù, come poi i discepoli confessano: “Davvero tu sei il Figlio di Dio!”. La sottolineatura sta nel modo di rapportarsi di Gesù a Pietro e di Pietro a Gesù. Quando Pietro, focoso come sempre, vuole ricevere da Gesù il comando di camminare anche lui sulle acque, Gesù glielo permette ma nell’eseguire il comando Pietro si impaurisce per il vento e affonda. Allora grida: “Signore, salvami!”. E subito Gesù stende la mano, lo afferra e lo riporta sulla barca. Quando sono tutti sulla barca, il vento cessa e la barca torna a navigare sicura e veloce. La rivelazione speciale sta nel presentare la divinità di Gesù nella sua premura di salvatore, nel salvare dall’abisso il suo discepolo e nell’accompagnare i suoi nella traversata, che in realtà non c’è stata, perché sono rimasti sullo stesso versante del lago, da dove erano partiti. Questi è il Figlio di Dio e contemporaneamente il Figlio dell’uomo, che si premura di condurre i suoi alla conoscenza del Dio vero, rendendoli servi per tutti di quell’amore di cui hanno fatto esperienza. L’esperienza è vivissima, ma mai compiuta, tanto che alla prossima tempesta si rinnoveranno la paura e il dubbio, ma per sperimentare sempre più profondamente l’intervento salvatore del proprio Signore, conosciuto sempre più intimamente.

La denominazione del ‘Dio che passa’, come Gesù fa mostra di assumere, rivela il fatto che Dio può essere conosciuto solo stando dietro, solo seguendolo, solo camminando dietro a Lui, solo osservando la sua parola. Ed è quello che fa la Chiesa nel mondo: seguire Cristo, che rivela al mondo lo splendore dell’amore di Dio. E sarà solo seguendo Gesù che l’amore agli uomini comporterà lo splendore della presenza di Dio in questo mondo.

Siamo tutti invitati a identificarci con Pietro, con le sue generosità e debolezze. Ci si può appoggiare sul Cristo più e meglio che su qualsiasi realtà fluida di questo mondo. È nella fiducia di quel ‘se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque’ che si intraprende il cammino spirituale di una vita. Ma c’è da vincere la paura che agita, paralizza, chiude, sommerge. E allora non si parla più semplicemente, come se si trattasse di una provocazione, di una sfida, di una competizione; si comincia a gridare: è il tono della preghiera quando è sincera. Non c’è più ombra di sfida, di pretesa, di vanità. È il momento della verità ed invece di affondare, sentiamo una mano tesa che ci sottrae ai gorghi. Quante stupide pretese ci condannano a restare nei gorghi! Ed è allora che capiremo qualcosa di più di quel Signore che abbiamo accolto venirci incontro e sentiremo il suo nome che si rivela al nostro cuore, come si è rivelato a Mosè sul Sinai dopo il peccato del vitello d’oro: “il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, ricco di grazia e di fedeltà ...” (Es 34,6). Il salmo responsoriale, nell’antica versione greca, così interpreta: “Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore, in me: egli annunzia la pace per il suo popolo, per i suoi fedeli”.

Dio non elimina le tempeste, ma è nelle tempeste che lo si sperimenta salvatore! Lo sperimenta chi corre il rischio dell’obbedienza e rinuncia alle proprie sicurezze. Probabilmente, l’evangelista Matteo vuole sottolineare una caratteristica fondamentale dell’esistenza cristiana: la fede dei discepoli è sempre ‘poca fede’ (Gesù chiama Pietro ‘uomo di poca fede’), cioè una miscela di coraggio e paura, di ascolto del Signore e angoscia per il vento contrario, di fiducia e di dubbio. Del resto, è singolare che la scena di Pietro che vuole camminare sulle acque e che poi grida al Signore di salvarlo sia descritta con le espressioni del salmo 68/69, che è il salmo interpretato dai cristiani come un annuncio della passione di Gesù.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Solennità e feste

Assunzione della Beata Vergine Maria

(15 agosto 2023)

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Ap 11,19a; 12,1-6a.10ab;  Sal 44 (45);  1Cor 15,20-27a;  Lc 1, 39-56

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La glorificazione della Madre di Dio è la conseguenza più diretta dell’abbassamento volontario del Figlio: il Figlio di Dio si è fatto uomo nel seno della Vergine Maria ed è diventato ‘Figlio dell’uomo’, capace di morire, mentre Maria, Madre di Dio, riceve la gloria che appartiene a Dio ed è la prima creatura umana a partecipare alla deificazione finale delle creature. Dio si è fatto uomo, dicono i Padri, perché l’uomo potesse diventare dio: in Maria l’assunto si realizza in pienezza, si fa assolutamente concreto. Partecipa alla gloria del secolo futuro in tutta pienezza, immagine di quello che tutti siamo chiamati a diventare. E proprio perché la sua lode per Dio è piena, allora anche l’esultanza del suo cuore è piena e la sua intercessione irresistibile. Mistero pieno di speranza per noi, tanto che Dante, giunto in paradiso, fa dire a s. Bernardo quelle straordinarie parole:

Qui se’ a noi meridïana face

di caritate, e giuso, intra ‘ mortali,

se’ di speranza fontana vivace.

Donna, se’ tanto grande e tanto vali,

che qual vuol grazia e a te non ricorre,

sua disïanza vuol volar sanz’ali.

La tua benignità non pur soccorre

a chi domanda, ma molte fïate

liberamente al dimandar precorre.

In te misericordia, in te pietate,

in te magnificenza, in te s’aduna

quantunque in creatura è di bontate (Paradiso, canto XXXIII).

Il nome antico della festa è ‘Dormizione della Vergine’ con l’evidente allusione al mistero del suo transito. È tradizione comune però pensare alla sua morte in questi termini: “Se l’ineffabile suo frutto, per il quale essa è divenuta cielo, ha volontariamente accettato la tomba come un mortale, potrà forse ricusarla colei che senza nozze lo ha generato?”. E ancora: “Tomba e morte non hanno trattenuto la Madre di Dio, sempre desta con la sua intercessione e immutabile speranza con la sua protezione: quale Madre della vita, alla vita l’ha trasferita colui che nel suo grembo semprevergine aveva preso dimora” (dalla liturgia bizantina).

Nella sua lettera ai Corinzi Paolo fa coincidere il regno di Cristo con la riduzione a nulla di ogni potere della morte. La cosa va vista nel suo succedersi temporale in ciascuno di noi oltre che nella storia. Tutta l’ascesi e la lotta interiore non sono altro che l’espressione di questo potere di Cristo che riduce a nulla il potere della morte che ci assilla e ci impasta. E man mano che questo potere di Cristo prevale, la vita sgorga fluente e incontenibile.

Ora, nella Vergine Maria, siccome tutto questo processo è compiuto, può essere consegnata a Dio Padre, fulgida di tutto lo splendore che la salvezza operata da Dio comporta. Il disegno di Dio in tutto il suo amore per l’uomo, dalla creazione alla glorificazione finale nel suo Regno, solo questa nostra sorella, la Vergine, l’ha potuto godere compiutamente. Oggi, festa della sua assunzione, ella lo sa e può dichiarare: ora so per esperienza tutto l’amore che Dio ha portato all’umanità, che ha portato a me perché sia visibile a tutti!

In lei i credenti possono magnificare l’amore di Dio per l’uomo, la grandezza della salvezza operata da Dio che anche in noi si dispiegherà a suo tempo, come in lei, che per noi intercede. E a lei rivolti, fiduciosi, possiamo pregarla come le antiche comunità cristiane: “Sotto la tua protezione troviamo rifugio, santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta”.

Gesù aveva detto dei suoi discepoli: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!” (Lc 11,27-28). Se colleghiamo queste parole all’espressione pronunciata da Elisabetta nel saluto alla Vergine: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”, ci viene svelata una cosa straordinaria. Ascoltare e osservare la Parola non è semplicemente un mettere in pratica quello che Dio dice. È assai di più. Significa permettere alla promessa di Dio, racchiusa nella sua parola, di compiersi, di rivelarsi finalmente al cuore e al mondo. Significa acconsentire al desiderio di Dio di compiersi, significa fare in modo che il desiderio che Dio ha di incontrare l’uomo finalmente trovi compimento. Ora, da dove deriva la vita all’uomo se non da un incontro d’amore? Sia in senso fisico, un figlio, sia nel senso di procurare vitalità, gioia di vivere, visione di speranza, forza ed energia. Più questo consenso da parte dell’uomo è totale, più la vita che deriva da Dio è fluente e incontenibile, come dicevo sopra. Vince la morte. Per sempre.

In quel “ha creduto” è indicata tutta la disponibilità della Vergine all’azione di Dio (“Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”) dove il proprio essere è vissuto come risposta al desiderio di Dio, come spazio di compimento all’agire di Dio. Nell’ “adempimento” è adombrata la generazione del Verbo che in lei prende forma. Accogliere il Verbo nella propria umanità significa far risplendere l’amore di Dio nel mondo e compiere la propria umanità permettendole di far trasparire la divina Presenza. Proclamarla assunta in cielo significa mostrare la grandezza dell’amore di Dio per l’umanità in tutto l’arco delle sue meraviglie. La grazia di questa maternità spirituale, però, è estesa a tutti i credenti: tutti possono ereditare la beatitudine che deriva dall’ascoltare e osservare la Parola. Nella dinamica dell’obbedienza della fede, l’ascolto della Parola equivale alla fin fine ad accogliere e generare in noi il Verbo, di cui risplendono tutte le parole della Scrittura.

Ora, la vera meraviglia di Dio per gli uomini è proprio il dono del Figlio, che di quell’umanità che ci costituisce svela i confini e le sorgenti divine. Chi, più della Vergine, ha goduto tutta la potenza di splendore di questo dono per l’umanità? Così l’intercessione della Vergine va nella direzione dell’invocazione della preghiera ‘sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra’. Da interpretare: ‘si compia il tuo amore finché la terra diventi tutta cielo’; nulla rimanga inaccessibile all’amore di Dio che si dispiega potente. Lei, la serva del Signore, terra come noi, ma totalmente disponibile all’agire di Dio, è diventata tutta cielo. Intercede perché anche la nostra umanità, in ciascuno e in tutti, si allarghi agli spazi e alle profondità della sua stessa umanità, nella comunione con il proprio Dio.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo Ordinario

XX Domenica

(20 agosto 2023)

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Is 56,1.6-7;  Sal 66(67);  Rm 11,13-15.29-32;  Mt 15,21-28

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Il tema della liturgia di oggi è l’ingresso dei pagani nell’alleanza del Signore: a tutti si rivolge la salvezza operata dal Signore. Come l’annuncia il profeta Isaia: “… il mio tempio si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli”. Con il capitolo 56 inizia la terza parte del libro di Isaia. Siamo a Gerusalemme, pochi decenni dopo la tragedia dell’esilio, in attesa che la promessa di liberazione si compia. La visione del profeta non riguarda però semplicemente la liberazione dall’esilio, ma la valenza profetica di quella liberazione: sarà estesa a tutti i popoli; tutti, pagani e eunuchi (categoria di persone che erano escluse dal culto in Israele), tutti potranno godere della misericordia di Dio, tanto che il Dio di Israele non sarà più indicato come il Dio che trasse Israele dall’Egitto, come il Dio che liberò Israele dall’esilio, ma come il Dio che raduna il suo popolo ‘da tutte le nazioni’.

A dire il vero, siamo piuttosto abituati a considerare l’universalità della salvezza del Signore nella sua dimensione storica: da una persona a tutto un popolo (Abramo e Israele), da un popolo a tutti i popoli (Israele e le genti). Comporta però anche una dimensione personale. Il che significa: se io ho accolto l’alleanza del Signore, non tutto di me l’ha accolta; se io ho accolto la buona novella, non tutto di me è stato evangelizzato e poco a poco l’insieme di me deve poter godere dei beni di questa alleanza. Se le mie qualità e virtù mi riportano al Signore, anche i miei difetti e peccati devono potermi riportare a Lui attraverso il pentimento. Se un pensiero buono mi svela qualcosa del mio Signore, mi introduce nella sua intimità, anche un pensiero cattivo cela qualcosa da scoprire per il mio cuore in rapporto al Signore, e così un mio peccato, una mia debolezza. “Tutti i confini della terra” del salmo 66 alludono proprio alla totalità degli aspetti che ci compongono e ci strutturano: tutti appartengono al Signore, tutti sono destinati a essere riportati al Signore.

Il brano del vangelo lo mostra splendidamente. I pagani sarebbero entrati nell’Alleanza non con la predicazione o i miracoli, ma attraverso la morte redentrice di Gesù. L’ora però non era ancora giunta e Gesù respinge sulle prime la richiesta della donna cananea. Era ancora il tempo riservato alle pecore perdute della casa di Israele. Ma allora perché Gesù cede all’insistenza della donna, come se lui fosse costretto ad accelerare, ad anticipare la sua ora? Era già successo con la richiesta del centurione (cfr. Mt 8), che Gesù aveva esaudito. Ma qui Gesù sembra alzare il prezzo, sembra voler accentuare una distanza, una inopportunità che suona ai nostri orecchi, oltre che sgradevole, dura e irrispettosa. Non è però stato così per la donna cananea, la quale non recede, non si fa intimidire, ha la risposta pronta, nella quale Gesù vede la fede del suo cuore, a cui non resiste. Addirittura, si potrebbe pensare che la fede della cananea faccia presagire alla coscienza di Gesù l’orizzonte universale della salvezza, che solamente più tardi si farà evidente. La donna, da pagana, sa che può contare sulla generosità di Dio, sebbene sia perfettamente cosciente di non poter avanzare alcun titolo di pretesa. Non solo, ma sa che nel banchetto messianico il pane sarà così in sovrabbondanza che lei si può accontentare delle briciole, sebbene Gesù alla fine le dà proprio il pane dei figli.

La particolarità dell’atteggiamento della cananea sta in quel grido ‘Signore figlio di Davide’ dove compare tutto lo stridore della distanza tra lei, pagana e quel profeta, ebreo. Non minimizza la distanza, la sottolinea, la rimarca e quando Gesù le rinfaccia che non si dà il pane ai cagnolini (i pagani erano chiamati ‘cani’ dai giudei), non si lamenta e non si ritrae sdegnata del paragone, sviluppa anzi il paragone a suo favore. Riconosce che non ha diritto a quel pane, ma che per la sua sovrabbondanza alcune briciole possono cadere anche per lei. Grande era la sua fiducia in quel profeta e nello stesso tempo era priva di qualsiasi pretesa.

