Ottavo ciclo
Anno liturgico A (2022-2023)
Tempo di Avvento
I Domenica
(27 novembre 2022)
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Is 2,1-5; Sal 121 (122); Rm 13,11-14a; Mt 24,37-44
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Nell’ultima settimana dell’anno liturgico, la trentaquattresima, la chiesa ci ha accompagnati con questa antifona alla comunione: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo” – sono le ultime parole del vangelo di Matteo – e con la preghiera dopo la comunione: “O Dio, che in questi santi misteri ci hai dato la gioia di unirci alla tua stessa vita, non permettere che ci separiamo mai da te, fonte di ogni bene”.
Con l’inizio del nuovo anno liturgico, l’Avvento, quando la Chiesa ci invita alla vigilanza, allude alla capacità del cuore e dell’intelligenza di percepire proprio la ‘presenza’ del Signore Gesù che tutto attira a sé e al suo regno per consegnarlo nelle mani del Padre. Avvento non significa primariamente attesa, ma presenza. Il periodo liturgico dell’Avvento non è un’attesa della nascita di Gesù a Betlemme, ma la tensione a una capacità di sensazione, di intuizione cordiale della compagnia di Gesù che opera continuamente perché il suo regno conquisti i cuori e la storia. E se di attesa si parla, si tratta dell’attesa della manifestazione del Signore Gesù al nostro cuore.
Il profeta Isaia rivela la presenza nella storia di un movimento opposto a quello della torre di Babele, allorquando le genti si sono disperse sulla terra senza più comprendersi. La visione del profeta rivela che le genti tornano a riunirsi, verso l’alto. È la forza della parola del Signore che muove all’unità elevando. Si tratta della verità espressa dalla colletta: “O Dio, Padre misericordioso, che per riunire i popoli nel tuo regno hai inviato il tuo Figlio unigenito, maestro di verità e fonte di riconciliazione, risveglia in noi uno spirito vigilante, perché camminiamo sulle tue vie di libertà e di amore fino a contemplarti nell’eterna gloria”. Ecco descritto il movimento tipico della rivelazione: verità per la riconciliazione, verità in vista della riconciliazione. Gesù è inviato per mostrare al mondo la grandezza dell’amore del Padre e per riunire i figli di Dio dispersi. La verità riguarda la testimonianza di un amore, la riconciliazione lo scopo di quella testimonianza. Non è però un movimento troppo visibile; è necessaria una buona vigilanza, un’attenzione che non venga mai meno, che sia tesa a scoprire e favorire quel movimento, liberi dalle cose e dai desideri contrari, pieni di amore per non subire il fascino mortificante di una concentrazione su di sé.
Per questo s. Paolo ci esorta alla vigilanza scuotendoci dal sonno e invitandoci ad affrontare la vita rivestendoci dell’umanità di Gesù che ha vissuto in pienezza quel movimento di verità e riconciliazione, che ci fa intimi del Padre e solidali tra di noi. La vigilanza a cui ci invita la liturgia è così finalizzata ad uno scopo preciso: essere in condizione di realizzare la vocazione all’umanità che il Signore Gesù vive nel suo splendore originario. Paolo dichiara: “Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo”, per vivere la storia nella benevolenza, senza paure, tanto da essere addirittura custoditi da una armatura di luce: “indossiamo le armi della luce”. Luce, che consiste nell’assumere il principio della riconciliazione come unico fondamento dell’agire. Si esercita vigilanza nello spirito quando ci si sforza di radicarci sempre più autenticamente, sempre più profondamente, sempre più concretamente, in quella riconciliazione di cui Dio ci ha fatto dono, in Cristo, in modo da estenderla a tutto in noi e a tutti dovunque. La vigilanza ha senso nello stare fermi in quell’unico punto: se Dio ha fatto grazia di Sé a noi, allora anche noi possiamo fare grazia di noi a tutti. E così il mondo tornerà a risplendere, perché ognuno potrà sperimentare quello che dice il salmo: “il Signore si confida con chi lo teme: gli fa conoscere la sua alleanza” (Sal 24,14), da intendere, come del resto suggerisce lo stesso testo ebraico del versetto: il segreto (o l’intimità) del Signore, cioè la sua offerta di benevolenza nel dono di Sé che ci fa, vale per chi ne fa il punto fermo della sua vita e ha posto tutta l’attesa del suo cuore nel condividerne la gioia con tutti.
L’avvertimento di Gesù ai suoi discepoli: “Vegliate dunque” riguarda la tensione del cuore, come dicesse: non fate come al tempo di Noè quando, nonostante fosse avvertita, la gente non si avvide di nulla; scopritela, avvertitela, viveteci dentro, fatevene la ragione del vivere. E quando aggiunge ‘tenetevi pronti’ l’allusione evidente, come del resto suggeriscono le parabole del padrone che torna dalle nozze, è al servizio vicendevole perché tutti possano vedere lo splendore del regno e la manifestazione del suo amore. L’avvertimento contiene questa sfumatura, come ne dà testimonianza una mistica del sec. XIII, Hadewijch di Anversa: “Chi vorrà alleggerire la pena [l’inquietudine di non amare mai abbastanza] dovrà mettere tutto il suo cuore ad essere costantemente fedele in ogni circostanza. Soffrirà volentieri ogni pena per l’Amore … preferirà pazientare al di là delle sue forze perché non manchi nemmeno una virgola a ciò che è dovuto all’Amore”. In altre parole, il vegliare e il tenersi pronti riguarda la manifestazione del Signore nel suo amore per noi e nel nostro amore per i fratelli in ogni circostanza, in ogni dettaglio della vita.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico A (2022-2023)
Tempo di Avvento
II Domenica
(4 dicembre 2022)
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Is 11,1-10; Sal 71 (72); Rm 15,4-9; Mt 3,1-12
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Lungo tutta la settimana abbiamo pregato: “Mostra la tua potenza e vieni, Signore”. E abbiamo fatto memoria del fatto che nel Figlio il Padre ha rivelato agli uomini la sua gloria. Ora, di che potenza e gloria si tratta? Il profeta Isaia ci ha accompagnato per entrare nella speranza della promessa del Signore: “la gloria del Signore sarà sopra ogni cosa come protezione”; “ecco il nostro Dio; in lui abbiamo sperato perché ci salvasse”; “udranno in quel giorno i sordi le parole del libro; liberati dall’oscurità e dalle tenebre, gli occhi dei ciechi vedranno”; “a un tuo grido di supplica il Signore ti farà grazia; appena udrà, ti darà risposta”. Sono le esortazioni risuonate lungo tutta la settimana. Per quale contesto, per quale visione?
Il brano profetico odierno la prospetta così: “la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare”. E per questo tutto sarà in armonia, non ci saranno più opposizioni e violenze, né ingiustizie e oppressioni. Ma a quale condizione? Ce lo ricorda il Battista che apostrofa i farisei accorsi per farsi battezzare (più avanti nel vangelo Gesù rimprovererà i farisei di non aver creduto alla predicazione di Giovanni Battista e di essere rimasti alla finestra, senza farsi coinvolgere e pentirsi): “Fate dunque un frutto degno della conversione”. Non basterà rivendicare la discendenza da Abramo, non servirà gran che millantare una propria giustizia, non ci si potrà più riparare dietro pratiche esteriori senza che il cuore ne sia toccato: fate un frutto degno della conversione.
E se la fatica o il timore dell’impegno prospettato rende recalcitranti, interviene s. Paolo a ricordare che il Dio della perseveranza è ugualmente il Dio della consolazione. Perseveranza allude ad una generosa pazienza che dura nel tempo e consolazione alla gioia ritrovata che ci dà il senso del cammino, nel ritorno sempre più sincero e autentico all’alleanza col nostro Dio. Io interpreterei così: il Dio della nostra afflizione (l’asprezza e la fatica del cammino) diventi il Dio della nostra consolazione (il compimento e il godimento di una relazione affettuosa).
È il senso delle parole che Pietro rivolge ai fedeli ricordando gli anni del suo ministero di evangelizzatore: “Infatti, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo …” (2Pt 1,16). Credo sia l’unica volta, nelle esortazioni apostoliche, in cui ‘la venuta’ del Cristo è riferita al passato e non al futuro. L’Avvento ci predispone a percepire la potenza di salvezza, cioè la possibilità di vivere la nostra umanità, nello splendore di un cuore purificato, in giustizia-mitezza-pace, che, se, da una parte, esprimono l’esperienza dell’incontro col Signore, dall’altra, strutturano lo spazio interiore per l’incontro con gli uomini. Come san Paolo prega: “…vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti, sull’esempio di Cristo Gesù”. Si realizza in modo nuovo l’avvertimento dei profeti alla conversione come ritorno incondizionato all’alleanza col nostro Dio. Sarà appunto il dono per l’umanità del Natale di Gesù.
Sostando più direttamente sul brano evangelico si possono notare tre termini carichi di allusioni: deserto, forza, conversione. Il Battista predica nel deserto della Giudea. È lo stesso territorio dove, all’epoca dei Maccabei, la gente che era rimasta fedele al Signore si ritira e dove sono stati rinvenuti i cosiddetti manoscritti del Mar Morto. Narra il libro dei Maccabei: “Allora molti che ricercavano la giustizia e il diritto scesero nel deserto per stabilirvisi” (1Mac 2,29). Viene applicata al Battista la profezia di Isaia che annunciava la liberazione del popolo: “Una voce grida: Nel deserto preparate la via al Signore” (Is 40,3).
Nel presentare colui che verrà dopo di lui, il Battista lo definisce ‘più forte di me’. Viene applicato al Messia, a Gesù, la qualifica tipica di Dio nell’Antico Testamento: il Forte. Per fare qualche esempio: “Dio grande, forte e terribile” (Dt 10,17); “Tornerà il resto, il resto di Giacobbe, al Dio forte” (Is 10,21); “Tu sei un Dio grande e forte” (Ger 32,18). Ora, dove si manifesterà la forza del Messia? Nel perdono dei peccati, nell’ottenerci il perdono dei peccati e la comunione alla stessa vita di Dio. Quando il profeta Geremia descriverà il compimento della nuova alleanza, non potrà che indicare la stessa cosa: “Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: “Conoscete il Signore”, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato” (Ger 31,33-34). Tutti mi conosceranno, perché tutti potranno accogliere il perdono del Signore e si ritroveranno uniti nella misericordia del Signore che tutti accomuna.
L’invito, forte, del Battista alla conversione, ha proprio a che fare con la ritrovata possibilità di questa ‘conoscenza’ del Signore. Nel linguaggio dei profeti la conoscenza del Signore segue la distruzione delle false sicurezze, delle illusioni o dei miraggi mondani. La conversione procede dal fatto che il nostro cuore custodisce, anche se come sepolta, la coscienza di un’alleanza che gli è stata offerta da Dio e che Lui non si è mai rimangiata, la coscienza di una felicità possibile, forse persa, ma sempre desiderabile e, nella speranza, ancora vivibile. Non è però scontata e per questo la chiesa fa pregare: “Dio grande e misericordioso, prepara con la tua potenza il nostro cuore a incontrare il Cristo che viene”. Fondamentalmente la conversione è un credere ancora possibile per il nostro cuore la felicità promessa da Dio, che in Gesù si fa accessibile e godibile.
E la felicità, di cui il cuore custodisce l’anelito, non può provenire che da quella nuova umanità, fatta germogliare da Gesù, in giustizia-mitezza-pace, di cui parla la colletta di oggi: “Dio dei viventi, suscita in noi il desiderio di una vera conversione, perché rinnovati dal tuo Santo Spirito sappiamo attuare in ogni rapporto umano la giustizia, la mitezza e la pace, che l’incarnazione del tuo Verbo ha fatto germogliare sulla nostra terra”. Giustizia nel senso di tornare a sentirci non solo oggetto di amore, ma soggetti degni di amore; mitezza nel senso di non lasciarsi più deviare da nulla rispetto allo scopo da perseguire, che è la fedeltà al bene comunque; pace nel senso di quel regno di Dio giunto a noi, cercato sopra ogni cosa, che ci ricolloca nella giustizia e ci induce alla mitezza.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico A (2022-2023)
Solennità e feste
Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria
(8 dicembre 2022)
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Gn 3,9-15.20; Sal 97; Ef 1,3-6.11-12; Lc 1,26-38
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Una piccola nota storica anzitutto. La solennità dell’Immacolata Concezione, già celebrata in oriente fin dal sec. VIII, si estese in occidente nel sec. XII, accolta prima dai francescani e poi iscritta nel calendario di Roma nel 1476. Pio IX, nel 1854, con la bolla Ineffabilis Deus definì come dogma di fede l’immacolato concepimento di Maria, che la cristianità ha visto confermata con le apparizioni di Lourdes del 1858. È una delle tre solennità mariane nell’attuale calendario liturgico romano, insieme a quella di Maria santissima Madre di Dio il primo gennaio e dell’Assunta il 15 agosto. La solennità è fissata all’8 dicembre in riferimento alla Natività di Maria all’8 settembre. I testi liturgici sono in gran parte gli stessi del 1863, composti in seguito alla definizione dogmatica di Pio IX nel 1854.
Mi piace riandare alla celebrazione di Maria nella poesia di Dante. Nell’ultimo canto del Paradiso, la Vergine Maria è presentata nello splendore del suo mistero:
“…. Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,
sua disïanza vuol volar sanz’ali.
La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fïate
liberamente al dimandar precorre.
In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontate”.
E riassume lo stupore per la bellezza della Vergine nel verso: “Li occhi da Dio diletti e venerati …”. Sì, anche Dio è rapito dallo splendore della sua creatura, sulla quale non ha mai avuto presa neppure la più piccola ombra di peccato. Tanto che la benedizione, che Paolo implora ed annuncia nell’esordio della sua lettera agli Efesini, ha così ricoperto e intriso la Tutta Santa nella sua concretezza da prendere addirittura corpo: da lei nasce il Salvatore, che costituisce la Benedizione di Dio sugli uomini, benedizione oltre la quale non c’è davvero nulla di prezioso da desiderare. Come suggerisce Dante, nel desiderio intenso di vedere il volto del nostro Dio, già in questo mondo, preziosa è la sua preghiera: “perché tu ogne nube li dislieghi / di sua mortalità co’ prieghi tuoi, / sì che ‘l sommo piacer li si dispieghi”.
Godere della visione di Dio, non per essere rapiti in qualche angolo di cielo, ma per far risplendere la luce di Dio nella nostra terra, nella nostra vita quotidiana, nel nostro cuore. L’umanità della Vergine, in tutte le sue fibre, ha potuto godere di tale intimità col suo Dio perché è andata incontro al Signore in santità e purezza di spirito ed è diventata degna dimora del Figlio. Della sua umanità siamo fatti anche noi; con il suo Figlio condividiamo la stessa umanità perché anche noi possiamo tornare a far splendere e a far godere nel mondo la stessa benedizione, la dimora di Dio in mezzo a noi. L’aspetto assolutamente straordinario del disegno divino per l’uomo, come dice Paolo, è il fatto che prima della creazione del mondo siamo stati scelti, che la Vergine è scelta prima della creazione del mondo, che il Figlio è destinato al mondo prima che il mondo fosse. Una visione del genere, se non è una fantasia, significa che il senso delle cose, della vita, del mondo, ha radicalmente a che fare con l’incommensurabile amore di Dio, la cui luce tutto attraversa e struttura. L’evento dell’incarnazione del Verbo, che costituisce il mistero per eccellenza della storia, ha le sue radici non solo nell’intimità più segreta della Trinità, ma anche nel cuore di questa nostra sorella, la Vergine Maria: “Nel ventre tuo si raccese l’amore, / per lo cui caldo ne l’etterna pace / così è germinato questo fiore”.
A differenza di noi, la Vergine non è caduta nell’inganno che tormenta i figli degli uomini, inganno che presenta il brano della Genesi. Lei è stata duramente provata nella sua umanità e con l’offerta della sua umanità ha permesso all’amore di Dio di svelarsi al mondo; ha conosciuto la sofferenza dell’amore con il suo Figlio e ora accompagna ogni sofferenza umana perché venga aperta all’esperienza dell’amore. In lei la sofferenza non ha generato ribellione, il dramma non ha velato la fede, il desiderio non ha compromesso l’amore, l’agire non ha macchiato la coscienza. E questo perché l’unico rimedio all’inganno è “andare incontro al Signore”, così tipico dell’anima della Vergine.
L’uomo, invece, si dibatte nell’inganno: la nostra individualità ce ne certifica la compromissione con la ribellione e la gelosia, mentre la sofferenza della nostra umanità svela faticosamente le tracce della nostalgia di Dio. Se Dio proclama l’inimicizia tra satana e la donna, simbolo contemporaneamente di Maria e dell’umanità, significa che quell’inimicizia dichiarata da Dio è posta a salvaguardia della nostra umanità, che non può trovare beatitudine nell’inganno e quindi non potrà compiersi stando dalla parte dell’avversario.