La fede della cananea proveniva poi dall’urgenza del suo bisogno. Non vedeva altri rimedi, troppo era l’amore per sua figlia e allora perché non rivolgersi a quel ‘profeta’ di cui sentiva dire cose meravigliose, sebbene non possedesse alcun titolo per trovare soddisfazione?

L’aspetto misterioso che va colto è il fatto che fiducia e indegnità vanno di pari passo, mentre normalmente, nelle dinamiche interiori che possiamo osservare, tendiamo a separarle. Invece l’una è custode dell’altra, l’una dice la sincerità dell’altra. Davanti al Signore il nostro cuore è come la donna cananea. È vero, noi siamo nella grazia, abbiamo già incontrato il Signore, ma tutto di noi non è ancora nella luce del suo vangelo. Per molti aspetti siamo cananei, pagani. E possiamo trovare accesso al Signore, Salvatore nostro, solo come la donna cananea, dove la fiducia nella potenza di Gesù sta in stretta compagnia con la coscienza della propria indegnità e l’urgenza del bisogno di guarigione e di vita. L’insincerità del nostro cuore, quello che indebolisce la nostra fede e l’annacqua, è la pretesa di trovar soddisfazione comunque. È la debolezza dell’israelita ‘fariseo’ che crede di avere la vita perché Dio gliela deve. In questo modo non scoprirà nulla e il miracolo non avverrà.

Ci si avvicina a Dio più si ha coscienza di essere peccatori e meno scusanti si adducono ai propri guai. Quando finiremo di giustificarci accusando gli altri, gli eventi, il mondo, allora saremo sinceri davanti a Dio e scopriremo che Dio non potrà resistere al nostro grido perché indegnità e fiducia accelereranno la sua manifestazione di grazia al nostro cuore. Manifestazione, che avverrà secondo l’invocazione dell’antica colletta: “O Dio, che hai preparato beni invisibili per coloro che ti amano, infondi in noi la dolcezza del tuo amore, perché, amandoti in ogni cosa e sopra ogni cosa, otteniamo i beni da te promessi, che superano ogni desiderio”. La chiesa insegna a pregare con insistenza al fine di provare nel cuore, non semplicemente l’amore, ma la dolcezza dell’ amore del Signore, perché sa che non è agevole credere che i beni del Signore, non solo rispondono ai nostri desideri, ma li precedono e li sopravanzano! Sarà quella ‘dolcezza’, gustata almeno una volta, a convincere il cuore a stare nella pazienza e nella fiducia, a dispetto della nostra evidente indegnità.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo Ordinario

XXI Domenica

(27 agosto 2023)

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Is 22,19-23;  Sal 137 (138) ; Rm 11,33-36;  Mt 16,13-20

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I brani evangelici di oggi e di domenica prossima andrebbero letti insieme. Siamo a Cesarea di Filippo, la città costruita da Erode Filippo presso le sorgenti del Giordano, in una zona rocciosa, alle pendici del monte Hermon. Gesù, come annota l’evangelista Luca, ha appena terminato la sua preghiera, segno evidente dell’imminenza di una rivelazione. Gesù intende manifestare ai discepoli qualcosa del mistero della sua persona.

Matteo incastona la confessione di Pietro dopo la seconda moltiplicazione dei pani e l’ammonizione ai discepoli di guardarsi dal lievito dei farisei, i quali sanno leggere il tempo guardando il cielo ma non sanno guardare in alto per riconoscere il segno dei tempi messianici. L’insegnamento della Legge era teso all’affrettare i tempi messianici, ma quando l’ora di Dio si manifesta non ne riconoscono i segni. In questo contesto la domanda di Gesù ai discepoli: “Ma voi, chi dite che io sia?” acquista particolare risonanza. Se lui è il segno, perché chiedere altri segni? Se lui è l’inviato, perché aspettare ancora qualcuno che prepari la strada? Ecco quello che Pietro ha compreso: no, è proprio lui l’inviato, è proprio lui che farà vedere la salvezza di Dio.

Gesù allora lo proclama beato. Questa beatitudine richiama la benedizione proferita in precedenza da Gesù per i discepoli: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza” (Mt 11,25-26). È la benedizione/beatitudine per i ‘piccoli’, per coloro che stanno aperti al pensiero e all’azione di Dio in tutta confidenza, capaci perciò di ricevere senza filtri l’atto di rivelazione di Dio. Risuona qui potente l’affermazione di Paolo ai Romani: “O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!” (Rm 11,33). Non però perché sono incomprensibili o oscuri, ma perché rispondono alla grandezza di un amore così impensabile, che il cuore dell’uomo stenta a riconoscere. Si tratta di una ‘conoscenza’ per rivelazione, per confidenza e non per convinzione. Come a dire: Pietro lascia che il suo cuore si alimenti della promessa della rivelazione di Dio, che si manifesta in Gesù, senza addurre ragioni che sanno ancora troppo di questo mondo. Il seguito del racconto, che leggeremo domenica prossima, svelerà però che ancora troppe ragioni di questo mondo albergano nel cuore di Pietro, il quale si vedrà severamente ammonito da Gesù in vista dell’accoglienza piena della sua rivelazione.

Gesù fa una promessa a Pietro: “E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa”. Pietro è la traduzione greca del nome aramaico Kepha (roccia). Nell’ambiente di allora non veniva usato come nome proprio di persona. L’attribuzione a Simone, figlio di Giovanni, del nome ‘Kepha’, ‘Roccia’, Pietro (nel racconto di Matteo, fin dall’inizio Simone è chiamato Pietro; perciò non si deve vedere in questo evento l’attribuzione del nome Pietro a Simone, bensì la spiegazione del fatto che Gesù l’abbia fin dall’inizio chiamato così) indica il fondamento sul quale si regge la fede: la persona del Figlio del Dio vivente, sul quale l’apostolo e tutti i discepoli con lui possono giocare la loro vita, perché Dio non viene meno alla sua alleanza con gli uomini e perché Gesù costituisce il sigillo ultimativo e definitivo della volontà di salvezza di Dio per l’uomo. Dio in effetti è la Roccia, colui che non viene mai meno, che non manca di adempiere le sue promesse, che è sufficientemente potente per adempierle; se l’uomo lo accoglie, lo riconosce, ne avverte il Bene e gli fa spazio, partecipa anche lui di quella ‘saldezza di fondamento’ e può gustarne la dolcezza incorruttibile. Si può ravvisare nella promessa di Gesù l’eco di Is 28,14-18, dove il profeta annuncia la messa in opera della pietra angolare per la ricostruzione di Gerusalemme e del Tempio, rovesciando l’alleanza con gli inferi dei capi di Israele. Per alleanza con gli inferi o con la morte si intendeva il patto scellerato dei capi di Israele con l’Egitto in funzione antiassira, cosa che ha solo accelerato il disastro. Ma Dio non viene meno alle sue promesse e prepara la nuova pietra angolare, che poi è Gesù stesso, confessato appunto da Pietro come Messia.

Gesù accenna anche al cosiddetto potere delle chiavi. Nel giudaismo il legare e sciogliere alludeva al proibire e permettere secondo la Legge. Qui invece assume il significato dell’escludere e dell’ammettere, nel senso che non saranno più gli scribi (a loro sono tolte le chiavi, cfr. Mt 23,13) a far entrare nella comunità dell’alleanza, ma saranno i discepoli che allargheranno alle genti la possibilità di entrata. Si allude anche al potere della confessione di fede nel Signore Gesù, che apre al perdono dei peccati e dà l’accesso al regno di Dio. Con la conseguenza che la disposizione di legare/sciogliere riguarda il movimento profondo del cuore davanti al prossimo. Come a dire: se sciolgo il fratello dal suo peccato verso di me, anche il mio peccato sarà sciolto davanti a Dio. Se lego il peccato del mio prossimo, anche il mio resterà legato davanti a Dio. È il mistero della dinamica del perdono, forse la dimensione evangelica più marcata nell’insegnamento di Gesù. È l’amore di Dio che ha conquistato il cuore che partecipa dei segreti di Dio.

Rispetto alla confessione di Pietro, che è anche la nostra, noi supplichiamo con l’antica preghiera dopo la comunione: “Porta a compimento, Signore, l’opera redentrice della tua misericordia e perché possiamo conformarci in tutto alla tua volontà, rendici forti e generosi nel tuo amore”. Possiamo interpretare: la conoscenza del tuo amore conquisti i nostri cuori e informi il nostro agire così da vivere del tuo amore sempre e comunque, perché in tutto prevalga lo splendore della tua Presenza salvatrice, umilmente riconosciuta e adorata. È il contenuto dell’azione pastorale della chiesa nel mondo, ieri come oggi e sempre, fino alla fine dei tempi.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo Ordinario

XXII Domenica

(3 settembre 2023)

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Ger 20,7-9;  Sal 62 (63);  Rm 12,1-2;  Mt 16,21-27

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Con le letture di oggi potremmo accostarci al cuore di Pietro, che riceve il severo ammonimento di Gesù: “Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mt 16,23). Il suo cuore si è trovato diviso tra la confessione di fede e l’incapacità di accoglierne il mistero. Allora, con il versetto 11 del salmo di ingresso, il salmo 85 (86), possiamo interpretare la sua supplica segreta: “Mostrami, Signore, la tua via, perché nella tua verità io cammini, tieni unito [ebraico: indiviso; greco e latino: gioisca] il mio cuore, perché tema il tuo nome”. Il cuore sta unito se il Signore, come recita l’antica colletta, infonde nei nostri cuori l’amore per il suo nome.

L’unificazione del cuore è frutto delle preghiere che Paolo innalza a Dio per i suoi discepoli “affinché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui, illumini gli occhi del vostro cuore …” (Ef 1,17-18). Perché l’impasse, in cui si è trovato Pietro di fronte alla rivelazione di Gesù, è il medesimo in cui ci troviamo noi e che Paolo cerca di sciogliere con le sue esortazioni nel cap. 12 della lettera ai Romani: “lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare … benedite chi vi perseguita … volgetevi a ciò che è umile … vinci il male con il bene”.

Pietro, nel rimproverare Gesù, aveva probabilmente temuto per sé. Se Gesù, confessato come il Messia, avesse dovuto patire e morire ignominiosamente, certamente sarebbe svanito il prestigio dell’essere ‘compagno’ del Messia. E allora che ne sarebbe stato di lui? Ora, se gli uomini pensano in prospettiva mondana, come potranno vedere i segreti di Dio? La rinuncia ad ogni prospettiva mondana corrisponde al fatto di seguire il Signore o, nel linguaggio dell’AT, al fatto di servirlo. La sottolineatura di senso risulta la seguente: imparare a custodire il cuore nella sua promessa e a godere della sua rivelazione perché la vita torni bella e desiderabile sempre.

Chi trama segretamente contro l’adesione alla promessa di Dio è il maligno, il quale invita subdolamente (sotto apparenza di bene) a fare i suggeritori di Dio. Ma il maligno, che né conosce né tanto meno accetterebbe gli scopi di Dio, suggerisce secondo i suoi scopi: non vuole la gloria dell’amore; lui conosce solo la gloria del prestigio. Ecco perché Gesù, rimproverando Pietro, lo esorta: non starmi davanti, non volermi fare da suggeritore, perché questa è la parte del maligno; tu stammi dietro, vienimi dietro.

Se è vero che nel profondo del cuore anche noi ripetiamo con il salmo: “tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne” (Sal 62). È anche vero che, nel concreto delle situazioni, preferiamo i nostri pensieri ai pensieri di Dio, finiamo sempre per riscegliere noi stessi misconoscendo il Signore. Con accenti drammatici, lo esperimenta anche il profeta Geremia: “Mi hai sedotto Signore, e io mi sono lasciato sedurre”, ma davanti alla fatica di star fedeli alla parola del Signore si dice in cuor suo “Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome”. A differenza però del profeta Geremia, il quale continua dicendo: “Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo”, noi fin troppo bene riusciamo a contenere quel fuoco, lo mortifichiamo, lo spegniamo e non riusciamo a volte nemmeno più a sentirne la presenza. Ed è per questo che siamo sempre alla ricerca di gloria gli uni dagli altri, sempre bisognosi di difenderci, impedendoci però di godere la vita e impedendolo anche agli altri. Non rimaniamo conquistati, non ci lasciamo conquistare, come invece è avvenuto per Geremia, per Pietro, per Paolo. In noi prevale la paura che ci fa stoltamente acconsentire al suggerimento del maligno.

Quando Gesù spiega ai discepoli il suo dover soffrire, non intende illustrare nessuna ragione misteriosa, ma più semplicemente e più direttamente intende implicarli nella rivelazione dell’amore di Dio per l’uomo; intende collocarli nella verità di un’esperienza di amore che viene dall’alto. Da parte nostra, la resistenza ad accogliere la portata rivelativa di quel ‘è necessario’ indica tutta la distanza tra il sogno di un amore e la concretezza nel viverlo.

Il rinnegamento di se stessi è la rinuncia ad avere qualcosa da difendere (da notare che il verbo è il medesimo che userà l’evangelista quando riferirà del tradimento di Pietro il quale ‘rinnega’ Gesù perché vuole difendere se stesso). La difesa porta sempre sulla vita che temiamo venga oppressa o mortificata; porta sempre a un io che si arrocca nei suoi confini per paura, a un io che non si fida della grandezza che gli è offerta da Dio. La conformazione al mondo riguarda la difesa di sé come principio supremo. La trasfigurazione secondo l’uomo nuovo riguarda la consegna di sé per godere del dono di Dio.

L’anelito del salmo lo esprime a meraviglia: ‘il tuo amore vale più della vita’. A questo alludono le parole di Gesù sul rinnegamento, sul portare la croce. È quanto mai ‘realistica’ l’affermazione di Gesù: “Chi vuol salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà”. La dinamica del perdere/trovare è essenziale alla vita. La vita che si vuole difendere risulta vuota, fasulla, mentre la vita vera, quella desiderabile e che la fa desiderabile, è soltanto quella ‘donata’, cioè trovata. Dire ‘trovata’ significa alludere a quella gioia della scoperta che rende capaci di lasciare se stessi per avere la vita in se stessi.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo Ordinario

XXIII Domenica

(10 settembre 2023)

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Ez 33,1.7-9;  Sal 94 (95);  Rm 13,8-10;  Mt 18,15-20

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La liturgia celebra oggi la chiesa come mistero di riconciliazione. L’annuncio gioioso, misterioso, significativo per il mondo non è che questo: Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio, testimone dell’amore che ridà dignità e fa vivere il cuore dell’uomo!