Lei proclama: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. Come a dire: Dio solo sia benedetto, si realizzi la sua promessa, si manifesti in me, finalmente e compiutamente, il suo Bene all’umanità! Proclamandosi serva del Signore esprime il suo desiderio della dimora di Dio in mezzo agli uomini, di cui tutto il suo essere è testimonianza e intercessione per l’umanità intera. Ma esprime anche la preghiera di ogni credente, di ogni discepolo del Signore: avvenga per me secondo quello che hai stabilito fin dall’eternità, si compia in me quello che dalla fondazione del mondo hai promesso all’umanità, si veda realizzato in me quel Regno che nel tuo Figlio hai fatto venire. Così, il suo avere il Signore con lei è motivo di fiducia per noi di trovarlo, di essere accompagnati a lui, di stare in sua compagnia. Il Signore è con te diventa, nella nostra preghiera: “tu, che hai il Signore, supplicalo perché sia anche con noi, ora e sempre!”.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico A (2022-2023)
Tempo di Avvento
III Domenica
(11 dicembre 2022)
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Is 35,1-6a.8a.10; Sal 145 (146); Gc 5,7-10; Mt 11,2-11
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In preparazione alla festa del Natale di Gesù, il brano evangelico di oggi ha il pregio di porre la domanda essenziale. Chi vedremo nel bambino di Betlemme? Chi dobbiamo vedere? La serietà della domanda è sottolineata dal dramma vissuto da Giovanni Battista alla fine della vita. Si trova in prigione e sente parlare di quello che Gesù fa. Non era proprio quello che si era immaginato rispetto al messia che aveva indicato presente nel mondo: è lui o dobbiamo aspettare un altro? Ma con la domanda affidata ai suoi discepoli costringe Gesù a esporsi.
Probabilmente, non è che lui dubita di Gesù, ma i suoi discepoli. Come ultima cosa che può fare, invia i suoi discepoli a sincerarsi perché seguano colui che lui aveva indicato come l’Inviato. Gesù, nella sua risposta, parla la lingua del Battista, cita le Scritture e gli manda a dire che quello che i profeti avevano preannunciato, ora si compie. Le sue parole sono una composizione di passi del profeta Isaia (Is 26,19; 29,18; 35,5; 42,7; 61,1). Con due sottolineature. Gesù riassume la sua missione messianica con l’annuncio del vangelo ai poveri. Ma il testo di Isaia comportava l’unzione per colui che aveva il compito di evangelizzare i poveri: “Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore, il giorno di vendetta del nostro Dio, per consolare tutti gli afflitti, per dare agli afflitti di Sion una corona invece della cenere, olio di letizia invece dell’abito da lutto, veste di lode invece di uno spirito mesto” (Is 61,1-3). Il che significa che Gesù è proprio l’Unto, il Messia, Colui che fa l’opera di Dio a salvezza dei suoi figli, nonostante le sue opere siano diverse da quelle che ci si sarebbe aspettato dalla predicazione del Battista.
La seconda sottolineatura, una aggiunta specifica di Gesù ai passi scritturistici citati, suona: “E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo”. La sottolineatura rispecchia il dramma della domanda. La risposta di Gesù non chiude il problema, nel senso che resterà sempre aperta per tutti coloro che verranno dopo il Battista, poiché non sarà mai scontato il mistero della ‘debolezza’ di Dio. Gesù esalta la fede del Battista, lo rassicura. Gesù non gli risponde: sì, sono io il messia; ma: tu sei l’Elia che deve venire. Su quella assicurazione, il Battista comprende: è proprio lui il messia. Non c’è più motivo di scandalizzarsi perché la sapienza di Dio opera secondo i suoi segreti. Il senso però drammatico della domanda del Battista resterà in tutti i discepoli proprio perché la Sapienza di Dio opera secondo i suoi segreti. Lo scandalo del Messia povero e disarmato non finisce mai nella nostra vita. La rivelazione di Dio sorpassa ogni pensiero, sorprende le attese del cuore perché “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18). Il volto di Dio lo vedono coloro che non si scandalizzano della sua piccolezza quando, ormai sfigurato sulla croce, allorché nemmeno d’uomo aveva più l’aspetto, accolgono tutto il mistero di Dio nel suo amore agli uomini, vedono cioè la sua scelta di essere Dio per gli uomini, non di sembrarlo soltanto.
La liturgia di oggi, consapevole della vicinanza del mistero del Natale che ci prepariamo a celebrare e della perenne portata di scandalo di quell’evento, indica la porta di accesso per il mistero di Dio in Gesù. Invita alla gioia, alla letizia, che suona scandalosa per la carne. Se l’uomo fosse davvero giusto, potrebbe gioire. Ma può l’uomo trovare nella sua giustizia la fonte della letizia? Se l’uomo potesse vantarsi di una scienza sicura e onnipotente potrebbe gioire. Ma può derivare all’uomo la letizia dalla potenza della scienza? Tutti ci rendiamo conto dell’illusione di una letizia che avesse tali radici.
Ora, proprio la possibilità di una letizia che non ha bisogno di trovare nella propria giustizia e nella propria scienza la radice della sua desiderabilità rivela al cuore dell’uomo la presenza finalmente del Dio con noi, del Dio che accondiscende alla nostra umanità perché risplenda della sua luce sanante. Gesù rivela proprio questo al Battista e quando ne tesse l’elogio non fa che mettere in risalto la grandezza della sua umanità, tutta protesa al mistero di Dio, ma che a paragone della ricchezza di verità che viene da Dio risulta essere assolutamente incompiuta. Ma l’ammissione di tale incompiutezza è espressione della vera grandezza del Battista, che riconosce nel Figlio dell’uomo la ‘grazia della verità’ che viene da Dio. Come dice il profeta Isaia, nella versione della LXX: “Ecco il nostro Dio ci rende e ci renderà giustizia, verrà lui stesso a salvarci” (Is 35,4).
Quando Giacomo, nella sua lettera, invita alla pazienza (nel testo italiano traduciamo con costanza: ‘siate costanti’), invita a camminare e a lavorare con generosità e fiducia in vista della manifestazione del Salvatore al nostro cuore, finché essa diventi radice di letizia: il Signore è con noi! Solo allora non scambieremo più le nostre opere con la pretesa di giustizia o la nostra scienza con la rivendicazione di potere e sapremo rapportarci a tutti nella condivisione di quella letizia che fa conoscere a tutti l’amore salvatore di Dio. Sarà il senso della gioia del Natale scoperta come radice di speranza per il mondo che trova nella presenza del ‘Dio con noi’ la ragione profonda della sua storia.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico A (2022-2023)
Tempo di Avvento
IV Domenica
(18 dicembre 2022)
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Is 7,10-14; Sal 23 (24); Rm 1,1-7; Mt 1,18-24
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Nella serie delle testimonianze a favore del Figlio di Dio che si fa uomo secondo la liturgia dell’avvento, Giuseppe è l’ultimo testimone e viene chiamato in causa proprio in rapporto alla profezia di Isaia. Paolo, nel saluto iniziale ai Romani, proclama: “… il vangelo di Dio, che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne”. Quel Figlio è la buona novella di cui tutte le Scritture raccontano la promessa e si fa uomo nella linea della discendenza davidica, discendenza che Giuseppe assicura. Quando l’angelo gli appare, chiama Giuseppe ‘figlio di Davide’. Naturalmente, Giuseppe non ha più nulla della gloria mondana di una discendenza regale, e tuttavia assicura a Gesù la verità del titolo ‘Figlio di Davide’.
L’interesse del vangelo di Matteo nel presentare Gesù è incentrato sul fatto che Gesù è generato dallo Spirito Santo, nella discendenza di Davide, secondo le promesse. Ieri è iniziata la novena del Natale e i vangeli dei primi due giorni riprendono la narrazione matteana della genealogia e della nascita di Gesù, brano proclamato oggi. Il racconto di Matteo comporta molti particolari singolari. Non parla semplicemente della nascita di Gesù, ma specificamente della sua concezione ‘dallo Spirito Santo’. Matteo per Gesù usa il termine γενεσις (origine, generazione) e non γεννησις (nascita). Si richiama al libro della Genesi, perché parla dell’origine di Gesù e non semplicemente della sua nascita. Curiosamente si può notare che nella Bibbia, quando si presenta una genealogia, lo si fa nel senso di una discendenza, vale a dire dei figli (ad es., di Adamo, Gn 5,1), mentre per Gesù la si descrive nel senso di una ascendenza: ‘figlio di Davide, figlio di Abramo’. Siccome la promessa riguarda il regno di Davide, Matteo si premura di inscrivere la genealogia di Gesù nella discendenza davidica. Ed è caratteristico che nell’elenco genealogico il verbo ‘generò’ ricorre 39 volte, mentre la quarantesima volta, a proposito di Gesù, il verbo è al passivo ‘fu generato’. Ciò significa che con Gesù termina l’interesse per l’attesa messianica di ascendenza davidica, in quanto, se prima era sempre un uomo a generare, con lui è lo Spirito Santo a generare, la promessa è compiuta, il regno si è manifestato.
Ed è qui che Matteo inserisce la figura di Giuseppe. Due sono i crucci di Giuseppe. Sa dell’innocenza della sposa. Se è dichiarato giusto, lo è in ragione della presunzione di innocenza per la sua sposa che gli avrà parlato della cosa. Si trova confuso non perché sospetta della sua infedeltà, ma perché, secondo la legge, non potrebbe prendere come sposa una donna che aspetta un bambino da un altro. Nemmeno però ha mai pensato di ripudiarla perché sa che la sua sposa è innocente, sa che l’evento viene da Dio ma non sa come viverlo, forse non si sente all’altezza. Come fare? Questo è il secondo cruccio. Non ha deciso nulla, si trova a rimuginare questi pensieri senza decidersi sul da farsi. L’unica cosa certa è che non vuole causare offesa alla sua sposa.
A questo punto interviene l’angelo in sogno. Matteo è l’unico autore del Nuovo Testamento che riporta una rivelazione durante un sogno. Due cose lo convincono nelle parole dell’angelo che nel sonno percepisce nitidamente: tu devi dare il nome a questo bambino; si compie la profezia di Isaia. Dare il nome al bambino significa non solo che lui accoglie in casa la sua sposa, ma che accoglie il bambino come suo e in questo si sente invitato a un compito speciale direttamente da Dio. La conferma delle Scritture, che lui conosceva bene, lo convince nella fiducia che la cosa corrisponde al volere di Dio. Matteo cita il testo di Isaia dalla versione greca della LXX e non dal testo ebraico ma modificando un particolare che risulta convincente per Giuseppe. Il testo di Isaia suona: “Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà [chiamerai, secondo alcuni codici] Emmanuele”. Matteo riporta: “Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele”. Giuseppe sa che il nome che dovrà dare al bambino è Gesù, mentre tutti coloro che lo conosceranno lo riterranno l’Emmanuele, cioè il compimento della promessa di Dio nell’amore per l’umanità.
Giuseppe accoglie: la grazia viene dall’alto. Ma Giuseppe acconsente nella sua umanità: dalla terra germoglia il Salvatore. La sua vocazione può essere definita come l’accettazione del compito affidatogli in rapporto al disegno di Dio di rivelare il Suo Amore agli uomini. E la sua obbedienza si rivela nel fatto di accettare di svolgere una parte semplicemente a favore della sua sposa, dentro un disegno più grande di lui, che imparerà a decifrare lungo tutta la sua vita senza mai essere in primo piano. Di Giuseppe i vangeli non riportano alcuna parola; annotano solo i suoi pensieri, le sue decisioni, la sua obbedienza adorante e la sua premura per la sua sposa e il suo bambino. Entra nella gloria di Dio, che è splendore di amore per l’uomo, nella consapevolezza soltanto di permettere al Signore di realizzare le sue promesse d’amore all’umanità. Ma non sa in anticipo cosa questo gli richieda; sa solo che questo è il suo compito e in tutta obbedienza lo eseguirà, fedele in tutto e in ciò ritrovando gli aneliti supremi del suo cuore di uomo e di credente.
L’aveva proclamato solennemente la profezia di Isaia: “Stillate dall’alto, o cieli, la vostra rugiada e dalle nubi scenda a noi il Giusto; si apra la terra e germogli il Salvatore” (Is 45,8), ripresa dall’antifona di ingresso. Il testo è riportato secondo la versione della Volgata che attualizza messianicamente il testo ebraico più generico che parla solo di giustizia e di salvezza. Come è possibile che uno contemporaneamente scenda dall’alto e germogli dal basso? Viene dal cielo e germoglia dalla terra, come segno dell’azione di salvezza di Dio per l’uomo: “Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele”.
Così si manifesta la gloria del Dio-con-noi, che, mentre rivela la grandezza del suo amore per l’uomo, rende l’uomo capace di operare in quell’amore, tanto da indurre tutti a vedere la vicinanza di Dio. È appunto il mistero dell’agire divino che il profeta fa risaltare e che vale anche per noi. È la colletta a proclamarlo: “… concedi anche a noi di accoglierlo e generarlo [= Verbo della vita] nello spirito, con l’ascolto della tua parola, nell’obbedienza della fede”. Dio, non semplicemente viene vicino a noi, ma germoglia dalla nostra umanità. Ciò significa che Dio è più intimo a noi di noi stessi; che Dio costituisce il senso della nostra stessa umanità. Così la vocazione di ciascuno di noi, nella fede, non è che quella di acconsentire a che il disegno di amore di Dio per gli uomini ci raggiunga e si manifesti e ci abiliti a diventare dei segni nell’unico Segno che rivela compiutamente il volto d’amore di Dio, Gesù Cristo, Salvatore.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico A (2022-2023)
Tempo di Natale
Natale del Signore
(25 dicembre 2022)
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Messa vespertina della vigilia: Is 62,1-5; Sal 88; At 13,16-17.22-25; Mt 1,1-25
Messa della notte: Is 9,1-6; Sal 95; Tt 2,11-14; Lc 2,1-14
Messa dell’aurora: Is 62,11-12; Sal 96; Tt 3,4-7; Lc 2,15-20
Messa del giorno: Is 52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18
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La liturgia canta l’evento del Natale di Gesù in termini di luce: tutto è luminoso, nella gioia. Una delle antifone della novena aveva proclamato: “O Astro che sorgi, splendore della luce eterna, sole di giustizia, vieni, illumina chi giace nelle tenebre e nell’ombra di morte”. Risuona limpido nella messa del giorno il versetto del prologo di Giovanni: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta” (Gv 1,4). Sono però gli occhi del cuore, emozionati, a vedere la luce, perché gli occhi fisici vedono altro. Vedono un semplice neonato, in condizioni disagevoli, per quanto circondato di tenerezza. Per di più, nel dramma che incombe perché il bambino sarà cercato per essere ucciso, dovrà fuggire, nonostante la visita di personaggi illustri, anche se sconosciuti, che gli presentano doni specialissimi. Vivrà nel nascondimento, fino al giorno della sua manifestazione. Gli antichi pittori di icone avevano segnalato tutti questi elementi: il bambino giace in una grotta scura, la mangiatoria assomiglia a una tomba, i pannolini alludono alle fasce mortuarie. Eppure, c’è qualcosa nell’aria di irresistibilmente luminoso, che apre i cuori alla speranza. Il racconto evangelico lascia questa impressione.
La ragione? Forse l’ha colta molto bene s. Efrem che canta: “Quanto sei audace, o bimbo, che a tutti ti concedi. A chiunque ti viene incontro tu sorridi e di chiunque ti guarda tu hai desiderio. È come se il tuo amore avesse fame degli uomini. Non fai distinzione tra i tuoi parenti e gli estranei, tra tua madre e le serve, tra colei che ti ha allattato e le donne impure. È questa la tua audacia o il tuo amore, o tu che tutti ami?”.
Davanti al Bambino che veniamo ad adorare, ci accompagna l’eco delle parole del Padre: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento” (Lc 3,22), proferite al battesimo di Gesù nel Giordano. Nella genealogia di Gesù che Luca fa seguire, quel Bambino non risale ad Abramo, ma discende da Dio, assumendo Adamo: viene svelato il mistero della sua identità di Figlio di Dio, il mistero dell’amore di Dio nel quale prende origine la creazione dell’uomo e la storia di amore di Dio con l’umanità. Gesù è il sigillo di questa storia d’amore di Dio con l’umanità; è colui che ci introduce in questa storia e ce ne svela il senso. Come, sempre s. Efrem, canta nei suoi meravigliosi inni natalizi: “Benedetto colui che si è fatto piccolo senza misura, per farci diventare grandi senza misura… Beato chi ha fatto dimorare le tue gioie nel suo cuore e che ha smarrito in te le sue pene!… Benedetto colui che è venuto in ciò che è nostro e ci ha uniti a ciò che è suo!… Benedetto colui che è all’altezza dei nostri tormenti. Benedetto colui che ha trionfato nei nostri tormenti. Il nostro corpo è diventato il tuo vestito, il tuo Spirito è diventato il nostro abito. Benedetto colui che si è adornato e ci ha adornato”.
La liturgia bizantina gli fa eco con espressioni mirabili invitandoci però prima ad elevarci: “Eleviamoci divinamente per contemplare la divina discesa dall’alto a Betlemme, verso di noi, visibilmente” e proclama: “Gloria alla tua condiscendenza, o solo amico degli uomini”; “La tua nascita, o Cristo nostro Dio, ha fatto sorgere per il mondo la luce della conoscenza”. È il calore luminoso che si sprigiona dall’amore finalmente conosciuto nella sua concretezza che ti tocca: ‘Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio unigenito’ nella forma più accattivante e, nello stesso tempo povera, di un piccolo bambino. Fatto, che fa esclamare a Paolo nella sua lettera a Tito: “è apparsa la grazia”, “apparvero la bontà e l’amore”. Apparve, prende forma visibile, toccabile. Esperienza che risulterà evidente con la persona concreta di Gesù tanto che oramai Dio non può essere cercato che nell’umanità, perché con l’umanità si è confuso. Nel farsi bambino di Dio c’è tutto l’onore e la dignità dell’umanità da riscoprire nella sua luminosità. Abbiamo dimenticato che siamo fatti di luce. E la luce non è che l’irradiamento della santità di Dio come amore per noi. Proprio questo quel bambino, diventato grande, farà scoprire mostrando sia Dio come amore che ci cerca sia l’uomo che a quell’amore anela.