Una delle espressioni più belle che definiscono la comunità dei credenti la ravviso nell’ultima strofa dell’inno delle Lodi del Comune degli Apostoli, inno che così canta: “L’annuncio che udiste nell’ombra gridatelo alto nel sole: è questa l’estrema consegna del Dio crocifisso e risorto. E voi dite, ridite sui tetti la voce che parla nel cuore: apostoli siate alle genti di Cristo, salvezza e vittoria. Il nuovo messaggio di vita vi ha spinti ai confini del mondo, su lunghi sentieri di croce, araldi del giorno che viene. Su voi, resi saldi in eterno, s’edifica e innalza la Chiesa che eterna, riversa sul mondo da Dio, come un fiume, la pace”. La storia della chiesa, la nostra piccola storia quotidiana rivela la verità di questa espressione: “che eterna, riversa sul mondo da Dio, come un fiume, la pace”? Chi ci avvicina, chi vive con noi, sente anzitutto questo? Perché questo è il segno dell’apertura di credito al vangelo nella nostra vita.

A livello della nostra storia quotidiana, la pace significa essenzialmente riconciliazione: riconciliazione con Dio, con noi stessi, con il mondo, con gli uomini. Quando s. Paolo afferma che noi siamo collaboratori di Dio, intende proprio che siamo collaboratori all’opera della riconciliazione in atto nella storia. Matteo pone la fraternità nell’orizzonte degli annunci della passione, dentro la logica pasquale, per cui al centro non ci sono i valori o gli ideali, bensì le ferite che vengono assunte e curate. Tutto il capitolo 18 del vangelo di Matteo, il capitolo della fraternità, lo mostra. Se la fraternità è radunata nel nome di Gesù, lo è in quanto accoglie nel suo nome le ferite e i bisogni dei più piccoli, dei deboli, dei peccatori.

Il brano evangelico di oggi segue la domanda degli apostoli: “Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?” (Mt 18,1) con la risposta di Gesù a farsi (letteralmente: umiliarsi) piccoli. Come dicesse: non sapete nemmeno se potete entrare e vi sognate di essere grandi? La domanda vera suona: come si fa a entrare? Stando piccoli, cioè godendo della benevolenza di Dio e fidandosi dei suoi segreti. Sarebbe il senso della parabola del pastore che va in cerca della pecorella smarrita. Da dentro l’esperienza vissuta di quella premura amorosa le parole di Gesù diventano fonte di beatitudine e di moralità per i discepoli: “Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te …”. È l’invito al perdono vicendevole, a vivere da riconciliati, a gustare il segreto di Dio che in questo comandamento si nasconde. Tanto che il progresso nella fede è concepito come un crescere nella condizione di vivere il perdono come segno di quella vita immortale condivisa con il Cristo.

Così, al di là del suo valore ecclesiale e sacramentale, l’espressione ‘Quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo’ assume il senso: se tu leghi, sarai legato; se tu sciogli, sarai sciolto. Proprio come preghiamo nel Padre Nostro: ‘rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori’. Dio si muove nei nostri confronti secondo il potere che ci ha accordato. Perdoniamo? Saremo perdonati. Non tratteniamo un’ingiustizia? Anche Dio non la trattiene nei nostri confronti. Siamo generosi con un fratello? Anche Dio lo sarà con noi. Da questo punto di vista, non è importante preoccuparsi di fare bene, ma di non trattenere, di non legare il male di nessuno.

E l’altra espressione ‘dove sono due o tre riuniti nel mio nome’ non allude principalmente alla preghiera, ma al perdono scambievole, alla riconciliazione accolta che testimonia proprio la presenza di Cristo non solo in noi, non solo in mezzo a noi, ma nel mondo, perché l’evento della riconciliazione parla direttamente al mondo della presenza di Dio. La pace tra fratelli, data e accolta, costituisce l’unica condizione di sincerità della preghiera e quindi del suo esaudimento. Come aveva potentemente intuito san Francesco chiamando ‘Porziuncola’ (particella di paradiso), il primitivo luogo di abitazione con i suoi fratelli perché l’unica regola era il perdonarsi scambievolmente in tutto e in ogni cosa.

Il canto al vangelo lo proclama solenne: “Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo, affidando a noi la parola della riconciliazione” (cfr. 2Cor 5,19). Se Dio affida all’uomo il ministero della riconciliazione, vuol dire che ritiene l’uomo suo compagno. Con la rivelazione di Gesù, che svela, mentre compie, questo supremo desiderio di Dio, possiamo scorgere all’opera nel mondo le segrete intenzioni di Dio nei confronti delle sue creature.

Noi tutti siamo appunto chiamati a concorrere alla realizzazione di questa ‘opera’. In questo senso dobbiamo imparare a giudicare ogni cosa in base alla convergenza verso questo supremo scopo divino. Imparare a diventare coscienti di questa realtà significa passare dal livello psicologico a quello spirituale, diventare compagni di Dio. Per questo ci è affidata la parola della riconciliazione. È la parola come forza d’attrazione, come rivelazione del segreto di quel ‘far grazia di sé’ di Dio a noi, di noi a tutti. È il mistero della carità condiviso.

Paolo lo vive come l’unico debito di cui i fratelli portano credito sempre nei nostri confronti. Assolto ogni altro dovere di lealtà, di onestà, di onore, verso tutti, nella società e nella chiesa, per i discepoli di Gesù rimane insolvibile sempre questo: la carità. Ma questo debito è percepito tale se la carità riguarda la condivisione del segreto di Dio che vuole gli uomini suoi figli alla tavola della vita. Se Paolo dice: “pienezza della Legge infatti è la carità”, non allude alla punta di una virtù umana, costituita dall’osservanza della legge, ma all’ispirazione divina, alla potenza divina che opera in noi nell’obbedienza alla legge, allargando i confini della nostra umanità sulla misura divina che in Gesù diventa accessibile. Paolo dice appunto: ‘chi ama l’altro’, dove altro sta per straniero e non semplicemente ‘chi ama il prossimo’ entro l’appartenenza ad uno stesso popolo.

Non che la cosa sia così naturale per gli uomini. Lo dice il profeta Ezechiele riportando la critica del popolo al suo Dio: “Non è retta la via del Signore”. L’uomo non è garantito dal bene che ha compiuto come non è condannato dal male che ha fatto. Quello che lo salva è la conversione al suo Dio: “convertitevi e vivrete”. Al centro c’è sempre il mistero dell’amore perdonante di Dio, che ridà gioia e dignità alla creatura liberandola dalle sue rivendicazioni. La carità parla di quella gioia e di quella dignità custodita per sé come per tutti.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo Ordinario

XXIV Domenica

(17 settembre 2023)

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Sir 27,30-28,7;  Sal 102 (103);  Rm 14,7-9;  Mt 18,21-35

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L’immagine di fondo che emerge è la stessa della domenica precedente: la chiesa come comunità di riconciliati, di uomini e donne che hanno fatto esperienza della grande misericordia di Dio e che non possono non condividerla tra di loro. L’accento del brano di oggi però non verte su una norma di comportamento all’interno della comunità, come nel caso della correzione fraterna che era stato proclamato domenica scorsa. Qui viene mostrata la ragione di fondo, il mistero su cui può far leva l’invito al perdono. Pietro, oltrepassando le tre volte di perdonare al fratello che la legge rabbinica ingiungeva al credente, avanza il numero di sette volte, già abbondantemente oltre le norme consuete. Ma Gesù, facendo riferimento alla selvaggia decisione di Lamec che rivelava come la violenza dilagava nell’umanità (“Lamec disse alle mogli: «Ada e Silla, ascoltate la mia voce; mogli di Lamec, porgete l’orecchio al mio dire. Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settantasette»”, Gn 4,23-24), gli risponde: settanta volte sette, cioè infinite volte, sempre, senza se e senza ma.

Questo mistero è richiamato dall’antica, bellissima, preghiera dopo la comunione, la quale ci introduce nella dinamica divina che attraversa il cuore dei credenti: “La potenza di questo sacramento, o Padre, ci pervada corpo e anima, perché non prevalga in noi il nostro sentimento, ma l’azione del tuo Santo Spirito”. E qual è l’azione dello Spirito nella storia? La riconciliazione del mondo in Cristo. Quel mistero è l’unico argomento di interesse per il cuore, se vuol vivere in pace. Lo ricorda anche il libro del Siracide: “Ricorda i precetti e non odiare il prossimo, l’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui” (il testo non allude tanto al dimenticare, ma al sorvolare, al passar sopra, al non tener conto. Non allude tanto all’odiare, ma al serbare memoria dell’offesa, al rancore, all’arrabbiarsi per l’offesa ricevuta). In gioco è proprio l’esperienza dell’alleanza dell’Altissimo, che in Gesù si mostra in tutto il suo splendore.

Gesù racconta la parabola del debitore spietato in risposta alla domanda stupita di Pietro sulla nostra capacità reale di offrire il perdono ai fratelli. Il passo parallelo di Luca rivela il sottofondo che fa da contesto. Dopo la risposta di Gesù a Pietro, gli apostoli aggiungono: “Accresci in noi la fede! Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe” (Lc 17,5-6). Ecco, il perdono è questione di fede, non di generosità. Il perdono è in funzione dell’esperienza di Dio, non della nostra generosità. Il perdono parla di Dio, non di noi.

Il primo servo della parabola, quello che deve al padrone diecimila talenti, allude a ciascuno di noi in rapporto a Dio. Diecimila talenti sono una cifra spropositata, a sottolineare l’assoluta impossibilità della restituzione. Davanti a Dio ognuno si trova in questa condizione, sebbene non sia così evidente la cosa per la nostra coscienza. È così forte la paura di Dio che, pur avendo coscienza dei propri peccati, si confida più nella propria giustizia che nel perdono umilmente chiesto e ricevuto e quindi non si è disposti a perdonare al proprio fratello, dal quale si esige la giustizia a tutti i costi. Non ci si rende conto che l’operazione è impossibile e che risponde solo alle proprie paure nascoste e quindi alla grettezza del proprio cuore.

Il secondo servo, quello che deve al suo compagno cento denari (nel confronto tra i diecimila talenti e i cento denari si calcola che la differenza è di uno a seicentomila! Cento denari corrisponde alla paga di cento giorni di un salariato), indica ciascuno di noi in rapporto agli altri. In gioco non è la disistima della giustizia, ma la grettezza di cuore, la giustizia perpetrata in nome di sentimenti ignobili. Di più ancora, in gioco non è semplicemente una questione tra compagni, ma la stessa dignità della conoscenza di Dio. Il primo servo è cattivo nei confronti del compagno perché non solo non ricorda quello che lui per primo ha ricevuto, ma soprattutto perché ferisce i sentimenti del padrone ed agisce infischiandosi di lui, rinnegando i legami che ha con lui. Se i doni di Dio non sono percepiti dentro l’offerta di una storia di alleanza, di comunione e di vita per noi, dimentichiamo Dio e ci chiudiamo nei doni ricevuti rivendicandoli come di diritto. Ciò ci impedisce di vivere l’alleanza con i nostri fratelli e facciamo pagare a loro le conseguenze di quello spirito di rivendicazione che ci attanaglia.

Ecco perché il sottofondo di comprensione della parabola è la fede. L’esempio del granellino di senapa non vuol suggerire che basta avere una fede tanto piccola quanto un granellino, ma che la fede racchiude la stessa potenza di crescita di un granellino. La fede non è che la coscienza dell’alleanza con Dio che ci viene rivelata proprio nel perdono del nostro peccato e nella capacità a vivere in comunione con Lui. Il miracolo che si impone al nostro cuore è proprio quello di vivere il perdono al fratello, come un segno di quella vita divina di cui siamo diventati partecipi. Il tutto è descritto dall’invocazione del Padre Nostro: ‘rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori’, in modo così vero che, una volta capaci di risplendere della luce del perdono perfetto, senza più accusare nessuno, non si subisce più la tentazione e non si è più preda del male. Come la successione delle invocazioni della preghiera suggeriscono: ‘non ci abbandonare alla tentazione, ma liberaci dal male’. È l’intuizione potente di Massimo Confessore: “La Scrittura rivela infatti con questo come chi non ha perfettamente perdonato a chi cade e non ha presentato a Dio un cuore privo di tristezza, reso splendente dalla luce della riconciliazione con il prossimo, non otterrà la grazia dei beni per cui ha pregato, e, per giusto giudizio, sarà consegnato alla tentazione e al Maligno. Imparerà così a purificarsi dalle colpe, eliminando le sue lagnanze contro gli altri …”.

La preghiera sulle offerte lo sottolinea: “Ascolta con bontà, o Signore, le nostre preghiere e accogli le offerte dei tuoi fedeli, perché quanto ognuno offre in onore del tuo nome giovi alla salvezza di tutti”. L’offerta a Dio sarà accolta a patto che si risolva in splendore di fraternità, di cui il perdono vicendevole è il segno più eloquente. Tanto, che si può interpretare il canto al vangelo: “Vi do un comandamento nuovo, dice il Signore: come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34), così: come io ho fatto grazia di me a voi, così anche voi fate grazia di voi stessi a tutti; come io vi ho accolti perdonando i vostri peccati, così fate anche voi vicendevolmente.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo Ordinario

XXV Domenica

(24 settembre 2023)

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Is 55,6-9;  Sal 144 (145);  Fil 1,20c-24.27a;  Mt 20,1-16

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Di fronte alla parabola di Gesù non riusciamo a scrollarci di dosso una certa perplessità. Come ci dicessimo: però non è giusto!  Non che vogliamo accusare il padrone di non attenersi alla giustizia (tutto nella parabola mira a che sia osservata la giustizia: non abbiamo pattuito un denaro? …), eppure rimane qualcosa che non ci convince appieno.