La luce, che rifulge nella notte di Natale, è la luce della gioia e dell’amore eterno di Dio per l’uomo, di cui il mondo è intessuto e da cui è attraversato, la luce della Presenza e della Dimora di Dio in mezzo agli uomini, che tutta la Rivelazione testimonia e che ora trova come il suo svelamento e il suo compimento. Come accennavo sopra, la luce non è semplicemente per gli occhi, ma per il cuore. È la luce che si irradia dagli occhi quando il cuore è capace di commuoversi alla percezione della Presenza di Dio che si fa toccabile in quel bambino. È interessante osservare che i salmi responsoriali delle tre messe natalizie fanno parte del gruppo di salmi che la tradizione ebraica proclama in ricevimento del sabato, sacramento della Presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Non si tratta solo di acutezza di sguardo, ma anche di commozione del cuore davanti all’amore del Signore che si accompagna a noi secondo le modalità della nostra umanità.
Se consideriamo le collette, la progressione della comprensione del mistero di quel Bambino, nato per noi, è delineata secondo la traiettoria: l’evento sprigiona una tale luce (notte) da investire il nostro agire (aurora) per partecipare alla stessa vita di Dio (giorno). “O Dio, che hai illuminato questa santissima notte con lo splendore di Cristo, vera luce del mondo …” (notte); “…fa’ che risplenda nelle nostre opere il mistero della fede che rifulge nel nostro spirito” (aurora); “…fa’ che possiamo condividere la vita divina del tuo Figlio…” (giorno) e questo è lo scopo di tutta la nostra gioiosa adorazione.
Possano i nostri cuori percepire quei segreti e scoprire le radici della letizia in questo mondo. La letizia dell’annuncio natalizio costituisca il vigore dell’anima e lo spazio di intelligenza del cuore per la vita propria e quella di tutti.
BUON NATALE A TUTTI.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico A (2022-2023)
Solennità e feste
Maria ss. Madre di Dio
(1 gennaio 2023)
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Nm 6,22-27; Sal 66 (67); Gal 4,4-7; Lc 2,16–21
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Il nuovo anno inizia con la celebrazione dell’ottava del Natale, festa della divina maternità di Maria. È come un’invocazione di benedizione su tutto l’anno. Dal Padre, che ha benedetto la Vergine Maria, la quale porta ed ha dato alla luce il Benedetto, discende per noi ogni benedizione. Se la formula di benedizione riportata nel libro dei Numeri concerne Israele, il salmo 66 la estende a tutta l’umanità perché ormai Colui, che del Padre è lo splendore, è nato per noi. In Lui si concentra la pienezza di benedizione, in Lui che è nato nella pienezza dei tempi, come dice l’apostolo. Ciò significa che la Sua benedizione copre tutti i tempi e contemporaneamente ogni genere di tempo, tutto il tempo della vita in tutte le situazioni possibili.
Quando il canto al vangelo proclama: “Dio ha parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” allude non semplicemente al fatto che Colui che era stato annunciato dai profeti è venuto, ma che in Lui si compiono tutte le possibilità dei tempi.
Nessuno meglio della Vergine Maria ha visto l’estensione e la profondità della benedizione di Dio sull’umanità: “Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace” (Num 6, 24-26). La benedizione può essere così intesa:
– che tu possa sentirti dentro confini di benevolenza, possa sentire alleata la vita e Padre tuo il tuo Dio
– che il volto del Signore si riveli al tuo cuore e renda luminoso il tuo volto del suo splendore
– possa fare esperienza del Suo perdono, del Suo farsi grazia a te e sentirti fortificato, imprendibile, per il legame di intimità che ti custodisce nella Sua pace.
E così apparterrai al Suo amore, non desiderando altro se non di attrarre a questo amore tutto e tutti finché ci si possa riposare insieme nella Sua benedizione.
“Così porranno il mio nome e io li benedirò” continua il testo dei Numeri, come a dire: poni su di te una Sua parola, la sua Parola e lei sarà la tua benedizione, ti custodirà e ti terrà compatto, dentro un’intimità, alle radici del cuore.
La colletta, quando prega: “Padre buono, che in Maria, vergine e madre, benedetta fra tutte le donne, hai stabilito la dimora del tuo Verbo fatto uomo tra noi…”, riprende la dichiarazione di Giovanni: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Ma anche la promessa di Gesù ai discepoli: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). La benedizione di Dio per l’uomo consiste proprio nel suo dimorare fra noi, in noi.
L’aspetto straordinario, sconvolgente, dell’amore di Dio per l’uomo, che però spesso nemmeno siamo più capaci di percepire, è dato dal fatto che possiamo essere accolti in quella stessa intimità di vita e di relazione che esiste tra il Padre e il Figlio e che ci è fatto dono di quella stessa intimità. Sembra strano, ma soltanto da dentro quella intimità possiamo sperare di compiere la volontà del Padre nella nostra vita e sentirci avvolti dalla sua benedizione. Se prima non si gusta la volontà di benevolenza di Dio nei nostri confronti, che si esprime nella benedizione che è il Cristo per noi, come poter arrivare alla gioia dell’osservanza dei comandamenti? Se non percepiamo come Cristo non antepose nulla all’amore per noi, come possiamo noi non anteporre nulla all’amore per Cristo e ritrovarci amati dal Padre, che nel suo Figlio ha posto tutta la sua compiacenza? Il mistero della benedizione di Dio sull’uomo sta tutto qui e tutta la vita della Vergine, come il suo parto prodigioso, è lì a dimostrarlo.
Gli angeli, apparendo ai pastori, annunciano “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà” (tradotto con più esattezza: ‘agli uomini che egli ama’). Il significato più veritiero di questa lode sta nell’affermare che, se gli uomini vogliono vedere il volto sorridente di Dio nei loro confronti, vogliono essere accolti dallo splendore del suo sguardo benevolo e compiaciuto, come descrive il libro dei Numeri, devono compiacersi di quel Figlio, in quel Figlio, sul quale si concentra tutta la benevolenza assoluta di Dio. E non in quel Figlio eterno, ma in quel Figlio fatto uomo, che ha preso carne, che conosce il nostro patire, che condivide le nostre aspirazioni, i nostri sentimenti. Quel Figlio è il Volto sorridente del Padre, quel Figlio è la benedizione invocata sull’umanità, quel Figlio è il nome pronunciato e posto sull’umanità perché l’uomo e Dio riconoscano la mutua appartenenza. È quello che la Vergine Maria proclama nella sua divina maternità, come le icone del Natale sottolineano. La Vergine non è rappresentata china sul proprio bambino, ma rivolta ai pastori e al mondo a proclamare che quel ‘figlio’ è la benedizione per loro.
La realtà dell’incarnazione comporta anche la variabile tempo. Ogni cosa ha il suo tempo, ogni cosa ha bisogno del suo tempo. Anche la Vergine Maria ha avuto bisogno di tempo per ‘assuefarsi’ all’agire di Dio. Il brano evangelico la descrive come colei che “custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore”. Evidentemente perché anche per lei la realtà non svelava il suo mistero di colpo. I due verbi significano più direttamente: teneva se stessa e queste cose insieme in cuore, facendole rimbalzare l’una sull’altra in modo da ottenerne una visione d’insieme. Sono termini che illustrano il metodo di lettura delle Scritture: una parola si illumina con un’altra parola ed il senso che ne scaturisce si riverbera nel cuore aprendo la parola al cuore ed il cuore alla parola. E non se ne tralascia nessuna: ‘tutte queste cose’ del testo sono sia le parole udite (dall’angelo, dai profeti, dai pastori) sia gli eventi successi; non si cerca solo quella ‘adatta’ a me, ma ci si ‘adatta’ a loro tutte, insieme. Non si preferisce un tempo (il tempo della gioia, del godimento), ma si tengono insieme tutti i tempi (anche il tempo del dubbio, dell’afflizione). Allora, poco a poco, anche al nostro cuore si svelerà quella ‘benedizione’ che Dio ha posto sull’umanità e la vita tornerà a risplendere della presenza del nostro Dio.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico A (2022-2023)
Solennità e feste
Epifania del Signore
(6 gennaio 2023)
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Is 60,1-6; Sal 71 (72); Ef 3,2-3a.5-6; Mt 2,1-12
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La festa di oggi, che in Oriente si festeggia insieme al Natale, viene presentata così nel Martirologio romano: “Solennità dell’Epifania del Signore, nella quale si venera la triplice manifestazione del grande Dio e Signore nostro Gesù Cristo: a Betlemme, Gesù Bambino fu adorato dai Magi; nel Giordano, battezzato da Giovanni, fu unto dallo Spirito Santo e chiamato Figlio da Dio Padre; a Cana di Galilea, alla festa di nozze, mutando l’acqua in vino, manifestò la sua gloria”. Delle tre manifestazioni, soprattutto la prima costituisce il tema della liturgia odierna.
È caratteristico che, come seconda lettura, venga riportata la definizione di ‘mistero’ a proposito della festa di oggi. Mistero è “che le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo” (Ef 3,6). La sottolineatura è la seguente: il progetto eterno di Dio per l’umanità è unico per tutti, per sempre. Si realizza la visione profetica di Isaia: “Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria” (Is 66,18). Gloria, che proprio l’umanità di quel bambino, adorato dai magi, manifesterà nel suo splendore più bello. L’antifona di ingresso della messa si richiama al libro del profeta Malachia, l’ultimo libro dell’Antico Testamento nella versione greca che i cristiani hanno fatto propria: “È venuto il Signore nostro re: nelle sue mani è il regno, la potenza e la gloria”. La cosa straordinaria è che un bambino venga proclamato ‘sovrano, potente e glorioso’! La proclamazione comporta qualcosa di radicalmente nuovo per gli occhi umani o, se vogliamo, comporta la visione di una realtà con occhi radicalmente nuovi.
Stessa novità che sta dietro la proclamazione nei vangeli di Gesù come re (soltanto durante la sua passione Gesù accetta il titolo di re) e particolarmente come re della gloria (titolo che fornisce, da una parte, la ragione della condanna sul patibolo della croce e, dall’altra, per la visione di fede dei credenti, la ragione dell’amore di Dio per l’uomo che proprio sulla croce risplende). È in ragione di quella novità che la manifestazione di Gesù può conquistare le genti e può convincere Israele. Quando la colletta fa pregare: “O Dio, che in questo giorno, con la guida della stella, hai rivelato alle genti il tuo unico Figlio, conduci benigno anche noi, che ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la grandezza della tua gloria”, guida i credenti alla percezione di quella novità e li predispone a cogliere e a vivere dello splendore di quell’amore, che costituisce ormai la ragione di senso del vivere nella storia.
In effetti, come tutti i racconti sulla nascita e sull’infanzia di Gesù, ciò che viene riferito va letto in contrappunto ai racconti della sua passione-morte-risurrezione. Nella narrazione dei Magi che arrivano a Gerusalemme in cerca del re dei Giudei (solo dei pagani potevano chiamare così il nuovo re; un israelita l’avrebbe chiamato ‘re d’Israele’) è presentato il conflitto che opporrà alle autorità ufficiali il vero re e salvatore del suo popolo. Colui che le guide della nazione si rifiutano di ricevere è adorato dalle nazioni; Colui che doveva essere noto a coloro che conoscevano le Scritture, perché di lui le Scritture parlano, viene rivelato a coloro ai quali, non potendo le Scritture parlare, parlano gli astri, messaggeri di Dio. L’episodio dell’adorazione dei Magi non sembra potersi ricondurre a un evento storico preciso, ma, nella logica narrativa di Matteo, la rivelazione è che Dio guida la storia perché sia conosciuto il suo Figlio. Ogni cosa può agire da messaggero di Dio, se il nostro cuore sa guardare in alto. E tutto alla fine conduce a lui, il Salvatore, Colui che rivelerà definitivamente e in tutta pienezza, anche per il nostro cuore, quaggiù o di là, l’infinito amore del Padre per gli uomini, Colui che compirà in tutta la loro estensione i nostri desideri di vita, di santità, di comunione.
La visione dei popoli che si ritrovano a Gerusalemme, ripresa anche dal salmo 71 e celebrata dal salmo 87, mostra come ormai non esista più motivo di distinzione tra gli uomini perché la loro dignità deriva da un’unica radice. In ciò che è essenziale, nella vita, tutti desideriamo le stesse cose, tutti siamo fatti per le stesse cose, tutti siamo chiamati a godere le stesse cose. La dignità degli uomini parla dell’amore di Dio che si è rivelato in quel Figlio di Dio fatto uomo e che nella liturgia odierna è adorato da tutte le genti. Quando Paolo ricorda agli Efesini che il mistero manifestato ora agli uomini è il fatto che i Gentili sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità di Israele, rivela che davanti a Dio sussiste un’unica famiglia umana, destinataria e portatrice allo stesso tempo del Suo amore.
Se il Signore, come dice il salmo 71, interviene a favore del povero e del debole, categorie che attraversano la diversità dei popoli e si riferiscono all’umanità di tutti, significa che chi calpesta il povero e il debole ferisce la propria dignità umana e non rispetta l’immagine di quel Figlio che si è confuso con l’umanità di tutti. Davanti a quel Figlio, bambino, adorato dalle genti – dice il salmo, eco del pensiero di Dio: chiunque tu sia, da qualunque paese provenga, qualsiasi sia stata la tua storia, a qualsiasi cultura appartenga, sappi che qui sei nato, di qui trai vita e qui conducono i tuoi desideri perché qui si compiono i miei progetti: nel mio Figlio! Non è evidentemente una forma di imposizione spirituale all’umanità. Si tratta invece di una visione lucida, nella fede, sulla realtà delle cose e del mondo. Non si tratta di contrapporre una visione ad altra visione, una fede ad altra fede. Si tratta di imparare a stupirsi a tal punto dei pensieri di Dio per l’umanità che la modalità stessa di vivere e testimoniare quella visione non può che essere evangelica, portatrice della buona novella per l’umanità. Per questo l’amore è l’ultima parola convincente, sebbene non sia una parola potente. La debolezza di Dio è più forte della forza degli uomini e la stoltezza di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini: per questo a tutti gli uomini, di ieri, come di oggi e di domani, a tutti spetta questa eredità, che è il Figlio di Dio fatto uomo. E come dice s. Massimo Confessore: “Dall’oriente una stella che brilla in pieno giorno guida i magi verso il luogo dove il Verbo ha preso carne, per dimostrare misticamente che il Verbo contenuto nella legge e nei profeti supera ogni conoscenza dei sensi e conduce le genti alla suprema luce della conoscenza”.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico A (2022-2023)
Solennità e feste
Battesimo del Signore
(8 gennaio 2023)
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Is 42,1-4.6-7; Sal 28 (29); At 10,34-38; Mt 3,13-17
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Con la festa del battesimo di Gesù si chiude il ciclo natalizio. Il suo battesimo al Giordano è appunto celebrato nell’ottica natalizia, come una manifestazione di Gesù. Un’antifona della festa dell’Epifania riassume così il mistero celebrato: “Oggi la Chiesa, lavata dalla colpa nel fiume Giordano, si unisce a Cristo, suo Sposo; accorrono i magi con doni alle nozze regali e l’acqua cambiata in vino rallegra la mensa”. Un tropario della liturgia bizantina canta: “Ti sei manifestato al mondo, tu che hai fatto il mondo, per illuminare quanti siedono nelle tenebre. O amico degli uomini, gloria a te”. L’invocazione “o amico degli uomini” comporta tutta la risonanza dell’intimità di un rapporto, come nel Cantico dei cantici l’amata è chiamata amica. Si tratta dell’immagine di fondo del mistero di Dio che si rivela all’uomo: Dio cerca l’uomo, Dio sposa l’umanità. Il mistero d’amore intravisto con la nascita a Betlemme, rivelato essere l’eredità di tutte le genti con l’adorazione dei magi, espresso nella sua valenza redentrice con il battesimo al Giordano, celebrato nella sua gioia messianica alle nozze di Cana e ripresentato ad ogni celebrazione eucaristica, qui è intuito nel suo percorso di attuazione con la solidarietà dell’agnello innocente con i peccatori, in attesa che si realizzi compiutamente con la sua morte-risurrezione. La deduzione immediata che ne scaturisce è che oramai l’umanità appartiene in proprio a Dio, oramai l’umanità, pur con tutto il suo carico di ferite e di paure, è carne del Figlio di Dio, che se l’è assunta nella sua realtà, integralmente. Non si può più parlare di umanità senza che sia Dio ad esserne implicato. Non si può più gemere sull’umanità senza aver compassione di Dio!
S. Efrem canta: “Siete diventati figli di Dio, fratelli e amici di Cristo, congiunti dello Spirito nel battesimo, figli della luce in virtù delle acque. Benedetto colui che ha moltiplicato la vostra bellezza”. E così intravede la compassione di Dio per l’uomo: “Dio, nella sua misericordia, si è chinato ed è sceso, per mescolare la sua clemenza alle acque e unire la natura della sua maestà ai deboli corpi degli uomini. Nelle acque ha trovato il modo di scendere e dimorare in noi, come il modo della misericordia quando scese e dimorò nell’utero. Oh misericordia di Dio, che si cerca tutti i modi per prendere dimora in noi”.
È quanto risalta dalla risposta di Gesù al Battista, riluttante nel battezzarlo. La sua riluttanza è segno della sua giustizia: come è possibile che l’Innocente venga a chiedere a me peccatore il battesimo? Eppure Gesù gli risponde: “Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia”. Non è più però la giustizia secondo la legge, la giustizia dell’uomo a compiersi, ma quella di Dio. Gesù solidarizza con i peccatori, perché il mistero dell’amore di Dio per i suoi figli appaia in tutto il suo splendore. Più tardi sarà accusato di stare con i peccatori, di frequentarli, di essere un mangione e un beone, ma così viene svelata la giustizia di Dio, che è amore per noi.
Così, la voce del Padre non rivela qualcosa di Dio in rapporto a Dio, ma qualcosa di Dio in rapporto all’uomo. Dio si compiace in Gesù per la sua modalità di vivere l’umanità assunta in totale intimità con il suo amore per noi e in totale solidarietà con noi per essere conquistati al suo amore. È il risvolto tutto speciale del mistero del battesimo di Gesù nelle acque del Giordano. Lo sguardo di predilezione del Padre sul Figlio non concerne più oramai solo la persona del Verbo, ma il Verbo nella sua umanità, il Capo con le sue membra. La lettura del profeta Isaia riguarda proprio l’identificazione di Gesù come il servo, l’identificazione del Messia nella sua natura di servo. Non dimentichiamo che questo brano di Isaia ricorre nella liturgia del lunedì della Settimana Santa, a sottolineare la dimensione pasquale di quell’identificazione. In quella natura di servo siamo noi, nella nostra umanità, ad essere considerati. Non dobbiamo perciò pensare che lo sguardo di compiacimento del Padre attenda a posarsi su di noi allorquando saremo capaci di seguire Cristo in una vita santa; è esattamente il contrario. Potremo impegnarci in una vita santa solo se sentiremo sulla nostra umanità peccatrice, ferita e piena di paure, questo sguardo di compiacimento perché Dio ama per primo, perché a Lui apparteniamo, perché siamo la sua stessa carne. Ed è proprio perché la nostra fede squarcia l’orizzonte per introdurci in questa visione che possiamo pregare: “… trasformaci nel Cristo tuo Figlio, che ha congiunto per sempre a sé la nostra umanità”.
La voce del Padre è quella di cui Gesù dirà: “Io sono nel Padre e il Padre è in me” (Gv 14,10); “Io dico quello che ho visto presso il Padre” (Gv 8,38); “Io invece lo conosco” (Gv 8,55); “Faccio quello che il Padre mi ha comandato” (Gv 14,31). Amato non dice soltanto tutta l’intimità goduta tra il Padre e il Figlio, ma illustra anche lo sconfinato amore per l’umanità che i due condividono. Amato o unico o preferito fa pensare ad Abramo, pronto ad immolare il figlio Isacco (Gen 22,2); rimanda al figlio della parabola dei vignaioli omicidi (Mc 12,6); ha attinenza con “Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16), ha attinenza al mistero dell’amore del Padre per l’umanità di cui il Figlio è il rivelatore, lui che è il Volto visibile del suo splendore. È l’amato perché il Suo Amore di Padre in lui è perfetto nel senso che in lui si compie perfettamente il Suo volere di benevolenza per l’umanità e lui non ha altro volere che quello di compierlo perfettamente: “Mio cibo è fare la volontà del Padre” (Gv 4,34). È amato perché non solo il Suo Amore si volge verso di lui, in lui si posa, ma anche si riposa, sta soddisfatto, ne ottiene la risposta più piena.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico A (2022-2023)
Tempo Ordinario
II Domenica
(15 gennaio 2023)
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Is 49,3.5-6; Sal 39 (40); 1 Cor 1,1-3; Gv 1,29-34
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Dopo il battesimo di Gesù al Giordano, la chiesa celebra il mistero del Cristo secondo la testimonianza degli apostoli così espressa nel prologo del vangelo di Giovanni: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14). I vangeli raccontano appunto la ‘gloria’ contemplata nella persona di Gesù. Il primo capitolo del vangelo di Giovanni si premura come di fissare con poche pennellate quella gloria, in un lasso di tempo di sei giorni, dopo i quali, il settimo giorno, si narra la venuta di Gesù a Gerusalemme per la Pasqua. Il brano di oggi è collocato il primo giorno dopo il battesimo di Gesù, che Giovanni non racconta, ma di cui parla spiegando come lui ha vissuto quell’evento. Gli eventi sono narrati sul modello del racconto della creazione della Genesi: con il battesimo di Gesù ha inizio la nuova creazione.
Se entriamo nel brano di vangelo di oggi con il canto all’alleluia scopriamo il senso della testimonianza del Battista: “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; a quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio”. Il Battista testimonia: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29). A garanzia di verità della sua affermazione, riporta la sua esperienza: ‘ho visto scendere e rimanere su di lui lo Spirito’. L’essere agnello comporta l’essere pieno dello Spirito. Cosa significa? S. Paolo, nella sua lettera ai Romani, spiega: “tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!»” (Rm 8,14).
È lo Spirito a guidare Gesù nel suo essere agnello, cioè obbediente fino alla morte e alla morte di croce, perché così si manifesta in tutto il suo splendore l’amore di Dio per noi. Lo Spirito fa fare esperienza totale a Gesù dell’amore del Padre per noi, da viverlo in totale solidarietà con la nostra umanità, tanto che i cristiani hanno riferito a Gesù il titolo di Servo, come leggiamo nel profeta Isaia, servo dell’amore del Padre per noi in tutta profondità e intensità. Nella lingua aramaica, parlata da Gesù, servo e agnello sono definiti da un unico termine ‘talya’. Non solo. Ma nell’evento del battesimo al Giordano, quando si ode la voce del Padre, le parole intuite, come riporta il testo di Matteo, sono: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento” (Mt 3,17). Si chiude il cerchio. Servo-Agnello-Figlio: ecco il mistero della persona di Gesù contemplato nella sua ‘gloria’.
Quella ‘gloria’, accogliendo la persona di Gesù nel suo mistero, si comunica a noi, nel senso che in lui anche noi diventiamo figli e come figli possiamo agire, come Gesù nella sua umanità, rispetto alla grandezza dell’amore del Padre per noi. E qual è il tipo di azione che caratterizza i figli di Dio? L’essere guidati dallo Spirito, cioè l’essere guidati nell’esperienza dell’amore del Padre per noi e per tutti lungo la nostra storia, in tutti gli eventi della nostra storia, finché, come dice Paolo, Dio sia tutto in tutti. È questa la prospettiva che presiede alla contemplazione della ‘gloria’ di Gesù.
Un particolare della testimonianza del Battista è assolutamente prezioso, letto nell’ottica pasquale. Quando il Battista vede venire verso di lui Gesù all’indomani del suo battesimo esclama: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo”. Gesù toglie nel senso che prende su di sé il peccato del mondo, ma non lo toglie dal mondo. Il mondo sarà sempre lì a testimoniare la sua contrarietà al volere di Dio, all’agire di Dio, nella storia e nel cuore degli uomini. Ma chi aderirà a Gesù, chi lo seguirà, chi si farà guidare dallo Spirito di cui lui è ripieno, non subirà danno dal male che imperversa in questo mondo. Come è stato per lui. Proprio quando il male si è come concentrato su di lui per distoglierlo dal suo segreto, proprio allora lui l’ha vinto con la sua assoluta fedeltà all’amore per noi, nella più totale intimità con il Padre suo che ama noi suoi figli. Di sé Gesù dirà: io ho vinto il mondo! Così anche i suoi discepoli, ma nella stessa via, negli stessi modi. Come leggevo in una testimonianza di una donna lacerata dal dolore per le vessazioni e le ingiustizie subite: il male si vince davvero solo con il bene.
Gesù è servo del volere di salvezza del Padre nei nostri confronti. L’aver accettato di prendere un corpo e di vivere nella natura di servo sottolinea l’obbedienza a questa volontà di salvezza del Padre per noi. Se Gesù prende un corpo, lo prende non solo per compiere il volere di salvezza di Dio per l’uomo, ma anche per mettersi in condizioni di compiere quella salvezza in termini di splendore di amore e di nient’altro. Non c’è ombra di ‘potenza’ nell’amore che Gesù manifesta nascendo come un bambino, vivendo da uomo, presentandosi al battesimo come un peccatore e morendo sulla croce; eppure, non c’è potenza più forte di quell’amore che non si fa vincere da nulla. È l’amore che magnifica il Signore davanti all’uomo e l’uomo davanti a Dio.
L’aspetto più straordinario poi è dato dal fatto che questa obbedienza fino all’immolazione in croce è vissuta in quanto Figlio, intimo del Padre. La sua intimità di sentire e di agire con il Padre è definita in rapporto all’amore per noi: tutti e due condividono lo stesso immenso amore per noi. E proprio la visione della discesa e permanenza su Gesù dello Spirito, dopo il battesimo al Giordano, rivela questa comunanza del Figlio con il Padre nell’opera della nostra salvezza. È lo Spirito che, colmando Gesù nella sua natura di servo, lo rende solidale con l’amore del Padre per noi da indurlo a fare sempre la volontà del Padre, cioè a cercare in ogni modo, senza alcuna riserva, con tutto lo splendore di amore che comporta, la nostra salvezza. In altre parole, Gesù tende a inglobare noi, per mezzo dello Spirito, nella stessa comunione di amore che lo lega al Padre e a noi. E sarà per questo che il segno dell’esperienza di salvezza per noi verrà individuato nell’amore a Dio e nella solidarietà piena con i nostri fratelli, in Cristo.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico A (2022-2023)
Tempo Ordinario
III Domenica
(22 gennaio 2023)
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Is 8,23b-9,3; Sal 26 (27); 1 Cor 1,10-13.17; Mt 4,12-23
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Dopo che l’evangelista ha narrato il battesimo di Gesù e le sue tentazioni nel deserto, presenta la sua predicazione. Alcuni particolari sono estremamente significativi. Gesù inizia la sua predicazione in Galilea, regione che allora era abitata promiscuamente da ebrei e pagani. Fin dall’inizio, anche se poi non ne farà più cenno, Gesù è presentato nella sua valenza universale: è il Salvatore di ebrei e pagani, dei due forma un popolo solo, tutti invitati alla stessa mensa dell’amore di Dio, di cui lui è il testimone per eccellenza. Incomincia a predicare dopo l’incarcerazione del Battista. Gesù non si sovrappone al Battista, comincia a predicare dopo che il Battista non può più farlo. Non sta nella stessa regione del Battista, la Giudea, ma ritorna in Galilea, e non alla sua casa di sempre ma va ad abitare a Cafarnao, la città dei primi discepoli. E della sua predicazione si riporta che consiste nell’insegnare, nell’annunciare e nel guarire (cf. Mt 4,23), mostrando così la differenza con la predicazione del Battista perché di lui non si dice che percorreva i villaggi, che insegnava e che guariva ogni sorta di malattia e infermità.
Un dettaglio poi sembra essere stato aggiunto da Matteo a bella posta: “Da allora Gesù cominciò a predicare …” (Mt 4,17). Nel vangelo di Matteo per due volte viene riportato: “Da allora Gesù cominciò …”. Il primo stacco temporale, come nel brano odierno, riguarda l’inizio della predicazione di Gesù alle folle, dopo che Giovanni Battista è stato incarcerato: “Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino»”. Il secondo, dopo la confessione di fede di Pietro a Cesarea, Gesù comincia ad annunciare ai discepoli la sua passione (cfr. Mt 16,21). Si tratta di decisioni precise di Gesù che vive il suo mandato messianico in vista della rivelazione della grandezza dell’amore di Dio per l’uomo.
Convertitevi, dice Gesù, riprendendo la stessa predicazione di Giovanni Battista. Come ci dicesse: ‘aprite gli occhi, riconoscete la via di Dio; tornate a sentire la bontà di Dio per voi; rinverdite il cuore, svegliatelo all’intelligenza degli eventi, alla libertà del desiderio, svegliatelo all’amore; tornate a gustare la vita nella comunione col vostro Dio’! Siccome nella lingua ebraica e aramaica il termine cielo non esiste al singolare, Gesù chiama il suo regno ‘regno dei cieli’, cioè il regno di Dio. Intendendo due cose: quel regno non è relegato nei cieli ma si manifesta sulla terra; quel regno è diverso dai regni della terra, è di natura celeste. Proprio quel regno è vicino, vale a dire è venuto a voi, lo potete vedere e toccare. Toccare, sì, toccare. Quando i discepoli di Gesù hanno provato a riassumere la loro esperienza del Maestro si sono espressi così: “quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita …” (1Gv 1,1).
Gesù, proprio per sottolineare la possibilità perenne di toccarlo per quanti lo incontreranno, sceglie gli apostoli, che il vangelo di Marco dirà “perché stessero con lui e per mandarli a predicare” (Mc 3,14). La realtà della vicinanza di quel regno è tale che può toccare i cuori, che può muoverli a non desiderare altro se non quel regno da condividere con tutti perché ti riempie la vita. Non si tratta tanto di raccontare da parte dell’evangelista la cronaca della vocazione degli apostoli, ma di mostrare la potenza dell’iniziativa di Dio che dà corso alla sua opera di salvezza. Quando commento questo passo, riporto sempre la spiegazione di Gregorio Magno, il quale, rilevando la prontezza dei pescatori a seguire la chiamata di Gesù, riflette sul fatto che a dire il vero quegli uomini avevano ben poco da lasciare essendo poveri. Ma, aggiunge “ha molto lasciato chi non ha tenuto nulla per sé”. È appunto il senso della fede genuina. Non importa lasciare poco o tanto; l’importante è non conservare nulla per sé, vale a dire fidarsi fino in fondo di Colui che si è incontrato e che ci ha incontrati, per tutto il cammino, con tutte le fatiche che comporta, in modo che la grazia dell’incontro possa rivelare tutti i suoi frutti, nel tempo.
Non si può non notare il fatto che gli apostoli non sono stati chiamati semplicemente alla sequela di Gesù, ma alla sequela di Gesù che è inviato a portare a tutti la salvezza e la consolazione (vi farò pescatori di uomini). Seguire Gesù comporta un’esperienza di vita, la condivisione del suo insegnamento e della sua missione; dice prima di tutto quanto l’intimità di vita con il Signore sia sconfinata nel senso che non può ripiegarsi su se stessa, ma continuamente si traduce in condivisione della misericordia di Dio per l’umanità. L’intimità con Dio comporta sempre una buona dose di sana angoscia per i propri fratelli e per questo non sta mai chiusa: fin dove c’è un uomo, fin dove c’è un livello di umanità non ancora aperto alla grazia dell’incontro, fin dove c’è una malattia da curare, l’apostolo, come Gesù, non si dà pace. Più profonda è la pace che viene dalla grazia dell’incontro, meno pace si dà finché tutti i fratelli possano godere della stessa grazia. Il senso del guarire ogni sorta di malattie e di infermità da parte di Gesù in missione, come avverrà per gli apostoli inviati in missione (imporranno le mani ai malati e questi guariranno, Mc 16,18), è proprio questo: condividere la misericordia di Dio per l’umanità.
Altro particolare estremamente significativo è il fatto che Gesù chiama non semplicemente a seguirlo, ma a mettersi dietro a lui, come poi dirà Gesù a Pietro quando lo rimprovererà per aver pensato non secondo Dio (cfr. Mt 16,23). Corrisponde a quanto il salmo fa dire al fedele: “Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita”. Qual è l’unica cosa necessaria da domandare? Tutto dipende dalla profondità che nei nostri cuori ha raggiunto la conversione al vangelo del regno.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico A (2022-2023)
Tempo Ordinario
IV Domenica
(29 gennaio 2023)
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Sof 2,3; 3,12-13; Sal 145 (146); 1 Cor 1,26-31; Mt 5,1-12a
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Dopo aver descritto Gesù che percorre i villaggi insegnando, annunciando il regno e guarendo le malattie, Matteo si premura di presentare, come in una magna carta che dovrà servire di riferimento fondamentale, cosa Gesù insegni: le sue beatitudini. Da notare subito: insegna, non semplicemente parla o annuncia. L’insegnamento partecipa del contesto che Paolo descrive nella sua lettera ai Corinzi: “Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio”. È da quel contesto che vanno ascoltate le beatitudini. In pratica, si ascoltano come una deduzione dall’aver contemplato la vita, la morte e la risurrezione di Gesù nella sua potente testimonianza della grandezza dell’amore del Padre per noi. Le beatitudini parlano di lui, della sua manifestazione della grandezza dell’amore di Dio, del frutto dell’accoglienza del regno.
Gesù non sta esortando ad essere felici; sta rivelando l’accesso alla felicità, sta mostrando come partecipare alla sua intimità di Figlio inviato a mostrare la grandezza dell’amore di Dio per l’uomo. Molto spesso noi prendiamo il vangelo come una specie di correttore/perfezionatore della nostra visione umana del mondo. La sua, però, di Gesù dico, non è una visione complementare alla nostra, ma una visione radicale, che svela i segreti della nostra umanità.
L’uomo aspira alla felicità? Allora Gesù ne traccia le coordinate che la strutturano perché il cuore dell’uomo non fallisca lo scopo della vita. Potremmo anche domandarci: perché è venuto meno il timbro della gioia nell’esperienza della vita cristiana in questo mondo? Perché la sequela del Signore ci lascia piuttosto indifferenti quanto alle energie del cuore, perché sembra suscitare più timore che felicità? Non ci siamo più premurati di cogliere le beatitudini come porte di accesso al mistero di Dio che viene a noi e al mistero dei cuori quanto agli aneliti che li attraversano, limitandoci a vederle come un ideale di perfezione da perseguire, di fatto però irraggiungibile e perciò ininfluente sulle energie di vita dei cuori.
La liturgia ce le fa leggere dentro la prospettiva del Regno, come il salmo responsoriale 145 sottolinea, esplicitando la profezia di Sofonia: “Il Signore regna per sempre”. L’espressione corrisponde a quanto proclamerà la moltitudine dei santi in paradiso: “La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all’Agnello” (Ap 7,10). Se l’uomo non può darsi la salvezza, nemmeno può darsi la felicità. Il salmo lo dichiara a chiare lettere quando nei primi versetti dichiara: “non confidate nei potenti, in un uomo che non può salvare”, da rendere con più precisione, secondo la versione greca: ‘in un uomo che non ha salvezza’.