Possiamo riuscire a cogliere il senso vero delle parole di Gesù se collochiamo il brano nella trama del racconto evangelico di Matteo. Gesù aveva risposto allo scriba che lo interrogava sulla vita eterna: perché mi interroghi su ciò che è buono? Il Buono è uno solo. Ma come allora sarà possibile salvarsi? Gli apostoli restano perplessi e Pietro sottolinea: noi abbiamo lasciato tutto per seguirti. Che cosa ne avremo? È la perenne domanda dell’uomo a proposito della ricompensa: cosa me ne verrà a seguire i comandamenti? E Gesù risponde con la promessa del centuplo e della vita eterna. Dopo di che Gesù racconta la parabola degli operai nella vigna. Parabola, subito seguita dal terzo annuncio della passione.

Il punto nevralgico risiede nella formulazione della promessa da parte di Gesù: “Alla rigenerazione del mondo siederete anche voi su dodici troni…”. Ora, non si tratta del mondo futuro che sarà, ma del mondo futuro che viene, che è già venuto; si tratta del ‘mondo rinnovato’ che Gesù svela con il suo comportamento e con il suo agire. Se non si diventa partecipi di questo mondo rinnovato non sarà possibile comprendere le vie di Dio. La lettura di Isaia parla delle vie di Dio che non sono le nostre vie. Il salmo responsoriale canta che Dio è giusto in tutte le sue vie, buono in tutte le sue opere. Ecco, qui sorge la domanda: è proprio vero per noi che tutte le vie di Dio ci appaiono buone? Il fatto del rovesciamento delle posizioni, ‘gli ultimi saranno primi e i primi ultimi’, che conclude la parabola, allude direttamente a quel ‘mondo rinnovato’ che Gesù svela e compie perché lui è il testimone per eccellenza della bontà di Dio. Il padrone della parabola è descritto nei panni di Gesù che cerca i peccatori, che va a cercare la pecorella perduta e se la mette in spalla, che offre il regno al ladrone sulla croce. Perché in questo modo di agire splende colui che è il Buono. Ma per noi, che siamo sempre nel timore di non essere preferiti, comunque di rivendicare invece che di essere grati, quanto è difficile accedere alla luminosità del mondo rinnovato!

Così la parabola ha due mire: sottolineare la generosità del padrone e istradare i cuori in una nuova solidarietà tra compagni. Perché non godere del bene toccato al mio compagno anche se immeritato? Più si gode del bene altrui, più si è intimi di Dio, perché nel bene viene esaltato colui che solo è il Buono. La parabola vorrebbe conquistare i cuori all’esperienza della grande bontà di Dio, sottintendendo che non pagherà semplicemente il dovuto, ma che ricompenserà largamente oltre il dovuto. Se i primi operai non si accorgono di questa generosità è perché restano irretiti nel confronto tra compagni. Non tollerano di essere trattati come gli ultimi, mostrando così che il loro rapporto con il padrone non esce dallo schema del merito: io ho fatto, tu mi devi! È la condizione che vive il figlio maggiore nella parabola del padre misericordioso, del fariseo che prega nel tempio, del fastidio dei farisei nel vedere Gesù a tavola con i peccatori, di colui che millanta giustizia ma ha il cuore chiuso e duro.

La perplessità rivela l’incapacità per il nostro cuore di condividere la gioia, la gioia dei fratelli che possono avere quanto e più di noi, ma soprattutto la gioia del Padre che può dare a tanti quello che di per sé sarebbe riservato a pochi. Noi sicuramente non siamo nel numero di quei pochi e chi, come l’apostolo Paolo, si trova tra quei pochi, lo si riconosce dal fatto che gode più per la partecipazione del bene a tutti che non a se stesso. Non per nulla ritiene la sua vita di nessun conto, e la concepisce solo ‘per il progresso e la gioia della fede’ (Fil 1,25) di tutti. Non semplicemente per il progresso e la gioia dei fratelli, ma per il progresso e la gioia che i fratelli potranno godere nella loro relazione di intimità con il Padre che è venuto in loro soccorso, che ha inviato loro il suo Salvatore, che hanno conosciuto la misericordia del Signore. L’occhio allora non potrà più essere geloso o invidioso ed il cuore non avrà più pensieri propri, ma solo quelli di Dio e potrà godere con Dio del fatto che la Sua bontà è celebrata sopra ogni giustizia.

Un antico racconto rabbinico può riassumere bene la parabola di Gesù. Dio mostrò a rabbi Jose ben Halafta i tesori delle ricompense per i giusti custoditi in cielo. Ma lì c’era anche un grande tesoro per i ‘nullatenenti’ e Dio lo spiegò così: “A chi possiede, io do attingendo alla sua ricompensa; ma a chi non possiede, do gratuitamente attingendo a questo tesoro”. Nella vita di Gesù si rivela la bontà di Dio: nel nome di Dio Gesù rivolge la sua attenzione amorevole ai peccatori che non osservano la torà, alle donne, ai poveri, che per varie ragioni non possono osservarla totalmente, ai malati, che vengono esclusi dalla comunità del popolo e all’incolto, che non conosce bene la torà. La parabola parla dell’esperienza della bontà divina che gli uomini fanno con Gesù.

Potremmo alla fine domandarci: quando i primi possono restare sempre i primi? Pensiamo agli apostoli. Sono tra i primi e primi sono restati. Essere primi significa rallegrarsi del fatto che gli ultimi sono preferiti, godere con Dio della sua misericordia per gli ultimi. Anche perché l’invito a scoprire e gustare la bontà di Dio salva i cuori dai confini angusti e li libera da ogni forma di rivendicazione, in modo da partecipare ai sentimenti di Dio che vuole tutti suoi amici, senza distinzione.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo Ordinario

XXVI Domenica

(1 ottobre 2023)

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Ez 18,25-28;  Sal 24 (25);  Fil 2,1-11;  Mt 21,28-32

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Dopo l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme e la cacciata dei venditori dal tempio, i capi religiosi, che avevano assistito alle sue azioni profetiche senza fermarlo, vogliono sapere con quale autorità agisce così. Evidentemente sono colpiti dal suo fare e dal suo insegnare, ma temono anche le sue ‘picconate’. Gesù li sfida sul loro stesso terreno e li inchioda alle loro responsabilità: perché, come guide della nazione, non vi siete dati premura di raccogliere l’invito alla conversione di Giovanni Battista? E racconta loro tre parabole, tutte rivolte contro di loro stigmatizzando il rifiuto che opponevano all’opera di Dio, che si era rivelata nel Battista prima che in lui.

Nei confronti precedenti Gesù aveva loro mosso il rimprovero: “E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?” (Gv 5,44). Ora però il confronto si fa aspro, preludio al dramma che di lì a breve si scatenerà.

La parabola di oggi, imperniata sul fare la volontà di Dio, prende le mosse dalla morte di Giovanni Battista e dalla sua infuocata predicazione che aveva suscitato un grande movimento di ritorno all’alleanza, ma solo da parte dei peccatori. I capi religiosi erano stati ad osservare da lontano. La parabola è tipica del vangelo di Matteo. Chi compie la volontà del padre? Chi acconsente ma poi non fa o chi alla fine fa, anche senza aver acconsentito prima? Non è un invito all’obbedienza in generale, ma una riflessione profetica sulla storia che va dritta al cuore degli ascoltatori. L’applicazione della parabola è chiara. Voi, capi, avete visto che pubblicani e prostitute si sono pentiti e hanno aderito al messaggio del Battista. Ma voi vi siete girati dall’altra parte, non vi siete nemmeno dati la pena di mettere in discussione la vostra posizione. Ebbene, succede la stessa cosa con me. Voi vedete le cose meravigliose che compio, ma non volete vedere l’agire di Dio che realizza la sua opera di salvezza. Voi l’aspettate da un’altra parte e invece resterete sulla vostra fame.

Cosa significa pentirsi? Il verbo usato, lo stesso che ricorre nell’episodio di Giuda che riporta ai sacerdoti le monete del tradimento, significa ‘ricredersi’, ‘rivedere le cose sotto altra prospettiva’, ‘cambiare giudizio’; si riferisce non tanto alle azioni, ma al senso di quello che sta avvenendo tanto da vedere la vita sotto altra angolatura. Pentirsi significa aprire il cuore al momento di Dio. Per gli ascoltatori di Gesù, pentirsi significava riconoscere che in Giovanni Battista Dio voleva parlare al suo popolo, riconoscere che Giovanni aveva indicato colui che veniva da Dio per riscattare l’uomo dal peccato e portargli la sua salvezza, riconoscere che in lui veniva manifestata la venuta del Regno di Dio.

Dal punto di vista di Dio non ha alcuna importanza che l’uomo riconosca questo partendo da una sua presunta giustizia o da una sua situazione di peccato: l’unica cosa importante è quel riconoscimento, perché da lì scaturiscono i beni di Dio per l’uomo. E la giustizia dell’uomo per Dio non può provenire che da quel pentimento che induce l’uomo ad accogliere prima di tutto la volontà di salvezza di Dio su di lui, volontà che esprime il suo desiderio di stare con gli uomini, indipendentemente da come o dove si trovano. Tutto ciò che si pone al di fuori o contro o a lato di quel pentimento significa dare più importanza all’uomo che a Dio e in definitiva corrisponde a costruirsi un’immagine di Dio che non è veritiera. E se ci si fida di un’immagine di Dio non veritiera si finisce per costruire anche un’umanità che non ha consistenza di verità e perciò fasulla, quando non distorta.

E se per il cuore dell’uomo non è così agevole conoscere le vie di Dio, ecco la supplica del salmo responsoriale: “Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri. Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi”. Intendendo: chiediamo non solo di essere illuminati sulla strada da percorrere, ma anche di poterla percorrere, di poter fare ciò che ci è stato indicato. Nel v. 14 dello stesso salmo, seguendo il testo ebraico, leggiamo: “Il segreto del Signore è per quanti lo temono e la sua alleanza per farla loro conoscere”. Vale a dire, per l’uomo è necessario che, prima che alle parole che sentirà da parte del suo Dio, si apra alla volontà di bene che muove il suo Dio a pronunciare quelle parole. Non si può fare la volontà di Dio se non si sente quella volontà amica. Alla fin fine, chiedendo di conoscere le vie del Signore, chiediamo di poter conoscere la bellezza e l’amore di quel Figlio che il Padre ci ha inviato.

Il tutto è fortemente sottolineato dall’inno di Paolo: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini”. Perché? Perché sia fatta la sua volontà, compiutamente e il suo amore si riveli al cuore dell’uomo, inducendolo a pentirsi finalmente!

Dire ‘avere gli stessi sentimenti di Cristo Gesù’ e dire ‘la volontà del Padre’ è dire la stessa cosa. Se l’apostolo ci invita ad avere gli stessi sentimenti di Gesù è perché solo in quel modo possiamo riconoscerci nella volontà del Padre, possiamo acconsentire a quella volontà e goderne lo splendore di amore che ci viene riversato e che ci spinge a riversarlo su tutti. Gesù, nel suo essere Figlio di Dio fatto uomo, costituisce quel punto di incandescenza nella storia dove la volontà del Padre muove l’umanità e questa risplende per l’amore che l’investe e di cui si capacita. Così, fare la volontà del Padre è ritrovarci in Gesù, partecipi del suo essere inviato al mondo per mostrare la grandezza dell’amore del Padre per tutti (cfr Gv 3,16) e per riunire i figli di Dio dispersi (cfr Gv 11,52). È credere in lui da vivere del suo stesso Spirito, è aderire a lui, abitare in lui ed essere abitati da lui.

Le parabole delle domeniche successive diranno fino a che punto l’umanità di Gesù vive la volontà di salvezza per gli uomini da parte del Padre, allorquando il dramma si consumerà. L’accento però non sarà posto sulla sofferenza che dovrà subire, ma sullo splendore di amore di cui si fa testimone. Avviene per i discepoli come per Gesù: se il Figlio, secondo le parole di Paolo ai Filippesi, ‘svuotò se stesso assumendo una condizione di servo’, è perché gode dell’amore del Padre per noi. Lo ‘svuotarsi’, che tanto timore ci suscita, in realtà è un movimento assolutamente positivo, di consenso in tutta intimità, perché solo l’amore riempie. Quello ‘svuotamento’ è la condizione perché l’amore si manifesti e trascini tutti nello stesso movimento. In effetti, per la nostra umanità, lo svuotarsi (= non cercare mai gloria gli uni dagli altri) attira la grazia perché assimila al movimento che Gesù ha vissuto nel suo manifestare l’amore del Padre per noi.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo Ordinario

XXVII Domenica

(8 ottobre 2023)

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Is 5,1-7;  Sal 79 (80);  Fil 4,6-9;  Mt 21,33-43

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Forse, più che una parabola, il brano evangelico di oggi esprime una allegoria profetica. Ciò rende ancora più drammatico il contesto narrativo, come la conclusione, tirata dagli stessi ascoltatori, capi dei sacerdoti e anziani del popolo, lascia perfettamente intendere. Avviene come nel caso di Davide, dopo il peccato di adulterio e assassinio, il quale si condanna con le sue stesse parole rispondendo all’apologo del profeta Natan (cfr. 2 Sam 12,1-13).

Se leggiamo il testo di Matteo con il passo parallelo di Luca 20,9-19 possiamo cogliere tutta l’intensità emotiva del brano, dove il riferimento alla passione di Gesù è diretto. Nel testo di Luca, i contadini percuotono, insultano, feriscono i servi (= i profeti) mandati dal padrone della vigna, ma solo del figlio del padrone si dice che lo uccidono dopo averlo cacciato fuori dalla vigna. Il figlio è presentato come l’amato. Come non cogliere il valore profetico di questi particolari applicati a Gesù stesso, lui, il Figlio amato, come testimoniato dalla voce al battesimo e alla trasfigurazione?

Il tono d’insieme della parabola è dato dal riferimento, evidente anche per gli ascoltatori, all’amore di Dio per la sua vigna, vigna che ha amorevolmente piantato e curato. Se la liturgia di oggi fa proclamare nel canto d’ingresso: “Tutte le cose sono in tuo potere, Signore, e nessuno può resistere al tuo volere”, parole pronunciate dalla regina Ester nel momento più drammatico della sua vita (cfr. Est 13,9), lo fa riferendosi alla fedeltà di Dio nel suo amore per il popolo, amore che viene descritto proprio dal passo del profeta Isaia della prima lettura. L’immagine dell’uomo che pianta una vigna, la circonda di cure e si attende di raccoglierne i frutti è l’immagine di Dio che, preso d’amore per il suo popolo, stabilisce un’alleanza con lui, vuol condividere con lui il suo Bene. Il legame è così profondo che l’immagine assume sfumature coniugali ad indicare la profondità e la totalità di questa passione d’amore. Così, quando il popolo si ribella e non lo segue, Dio si sentirà ferito non solo nel suo diritto e nella sua proprietà, ma nei suoi affetti, nel suo cuore. Gesù sfrutta questa immagine celebre del profeta Isaia che canta per Dio l’inno d’amore per il suo popolo.

Non per nulla, il canto al vangelo introduce il brano con l’espressione giovannea: “Io ho scelto voi, perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16). In quello scegliere occorre ravvisare tutta la passione d’amore di Dio per l’uomo. Dio sceglie (= pianta la vigna del suo regno, manda a lavorare nella vigna, offre la stessa paga a chiunque accetti di andarvi a lavorare) per raccogliere il frutto, che è la sua conoscenza in intimità; il frutto rimane nel senso che quella conoscenza è l’eredità di tutti, vissuta in solidarietà con tutti, finché tutti possano riconoscere e vivere dell’amore di Dio per l’uomo. In effetti, nel racconto della parabola, non si dice che i contadini non hanno consegnato il raccolto, ma che non hanno il raccolto da consegnare. Non hanno lavorato la vigna come avrebbero dovuto e quindi i frutti non ci sono. La scelta di Dio è in rapporto al frutto, nel senso che, se Dio stabilisce un’alleanza, vive un’intimità con qualcuno, è perché questo qualcuno risponda a quell’alleanza nella sua vita concreta, nelle relazioni che vive, in modo che tutti possano conoscere quanto è grande il suo amore.

Quando Gesù, applicandosi il Sal 118,22 (“La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo”), esprime il suo giudizio: “Perciò vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti”, non intende riferirsi al fatto che il regno è tolto agli israeliti per darlo ai pagani, alla chiesa dei gentili (che passione d’amore sarebbe per il suo popolo!), ma intende ricordare ai capi e ai farisei che pubblicani e prostitute passano loro avanti nel regno di Dio. Allude a coloro che porteranno frutti di pentimento.

Di quei frutti parla Paolo scrivendo ai Filippesi: essere lieti nel Signore, lui che ci ha manifestato così grande amore. Letizia, che si trasforma in amabilità nei rapporti con tutti, in speranza del regno che viene e nel fatto di non angustiarsi per nulla, poiché, come dice Pietro nella sua lettera: “… riversando su di lui tutte le vostre preoccupazioni, poiché gli state a cuore” (1Pt 5,7). Per questo l’apostolo invita a pregare, interessandosi di ogni cosa buona, per esprimere nella vita quello splendore che ha illuminato il cuore. Nel suo invito però Paolo aggiunge una cosa misteriosa, non immediatamente accessibile alla nostra psicologia interiore. Invita a stare nella supplica angosciata della preghiera con rendimento di grazie. Se non si fa riferimento alla rivelazione di Gesù come pietra d’angolo, non solo in rapporto a ebrei e gentili, a buoni e cattivi, ma rispetto a tutte le tensioni che accompagnano la nostra vita e che in lui trovano modo di saldarsi in ricchezza di umanità, come poter rendere grazie nella supplica originata dalla ferita della prova? A questo si ricollega anche la parola di Gesù: “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia” (Mt 6,25).

Nella parabola poi si leggono tra le righe aspetti che suonano tragici. Il ragionamento dei contadini alla vista del figlio mandato dal padrone (‘Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!’) ne è un esempio. Se proprio il Figlio è stato inviato per metterci in possesso della nostra eredità (cfr. Gal 4,4-7), come possono questi illudersi di ottenere diversamente quello che già era stato loro destinato? Spesso ci si ritrova nella vita in tale posizione: volere a tutti i costi un certo risultato, senza immaginare nemmeno che ci verrebbe dato in dono se solo lo sapessimo accogliere dalle mani di Dio! I nostri desideri di gioia, di felicità, di fraternità, non sono forse così spesso disattesi dai nostri comportamenti? Il nostro guardare al Figlio non è forse così spesso appiattito sulle pretese che avanziamo, senza poter mai aver sentore della bontà di quell’amore che in Lui ci viene donato? L’amore di Dio non risponde al buon senso, non è contenuto nei limiti del giusto; è proprio folle, folle come quel padrone che, dopo aver visti picchiati e scacciati i suoi servi, non teme di mandare il suo unico figlio. Lui, sì, che non deluderà le sue attese; Lui, sì, che resterà sempre testimone di quell’amore folle proprio nel subire la morte e poter riscattare, con la sua risurrezione che lo rende pietra angolare per tutti, la malvagità di quei contadini, la nostra malvagità di uomini peccatori!

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo Ordinario

XXVIII Domenica

(15 ottobre 2023)

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Is 25,6-10a;  Sal 22 (23);  Fil 4,12-14.19-20;  Mt 22,1-14

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Rispetto alle parabole precedenti, con questa Gesù aggiunge due particolari nuovi al tentativo di svegliare la coscienza dei capi del popolo. Prima l’accento era sul padrone, ora sugli invitati. Per farci un’idea più verosimile della scena dell’invito per le nozze, dobbiamo rifarci al passo parallelo di Luca 14, più sobrio, dove un uomo facoltoso dà una cena e manda a chiamare gli invitati, rispondendo a un commensale che si era entusiasmato al discorso che Gesù andava facendo nella casa del suo ospite e che aveva pensato alla gioia del banchetto nel regno. Nel racconto di Matteo tutto è inverosimile, ma all’evangelista non interessano le incongruenze evidenti (banchetto di nozze, spedizione di guerra e ritorno al banchetto). Probabilmente Matteo legge la parabola nel suo significato di giudizio profetico e quindi fa accenno alla distruzione di Gerusalemme dell’anno 70. Nei due racconti di Matteo e Luca è agli invitati che dobbiamo guardare anzitutto.

I primi invitati rifiutano. Interessante osservare che nel testo di Matteo gli invitati se ne impipano e voltano le spalle ai servi che portano l’invito, mentre nel testo di Luca è detto che si giustificano adducendo scuse. La sostanza è la medesima: non accolgono l’invito. Il padrone allora manda a portare l’invito ad altri. Ecco il primo particolare nuovo: “andate ora ai crocicchi delle strade”. Non si tratta dei crocicchi all’interno della città, ma dei punti di confluenza delle strade fuori della città. Il significato evidente risulta: non solo gli israeliti sono invitati, ma tutti i popoli. Il passo del profeta Isaia della prima lettura lo proclama apertamente: “Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli …”. Si tratta del sontuoso banchetto che inaugura il Regno messianico, offerto a tutti.

Nella visione del profeta tre sono gli aspetti che caratterizzeranno la gioia della vita: la conoscenza del Signore invaderà tutti i cuori (‘il velo strappato’), non ci sarà più morte, ognuno godrà personalmente (‘lacrime asciugate’). È allora che ciascuno e tutti diranno: “Ecco il nostro Dio”, sottolineando nostro come espressione di una esperienza goduta. La parabola sottintende: quando le nozze del Figlio saranno celebrate, guardando a Colui che è stato trafitto, allora si potrà dire: “Ecco il nostro Dio”. Ecco dove l’amore ha condotto il nostro Dio, ecco l’amore che fa vivere il nostro cuore. La visione di quell’amore non vale semplicemente per me, ma per me se vale contemporaneamente per tutti. Così, non si tratta di credere semplicemente al Figlio di Dio, ma di vedere il suo amore per noi che diventa in noi radice di vita per tutti. Così custodiamo per tutti l’invito alla tavola del re.

Stesso invito risuona nel salmo responsoriale. L’immagine del pastore che ci procura ristoro allude alla rivelazione di Gesù: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,29-30). L’invito alle nozze corrisponde al ‘venite’ di Gesù e per noi si traduce nell’andarci in compagnia di tutti i nostri fratelli, senza distinzione, perché il suo desiderio di comunione con noi si compia nel suo splendore. L’invito ha un sapore eminentemente eucaristico, tanto che ogni parola del Signore è un invito al banchetto, è un invito all’eucaristia.

C’è anche un secondo particolare nuovo nella parabola di Gesù. Alla fine, il re entra nella sala e scorge uno che non ha la veste nuziale. I primi invitati non erano degni, ma nemmeno è scontato che tutti gli altri invitati possano entrare comunque alla festa nuziale. La parabola, cioè, allude sia al possibile rifiuto in Israele come al possibile rifiuto nella Chiesa: gli invitati rinunciano e non partecipano alla festa; anche il commensale, che non porta la veste nuziale, verrà estromesso dalla sala di nozze. Sono chiamati tutti, buoni e cattivi; non c’è alcuna distinzione rispetto all’invito. Anzi, come prega la colletta: “O Padre, che inviti il mondo intero alle nozze del tuo Figlio …”, la dignità dell’uomo si misura sul fatto di non impedire a nessuno l’accesso all’invito: siamo chiamati tutti alla stessa tavola del re. Quando però disprezziamo il nostro fratello, quando portiamo rancore, quando creiamo distanza con i nostri fratelli, quando li sfruttiamo invece di servirli, è come se impedissimo loro di ricevere l’invito del re a venire alla stessa tavola della vita, ma impedendo anche a noi di venirci.

Le nozze dell’Agnello (“sono giunte le nozze dell’Agnello”, Ap 19,7) sono l’immolazione del Figlio nella sua dimensione di compimento e vivibilità della comunione tra Dio e gli uomini dentro lo splendore di un amore goduto. Perché il re proclama che gli invitati non erano degni? Non ci sono condizioni previe da osservare; c’è semplicemente il fatto di non aver accolto l’invito. L’indegnità corrisponde dunque al rifiuto dell’invito del proprio Signore. L’uomo non è mai indegno rispetto all’amore del Signore perché è il Signore che prende l’iniziativa di rivolgergli il suo amore, senza condizioni. Ma l’uomo può sempre opporre le sue ragioni, può ripararsi dietro una falsa nobiltà ostentata delle sue ragioni e non aderire.

E se ancora ci perseguitasse l’idea di indegnità rispetto alla chiamata all’amore, allora valgono le parole del canto di ingresso: “Se consideri le nostre colpe, Signore, chi potrà resistere? Ma presso di te è il perdono, o Dio di Israele” (Sal 130,3-4). Il perdono di Dio corrisponde all’invito alla sua tavola in compagnia di tutti. Così sono custodite la preziosità dell’invito e l’umiltà per l’invitato. Come suggerisce il versetto dell’alleluia tratto dalla lettera agli Efesini, il cui passo completo suona: “il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi …” (Ef 1,17-18). Possa davvero il nostro cuore aprirsi al dono di speranza e di gloria che il Signore ha preparato per noi!

Un’ultima osservazione. Alle nozze del Figlio fa riscontro la nostra gioia, non la nostra perfezione. Ma la gioia dice l’apertura del nostro cuore all’invito del Padre, nonostante la nostra patente indegnità. In questo contesto suona molto strana la dichiarazione finale della parabola: ‘molti sono chiamati, ma pochi eletti’. Di tutta la moltitudine che riempiva la sala, solo uno è stato trovato senza la veste appropriata! Solo per ricordare che la fiducia nell’amore di Dio non deve giocare come un pretesto, ma come un’attrazione.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo Ordinario

XXIX Domenica

(22 ottobre 2023)

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Is 45,1.4-6;  Sal 95 (96);  1Ts 1,1-5b;  Mt 22,15-21

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Le ultime tre parabole avevano ormai fatto decidere i capi religiosi a far fuori Gesù. Occorreva un pretesto e non potendo accusarlo per i suoi comportamenti, cercano di coglierlo in fallo nelle sue parole rispetto all’occupante romano: “Allora i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi”. Dal loro punto di vista, la strategia è vincente, perché al processo contro Gesù sarà proprio un’accusa di tipo politico a farlo condannare. La questione, scottante allora, era il tributo che ogni cittadino ebreo doveva pagare all’occupante romano. Non era una questione di esosità di tasse, ma di umiliazione di un popolo. Gli zeloti, l’ala intransigente dei farisei, proibiva ai suoi simpatizzanti di versare il tributo e saranno proprio loro la miccia dell’insurrezione di Gerusalemme nell’anno 67 che causerà, tre anni dopo, la distruzione della città ad opera dei Romani.

Si tratta della tassa pro capite (in latino, census) che i romani esigevano da tutti gli abitanti (uomini, donne e schiavi) di Giudea, Samaria e Idumea, dai 12/14 anni fino ai 65. La tassa versata corrispondeva a un denaro, l’equivalente della paga giornaliera di un bracciante, pagata con una moneta speciale che portava l’immagine dell’imperatore Tiberio (14-37 d.C.) con l’iscrizione: TIBERIUS CAESAR DIVI AUGUSTI FILIUS AUGUSTUS PONTIFEX MAXIMUS (Tiberio Cesare, augusto figlio del divino Augusto, sommo sacerdote).

Il tranello era ben orchestrato perché comunque Gesù rispondesse non poteva evitare di essere accusato. Se avesse acconsentito al versamento del tributo si sarebbe inimicata la gente, se avesse invitato a non versarlo si sarebbe contrapposto al potere romano. Gesù evita il tranello, ma non la questione e risponde: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”, lasciando i suoi stessi avversari pieni di ammirazione.

Il senso della sua risposta è illuminato dal canto al vangelo, tratto da un passo della lettera ai Filippesi 2,15-16: “Risplendete come astri nel mondo, tenendo salda la parola di vita”. I credenti in Cristo devono al mondo la luminosità dell’annuncio evangelico, segnale di quella vita eterna che Gesù ci partecipa con il suo amore perché conquisti tutti. Come dicesse: la vita che vivete nel mondo tenetela aperta alla gloria di Dio, le vostre azioni devono restare aperte all’Eterno se non volete restare oppressi e opprimere. Il verbo greco, tradotto con ‘tenendo salda’, ha due significati: tenere fermamente e offrire. Il credente in Cristo porta la parola di vita nel senso che la fa risplendere nel mondo.