La felicità è paradossale. Tutti sappiamo che il piacere te lo puoi prendere, ma la gioia non te la puoi dare. La gioia o la felicità non si prende dove sembra di vederla, ma la si ottiene spesso con ciò che sembra il contrario. Perché in gioco è la credibilità stessa di Dio che viene incontro all’uomo, senza però mai poterlo convincere all’evidenza. Nella felicità è in gioco non semplicemente l’esaudimento di un cuore, ma l’incontro di due, la comunione di due.
Le beatitudini sono otto. La prima e l’ultima comportano la stessa promessa: ‘perché di essi è il regno dei cieli’ e racchiudono le altre sei. C’è un doppio movimento nell’elenco delle beatitudini: un movimento di concatenazione e un movimento circolare. La concatenazione riguarda lo spazio definito dalla seconda alla settima, mentre il movimento circolare è dato dal ritornare dell’ottava alla prima per riavviare, a livelli sempre più profondi, la concatenazione. Se non si coglie il dono di quel ‘regno dei cieli che è venuto a noi con Gesù’, come poter afferrare la potenza di quella felicità nuova promessa? In effetti, la felicità è definita nei termini di una appartenenza (‘di essi è il regno dei cieli’), appartenenza che allude a una comunione di amore ardentemente desiderata e finalmente goduta. Corrisponde al godimento del regno proclamato nella parabola profetica del giudizio finale, alla gioia del banchetto messianico, alla consumazione di un amore che aveva ferito il cuore. Solo che le condizioni che la permettono sono paradossali: si parla di povertà e di persecuzione. Il significato mi sembra questo: l’esperienza promessa è nuova rispetto a tutto ciò che può produrre il mondo. Ma è tale che può portare a compimento tutto ciò che nel mondo si vuol vivere.
In effetti, le promesse di compimento rispetto alle condizioni elencate (beati gli afflitti, i miti, gli affamati della giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace) parlano di qualcosa che i nostri cuori cercano comunque: essere consolati, godere ciò che ci appartiene, essere saziati negli aneliti più profondi, essere graziati anche nella nostra indegnità (=misericordia), essere fatti capaci di vedere, vivere nella comunione del Padre da figli felici.
Tenuto conto che Gesù parla a cuori che si stanno aprendo alla rivelazione del regno giunto a loro, la felicità scaturisce dai passaggi indicati:
se ti affliggi solo per la potenza del male che ti domina e dal quale vuoi esserne liberato;
se non avrai altro motivo di ira se non quello di opporti al maligno e così custodirti dolce con tutti;
se cercherai la giustizia al di sopra del tuo interesse;
se condividerai con tutti la misericordia che avrai gustato nel perdono di Dio;
se sarai così privo di rivendicazioni e pretese da vedere tutto e tutti nella luce di Dio di cui godrai la presenza;
se seguirai l’opera di Dio che è la fraternità tra gli uomini,
allora – è la promessa della settima beatitudine – sarai come il Figlio di Dio che, per essere venuto a testimoniare quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini, non ha preferito se stesso all’amore che lo divorava e ha accettato di essere consegnato nelle mani degli uomini.
Se nella persecuzione l’uomo non perde la sua gioia, allora vuol dire che la potenza del Regno l’ha lambito, che la sua felicità non dipende più dal mondo. Non avrà più bisogno di cercare altra affermazione di sé perché ha trovato quella capace di soddisfare l’anelito del suo cuore, che così sarà confermato nella rinuncia alla brama di ogni bene che non sia espressione di quell’esperienza. Tanto che si affliggerà ancora più profondamente del male che in lui si annida e ripercorrerà la concatenazione dei passaggi a livelli sempre più coinvolgenti, finché tutto in lui splenda della bellezza del Regno.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico A (2022-2023)
Tempo Ordinario
V Domenica
(5 febbraio 2023)
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Is 58,7-10; Sal 111 (112); 1Cor 2,1-5; Mt 5,13-16
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Gesù proclama: “Voi siete il sale della terra… Voi siete la luce del mondo…”. Quel ‘voi’ si riferisce ai discepoli la cui vita esprime la potenza delle beatitudini che immediatamente prima Gesù aveva proclamato. Si tratta di quei discepoli che, insultati, perseguitati, sparlati, custodiscono la letizia dell’incontro con il Signore Gesù, che è diventato per loro ragione di vita e principio dell’agire. Non per nulla la liturgia fa leggere, abbinato al brano evangelico di Matteo, un passo del profeta Isaia dove si profetizza l’esistenza dell’Israele gradito a Dio come una esistenza ricca di misericordia per tutti, ricca del dono della fraternità a tutti perché segno della comunione realizzata con Dio, che si è reso presente in mezzo a loro. La luce di cui risplende l’umanità abitata da Dio è la luce della fraternità condivisa.
Fermiamoci un momento sul passo del profeta Isaia. Fa capire bene il senso della parola di Gesù ai discepoli. Certamente noi vorremmo percepirci luminosi, ma tutti facciamo i conti con la tenebra che oscura il nostro cuore in termini di chiusura, oppressione, angoscia. Il profeta proclama: “Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio … allora brillerà fra le tenebre la tua luce”. Siamo abituati a riferire la luce all’intelligenza. Ma la Scrittura suggerisce un riferimento diverso. La luce sorge se si spezza il pane con l’affamato, se si ha misericordia del prossimo. La luce viene per l’agire del cuore. All’esercizio dell’intelligenza va abbinato il calore del cuore, perché è il cuore il luogo della presenza, dell’incontro. Solo in questo calore l’intelligenza è retta. Quando Matteo dirà: “siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (5,48), lo dirà in seguito all’invito ad amare i propri nemici e Luca interpreta: “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso” (6,36).
In pratica il profeta Isaia elenca le cinque condizioni, tre negative e due positive, per diventare luce. Occorre prima togliere l’oppressione, il puntare il dito, il parlare empio. Nella versione della LXX si specifica: togliere il laccio, lo stendere la mano, la parola di lamentela. Per dirla con le mie parole: va eliminato ogni tipo di inganno, accusa e parola malevola contro il prossimo. Le due condizioni positive sono: aprire il cuore all’affamato, saziare l’afflitto di cuore. Con la sfumatura della versione greca: dare a chi ha fame il pane di cuore, saziare una persona umiliata. Vale a dire: non basta sfamare il corpo, occorre saziare anche l’anima del prossimo quando è afflitto. E fare questo con tutto il cuore. È allora che sorge la luce, espressione della sensazione di Dio, sempre con noi, quando il cuore non si perde in altro, ritrovandosi saziato nei suoi desideri.
Quando Massimo Confessore spiega l’invocazione ‘non ci indurre in tentazione’ nella preghiera del Padre Nostro, ha l’ardire di precisare: “La Scrittura rivela infatti con questo come chi non ha perfettamente perdonato a chi cade e non ha presentato a Dio un cuore privo di tristezza, reso splendente dalla luce della riconciliazione con il prossimo, non otterrà la grazia dei beni per cui ha pregato, e, per giusto giudizio, sarà consegnato alla tentazione e al Maligno. Imparerà così a purificarsi dalle colpe, eliminando le sue lagnanze contro gli altri …”. Ci dice in sostanza che non subiremo tentazioni se avremo la capacità, da assimilare poco a poco, di non accusare nessuno perché allora – continua Isaia – “implorerai aiuto ed egli dirà: Eccomi!”. Quando il cuore non accusa nessuno, neanche se stesso, non può cedere all’oppressione, perché il Signore è con lui. Non c’è sventura o afflizione capace di ferirlo a tal punto da aver bisogno di cercare la sua giustizia o la sua rivalsa contro qualcuno, distogliendolo dall’intimità con il suo Signore.
Quando Gesù chiede ai discepoli di essere luce del mondo non possiamo non riferirci al fatto che di se stesso Gesù dice che è la luce del mondo. È detto in due passi del vangelo di Giovanni: “veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,9; “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12). Gesù non chiede ai discepoli di essere ciascuno una luce, ma rivela che tutti insieme, innestati in lui, sono luce perché partecipano della sua luce. Un’antica glossa bizantina spiega il passo di Matteo così: “Non dice: voi siete luci, ma voi siete luce, perché essi [discepoli] tutti insieme sono il corpo del Messia che è la luce del mondo” (cfr. Gv 3,19; 8,12). Diventano luce del mondo nel senso che la presenza di Dio, resa come visibile nel mondo attraverso il loro agire secondo le beatitudini, costituisce l’orizzonte di senso della vita. Le beatitudini non sono se non le vie per le quali si può partecipare alla effusione nell’universo della carità pura di Dio. È la carità a custodire i cuori preservandoli dalla corruzione e facendo gustare il sapore genuino della vita (ecco l’azione del sale) e li illumina aprendoli alla verità e riscaldandoli (ecco l’azione della luce).
Quanto al sale, la potenza dell’immagine risiede nel fatto che il sale dà sapore alle cose ma le cose non possono dare il sapore al sale. Il che significa: i discepoli sono chiamati a permeare il mondo con la sapienza del vangelo, ma non servono a nulla se il mondo permea loro con la sua sapienza. I discepoli, mantenendo il mondo degli uomini nell’alleanza con il loro Dio, che li vuole in comunione con lui e tra di loro, tornano a far splendere la Sua presenza tra di loro e rendono la vita desiderabile e amabile.
Se Gesù chiede ai discepoli di essere la luce del mondo, vuol dire che chiede loro di essere il segno della misericordia di Dio tra gli uomini, come lo è lui stesso. Non si tratta di una possibilità, ma di una grazia: è la grazia di un incontro, che si è tradotto in comunione di vita. La testimonianza di Gesù si risolve nel far vedere quanto è grande l’amore del Padre per gli uomini, che vuole riuniti nella comunione con lui e fra di essi. La forza che realizza tale comunione è lo Spirito donato da Gesù, Spirito la cui opera precipua è proprio quella di realizzare un’umanità solidale, in Cristo Gesù. Quando i discepoli, che hanno condiviso con Gesù il segreto del Padre, si lasciano travolgere dalla stessa dinamica di rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini, diventano sale della terra e luce del mondo.
In questo senso l’invito e il comando ad essere sale e luce si riferisce all’attuazione di quello che Gesù dirà ai suoi discepoli alla fine del vangelo: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli … insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28,19-20). Se le nostre opere buone devono risplendere davanti agli uomini, secondo il comando di Gesù, ciò significa che le nostre opere buone devono essere a vantaggio, per profitto degli uomini [così si dovrebbe tradurre il ‘davanti agli’ uomini] permettendo loro di sperimentare l’amore di Dio per loro.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico A (2022-2023)
Tempo Ordinario
VI Domenica
(12 febbraio 2023)
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Sir 15,15-20; Sal 118 (119); 1Cor 2,6-10; Mt 5,17-37
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Nella tradizione ebraica si trova questa affermazione: “La Torà che si impara in questo mondo non è nulla in confronto alla Torà del Messia” (Midrash Qohelet 11,8). Il vangelo di Matteo interpreta la Legge con gli occhi di Gesù perché Gesù è la Torà vivente. Benché il suo insegnamento sia riportato con una serie di antitesi: “Avete inteso che fu detto … ma io vi dico”, non si tratta di contrapporre Antico e Nuovo Testamento. Gesù parla di compimento, di pienezza. Cosa significa? L’insegnamento di Gesù consiste nello sviscerare quello antico, interpretandolo secondo l’autorità che aveva all’origine. Risale all’intenzione stessa di Dio nel dare la Torà.
È caratteristico che la finestra di luce per cogliere il vangelo nella sua portata di rivelazione sia costituito dalla lode che Gesù innalza al Padre vedendo i suoi discepoli tornare contenti dopo la predicazione: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché ai piccoli hai rivelato i misteri del regno” (Mt 11,25). Sta dicendo loro che la gioia che provano non dipende dalla grandezza delle opere compiute, ma dal vivere la comunione con Dio che vuole la salvezza di tutti. Tale principio di comunione non tiene in alcun conto la grandezza degli uomini, tanto che quando Gesù dovrà svelare il suo destino di Messia annunciando la sua passione si premurerà di tenere i suoi discepoli al riparo da ogni meschina grandezza, così ambita dagli uomini. La cosa è ribadita nel brano evangelico di oggi dicendo che gli uomini, davanti a Dio, non saranno grandi se faranno cose grandi, ma se terranno aperte le cose piccole, ogni cosa più piccola, al mistero del Regno, alla percezione del Regno. Quello che vale per le Scritture, vale anche per la nostra vita.
Unico è il principio di fondo, riconducibile all’eccedenza del vangelo rispetto alla legge: “se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5,20). Potremmo interpretare così. Cercare di arrampicarsi fino al cielo con l’esibizione delle proprie opere è fatica vana. In altri termini: cercare semplicemente di essere irreprensibili non porta alla gioia. E siccome il regno dei cieli è la condivisione della gioia di Dio che si appressa all’uomo attirandolo a sé, inondandolo del suo amore e indirizzandolo a vivere di quell’amore verso tutti, pensare alla propria irreprensibilità è fatica sprecata. Le parole del Signore, i suoi comandamenti, non sono semplici ingiunzioni o precetti alla cui osservanza è promessa la nostra beatitudine futura. Sono assai di più, sono rivelazione di Lui, modalità di partecipazione alla stessa vita divina, spazi di comunione con lui e con i fratelli, luoghi di intimità. Gesù allude sempre nel suo annuncio del Regno a una eccedenza, a una sovrabbondanza rispetto alla giustizia che cerchiamo con le nostre opere. In effetti, il senso della nostra vita si gioca non nel fare il bene, ma nel farlo per entrare nel segreto di Dio. È un’intimità, che fa vivere la vita dentro un’obbedienza e un’alleanza che sperimentiamo a nostro favore; un’intimità capace di riempire il cuore, di rendere la vita degna di essere vissuta.
In questa luce, la ‘giustizia superiore’ alla quale Gesù invita i suoi discepoli non si riferisce ad opere diverse da quelle comandate in precedenza, come esistesse un’opera maggiore rispetto a quelle di prima, ma alla capacità di percezione e alla fedeltà all’intenzione segreta di Dio a cui le opere richieste rimandano. Il ‘compimento’ di cui parla Gesù non allude all’aggiunta di qualcosa, ma alla radicalità dell’esperienza che rimanda direttamente a Dio e alla sua rivelazione. Il compimento di Gesù, che risalterà in tutto il suo splendore con la sua passione e morte, mostra la profondità di provenienza dei comandamenti e la bellezza della promessa di Dio racchiusa nei comandamenti perché l’uomo possa finalmente godere della comunione con il suo Dio, dentro un’umanità solidale, e non semplicemente ‘tenerlo buono’ con la propria giustizia, dal momento che la propria giustizia non fa splendere il cuore.
Così, gli esempi che Gesù porta dicono ciò che conta nell’osservanza dei comandamenti, cioè la tensione del cuore. Non basta non uccidere fisicamente per non essere condannati davanti a Dio. Se il cuore coltiva l’ira contro il proprio fratello, non sarà mai luminoso. I padri del deserto hanno ben interpretato il senso di questi versetti: hai offeso tuo fratello? L’hai ucciso! È la radicalizzazione dell’amore ottenuto con la vigilanza sul cuore per custodirlo nella mitezza e rapportarsi al fratello nella benevolenza di Dio. La stessa cosa vale per la preghiera. Sarebbe vano cercare di tirare Dio dalla nostra parte facendo valere le nostre ragioni. Dio accorre in un cuore che splende della benevolenza verso il prossimo. D’altra parte, quella luminosità non si può ottenere se non si è in armonia con il proprio mondo interiore. È il detto sul mettersi d’accordo con il proprio avversario prima del giudizio. Detto, che i Padri hanno sempre interpretato nel senso di non fare mai nulla contro la propria coscienza, che agisce come il nostro accusatore. Fare armonia significa vivere unificati e solo a questo livello non si è passibili di giudizio.
Anche rispetto all’adulterio vale la stessa osservazione. Senza la purità dello sguardo, il cuore non può restare puro. Purità, che si ottiene con la rinuncia a un certo uso dei sensi esteriori per non atrofizzare il senso interiore. È l’esemplificazione paradossale dell’invito: rinnega te stesso! Ma siccome Gesù ha di mira la tensione del cuore, il valore dell’invito non può essere negativo. Gli atti negativi non hanno plausibilità per il cuore. L’invito significa invece: fai spazio a ciò che davvero conta, fai crescere ciò che risponde al desiderio profondo del cuore, sii creativo nel bene e non semplicemente negatore del male. Come l’antica colletta ben esprime: “O Dio, che hai promesso di essere presente in coloro che ti amano e con cuore retto e sincero custodiscono la tua parola, rendici degni di diventare tua stabile dimora”.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico A (2022-2023)
Tempo Ordinario
VII Domenica
(19 febbraio 2023)
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Lv 19,1-2.17-18; Sal 102 (103); 1Cor 3,16-23; Mt 5,38-48
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Le specificazioni di Gesù sondano in profondità il comando di Dio proclamato nella prima lettura: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo” (Lv 19,2), che il salmo responsoriale riprende con la rivelazione del nome di Dio: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore” (Sal 102,8). Se riandiamo al contesto in cui quel nome era stato proclamato possiamo cogliere la portata della santità che definisce Dio nei confronti dei suoi figli e che abilita i suoi figli ad essere tali, come a Lui è gradito, per rivelare al mondo la grandezza del suo amore. Il popolo nel deserto, esasperato e impaziente, costruisce il vitello d’oro e rifiuta l’alleanza con il suo Dio che non sentiva più accanto. Quando Mosè discende dal monte e vede l’idolo eretto nell’accampamento si infuria, spezza le tavole della Legge e cade in profonda prostrazione: cosa farà ora il Signore? Starà ancora dalla parte del suo popolo? E di me che ne sarà? Mosè sta solidale con la sua gente, ricorda a Dio che questo è il suo popolo e per essere confermato chiede a Dio di vedere la sua gloria. E quando la gloria del Signore gli si manifesta, ode la proclamazione del nome: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso …” (Es 34,6). È la seconda volta che Dio rivela il suo nome e questa volta nel dramma più assoluto, confermandosi comunque e sempre a favore del suo popolo.