La seconda lettura, con il passo della prima lettera ai Tessalonicesi, elenca le tre condizioni caratteristiche della vita di un credente. Paolo le mette in risalto facendo memoria dell’entusiasmo della comunità di Tessalonica nell’aderire a Gesù. Parla della fede, della carità e della speranza (questo è l’ordine che adotta) e a ciascuna virtù teologale abbina una caratteristica:

alla fede l’operosità. Una fede che non si traduca in opere è morta.

alla carità la fatica. Ma quale fatica? La fatica di portare il male con il bene, la fatica di cedere i propri diritti pur di non perdere l’amore, la fatica di venire offesi e restare gioiosi, la fatica di rivolgere a tutti, senza distinzione, il movimento dell’amore.

alla speranza la fermezza (letteralmente, la pazienza, la resistenza nel tempo). Resistenza, non come sopportazione, ma come resilienza, capacità cioè di reagire con fantasia ed elasticità al reale perché l’oggetto della speranza resti sempre a portata di mano. Non lasciatevi rubare la speranza, dice papa Francesco.

Se Gesù è l’Immagine del Padre, l’uomo, che è fatto a immagine e somiglianza di Dio, vuol dire che è modellato su Gesù, il Verbo fatto uomo. Così, quando Gesù dice di dare a Dio quello che è di Dio, allude al fatto di vivere la propria umanità come lui la vive, vale a dire in funzione della rivelazione al mondo della grandezza dell’amore del Padre per i suoi figli. Costituisce il supremo compito dell’umanità, che in questo non resta soggetta a nessun altro tipo di potere.

L’elogio che viene tributato a Gesù (“Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno”) non risponde solo alla cattiva intenzione dei suoi accusatori, ma esprime anche la condizione per poter discernere l’eterno nel temporale. Diversamente, la storia soffoca o temerariamente esalta, ma non si apre alla salvezza. Gesù dirà invece dei farisei: “E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?” (Gv 5,44).

L’aspetto straordinario e straordinariamente potente della presa di posizione da parte di Gesù è dato dal fatto che lui è proclamato come non soggetto a nessuno e tuttavia, lui, di se stesso, si proclama sottomesso a tutti (pensiamo all’immagine di lui che si cinge il grembiule e lava i piedi ai discepoli nell’ultima cena!), servo di tutti perché l’amore del Padre conquisti tutti. La libertà, che gli è attribuita, gli deriva dalla perfetta comunione con il Padre, che vuole tutti salvi e che lo abilita a vivere la vita nel servizio di questa straordinaria provvidenza di amore per l’umanità. Con il dire di dare a Dio quello che è di Dio, Gesù allude proprio a quel Padre da cui lui proviene, che lui conosce, di cui testimonia l’amore e della cui comunione rende anche noi partecipi. Di qui scaturisce quella libertà che, non rendendoci soggetti alle cose, è capace di aprire gli spazi adeguati perché gli eventi si schiudano all’eternità, cioè a quella dimensione del vivere un amore nella storia perché tutti si possa dire: “Grande è il Signore e degno di ogni lode”.

Rispetto invece al ‘rendere a Cesare quello che è di Cesare’, si possono notare tre cose.

a) Gesù riconosce la legittimità dell’autorità dello Stato, ma svincola il potere da una legittimità autoreferenziale. Nell’antichità lo Stato si presentava come fonte dei diritti e dei doveri in assoluto, compresa la sfera religiosa.

b) Gesù spezza l’alleanza tra Religione e Stato, che il paganesimo e l’impero esigevano. Gesù non separa semplicemente Dio e lo Stato, ma riorienta il temporale, la politica, alla dimensione spirituale che è costituita dal bene delle persone; non solo, ma riaggancia la politica all’eterno nel senso che nella storia è in gioco il compimento del piano divino di salvezza per l’uomo.

c) E infine, che l’uomo è sopra il cittadino, il prossimo sopra il connazionale, la coscienza sopra la norma, la persona sopra la collettività. ‘Io sono il Signore e non c’è alcun altro’ non significa semplicemente che c’è un solo Dio, ma che tutto ciò che di vero, di bello, di buono, desideriamo, non può avere compimento se non in Lui. Essere discepoli di Cristo significa prima di tutto vedere la vita dal punto di vista di Dio: la possibilità di partecipare al dono del suo Regno nella responsabilità della storia.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo Ordinario

XXX Domenica

(29 ottobre 2023)

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Es 22,20-26;  Sal 17 (18);  1Ts 1,5c-10;  Mt 22,34-40

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Il canto al vangelo (Gv 14,23: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui”) è la finestra di luce che fa intravedere la portata della risposta di Gesù al dottore della legge.

Sebbene fosse usuale tra gli scribi del tempo la domanda circa la determinazione del comandamento più grande tra i tanti precetti, negativi e positivi, della Legge, mai nessuno prima di Gesù e neanche dopo, ha mai collegato insieme i due passi scritturistici che Gesù cita esplicitamente: Dt 6,4-5: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” e Lv 19,18: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore” (cfr. anche i passi paralleli, nel contesto più cordiale di Mc 12,28-34 e Lc 10,25-28). Gesù li cita stabilendoli come il primo e il secondo comandamento, capaci di riassumere e di fondare tutti gli altri. Ma in cosa risiede la novità della risposta di Gesù? La prima novità sta nel raccordare i due comandamenti, dichiarando che il secondo è simile al primo ed estendendone la portata a tutti gli uomini, al di là dell’appartenenza al popolo d’Israele. L’altra novità consiste nell’uscire dallo schema di riferimento usuale per le Scritture con il porre i Profeti sullo stesso piano della Legge, con l’allusione all’unità delle Scritture che in lui trova ormai la sua chiave di lettura.

La prima lettura, tratta dalla sezione dell’Esodo che riporta il codice dell’alleanza (Es 20,22-23,19), sottolinea la concretezza dell’amore del prossimo (allora inteso per il correligionario e non per l’uomo in generale), secondo la visione che il libro dei Proverbi testimonierà: “Chi opprime il povero [debole], offende il suo creatore [colui che l’ha fatto], chi ha pietà del misero lo onora” (Pr 14,31). Nel linguaggio dell’alleanza, il significato di amare/amore non riguarda la dimensione emotiva dei sentimenti, ma la volontà e la pratica del bene, come del resto anche Gesù riprenderà.

D’altro canto, la luce, che il canto al vangelo getta sulla risposta di Gesù, fa intravedere una dimensione ancora più potente nella novità portata da Gesù. Il comandamento allude alla possibile rivelazione del volto di Dio al nostro cuore. Non è la pratica a produrre la rivelazione, ma l’amore che presiede alla pratica e che alla pratica conduce. Perché?

La frase di Gv 14,23 è la risposta di Gesù alla domanda dell’apostolo Giuda: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?”. Una manifestazione che procede da un amore è ravvisabile da chi non partecipa a questo amore? Come suggerisce l’antica colletta della messa di oggi: “Dio onnipotente ed eterno, accresci in noi la fede, la speranza e la carità, e perché possiamo ottenere ciò che prometti, fa’ che amiamo ciò che comandi”. Quando il ‘comandamento grande’ è l’unica parola che il cuore trattiene, quando tutto viene vissuto in rapporto a quello e tutto a quello riconduce, allora avviene secondo la promessa di Gesù: se mi ami, metti in pratica la mia parola e il tuo cuore conoscerà il segreto che a lui è riservato, cioè vivrai della comunione con il tuo Dio e saprai quanto è grande il suo amore per tutti, amore che costituisce il senso di tutti i comandamenti. La pratica dei comandamenti è l’espressione di questo amore nel tempo e nello spazio e niente e nessuno ci può sottrarre questo amore. È evidente che questo solo in Gesù si compie assolutamente, ma la sua promessa è che la stessa cosa varrà per i discepoli, se stanno in lui.

Potremmo riassumere il senso dei due comandamenti, ama Dio e ama il prossimo, in questo modo: il mondo possa scoprire l’amore del Padre e così vivere la dimensione della fraternità nella sua radicale luminosità. Il senso dell’amore al prossimo sta tutto nel fatto di far ‘sapere al mondo’ che l’amore del Padre è per lui. Per questo, se il primo comandamento esprime la radice di un’umanità che ha scoperto l’amore del Padre, il secondo ne segnala l’orizzonte di tensione, perché l’amore del Padre è per il mondo. Lo scopo della pratica dei comandamenti non è in funzione della mia perfezione, ma dello splendore dell’amore del Padre che a tutti è rivolto e di cui posso ammirare l’accondiscendenza per noi.

In questa prospettiva risulta illuminante proprio la lettura del brano dell’Esodo perché, delle norme del Codice dell’alleanza, viene accentuata la pratica del bene rispetto alla cura dei deboli. La vedova, l’orfano e il forestiero sono le categorie di persone essenzialmente ‘deboli’ perché senza protezione. Proclamare allora nel salmo responsoriale: “Ti amo, Signore, mia forza” significa alludere alla forza tipica di Dio che è quella della ‘indulgenza, mitezza, pazienza…’. Chi calpesta il debole calpesta l’amore di Dio che sta con gli ultimi; impedisce a Dio di essere conosciuto in questo mondo. Chi calpesta il debole non conosce Dio.

Il senso delle parole evangeliche di oggi lo spiega stupendamente s. Francesco di Assisi nel suo commento al Padre Nostro: “Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra: affinché ti amiamo con tutto il cuore, sempre pensando a te; con tutta l’anima, sempre desiderando te; con tutta la mente, orientando a te tutte le nostre intenzioni e in ogni cosa cercando il tuo onore; e con tutte le nostre forze, spendendo tutte le nostre energie e sensibilità dell’anima e del corpo a servizio del tuo amore e non per altro; e affinché possiamo amare i nostri prossimi come noi stessi, trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo amore, godendo dei beni altrui come dei nostri e nei mali soffrendo insieme con loro e non recando nessuna offesa a nessuno” (FF 270).

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Solennità e feste

Tutti i Santi

(1° novembre 2023)

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Ap 7,2-4.9-14;  Sal 23 (24);  1Gv 3,1-3;  Mt 5,1-12a

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Oggi la chiesa mostra al mondo la sua visione: è l’Agnello, immolato fin dalla fondazione del mondo (Ap 13,8), ad attirare gli sguardi degli uomini che possono contemplare la santità di Dio, che è splendore di amore immolato. Il mondo è uscito dall’amore di Dio, di esso è intessuto e percorso, di esso parla, ma quanta tenebra ce ne impediva la visione! Ora tutto è nella luce, tutto splende in verità.

La domanda di fondo che possiamo farci è la seguente: ci sentiamo toccati dalla promessa di felicità di Gesù ai suoi discepoli: Beati i poveri […] Beati i misericordiosi […] Beati i puri di cuore […]? Ci sentiamo destinatari in verità di questa solenne promessa di Gesù? Come cantiamo nel salmo responsoriale, ci possiamo riconoscere nella generazione che cerca il volto del Signore? Sarebbe come domandarci se l’invito alla santità ci riguarda ancora. Vorrebbe dire che ancora crediamo possibile il compimento dei desideri che portiamo in cuore.

La visione celeste dell’Apocalisse presenta la moltitudine dei salvati come in due quadri distinti, che però si fondono insieme. Prima compaiono i segnati con il sigillo del Dio vivente, i 144.000 (il quadrato di 12 – numero delle tribù di Israele -, moltiplicato per 1000 – numero dell’universalità), gruppo che designa i martiri, coloro che hanno pagato il prezzo della fedeltà al Signore Gesù con la vita. Poi si presenta la moltitudine immensa, proveniente da ogni popolo e nazione, così definita: “[…] quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti rendendole candide nel sangue dell’Agnello”. Sono coloro che hanno cercato di vivere la loro vita, nella precarietà degli sforzi e dei risultati, nella prospettiva del vangelo con il loro quotidiano martirio che la coerenza della vita spesso esige. Anche questi hanno riconosciuto il fascino del loro Signore crocifisso e risorto. Nel suo amore salvatore hanno confidato nonostante i tradimenti e gli affievolimenti della fede in lui. Ma tutti e due i gruppi si fondono all’unisono nella comune proclamazione: ora sappiamo che il nostro Dio è pieno di amore per noi. Perché questo significa l’acclamazione: “La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono e all’Agnello”.

L’antifona di ingresso e la preghiera dopo la comunione fanno come da cornice alla visione aperta dalle letture della festa di oggi. “Rallegriamoci tutti nel Signore in questa solennità di tutti i santi: con noi gioiscono gli angeli e lodano il Figlio di Dio”. È motivo di gioia la santità perché non può esserci gioia se non a partire da un amore accolto e condiviso. E la santità, come proclamano i beati davanti al trono dell’Agnello, è questo amore accolto e condiviso. Perché anche gli angeli sono implicati nella stessa gioia? E perché tutto si risolve nella lode del Figlio di Dio? La gioia degli angeli esprime il mistero del loro essere in adorazione: adorano un Dio che è pieno di amore per gli uomini, non per loro. L’amore di Dio per gli uomini l’ha indotto a farsi uomo come loro, di modo che l’uomo potesse, nella sua umanità, essere come il Figlio di Dio. Ne scaturisce una conseguenza: se l’amore che gli uomini si portano non parla di questo amore di Dio lodato dagli angeli, allora vuol dire che non si è più capaci di adorazione, cioè della gioia di vedere splendere l’amore di Dio per tutti gli uomini, non si è più figli di Dio. Un amore che non allude all’adorazione di Dio diventa tiranno.

Nella preghiera dopo la comunione diciamo: “… fa’ che raggiungiamo anche noi la pienezza del tuo amore”. Non preghiamo semplicemente per arrivare anche noi in paradiso, ma preghiamo perché quell’amore costituisca l’orizzonte della nostra vita. La proclamazione dei santi, come viene descritta nel brano dell’Apocalisse, non si riferisce a un futuro dopo la storia, ma esprime la verità della nostra storia, verità che non passerà e riempirà tutto del suo splendore. Ma quello splendore costituisce già il senso della nostra storia, anche se spesso i nostri occhi sono così velati da non accorgersene più. Sarebbe il senso della preghiera: renderci accorti di quella verità.

La lettura della prima lettera di Giovanni parla di noi come dei ‘figli di Dio’, di cui il brano di vangelo, con le beatitudini, mostra la dinamica profonda di vita. Dice Paolo in Rm 8,14: “tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio”. Se ci chiediamo verso dove ci guida lo Spirito di Dio, non possiamo che rispondere: al Figlio di Dio, il quale ci ha riconciliato con Dio (cf. 2Cor 5,18; Ef 4,32). La santità parla di quel mistero di riconciliazione in atto nella storia, nella carne della propria vita, perché risplenda per tutti la possibilità della visione dell’amore di Dio per l’uomo.

È assolutamente significativo il fatto che la visione dei santi descritta dall’Apocalisse sia commentata dal salmo 23 (24). La liturgia sfrutta solo la prima parte del salmo, quella in cui la santità è descritta come vittoria sulla menzogna, come innocenza di mani e di cuori. Ma il salmo continua con l’intronizzazione del re che entra glorioso per regnare. I Padri si servono di questo salmo per illustrare il mistero dell’ascensione di Gesù e s. Ambrogio ha un commento straordinario: “… era come se le porte del cielo, che l’avevano visto uscire, non fossero più abbastanza grandi per riaccoglierlo. Non erano mai state a misura della sua grandezza, ma per il suo ingresso di vincitore occorreva una via più trionfale: davvero non aveva perso nulla ad annientarsi! Le porte eterne rimangono, ma si alzano: non è un uomo che entra, è il mondo intero, nella persona del Redentore di tutti” (De vera fide, 4,1). Quel “non aveva perso nulla ad annientarsi” rivela lo splendore di amore del Figlio nel suo lasciare ogni gloria per fare spazio solo alla gloria dell’amore, amore che costituisce la tessitura di santità anche per la nostra umanità.

È caratteristico che l’antifona alla comunione, riprendendo la serie delle otto beatitudini proclamate nel vangelo, le riduca a tre: puri di cuore, operatori di pace, perseguitati a causa della giustizia. La purità di cuore capace di vedere Dio è quella che scaturisce dall’esperienza della compassione, della misericordia, così tipica della santità di un cuore che consola e conforta, che accoglie in benevolenza e solidarietà, che rimanda a tutti quello che lui stesso riceve, cioè il perdono rigenerante del suo Signore, che viene così conosciuto come il Salvatore, come l’Amore che ti sottrae all’abisso. La purità però, intrisa di gioia, è solo quella che si traduce in un agire che porta pace a tutti, che rende capaci i cuori di pace, che si fa dono di pace, capace di far grazia di sé come il Figlio di Dio che fa dono di sé perché l’amore di Dio risplenda. E la pace donata è a prova di persecuzione, perché niente è più caro al cuore di colui che gli ha restituito la dignità di uomo e di figlio di Dio. L’amore a prova di persecuzione procede dal fatto di sentire la mia dignità sullo stesso piano della dignità di tutti. Dire che di questi è il regno di Dio significa proclamare che il cuore dell’uomo non può saziarsi che della verità di quell’amore che giunge sanante e potente, sebbene ora si sia sempre nell’occasione di perderlo di vista, di impedirci di goderlo, di impedire agli altri di farne esperienza. Eppure, così proclama tutta la liturgia di oggi, quella verità è la verità del mondo come dei cuori. È la verità di felicità per il cuore dell’uomo, che intravede nelle beatitudini evangeliche le coordinate precise per non fallirla.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo Ordinario

XXXI Domenica

(5 novembre 2023)

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Ml 1,14b-2,2b.8-10;  Sal 130 (131);  1Ts 2,7b-9.13;  Mt 23,1-12

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Il brano di vangelo di oggi si inserisce nello scontro tra Gesù e i dirigenti della nazione. I farisei e i capi si sono ritirati a complottare, Gesù nemmeno più parla a loro direttamente; si rivolge alle folle, che ancora per un po’ lo seguono e ai discepoli. Le parole di Gesù sono una perorazione per una devozione sincera, per un discepolato autentico.

La forza delle sue parole deriva da un mistero profondo, che appena si intravede, ma comanda tutto il brano: “Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli” (Mt 23,8). L’allusione è all’evento che Gesù rappresenta nella storia della salvezza: Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio, Colui nel quale risplende tutto l’amore e la gloria di Dio. Proprio come dice il profeta: “tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato” (Ger 31,34). Sarà in quel Figlio, dato per noi, che i peccati ci sono perdonati ed è per questo che, essendo tutti perdonati allo stesso titolo, siamo tutti figli allo stesso titolo, fratelli allo stesso titolo. L’esperienza di tutti è la medesima e tutti la impariamo dall’unico Maestro, perciò noi godiamo tutti della stessa dignità, siamo tutti fratelli.

Le parole di Gesù non sono invettive di un riformatore, come leggiamo nel profeta Malachia: “Se non mi ascolterete e non vi darete premura di dare gloria al mio nome, dice il Signore degli eserciti, manderò su voi la maledizione” (Ml 2,2). Il profeta parla ai sacerdoti e ai leviti, ai quali è affidato l’annuncio e la custodia dell’alleanza di Dio per il popolo. Potremmo rendere così il pensiero del profeta: se non fate splendere il suo amore per i suoi figli, liberi da ogni forma di violenza e rivalità, per attirare tutti all’amore del Signore, resterete nei vostri peccati, che vi opprimeranno. Si può, sì, sacrificare a Dio (= offrire una pratica pia) ma guai a presentare un’offerta ingiusta. L’offerta è ingiusta in tre casi: quando ci si attiene a un atto esteriore, allorché l’offerta non è accompagnata dalla conversione del cuore; quando si offre ciò che si è rapinato; quando si dà ciò che si scarta (cfr. Sir. 35). Con queste disposizioni, come accogliere con simpatia e benevolenza i propri fratelli, figli dello stesso Padre?

L’esempio è dato da san Paolo, il quale svela la condizione per cui l’annuncio del vangelo risulterà fecondo di vita. La sua affermazione è potente: “Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari” (1Ts 2,8). La domanda di un discepolo di Gesù, che voglia annunciare al mondo la grazia del vangelo, non può essere che questa: può una persona accogliere da me l’annuncio del vangelo, se non sente che mi è diventata cara? Da notare che la frase in greco è assai più ‘affettuosa’ della traduzione italiana. Parla di un affetto intenso e di una predilezione goduta. Così la condizione è che si annunci la parola, verso i quali è destinata, per amore, con lo stesso amore con il quale è stata pronunciata. Questo atteggiamento permette di cogliere la parola oltre colui che la riferisce e diventa invito a ricevere la rivelazione del volto di Dio.

Il salmo responsoriale fa rimarcare da dove scaturisce il fatto di non aver bisogno di cercare gloria presso gli uomini. Come ci si dicesse: non c’è alcun motivo di affidarci all’ingiustizia per esaltarci, affannandoci a cercare grandezza e importanza presso gli uomini, se l’anima può riposarsi come un bambino nel suo Dio, che ha misericordia di noi. Si rinuncia a guardare in modo superbo e concupiscente quando si può stare presso il proprio Dio, come un bambino che ha preso il latte e dorme beato fra le braccia della mamma o come un bambino svezzato che sta appoggiato ai seni della mamma solo per goderne la tenerezza. Così, non attribuirsi gloria né cercarla presso alcuno è la conseguenza dell’incontro con Colui che solo è il Maestro, la Guida all’unico Padre di tutti.

Gesù si presenta al mondo, nella sua unicità per il compito messianico di cui è investito, quale ‘Esegeta’ e ‘Guida’ (il termine greco significa formatore, istruttore, precettore, nel senso di guidare in un cammino di vita) all’intima conoscenza del Padre. Gesù riconosce l’ordine di Dio nel ministero di Mosè, come lo riconosce nel ministero della Chiesa. Ma l’uno e l’altro sono finalizzati alla gloria di Dio, che nulla ha a che spartire con la gloria ricercata presso gli uomini. Lui ricerca la gloria di Dio perché fa quel che dice e dice quel che fa, perché conosce quello che fa e fa quello che conosce (cfr. Gv 5,18-23), secondo l’affermazione del prologo di Giovanni; “Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,17-18).

Quando Gesù si proclama unico Maestro e Guida è ormai prossimo alla sua passione. In lui si realizzerà quello che in precedenza aveva proclamato: “Venite a me … e io vi darò ristoro” (cfr. Mt 11,28). Sarà riferendosi proprio a questo Maestro, nella stessa dinamica che vive questo Maestro, che i suoi discepoli potranno insegnare o, meglio, annunziare il suo insegnamento. Non ci può essere, per gli uomini, alcun maestro in proprio e se gli uomini accettano un maestro del genere ne patiranno le conseguenze, perché si troveranno impediti nella conoscenza della verità e non potranno più sentirsi tutti fratelli. L’illusione dell’ideologia, che può essere definita come una devozione fasulla, nasce proprio dal fatto che, per imporsi, dovrà dividere gli uomini. Il segno invece della devozione sincera, del collegamento all’unico Maestro di tutti, è dato dal fatto di farmi servo di tutti allo scopo di non dividermi da nessuno. Si innalza chi prende le distanze e Dio prenderà le distanze da lui perché possa imparare a non dividere i suoi figli (cfr. antifona di ingresso: “Non abbandonarmi, Signore, mio Dio, da me non stare lontano; vieni presto in mio aiuto, Signore, mia salvezza”). Ma chi non si divide da nessuno è abitato da Dio, opera con lo Spirito di Dio, risplende della sua gloria tanto che non ha più alcun bisogno di cercarla presso gli uomini. La sua devozione è sincera. È il senso della firma al nostro brano: “Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato”.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo Ordinario

XXXII Domenica

(12 novembre 2023)

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Sap 6,12-16;  Sal 62 (63);  1 Ts 4,13-18;  Mt 25,1-13

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L’anno liturgico volge al termine e in queste ultime tre domeniche vengono proclamate le tre parabole del cap. 25 di Matteo: la parabola delle dieci vergini, oggi, quelle dei talenti e del giudizio finale nelle prossime domeniche. Tre immagini di Dio: quella dello sposo, del padrone e del giudice, a fronte della vita dell’uomo che si gioca nella profondità dei desideri, nell’esercizio di una responsabilità e nella maturità di un frutto che diventa criterio di discernimento dell’autenticità di una vita ben spesa.

L’atteggiamento di fondo più eloquente per cogliere il senso profondo della parabola delle dieci vergini è descritto dal salmo responsoriale: “Ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne […] il tuo amore vale più della vita”. La vita non è che la tensione al compimento di quello struggente desiderio. Se la parabola invita alla vigilanza è perché l’anima può perdersi dietro illusioni fascinose ma inconsistenti. La Sapienza, nella prima lettura, proclama che facilmente è contemplata da chi l’ama. Il che significa che la sapienza è connaturale al cuore dell’uomo, creato per godere di Dio. E se l’uomo deve constatare che nel concreto non è per nulla facile trovare la sapienza, a dispetto di quanto dice il libro della Sapienza, ciò significa che il desiderio di lei, la vigilanza sul desiderio di lei è venuta meno. Questo la parabola vuole scongiurare.

Il contesto della possibile illusione è dato dal fatto che il Signore tarda, come già aveva mostrato Matteo con la parabola dei servi che aspettano il ritorno del loro padrone (cfr. Mt 24,45-51). Il regno di Dio non è immediato né evidente. Non riusciamo più a cogliere l’immagine straordinaria del padrone che si mette a servire i suoi servi (cfr. Lc 12,37); è la descrizione di Dio a servizio dell’uomo, servizio che in Gesù acquista tutto il suo splendore. La vita nostra non è che attesa del Signore nel senso di poter godere insieme del suo servizio che costantemente invita tutti alla sua tavola. Noi non siamo più capaci di vedere la vita in questo modo e così riusciamo anche a fare il nostro dovere, ma senza aprirci al bene che fa splendere l’amore. La parabola, con l’olio per le lampade, allude proprio a questo: un vivere la comunione con il Signore, che ci ha amati e che continuamente ci cerca, nella condivisione dei sentimenti Suoi verso i suoi figli, in solidarietà con l’umanità di tutti. L’immagine delle nozze ne sottolinea l’intensità e l’intimità. Quello che nel linguaggio quotidiano esprimiamo con: sto proprio bene con te!

Suona strano che nella parabola si parli di nozze senza parlare della sposa, perché sono nozze speciali, le nozze del Figlio dell’Uomo: con Lui l’umanità è ormai unita a Dio. È l’evento più gioioso della storia che sbocca nella condivisione della gioia di Dio stabilmente goduta nel suo regno, segno di quell’amore che ci ha raggiunti e lievitati dal di dentro. Per questo la vita non può essere che un uscire incontro a. Le vergini escono incontro allo sposo, come Abramo esce dalla sua terra, come Israele esce dall’Egitto. È la vocazione della vita da viversi come un continuo uscire da per andare incontro a. Ciò significa che la vita non la si possiede, ma la si riceve, continuamente. Ciò comporta la fatica di separarsi da qualcosa per poter godere l’avventura sacra della vita.

L’immagine dello sposo e delle vergini allude al mistero di intimità tra Dio e l’uomo, unico motivo di storia seria per l’anima alle prese con i suoi desideri. La divisione in due gruppi delle vergini allude alla doppia possibilità concessa all’anima: a tale incontro ci si può predisporre con intelligenza o con stoltezza, in modo conveniente o in modo sbadato. Matteo aveva già parlato di questa doppia possibilità a proposito di chi costruisce la sua casa sulla roccia o sulla sabbia (cfr. Mt 7,24-27).

La parabola è raccontata come immagine di ciò che avverrà alla fine ma per mostrare ciò che avviene quotidianamente nella nostra storia terrena in rapporto al desiderio del cuore di godere pienezza perché è nella storia terrena che noi giochiamo il desiderio del cielo. Non per nulla la punta della parabola è proprio la vigilanza, vale a dire quell’attenzione del cuore a far convergere sul vero obiettivo i desideri del cuore perché possano trovare pienezza. L’ammonizione finale invita a stare pronti, da intendersi secondo l’immagine di predisporre le lampade con l’olio, immagine che corrisponde all’altro invito di Gesù a far splendere le nostre opere buone. Non semplicemente però nel fare le opere buone, ma nel far sì che le nostre opere facciano splendere l’amore di Dio per il mondo, che in Gesù, Sposo, si svela in tutta la sua bellezza. L’olio corrisponde a quell’amore fraterno, frutto dell’agire dello Spirito e nello Spirito, che san Paolo descrive nell’inno alla carità in 1Cor 13. Potremmo fregiarci di altre grandezze o altri vanti rispetto agli uomini, ma davanti a Dio non conterebbero nulla e ci farebbero restare con le lampade spente, con il cuore vuoto.