Quando Gesù, a sigillo dei suoi inviti ad andare oltre la Legge, dirà: “Voi dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”, non farà che far emergere in tutto il suo splendore la luminosità della santità di Dio che si rivela nella sua misericordia senza limiti all’uomo. In effetti, non c’è scritto da nessuna parte nell’Antico Testamento di amare il prossimo e odiare il nemico. Quella espressione non appartiene alla rivelazione di Dio. Al cuore dell’uomo sembrava di poter interpretare il comandamento di Lv 19,18: “Amerai il tuo prossimo come te stesso” nel senso di: “tu devi amare il tuo compagno, ma sei dispensato dall’amare il tuo nemico”. Gesù ricollega l’amore del prossimo all’imitazione di Dio, il cui nome, rivelato a Mosè sul Sinai, suona appunto: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore”. La misericordia è tipica di Dio. Nell’Antico Testamento l’aggettivo ‘misericordioso’ è attribuito solo a Dio e mai all’uomo, mentre nel Nuovo Testamento l’aggettivo ‘perfetto’ si dice dell’uomo e mai di Dio. Il che significa che ciò che fa splendere il cuore dell’uomo è l’amore pieno di misericordia: esprime la partecipazione alla santità di Dio e la natura della ‘perfezione’ richiesta all’uomo.
La giustizia basata sul principio della reciprocità alla quale gli uomini in genere si attengono non rivela ancora lo splendore di Dio. Gesù invita alla santità come comunione di vita con Dio, alla santità come partecipazione all’amore di Dio per i suoi figli. L’invito allude alla natura stessa del cuore dell’uomo, che ha una profonda nostalgia di Dio. Non tanto però di Dio in generale, ma dei comportamenti secondo Dio, comportamenti che strutturano i sogni del cuore degli uomini. Con l’invito a quell’eccedenza, Gesù non fa che svelare le possibilità del cuore dell’uomo una volta che si lasci toccare dalla rivelazione del regno dei cieli, che in lui si fa manifesto e partecipabile.
Se poi consideriamo il passo parallelo di Luca, con gli esempi che adduce, cogliamo ancora meglio la natura della perfezione richiesta all’uomo per godere della rivelazione del regno dei cieli:
‘fate del bene a coloro che vi odiano’: agite in modo che risplenda il bene per coloro che vi odiano;
‘benedite coloro che vi maledicono’: portate in pace la maledizione che vi viene dagli uomini senza scadere nella vendetta delle parole; mantenete il cuore nella pace senza corromperlo con la rabbia di parole insolenti; non ricambiate con parole irose chi vi ferisce, né in voi stessi né in presenza d’altri, custodendo l’onore per la persona che l’ha calpestato;
‘pregate per coloro che vi trattano male [che vi calunniano]’: resistete alla tristezza che vi invade quando siete calunniati per malevolenza e invidia; la preghiera sincera vi custodirà nella carità.
Così la ‘ricompensa’ di cui parla Matteo allude all’agire che esprime la gioia del Regno di Dio che ha lambito il cuore e che rende capace l’uomo di comportarsi non in termini di pura reciprocità, ma in una logica di sovrabbondanza. È la capacità che il Messia dona ai suoi discepoli, quello che l’antica colletta domanda: “possiamo conoscere ciò che è conforme alla tua volontà e attuarlo nelle parole e nelle opere”. Da interpretare: possiamo aprire il nostro cuore alla promessa di vita che la parola del Signore cela e possiamo aprire gli eventi della nostra vita al Regno che viene.
Se la Legge aveva stabilito quella che siamo soliti chiamare la legge del taglione nel tentativo di arginare la sete di vendetta di fronte alle offese, Gesù ricorda di non opporsi nemmeno al malvagio, nel senso di rispondere al male con il bene perché il male non si propaghi. Gli esempi hanno un valore simbolico per sottolineare l’eccedenza nel volere il bene comunque (come racconta Gv 18,22-23, Gesù non ha offerto l’altra guancia a colui che l’aveva schiaffeggiato di fronte al Sommo Sacerdote, ma ha custodito comunque il bene!). ‘Chi ti costringe ad accompagnarlo per un miglio’ allude al diritto dei funzionari del re di costringere chiunque all’aiuto richiesto, come sarà il caso del cireneo che porterà la croce di Gesù per un tratto di strada e Gesù invita ad agire non per dovere o sotto costrizione, ma in benevolenza. Tra l’altro, il verbo italiano angariare deriva dall’obbligo di una prestazione forzata imposta dalla pubblica autorità. La finale, che riassume il senso di tutti gli esempi riportati: “Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”, richiama proprio la santità di Dio, che è amore per tutti i suoi figli, il cui bene precede l’agire degli uomini e quindi non ne dipende. L’eccedenza, a cui allude Gesù, ha proprio a che fare con questo ‘Bene’ di Dio che in Gesù si comunica all’uomo perché l’uomo non dipenda mai dal male, anche se lo subisce. La legge potrebbe essere definita come la fatica di arginare il male, mentre l’evangelo la possibilità di vincerlo. Alla fin fine solo la fiducia in quella possibilità ci rende capaci di neutralizzare il male, di non dar spazio al male.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico A (2022-2023)
Tempo di Quaresima
I Domenica
(26 febbraio 2023)
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Gn 2,7-9; 3, 1-7; Sal 50 (51); Rm 5,12-19; Mt 4,1-11
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La preghiera della Chiesa così commenta l’episodio delle tentazioni nella vita di Gesù: “…concedi al tuo popolo di intraprendere con la forza della tua parola il cammino quaresimale, per vincere le seduzioni del maligno …” (colletta) e “Egli consacrò l’istituzione del tempo penitenziale con il digiuno di quaranta giorni, e vincendo le insidie dell’antico tentatore ci insegnò a dominare le seduzioni del peccato …” (prefazio). L’uomo è soggetto alle seduzioni del maligno e del peccato, questo è il fatto! Per non soccombere, la Chiesa, guardando a Gesù, su cui è fondata, inaspettatamente suggerisce l’unica via di uscita possibile: “… concedi a noi tuoi fedeli di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo …” (antica colletta) e “Il pane del cielo che ci hai dato, o Padre, alimenti in noi la fede, accresca la speranza, rafforzi la carità, e ci insegni ad aver fame di Cristo, pane vivo e vero, e a nutrirci di ogni parola che esce dalla tua bocca” (orazione dopo la comunione).
Senza tentazioni non c’è verità, dicevano i nostri padri. Nella percezione psicologica la lotta spirituale sembra tesa a ‘dominare le seduzioni’ del male, che non smette mai di far sentire la sua presenza ingombrante e spesso angosciosa con la scusa di attirarci a qualcosa di attraente e fascinoso. Ma nella dinamica spirituale, tipica del nostro cuore, la lotta è per crescere nella ‘conoscenza del mistero di Cristo’, vale a dire per aprirci ad un’umanità che Gesù ha fatto splendere e che il nostro cuore sogna. Il dilemma dell’uomo, alla fine, non è tra dipendenza e libertà, ma tra autosufficienza e libertà. L’illusione è l’indipendenza intesa come autosufficienza. Non per nulla Gesù risponde agli attacchi del maligno con le parole della Scrittura, con la sottomissione radicale alla parola di Dio, che libera. Gesù non appare come l’eroe o il superuomo che sa combattere e vincere, ma come colui che sta sottomesso in modo così radicale da godere della libertà di Dio, che è amore per noi.
Il maligno, non essendo stupido, non tenta certo di distogliere Gesù da Dio per indurlo al male. La sua azione è più raffinata. Gli suggerisce che ci sarebbe un modo più diretto ed efficace per arrivare al suo scopo. L’inganno sta nel fatto di fargli fare qualcosa in nome di Dio senza condividere il segreto di Dio, senza il compiacimento di Dio. Le tentazioni hanno appunto lo scopo di distoglierci dall’obiettivo vero per suggerirne uno fasullo. Le tre tentazioni sono precedute dall’annotazione che, dopo quaranta giorni di digiuno, Gesù ebbe fame. Non si tratta solo di una fame materiale (solo la prima tentazione alluderebbe direttamente al desiderio di cibo) ma del suo desiderio di realizzare il compito di cui è stato investito come Messia: manifestare l’amore di Dio, portare tutti a Dio. Il suo aver fame richiama il grido sulla croce: ho sete (Gv 19,28). Ha fame e sete degli uomini. È nel suo zelo per gli uomini che viene tentato.
La scena richiama l’esperienza del popolo di Israele in viaggio verso la terra promessa nel suo peregrinare nel deserto, luogo della rivelazione di Dio e nello stesso tempo luogo di terribili tentazioni. Le risposte che Gesù dà al diavolo sono tutte citazioni prese dal libro del Deuteronomio (Dt 8,3; 6,16; 6,13), soprattutto da quel capitolo 6 che contiene la professione di fede del pio israelita, lo Shema Israel.
Dal punto di vista di Dio, che consente il sopraggiungere della tentazione, in gioco è la verità della sua promessa al nostro cuore: ci è promessa la vita, ma non secondo il proprio piacere; ci è promesso il soccorso, ma dentro una provvidenza che impariamo ad accogliere; ci è promessa la gloria, ma non per i propri interessi.
Le parole di satana nella seconda tentazione sono rivelate in tutta la loro portata nel momento cruciale della vita di Gesù allorché, appeso in croce, si sente apostrofare: “Ha salvato altri e non può salvare se stesso! È il re d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui. Ha confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: ‘Sono Figlio di Dio’!” (Mt 27, 42-43). Vi sono racchiuse in sintesi tutte e tre le tentazioni. Nella logica del maligno, di cui gli uomini fanno le spese nella loro vita, veramente Gesù non può salvare se stesso (non si sfama con un miracolo), non può dimostrare nulla (non si butta dal pinnacolo) e non viene liberato dalla morte (adora davvero Dio solo). Eppure, proprio quel non salvare se stesso, non voler dimostrare nulla, non essere liberato dalla morte, comporterà la rivelazione del vero amore di Dio che riempie la sua vita e che riverbererà sul cuore degli uomini che non vorranno più illudersi.
Le risposte di Gesù frantumano l’illusione con la quale il diavolo irretisce per impedirci di essere liberi e veritieri. In effetti, il vero scopo della tentazione non è mai diretto, è subdolo, perché l’intenzione del maligno resta segreta al nostro cuore: se mi adorerai, tutto sarà tuo! Nemmeno ci accorgiamo che nella tentazione è in gioco la cattura della nostra libertà come figli di Dio. Lo scopo del vincere l’illusione lo rivela assai bene s. Francesco nel suo commento al Padre nostro: “sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra: finché ti amiamo con tutto il cuore, sempre pensando a te; con tutta l’anima, sempre desiderando te; con tutta la mente, orientando a te tutte le nostre intenzioni e in ogni cosa cercando il tuo onore. E con tutte le nostre forze, spendendo tutte le nostre energie e sensibilità dell’anima e del corpo a servizio del tuo amore e non per altro; e affinché amiamo il nostro prossimo come noi stessi, trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo amore, godendo dei beni altrui come dei nostri e compatendoli nei mali e non recando offesa a nessuno”. È l’illusione infranta, la libertà acquisita, lo spazio nuovo dell’umanità da riempire.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico A (2022-2023)
Tempo di Quaresima
II Domenica
(5 marzo 2023)
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Gn 12,1-4a; Sal 32 (33); 2Tm 1,8b-10; Mt 17,1-9
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L’esperienza sul Tabor ha senso per un cuore che canta con il salmo: “Il mio cuore ripete il tuo invito: ‘Cercate il mio volto!’. Il tuo volto, Signore, io cerco” (Sal 26/27,8). Reso nella versione latina con il trasporto dell’emozione, come dentro un’attesa amorosa: “Tibi dixit cor meum: exquisivit te facies mea; faciem tuam, Domine, requiram”. Quel volto che, sul monte, ai tre discepoli brilla come il sole. Un attimo, sufficiente però a imprimere indelebile quella visione negli anfratti del cuore se, dopo tanti anni, rimane intatta nella memoria di Pietro: “Egli infatti ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: «Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento». Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte” (2Pt 1,17-18).
L’esperienza però non è esaltante. È drammatica. Non è un caso che la trasfigurazione sia collocata tra due annunci della passione, a sottolineare che il Figlio di Dio risorto e il Figlio dell’uomo che soffre devono stare insieme nella fede dei discepoli. La consegna del silenzio riguarda proprio la natura della gloria di Gesù. Non si tratta di parlare di Gesù in termini di divinità gloriosa e potente, ma in termini pasquali: colui che ha sofferto la passione è colui che viene esaltato con la risurrezione. E questo non poteva essere colto che alla conclusione della storia di Gesù. La cosa ha un risvolto potente, che non è mai assimilato una volta per tutte dai credenti. La profezia di Daniele sul figlio dell’uomo: “Gli furono dati potere, gloria e regno: tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto” (Dn 7,14) risponde all’essenza di quel silenzio perché l’unico potere di vittoria che Gesù si arroga è quello dell’amore crocifisso. Tanto da far dire al papa Leone Magno: “è più importante pregare per la pazienza che per la gloria”.
In tal senso, trovo decisivo per i discepoli non ciò che accade sul monte, ma dopo, quando si ritrovano davanti Gesù solo, senza la gloria intravista e senza la compagnia celeste di Mosé ed Elia. Tra l’altro, proprio in quell’occasione Mosé ed Elia vengono illuminati da Gesù sul significato della loro opera e sul segreto di Dio che la loro opera voleva manifestare. Tanto che quando Gesù resta solo, viene come sottolineato che oramai tutto prende luce solo in Gesù. E se Pietro si perde in vaneggiamenti, non fa che riesprimere quello che gli era stato difficile comprendere una settimana prima a Cesarea, quando non riusciva ad accogliere il destino di passione di Gesù.
La sincerità del cuore credente è abbinata all’accoglienza della rivelazione della passione, ad accogliere lo scandalo della croce, come Gesù ripetutamente insegna ai suoi discepoli. Nelle antiche icone della trasfigurazione, i tre apostoli sono raffigurati scaraventati a terra e solo come di soppiatto riescono a intravedere la scena straordinaria che si presenta ai loro occhi. Il testo del vangelo li descrive nell’atto di svegliarsi come da un sonno, resi capaci per un attimo di restare abbagliati dalla visione di Gesù con i suoi interlocutori mentre questi si congedano da lui. Più che la visione il testo accentua la voce: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo”. Sensazione rimarcata dal fatto che la voce orienta gli sguardi, non alla gloria di Gesù, ma al Gesù solo, al Gesù dell’aspetto di sempre, quello che gli apostoli conoscevano bene, quello che con decisione andrà a Gerusalemme per subirvi la passione.
Nel contesto della narrazione evangelica l’evento della trasfigurazione si presenta come la firma all’intero vangelo, che si concluderà con la confessione di fede del centurione sotto la croce e con la glorificazione di Gesù, il Crocifisso. Quel Gesù, di cui è detto alla fine dell’evento della trasfigurazione: “Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo”, è proprio il Figlio di Dio che annuncia agli uomini la volontà del Padre e l’evangelo del Regno. I discepoli sono invitati a cogliere l’invisibile nel visibile, la divinità nell’umanità e proprio nell’umanità calpestata, che resta fedele all’amore.
Nel cammino degli apostoli l’evento della trasfigurazione, riservato ai tre discepoli che presenzieranno al dramma del Getsemani, ha un valore di conferma della loro fede in Gesù, fede che sarà duramente messa alla prova al tempo della passione. Non che l’evento risparmi agli apostoli la prova, ma farà in modo che i loro cuori, quando saranno smarriti e confusi, non si separeranno dal loro maestro, anche se momentaneamente lo abbandoneranno. È anche lo scopo segreto della preghiera. Non si tratta di godere di una visione, ma di essere confermati nel cuore per poter sostenere la prova e seguire il Signore fino a gustarne la compagnia nelle afflizioni sopportate per amore di lui. Quella ‘sopportazione’ non riguarda la propria fedeltà, ma la solidarietà con i nostri fratelli fino a far splendere davanti a loro la bontà del Signore che non vuole che nessuno si perda, ma che tutti abbiano la vita. Lì conduce la visione della ‘gloria’ di Gesù, il Testimone per eccellenza dell’amore del Padre per gli uomini. E questo è il senso della preghiera della Chiesa nel tempo quaresimale.
L’esempio di Abramo è eloquente. Sente la voce di Dio: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre”. L’espressione singolarissima, nel testo ebraico, è ‘lek leka’, che traduciamo con ‘vattene’, ma che andrebbe resa, secondo la vocalizzazione tradizionale: ‘vai a te’, ‘vai verso te stesso’, ‘vai per te stesso’. Contemporaneamente un esodo e un ritorno. Un esodo da qualcosa che impedisce la scoperta del senso pieno del vivere e un ritorno a ciò che ci costituisce nell’intimo per vivere in gratuità e servizio la nostra vocazione all’umanità. Abramo non conosce nulla del nuovo paese: sa solo che Dio gliene fa promessa. Sarà il suo ascoltare che gli consentirà di vedere la benedizione realizzarsi. Proprio perché accetta la relazione con colui che lo coinvolgeva nella sua storia sacra fino a diventare il suo Dio, lascia la sua casa (se scegli il Padre celeste, devi lasciare quello terreno; se scegli il regno di Dio, devi lasciare ogni altro regno; se ti accetti da Dio, di Dio e secondo Dio devi vivere, come dirà Cipriano nel suo commento al Padre nostro) e per questo, oltre a godere della benedizione di Dio, diventa benedizione lui stesso per tutti perché rivela la grandezza dell’amore di Dio e lo splendore che si irradia su tutto.
L’accento è sulla voce e non sulla visione, nella linea di un’obbedienza luminosa. Abramo ascolta Dio, Gesù ascolta il Padre, i discepoli ascoltano Gesù e il frutto della benedizione promessa rivelerà il suo splendore. Per gli uomini, quello splendore consisterà nel condividere, nella loro umanità aperta a tutti, lo sguardo di compiacenza del Padre, che riposa tutto sul suo Figlio benedetto, fatto uomo. L’ascolto condurrà così alla visione di colui che, mentre ci squaderna il segreto di Dio per l’uomo, fa rilucere il mondo dello splendore della sua bellezza.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico A (2022-2023)
Tempo di Quaresima
III Domenica
(12 marzo 2023)
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Es 17,3-7; Sal 94 (95); Rm 5,1-2.5-8; Gv 4,5-42
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Anticamente i fedeli che si preparavano al battesimo, che avrebbero ricevuto nella solenne veglia pasquale, venivano accompagnati con delle catechesi, la prima delle quali cominciava con la liturgia di oggi. Nel colloquio con la samaritana al pozzo di Giacobbe, Gesù si definisce Acqua viva, sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna. Nella prossima, con la vicenda del cieco nato, Gesù è definito Luce; nella terza, con la risurrezione di Lazzaro, Gesù si presenta come Vita.
La liturgia quaresimale indica i percorsi della conversione del cuore con le domande di fondo essenziali. Una di queste domande, forse non sempre espressa, ma continuamente serpeggiante nel cuore, è quella del popolo di Israele, esasperato nel deserto dalla fame e dalla sete: “Il Signore è in mezzo a noi sì o no?” (Es 17,7). La domanda del popolo non è provocatoria o irriverente; semplicemente, è angosciante: il Signore è con noi? Ogni prova fa emergere il dubbio: ma Dio vuole davvero il nostro bene? L’insinuazione dell’antico serpente disturba i sogni di felicità dell’uomo.
Nel riferirci a Dio, quello che forse il nostro cuore stenta a credere è sentirlo pieno di desiderio di noi, è sentire la sua ‘sete’ di noi. Nel prefazio della messa di oggi la chiesa proclama: “Egli, chiedendo alla Samaritana l’acqua da bere, già aveva suscitato in lei il dono della fede e di questa fede ebbe sete così grande da accendere in lei il fuoco del tuo amore”. In effetti è Gesù che chiede da bere alla samaritana, è lui che ha sete. Evidente il rimando alla sete di Gesù sulla croce: “Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: ‘Ho sete’” (Gv 19,28). Come a dire che tutta la Scrittura è l’espressione della sete di Dio per noi. Gesù è affaticato da un viaggio e si siede sul pozzo, assetato; Gesù è sulla croce, riarso dalla sete, come spasimo di un corpo ormai distrutto. Eppure, l’annotazione dell’evangelista non ha un valore cronachistico, ma simbolico, teologico. Ciò che aveva colto madre Teresa, tanto da far scrivere sull’abside di tutte le cappelle delle sue comunità: Ho sete!
Non so se un dettaglio del racconto evangelico abbia anch’esso un valore simbolico, insieme a tanti altri dettagli. Ho notato che il testo, parlando del pozzo di Giacobbe, quando riferisce l’annotazione delle Scritture e quando parla Gesù, il termine che viene usato è ‘sorgente’, quando parla la samaritana è ‘pozzo’. Sorgente si riferisce all’acqua corrente, all’acqua viva; pozzo al deposito di acqua. Davanti all’acqua che Gesù promette di dare, ogni altra acqua non è che acqua stagnante.
Il brano dell’incontro di Gesù con la samaritana è uno di quei brani di cui ci sfuggono continuamente le allusioni dandoci netta l’impressione di sentirci davvero stranieri in casa nostra. Il brano acquista ben altre risonanze se teniamo presenti le reminiscenze legate al luogo, Sichem (cfr. Gen 12,6; 34; 37; Gs 24; 1Re 12) e soprattutto al pozzo, carico di una simbolica nuziale. Nota era la leggenda targumica legata al pozzo di Giacobbe raccontata a commento del passo di Gen 29,10, quando Giacobbe leva la pietra dal bordo del pozzo per dare da bere al gregge di Labano: “Quando il nostro padre Giacobbe levò la pietra da sopra la bocca del pozzo, la fonte zampillò su e venne alla sua bocca e zampillava e veniva alla bocca per vent’anni – tutti i giorni che abitò ad Haran”. Nel sogno popolare il pozzo di Giacobbe trasbordava spontaneamente, senza bisogno di attingere e irrigava, con i suoi quattro bracci, tutto il campo di Israele come il fiume del paradiso terrestre in Gen 2,10-14. Quando la samaritana si rivolge a Gesù come a uno che si vorrebbe più grande di Giacobbe, allude esattamente a quel ‘sogno’ e rivela indirettamente che Gesù è proprio colui che quel sogno realizza per l’uomo. Dire che la samaritana ha avuto cinque mariti e che quello che aveva non era suo marito vuol dire alludere al trasferimento di cinque popolazioni pagane in Samaria per opera del re di Assiria (cfr. 2Re 17,24) e al traviamento rispetto all’alleanza con il Signore non più servito in santità.
È anche possibile leggere il brano con le allusioni alla passione del Signore: l’ora sesta è l’ora in cui ha luogo la crocifissione; la sete di Gesù allude alla sua sete degli uomini, che manifesta sulla croce; l’acqua che zampilla fa riferimento al costato, aperto dalla lancia del soldato, da dove fuoriescono sangue e acqua; la proclamazione finale dei samaritani che Gesù è il salvatore del mondo allude al riconoscimento sotto la croce che Gesù è davvero Figlio di Dio.
Il brano poi è suddiviso in due scene: il colloquio con la samaritana incentrato sull’immagine dell’acqua e il colloquio con i discepoli incentrato sull’immagine del cibo. Ci sono due tipi di acquietamento della sete e della fame che non soddisfano l’uomo alla ricerca di relazione, di senso, di vita, di felicità. Voler praticare la Legge come un assolvimento di obblighi e una esibizione di innocenza provoca delusione e tristezza. Non è questa l’adorazione in spirito e verità che cerca il Signore. Il punto nevralgico del racconto dei due colloqui è dato dal fatto che l’uomo, desideroso di acqua viva e cibo vero, si trovi aperto alla rivelazione donata da Dio: lì davanti c’è colui che, unico, ha il potere di dare la vita, di fornire la fonte dell’acqua, di dare il cibo di vita eterna, il suo stesso corpo. “Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio unigenito…”: cogliere questa rivelazione in quell’uomo che ti parla, che ti ha voluto incontrare, che ti segue nei meandri del tuo cuore e che, facendoti emergere il desiderio di verità e di vita che vi sta sepolto, lo può soddisfare, è il mistero della conversione. Conversione che si riassume nell’espressione della Scrittura: ‘guarderanno a colui che hanno trafitto’, vale a dire: incontro rigenerante con colui che ti disseta e sfama con l’amore che quella ferita ha mostrato al mondo. Quando, rimirando quell’innocente appeso sulla croce, ci si rende conto del mistero dell’amore di Dio che è arrivato agli uomini, allora la parola di verità ascoltata si fa parola vera del mio cuore, la promessa di vita diventa vita mia, la sua sete e fame di noi si fa acqua e cibo per la vita del nostro cuore, dono di Dio e volontà di bene di Dio per noi.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico A (2022-2023)
Tempo di Quaresima
IV Domenica
(19 marzo 2023)
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1Sam 16,1b.4.6-7.10-13; Sal 22 (23); Ef 5,8-14; Gv 9,1-41
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Già il profeta Isaia aveva prospettato la rivelazione di Dio al popolo in termini di luce: “Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla su di te …” (Is 60,1-2). Se poi teniamo conto della prima lettura, con l’episodio della consacrazione regale di Davide da parte del profeta Samuele, allora possiamo comprendere l’immagine della luce in termini molto concreti, come avverrà per il cieco guarito. La luce, sempre allusiva del battesimo, è l’irradiazione della santità di Dio, splendore di amore per noi, nelle nostre persone rese re-sacerdote-profeta, secondo l’umanità di Gesù. E potremmo spiegare così: chi non serve nessun idolo non è schiavo di niente (re); chi sa benedire per ogni cosa il suo Dio celebra il culto a lui gradito (sacerdote); chi si fa illuminare dalla Parola di Dio non può che annunciare al mondo il mistero di Dio che si è fatto prossimo all’uomo (profeta).
Ora, proprio perché Gesù è la luce di santità di Dio che irradia dalla sua umanità, può rimodellare la nostra umanità e schiuderla al Regno, alla Presenza. Nel brano evangelico odierno ci sono molti particolari che vanno raccordati tra loro per cogliere il segreto del racconto. Il capitolo 8 di Giovanni si era concluso con l’annotazione che Gesù deve nascondersi e uscire dal tempio perché lo vogliono lapidare. E proprio nell’uscire dal tempio vede il cieco. Non lo guarisce subito, ma gli ordina di andare a lavarsi alla piscina di Siloe dopo aver impastato del fango con la sua saliva e averglielo spalmato sugli occhi. Va notato che impastare fango e applicarlo agli occhi in funzione terapeutica era espressamente proibito di sabato, secondo l’interpretazione rigorista della Legge. Il nome Siloe (piscina, dalla quale veniva attinta l’acqua portata solennemente verso il tempio e versata attorno all’altare nella solennità della festa delle capanne) significa ‘chi invia [le acque]’ma Giovanni, rendendolo al passivo, ‘Inviato’, vuole indicare che la nostra guarigione si trova in Gesù, che poco prima si era definito ‘inviato’ dal Padre, v. 4). Nelle parole del cieco guarito Gesù è indicato prima come ‘quell’uomo che si chiama Gesù’, poi ‘un profeta’, poi ‘che è da Dio’ e infine, davanti alla domanda di Gesù che lo va a cercare dopo che è stato cacciato dai farisei: “Tu credi nel Figlio dell’uomo?”, risponde: “Io credo, Signore!”.
La progressione segnala la dinamica spirituale del credente. Dalle cose si passa a scoprire un Volto e da questo Volto si torna, nuovi, alla propria vita, alla propria storia. Gli eventi ci sono dati per scoprire il Volto di colui che il nostro cuore cerca e la scoperta di questo Volto ci rimanda agli eventi perché siano vissuti nella luce e nella vita che da lui promanano.
Il brano è introdotto dalla interrogazione dei discepoli: “chi ha peccato, lui o i suoi genitori?”. La domanda esprimeva il tentativo di sfuggire all’angoscia del male da parte di una coscienza religiosa. Noi non formuleremmo più la domanda in quei termini, ma non per questo l’interrogativo di fronte al male ha perso la sua angoscia lancinante. Gesù non dà risposta in termini ‘ragionevoli’. Invita più semplicemente, ma più potentemente, a distogliere lo sguardo dal passato e volgerlo al futuro: “ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. Cosa significa? Vuol solo alludere al fatto che Gesù si appresta a fare il miracolo? No, certamente. Gesù indica la prospettiva per vivere la vita segnata dal male, nella fede in lui. Cercare la causa del male ‘indietro’ ci inchioda al non-senso e alla rabbia della frustrazione. La motivazione va cercata ‘in avanti’, rispetto a un qualcosa che per noi deve ancora farsi, deve ancora rivelarsi. Ma non si tratta più semplicemente di cose, di eventi, bensì di incontri, di volti. È il mistero stesso della fede. La vita scaturisce dalla fede nel senso che la si può vivere ricevendola dalle mani di colui che ci è venuto incontro ed ha mostrato il suo Volto. Del resto, il mistero dell’amore umano trova qui le radici del suo insopprimibile fascino, nonostante le ferite e le delusioni alle quali così spesso ci condanna.
L’unico modo per riscattare il male è quello di aprirsi allo spazio futuro, nella consapevolezza però di non stupirsi che il male ci venga a cercare. Ma se il male ci viene a cercare, è perché si manifestino in noi le opere di Dio. È l’insegnamento della Tradizione sulle tentazioni: “quando sopraggiunge una tentazione, non cercare perché o a causa di chi è venuta: ma in che modo sostenerla con rendimento di grazie, senza tristezza e senza rancori”; “Prega perché non venga su di te la tentazione. Ma se poi viene, accettala non come cosa estranea, ma tua” (Marco Asceta, A quelli che si credono giustificati, 198; La legge spirituale,164). E per quale scopo se non per rinunciare definitivamente alla rivendicazione dei nostri diritti e fidarsi invece del Bene di Colui che ci viene incontro? Non stare inchiodati al passato significa percepire che Qualcuno si è mosso per venirci incontro.
Il canto al vangelo che riporta la promessa di Gesù: “Io sono la luce del mondo; chi segue me avrà la luce della vita” (Gv 8,12), rivela la ragione della proclamazione del salmo responsoriale: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”. Quando non è vero che il Signore è il mio pastore perché ci lamentiamo di tutto, allora è vero che il Signore non è la luce del nostro cuore. Il brano del cieco guarito finisce con l’osservazione di Gesù ai farisei: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane”. E noi possiamo interpretare così. Le ragioni addotte dalle nostre lamentele rivelano la cecità del cuore. Se il cuore riconosce per valide le sue ragioni resta cieco; se invece riconosce la sua cecità torna luminoso per la luce del Signore.
Quando il salmo 22 proclama che il pastore fa riposare le pecore in pascoli erbosi e presso acque tranquille, allude proprio al dono della sua vita, che è vita eterna, sovrabbondante. Le acque tranquille – in ebraico, le acque di ‘menuchot’- richiamano la creazione del riposo/ristoro nel settimo giorno della creazione. Il testo della Genesi, dopo aver narrato la creazione di tutte le cose, dice: “Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto”. Gli antichi rabbini intravedono un atto di creazione anche nel settimo giorno: “Che cosa è stato creato il settimo giorno? La ‘menuchà’, la tranquillità, la serenità, la pace e il riposo” (Cfr Gen Rabbà, 10, 9). È lo stato in cui non vi è contesa né lotta, né paura né diffidenza; è felicità, pace e armonia; vita del mondo futuro, vita eterna. Proprio quella ‘vita abbondante’ che Gesù riconsegna agli uomini che lo accolgono. È la gioia di un amore che non sarà più mortificato da nulla, amore che, testimoniato nel suo splendore sul calvario, è donato come Spirito di vita agli uomini che nel ‘crocifisso’ colgono il compimento della promessa di Dio per l’uomo.
Non solo. Ma quando Gesù dice “Io sono la luce del mondo” non si può non risalire al racconto della creazione in Genesi 1,3, quando fu creata la luce. Non è semplicemente la luce fisica, quella che deriva dal sole, creato solo nel quarto giorno. È la luce della santità di Dio, splendore di amore per noi, che attraversa il mondo, luce che però è stata nascosta. È la luce che fa cogliere il mondo dentro uno sguardo unico. È la luce che il messia rivelerà. È la luce che Gesù ha fatto risplendere liberando gli uomini succubi dell’illusione dell’antico serpente che li ha privati della gloria di Dio. Come fa pregare l’orazione dopo la comunione: “O Dio, che illumini ogni uomo che viene in questo mondo, fa risplendere su di noi la luce del tuo volto [il Signore nostro Gesù Cristo], perché i nostri pensieri siano sempre conformi alla tua sapienza e possiamo amarti con cuore sincero”. Come spiega Francesco di Assisi nel suo commento al Padre nostro: “sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra: finché ti amiamo con tutto il cuore, sempre pensando a te; con tutta l’anima, sempre desiderando te; con tutta la mente, orientando a te tutte le nostre intenzioni e in ogni cosa cercando il tuo onore. E con tutte le nostre forze, spendendo tutte le nostre energie e sensibilità dell’anima e del corpo a servizio del tuo amore e non per altro; e affinché amiamo il nostro prossimo come noi stessi, trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo amore, godendo dei beni altrui come dei nostri e compatendoli nei mali e non recando offesa a nessuno”.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico A (2022-2023)
Tempo di Quaresima
V Domenica
(26 marzo 2023)
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Ez 37, 12-14; Sal 129 (130); Rm 8,8-11; Gv 11,1-45
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Alla notizia della malattia dell’amico, Gesù non va subito a trovarlo ma deliberatamente aspetta. La sua spiegazione: questa malattia non è per la morte ma per la gloria di Dio. Cosa siamo invitati a scoprire? Non credo voglia alludere solo al fatto che compirà un miracolo strepitoso per cui tutti daranno gloria a Dio. Tra l’altro, a miracolo compiuto, non sarà esaltata la sua persona e il capitolo finisce con la decisione di mettere a morte Gesù. La gloria di cui parla Gesù riguarda appunto la disponibilità sua a morire crocifisso perché si conosca la grandezza dell’amore del Padre per noi. L’andare da Lazzaro, lasciando prima che la morte faccia il suo corso, ha lo scopo di scatenare la sua ora, di andare incontro alla sua morte. Nel racconto giovanneo, la risurrezione di Lazzaro è il settimo ‘segno’, l’ultimo, prima del racconto della sua passione-morte-risurrezione.
Il grido davanti alla tomba: Lazzaro, vieni fuori!, va allora inteso: vieni a me, venite a me se volete la vita. E la scena non si conclude con un abbraccio vicendevole di soddisfazione tra Gesù e i suoi amici, Lazzaro e le sue sorelle, ma con l’invito: scioglietelo e lasciatelo andare. Chi viene a Gesù è rimandato alla fraternità perché lo spazio in cui si gioca la vita, che da lui è stata donata, è appunto la fraternità. Corrisponde alla finale dei racconti di miracoli: vai, la tua fede ti ha salvato. Testimonia nella tua vita la grandezza dell’amore di Dio che si è rivelato al tuo cuore.