Come molto significativamente spiega Gregorio di Nissa che paragona le vergini stolte alla pratica virtuosa che non porta i frutti dello Spirito enumerati dall’apostolo in Gal 5,22-23:  « […] nelle loro anime non c’era la luce, frutto della virtù, e nel loro pensiero non c’era il lume dello Spirito. Giustamente quindi la Scrittura le ha chiamate stolte: in loro la virtù si era spenta prima ancora che giungesse lo Sposo, e per questo lo Sposo tenne fuori le misere dalla camera nuziale celeste; fece bene a non prendere in considerazione il loro impegno nella verginità, giacché non si faceva sentire in loro l’attività dello Spirito».

In primo piano dunque non è l’impegno di una vita buona, ma il frutto di quell’impegno, che corrisponde ai desideri del cuore, vale a dire la solidarietà con lo Spirito del Signore, la possibilità di intimità con il Signore che per primo ci ha amati e nel cui Volto il cuore desidera fissare gli sguardi. Come dice s. Francesco di Assisi: “Avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”. Se l’attesa è questa, tutta la vita sarà giocata nella vigilanza a che nulla e nessuno possa impedire quello sguardo, a che nulla e nessuno possa separarci da quell’amore, nonostante i sonni e gli addormentamenti che inevitabilmente ci sorprenderanno.

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Tempo Ordinario

XXXIII Domenica

(19 novembre 2023)

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Prv 31,10-13.19-20.30-31;  Sal 127 (128);  1Ts 5,1-6;  Mt 25,14-30

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Tutte le parabole parlano di Dio o del Signore Gesù più che dell’uomo. Anche nella parabola dei talenti, in primo piano non è la risposta dei servi ma la liberalità del padrone che affida i suoi beni e fa entrare nella sua gioia. La parabola non allude semplicemente ai doni naturali, alle qualità umane di cui ciascuno, venendo al mondo, è dotato, pur chiamato a trafficarli per realizzare la sua vocazione all’umanità. La parabola risponde alla domanda: come la fede in Gesù ha trasformato la mia vita? La conoscenza di lui ha fatto lievitare la mia umanità in modo da viverla conforme a quella di Gesù? La parabola presenta la vita come un esercizio di responsabilità nella fede del Signore Gesù. Ora, cosa è in gioco nella nostra operosità? In che cosa siamo servi? Servi per che cosa?

Il padrone, che parte per un lungo viaggio, è lo stesso Signore Gesù che, con la sua morte-risurrezione-ascensione lascia i suoi discepoli e affida loro i suoi beni, ciò che di più prezioso ha: i misteri del Regno. Il padrone è lo stesso personaggio del buon Samaritano che accudisce l’uomo colpito dai briganti, è il maestro che serve, è il padrone che vuole far entrare a tutti i costi quanti più può nella sala del banchetto nuziale, ecc. Il Signore Gesù non solo lascia ai suoi la testimonianza più luminosa dell’amore di Dio per l’uomo, ma infonde in loro la stessa capacità di vivere di quell’amore, come lui stesso è vissuto, nella potenza dello Spirito che ci ha lasciato in eredità. In quell’amore, nella luce di quell’amore il discepolo gioca la sua vita.

Trafficare i talenti significa accoglierli come fonte di vita, esaltarne la potenza di vita che racchiudono, tradurli in vita concreta finché tutto di me sia conquistato. La potenza di vita si risolve nel compimento dell’amore, di quell’amore che è tanto più vivo e sincero quanto meno è alla ricerca di una ricompensa, quanto più semplicemente è solidale con tutti. E ancora, i talenti sono in funzione della gioia del cuore, nostro e degli altri, nel senso che ogni volta che, sulla base della fede si gioca la propria vita, la promessa di Dio si compie e Dio appare più conosciuto nel suo splendore. È un movimento continuamente in azione, mai concluso, che sempre richiede la fedeltà di uno sguardo limpido e di un cuore sincero. Anche di questa gioia siamo i servi, come di sé dice l’apostolo: “siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2Cor 1,24), dal momento che siamo stati resi figli della luce e figli del giorno (1Ts 5,5). Collaborare alla gioia non significa ipotizzare un mondo idilliaco, che non sarà mai, ma contribuire a renderlo più vivibile, luogo dove può ancora risplendere la presenza del Signore, seppur nascosto.

I talenti sono dati diversamente a ciascuno, perché ciascuno fa un’esperienza particolare di quell’amore sia nel senso di sperimentarne la grandezza come dono ricevuto sia nel senso di misurare con esso tutta la propria vita. Ma al Signore non fa dispiacere tale diversità: lui stesso ne tiene conto. Difatti, quando il padrone loda i due servi che hanno trafficato i loro talenti, non fa alcuna differenza quanto alla ricompensa: è sempre la stessa, vale a dire prendi parte alla gioia del tuo padrone (più letteralmente: entra nella gioia del tuo padrone). È la stessa liberalità, così mal compresa da noi uomini, che vuole dare all’operaio dell’ultima ora quello che aveva promesso all’operaio della prima ora. Noi proiettiamo i nostri desideri di giustizia su Dio invece di accogliere il suo amore che dilata la giustizia fino alla condivisione piena della gioia comune. Così all’uomo non resta che accogliere in pace la differenza perché ciò che accomuna davanti a Dio è il fatto che ciascuno possa dare quello che ha, cioè se stesso. E quando dà se stesso entra nella gioia del suo padrone, condividendo con Lui e con tutti la stessa gioia, che è la gioia dell’amore.

La ‘responsabilità’ del dare se stessi è esercitata di fronte a Colui che per noi ha dato se stesso, ma l’esercizio di tale responsabilità è volto direttamente verso i fratelli per i quali, come per noi, il Signore ha dato se stesso. Così, per cogliere la natura del trafficare i talenti, bisogna rivolgersi alla parabola di domenica prossima, quella sul giudizio finale, allorquando il Signore Gesù dirà a ciascuno: ‘avevo fame e mi hai dato da mangiare …’. La vita si gioca nel dare amore e scoprirsi figli dello stesso Padre. Quando l’uomo teme di dare se stesso, come nel caso del servo cattivo, in gioco non è semplicemente la sua pigrizia verso gli altri uomini, ma il fallimento della vita perché dietro la sua pigrizia sta il cattivo giudizio sul padrone, come ritenesse il padrone causa della sua paura perché troppo esigente. Ma così ragionando non fa che proclamare che lui non ha mai creduto alla generosità del suo padrone, non ha mai sperimentato l’amore del Signore e soprattutto che rifiuta di vedere nell’agire del padrone l’amore per i suoi servi. E così la vita non assurge mai a quel livello di dignità che la rende desiderabile, feconda e fruttuosa. Il servo che ha nascosto il talento è colui che non vuol seguire la dinamica della fede, ne svigorisce la potenza e chiude agli uomini la possibilità di cogliere, almeno per la parte di cui è responsabile, lo splendore dell’amore di Dio. Non è più buono a nulla ed è malvagio perché impedisce a Dio di essere conosciuto dai suoi figli!

La parabola suggerisce anche qualcosa d’altro. Quando l’uomo, che ha ricevuto i misteri del Regno dal Signore Gesù, li sperimenta nell’amore agli uomini suoi fratelli, diventa solidale con il Padre, il quale ci serve nel Figlio che ha inviato per noi. Servendo, nell’amore, l’umanità di tutti, non facciamo che esercitare quel servizio divino che ridà dignità all’uomo e rende la vita davvero desiderabile. L’insidia maggiore a questo sogno di Dio è la nostra paura, la paura che Dio sia così esigente con noi da toglierci ogni illusione di riuscire a compierlo. Non solo, ma la paura ci impedisce di condividere la gioia del Signore. Quando Gesù, nell’ultima cena, affida ai discepoli i suoi segreti e li invita a rimanere nel suo amore rivela che lo scopo del suo agire è la condivisione della sua gioia (Cfr. Gv 15). E ci può essere gioia nel Signore senza l’amore per i fratelli per i quali sono svelati i suoi segreti?

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Ottavo ciclo

Anno liturgico A (2022-2023)

Solennità e feste

XXXIV Domenica – Cristo Re

(26 novembre 2023)

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Ez 34,11-12.15-17;  Sal 22 (23);  1Cor 15,20-26.28;  Mt 25,31-46

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Di fronte a questa descrizione profetica, la nostra mente, purtroppo, corre verso il futuro immaginando la scena di ciò che avverrà invece che aprirsi alla rivelazione che la descrizione di quella scena comporta.

La stessa collocazione del brano, nella struttura della narrazione di Matteo, fornisce una luce tutta speciale per la sua comprensione. Alla parabola segue immediatamente il racconto della passione di Gesù. Quel Gesù, di cui si comincia a raccontare la passione e la morte in croce, è lo stesso Figlio dell’uomo che siederà glorioso a giudicare le genti. Stessa cosa sottolinea la liturgia, che si introduce con la visione dell’Agnello immolato e glorioso (cf. Ap 5,12; 1,6), canta la figura del buon pastore con il salmo 22 a commento del brano di Ez 34, ripete con il canto al vangelo l’osanna della folla che vede la venuta di Gesù a Gerusalemme come il presagio del Regno di Dio che viene (cf. Mc 11,9-10).

Una doppia rivelazione cela il brano. La prima, quella che dà il nome alla stessa festa odierna, si riferisce al fatto che quel Gesù, che è vissuto, ha patito, è morto e risorto per noi, è proprio il Figlio di Dio: il suo essere Dio risplenderà in tutta evidenza, per tutti, per sempre e in ragione del fatto che è Dio per noi. La nostra immaginazione si ingannerebbe, però, se interpretasse la gloria che circonda il Figlio dell’uomo come la manifestazione della potenza divina, come se l’apparizione diretta di Dio rendesse tutti ammutoliti e soggiogati. La scena suggerisce altro.

La seconda rivelazione consiste nel fatto che il re, che esprime la sua signoria con un giudizio inappellabile, svela la ragione misteriosa del suo giudicare. Manifesterà il segreto sul quale si regge il mondo e che ne costituisce la dignità assoluta: Dio ha voluto farsi solidale con l’umanità a tal punto che chi tocca l’uomo tocca Dio, chi onora l’uomo onora Dio, chi disprezza l’uomo disprezza Dio. Tale segreto rifulge nella vita del Figlio dell’uomo, perché è Lui che appare davanti agli occhi di Dio in ogni uomo. In un baleno apparirà tutta la verità dell’uomo e, contemporaneamente, tutta la gloria di Dio, che è gloria di amore per noi.

Se tratteniamo il respiro e tendiamo l’orecchio a cogliere le risonanze dello straordinario invito del re: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo”, possiamo percepirne le infinite sfumature, tutte particolarmente eloquenti per il nostro cuore. Il tono con cui la frase è pronunciata è il tono di tutte le Scritture: che il desiderio di Dio si incontri con quello dell’uomo e si possa gioire insieme. L’atto del separare le pecore dalle capre riprende l’atto della creazione come compiendola; il ‘Venite’ riprende il desiderio dello sposo e della sposa del Cantico dei Cantici, l’anelito dello Spirito e della Sposa alla fine dell’Apocalisse, l’invito di Gesù ai suoi discepoli; ‘benedetti del Padre’ riprende la volontà di benevolenza di Dio per l’uomo di cui Gesù è il Testimone per eccellenza, l’elezione di Israele come un mistero di intimità condiviso e esteso a tutte le genti; ‘ricevete in eredità il regno’ equivale alla stessa eredità del Figlio (ciò che Gesù vive ci appartiene e ci costituisce) e allo stesso Figlio, che è costituito nostra eredità; ‘preparato per voi’ corrisponde alla gioia per la quale Dio si è dato premura, ha creato il mondo e l’uomo perché godesse il Suo amore; ‘fin dalla creazione del mondo’: da sempre, non esiste altro segreto, altra promessa che interessi seriamente il cuore dell’uomo.

Una tale pienezza non può derivare dall’uomo. Per questo i buoni non se ne sentono in diritto, si schermiscono, semplicemente sono stati solidali con i loro fratelli: quando mai abbiamo fatto questo e quest’altro proprio a te? Proprio tale indegnità rivelerà la purità di cuore alla quale è stata promessa la visione di Dio, perché la visione di Dio è la visione di un amore per noi sconfinato, di cui nessuno può sentirsi degno. All’opposto, i malvagi, che risponderanno con lo stesso interrogativo dei buoni al re, non intenderanno schermirsi, ma giustificarsi e proprio questo rivela la non disponibilità all’amore.

Il racconto evangelico vuole introdurre al segreto di Dio per il mondo. Forse possiamo anche capirlo, ma come siamo lontani dal viverne la potenza e lo splendore!  Non esiste però altra norma del bene, altro segreto di felicità: chi vive solidale con l’umanità di tutti è arrivato al segreto di Dio, in attesa di goderne la sovrabbondanza di grazia perché quel segreto inondi e sommerga ogni altro sentire, ogni altro giudizio, ogni altro pensiero, in noi stessi e in tutti, nel mondo intero. San Paolo direbbe, cogliendone la linea di sviluppo: ‘finché Dio sia tutto in tutti’.

Aggiungo anche una suggestione particolarissima di Origene. L’immagine delle pecore richiama il mistero della passione di Gesù che, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori (Is 53,7), manifesta il mistero della sua mansuetudine che lui stesso rivela: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita” (Mt 11,28-29). La bontà consiste nella partecipazione alla sua mansuetudine tanto da restare solidali con la debolezza degli uomini e in questa solidarietà ciò che Dio vede è la mansuetudine del suo Figlio. Un versetto di un salmo canta: “Beato l’uomo che ha cura del debole, nel giorno della sventura il Signore lo libera”, che l’antica versione greca rende con: “Beato colui che ha intelligenza del povero e del misero …”. Il debole non è semplicemente il fratello bisognoso, straniero, malato, carcerato, ma è proprio il Figlio dell’uomo, che ha sacrificato la sua vita per invitare tutti e ciascuno alla comunione con lui, che non abbandona pur quando è abbandonato, che non si rifiuta pur quando è rifiutato.

Così la parabola ha a che fare con la rivelazione della dignità degli atti umani, definiti in rapporto alla prossimità in umanità, di cui l’uomo non coglie mai veramente la portata infinita, perché non può mai cogliere fino in fondo la profondità e l’assolutezza del mistero dell’amore di Dio che si confonde con i suoi figli, mistero che porta il sigillo del Figlio dell’uomo, morto e risorto per noi.

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