Quando Marta, davanti al sepolcro del fratello, ricorda a Gesù il fetore dei morti, si sente dire: “Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?”. Dal punto di vista degli affetti umani, sembra che la domanda di fondo che serpeggia per tutto il brano non sia: perché la morte?, ma: perché Dio non impedisce la morte? Gli amici della famiglia di Lazzaro così pensano. Per noi invece la domanda che rimbalza può essere formulata così: sarà mai possibile vedere la gloria di Dio nella nostra vita tormentata?
È la stessa domanda della fede di Marta, che inaspettatamente risponde a Gesù, non di credere a quello che gli ha detto, ma: “Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo”. Non dice: io credo che tu hai il potere di far risorgere i morti, ma piuttosto: io credo che tu sei il Figlio di Dio. Afferma la verità del suo incontro con lui, del suo amore; ha piena fiducia in lui. Per questo potrà vedere la gloria di Dio. E sarà per questo che potrà seguire il suo Gesù, con sua sorella Maria, fino alla fine, fino a che la sua glorificazione appaia al mondo. Il vedere Gesù che fa ritornare in vita Lazzaro non induce ad una esaltazione della sua persona, ma fa presagire come e perché Gesù abbia tale potere e quindi mette in risalto la sua disponibilità a morire per manifestare in tutta la sua potenza l’amore del Padre, da cui scaturisce la sua glorificazione e la vita per noi.
L’antica colletta fa pregare: “Vieni in nostro aiuto, Padre misericordioso, perché possiamo vivere e agire sempre in quella carità che spinse il tuo Figlio a dare la vita per noi”. Quella carità è il frutto della sua glorificazione che ci viene elargito dallo Spirito Santo. Il combattimento spirituale, la lotta contro il male, l’osservanza dei comandamenti altro non è che una partecipazione alla potenza della risurrezione, allorché la vita viene vissuta nella carità del Cristo che niente e nessuno può mortificare. È il principio della vita eterna, quello di una vita che non abbia altra consistenza se non come carità. L’incontro con Gesù apre a questa dimensione. Se lui è ‘datore di vita’ lo è perché, facendo vivere nella sua carità, impedisce alla morte di tenere prigioniero il nostro cuore.
Il nostro gridare, nel salmo responsoriale: “Dal profondo [secondo la versione greca: Dalle profondità] a te grido, o Signore; Signore, ascolta la mia voce”, deriva dalla coscienza della nostra mortalità, non semplicemente come termine della vita biologica, ma come abisso della mortificazione della vita che stenta ad accedere alla carità di Dio. Proprio quella ‘mortificazione della vita’ il Signore vince. Nel salmo la preghiera dell’uomo ruota attorno a due verbi: attendere e sperare. Sono i verbi della fede. Si resta pazienti e fiduciosi nell’attesa di una parola di salvezza perché si spera nella misericordia di Dio che ci soccorre.
Se Gesù non ha voluto risparmiare la prova ai suoi amici e viene a condividerla, tanto da restarne intimamente e profondamente scosso, la ragione è da ricercare nel fatto che così facendo si espone alla sua prova, anzi la provoca con l’arresto e la morte imminenti. Ma la sua non è una semplice condivisione della sofferenza umana. Lui vive il dolore riscattandolo perché lo assume da dentro un amore che non viene mai meno. Il suo rendere grazie l’attraversa, lo porta fino in fondo. È però più forte della morte e se esulta, non è per aver impedito il suo corso, ma per aver trionfato su di essa dopo averle lasciato esprimere tutto il suo potere. Ciò che Gesù ci ottiene non è la vita dopo la morte, ma la vita nella morte. È la rivelazione dell’amore come vita eterna, immortificabile perché piena.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico A (2022-2023)
Tempo di Quaresima
Domenica delle Palme e della Passione del Signore
(2 aprile 2023)
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Ingresso in Gerusalemme Mt 21,1-11
Is 50,4-7; Sal 21(22); Fil 2,6-11; Mt 26,14-27,66
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Ha inizio la Grande Settimana, la Settimana Santa. La liturgia mostrerà fino a che punto Dio ha amato il mondo, fino a che punto Gesù ha obbedito a questo amore, fino a che punto l’uomo è prezioso agli occhi di Dio.
La liturgia di oggi è suddivisa in due momenti distinti. Prima, viene commemorato l’ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme: i toni sono festosi, esultanti. Dopo, viene proclamato il racconto della passione: i toni sono accorati, mesti.
Nella narrazione di Matteo questa è l’unica volta che Gesù viene a Gerusalemme. Vi entra trionfalmente, ma per consegnarsi alla sua passione e morte. Chi se ne avvede? Sembra che nessuno si renda conto. Eccetto una donna (nel racconto di Giovanni è Maria, la sorella di Lazzaro, che Gesù aveva richiamato in vita). Il brano, che precede immediatamente il racconto della passione, è proclamato nella liturgia ambrosiana della domenica delle palme. Versando un profumo preziosissimo sul capo (secondo Giovanni, sui piedi) ella unge il corpo di Gesù per la sepoltura. Così Gesù interpreta e rimprovera gli apostoli che gridano allo spreco. Nel racconto di Matteo, il mattino di Pasqua, le donne che vanno al sepolcro non vengono per l’unzione del corpo di Gesù ma per trovare solo la tomba vuota. L’invito della liturgia è di seguire il racconto della passione accompagnando Gesù con i sentimenti e la devozione di questa donna che nel suo cuore ha percepito il segreto di Gesù.
Secondo la profezia messianica di Zaccaria, Gesù entra in città seduto sull’asina, tra i gesti di devozione dei discepoli che lo accompagnavano salendo da Gerico verso Gerusalemme e dalla piccola folla che da Gerusalemme gli si fa incontro festante. La scena ha sapore regale perché ricorda la proclamazione di Salomone come re di Israele sulla mula di Davide (1Re 1,33-34); ricorda i patriarchi (Abramo si incammina verso il monte Moria per il sacrificio di Isacco a dorso di asino); richiama il re Messia mite e pacifico, che disdegna i cavalli perché simbolo di guerra.
La proclamazione della passione è introdotta con il terzo canto del Servo del Signore di Isaia (primo canto: 42,1-9; secondo canto: 49,1-7; terzo canto: 50,4-10; quarto canto: 52,13-53,12) e l’inno di Paolo nella sua lettera ai Filippesi: “… svuotò se stesso assumendo una condizione di servo … umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (Fil 2,7.8). La risposta dell’assemblea è espressa con le parole del salmo 21 (22) che traduce in parole i sentimenti dei credenti alla vista del Servo del Signore percosso e messo a morte. L’aspetto straordinario di rivelazione messo in risalto dal testo paolino è il fatto che il movimento di svuotarsi (non ritenere un privilegio l’essere come Dio) continua nel suo essere uomo, perché vive la sua umanità nel farsi servo, nel farsi schiavo fino a essere calpestato e ucciso. Però Gesù vive la sua umanità nell’obbedienza, vale a dire nella condivisione più intima dell’amore del Padre per i suoi figli, di cui Gesù è il Testimone per eccellenza. Così il suo svuotarsi diventa un inno d’amore, il dono di accessibilità per tutti a godere di questo grande amore. È tutto il mistero della redenzione che i riti della settimana santa illustreranno.
Nel racconto della passione vorrei sottolineare alcuni dettagli tipici di Matteo. Solo lui ricorda la somma del tradimento: trenta monete d’argento. Il dato è pieno di reminiscenze bibliche tanto che il dettaglio richiama la paga con cui il Signore si fa valutare ironicamente nella profezia di Zaccaria 11,12, richiamando Es 21,32 che fissa il prezzo di uno schiavo a trenta monete. Nelle parole di Giuda per la richiesta del denaro ai dignitari del tempio non viene nominato Gesù tanto che il discorso sembra riferirsi a un povero sconosciuto venduto come schiavo.
Nel Getsemani, Gesù chiede sostegno ai discepoli ma questi non sembrano all’altezza tanto che, alla fine della sua angosciosa preghiera, quando ritorna da loro e di nuovo li trova addormentati, dice loro: ‘dormite pure e riposatevi! Ecco l’ora è vicina…’. Sarebbe meglio però rendere la frase a modo di dolce rimprovero: ‘dormite ancora? …’. La sottolineatura, come poi verrà direttamente espresso dopo la cattura, è che Gesù entra solo nella sua passione. Invece, la sua preghiera al Padre, nel Getsemani, dice come lui non sia mai solo. Si rivolge al Padre con l’espressione ‘Padre mio’ (Marco, a sottolineare l’intimità di rapporto in questo momento drammatico, mette sulle labbra di Gesù il nome ‘Abbà’). L’espressione ‘Padre mio’ riprende il colloquio di Isacco con Abramo nel salire sul monte Moria per il sacrificio e dice tutta l’intimità di rapporto tra i due, come anche la comunanza di intimità con il loro Dio. Matteo narra i fatti come tenendo sempre presente il compimento delle Scritture. Gesù costituisce la pienezza della rivelazione perché risponde totalmente alla promessa di Dio. Non solo, ma mostrando che in lui si compiono le Scritture, indica Gesù, il Cristo, come la chiave delle Scritture.
Matteo inizia il racconto della passione annotando: “Terminati tutti questi discorsi”. La vera parola finale, di tutta la tradizione evangelica, è la parola della Croce e della tomba vuota. Il racconto della passione dice ciò che è impossibile esprimere altrimenti che in termini narrativi. Nessun’altra sequenza evangelica narrativa ha la densità e la consequenzialità nella sua cronologia più di quella degli ultimi tre giorni di Gesù a Gerusalemme. Noi non siamo solo ascoltatori, ma, nella proclamazione liturgia, diventiamo spettatori coinvolti e presenti agli eventi di questo momento supremo della vita di Gesù.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico A (2022-2023)
Tempo di Pasqua
Pasqua di Risurrezione del Signore
(9 aprile 2023)
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At 10,34a.37-43; Sal 117 (118); Col 3,1-4; Gv 20,1-9
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IL SIGNORE È RISORTO! È VERAMENTE RISORTO!
Questo è l’annuncio che oggi risuona in tutto il mondo dalle chiese cristiane (per gli Ortodossi l’annuncio risuonerà da domenica 16 aprile). L’annuncio è tanto più evocativo quanto più gli occhi hanno contemplato nei giorni precedenti l’Uomo dei dolori, colui che Pilato aveva presentato: ‘Ecco l’uomo’! È l’Uomo che aveva dato inizio al suo cammino di passione celebrando con i discepoli la sua ultima cena pasquale, diventata per noi ‘la cena del Signore’, l’eucaristia, memoriale perenne della sua passione, morte e risurrezione. In quella celebrazione, con la lavanda dei piedi, l’amore è stato definito nel suo mistero di dono (“questo è il mio corpo, che è per voi”) e di servizio (“Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri”). La posta in gioco sarà oramai ‘aver parte con lui’. Si ha parte con lui sia celebrando l’eucaristia sia lavandosi i piedi a vicenda, perché unico è il segreto che viene svelato al mondo: la grandezza dell’amore di Dio per i suoi figli.
Dopo la crocifissione, Giuseppe di Arimatea si era presentato a Pilato per avere il corpo di quell’uomo. La liturgia bizantina così proclama: “Dammi questo straniero, che dall’infanzia come straniero si è esiliato nel mondo. Dammi questo straniero, che i suoi fratelli di razza hanno odiato e ucciso come straniero. Dammi questo straniero, di cui stranito contemplo la morte strana. Dammi questo straniero, che ha saputo accogliere poveri e stranieri. Dammi questo straniero, che gli ebrei per invidia hanno estraniato dal mondo. Dammi questo straniero, perché io lo seppellisca in una tomba, giacché, come straniero, non ha ove posare il capo. Dammi questo straniero, al quale la Madre, vedendolo morto, gridava: O Figlio e Dio mio, anche se sono trafitte le mie viscere e il mio cuore dilaniato al vederti morto, tuttavia ti magnifico, confidando nella tua risurrezione”.
Colui che abbiamo trattato da straniero, era colui di cui Isaia aveva preannunciato: “Si compirà per mezzo suo la volontà del Signore” (Is 53,10). Non tanto nel senso che la volontà del Signore fosse di condurlo alla passione, ma piuttosto nel senso che la volontà di bene e di salvezza da parte di Dio per gli uomini potesse risplendere in tutta la sua forza e il suo splendore proprio per mezzo della sua passione. E Giovanni interpreta con il profeta Zaccaria 12,10: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (da leggere, secondo il testo ebraico e greco della LXX: “Guarderanno verso di me che hanno trafitto”).
Senza però il sigillo della risurrezione, quel mistero non sarebbe stato colto e non avrebbe potuto essere immesso nel mondo. Le donne, i discepoli, la domenica di Pasqua, attendono o corrono al sepolcro per trovare un morto; l’unico orizzonte possibile è ancora avere il corpo del loro amato Signore! Ma con la risurrezione, che avviene nel giorno uno della settimana, si dischiude un tempo completamente diverso, un tempo nel quale tutto ciò che è stato compiuto fino a quel momento si rivela in tutta la sua novità. Il primo personaggio che ci conduce alla soglia di questa novità è Maria Maddalena. A differenza dei sinottici, Giovanni non aveva menzionato per la circostanza della sepoltura la presenza delle donne. La mistura di mirra e aloe era stata portata da Nicodemo e Giuseppe di Arimatea. I sinottici narrano dell’arrivo al sepolcro, all’alba, delle donne con gli oli per completare l’unzione del corpo di Gesù. Giovanni sorvola su tutto questo. Parla solo di Maria Maddalena e l’accento è posto sulla motivazione profonda, interiore, della sua presenza al sepolcro. Essa vive un’angoscia personale, un sentimento di assenza irrimediabile; per lei oramai il Signore è l’Assente; non può che sentirlo che così. Per prima vede la pietra del sepolcro tolta via e corre ad avvertire i discepoli: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove lo hanno posto”. Dall’angoscia dell’assenza passa all’angoscia dello smarrimento. Ma Giovanni parla della pietra tolta via dal sepolcro per sottolineare, in questo Giorno della Risurrezione, che viene tolto l’ultimo impedimento alla ‘vista’, alla ‘visione’, come poi il brano dirà a proposito di Giovanni entrato nel sepolcro.
L’episodio dei due discepoli che corrono al sepolcro lo conferma in una tensione crescente per giungere, alla fine, alle straordinarie parole: “Allora entrò anche l’altro discepolo …e vide e credette”. È come una richiesta che viene sussurrata al cuore degli ascoltatori del vangelo, la richiesta di avanzare nella conoscenza del mistero, di salire fino all’intelligenza della risurrezione che viene svelata poco a poco: “Vide e credette”. La tensione di questa intelligenza riprende tutto ciò che era stato compiuto e detto da Gesù in precedenza e si apre sul tempo futuro che non potrà essere vissuto se non nella luce di quella intelligenza.
Per questo, con la liturgia bizantina, i fedeli proclamano: “Giorno della risurrezione! Irradiamo gioia per questa festa solenne e abbracciamoci gli uni gli altri. Chiamiamo fratelli anche quelli che ci odiano: tutto perdoniamo per la risurrezione, e poi acclamiamo: Cristo è risorto dai morti, con la morte ha calpestato la morte, e ai morti nei sepolcri ha elargito la vita”.
È la gioia di essere riconsegnati all’amore del Padre perché “per riempire della tua gloria tutte le cose, sei disceso nelle profondità della terra; a te infatti non era nascosta la mia persona in Adamo: sepolto e corrotto tu mi rinnovi, o amico degli uomini”. Fatti a immagine di Dio, con l’Uomo, che ha patito, è morto e risorto per noi, possiamo diventargli somiglianti perché la lode dell’amore del Padre tutto conquisti. È nell’umanità di quell’Uomo, Figlio di Dio, morto e risorto, che Dio dimora, con lo splendore di un amore che a tutti è rivolto e tutti vuole inglobare.
Buona Pasqua!
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Ottavo ciclo
Anno liturgico A (2022-2023)
Tempo di Pasqua
II Domenica di Pasqua
(16 aprile 2023)
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At 2,42-47; Sal 117 (118); 1Pt 1,3-9; Gv 20,19-31
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Il ritornello del salmo 117 illustra bene il senso della letizia pasquale: “Il suo amore è per sempre”. È proprio la percezione di quell’amore, avvertita nell’incontro con il Signore risorto, che porta un’energia gioiosa al cuore credente. Partiamo dall’invito della lettera di Pietro: “Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove … Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui” (1Pt 1,6.8). La situazione dei cristiani a Roma è drammatica. È appena scoppiata la persecuzione di Nerone contro i cristiani. Siamo nell’anno 64. Forse è l’anno in cui trova la morte lo stesso Pietro (alcuni la datano all’anno 67). Nel 66 scoppia la ribellione a Gerusalemme e Nerone manda Vespasiano e Tito a ristabilire l’ordine in Palestina. Nel 70 è incendiato il tempio di Gerusalemme e nel 73 cade Masada, l’ultimo baluardo della resistenza. La comunità romana dei cristiani è violentemente perseguitata.
L’onda lunga della confessione di Tommaso “Mio Signore e mio Dio” perdura nella fede gioiosa dei cristiani in mezzo alle prove e alle afflizioni sopportate per il nome di Gesù. È caratteristico come Pietro descriva i credenti: “voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui”. Da intendere: senza averlo potuto vedere, voi l’amate; senza poterlo ancora vedere, voi credete gioiosi. Si realizza quello che Gesù dice a Tommaso: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”. Qui ‘credere’ non ha il significato generale di prestar fede a qualche verità, ma comporta il significato intensivo di esperienza di incontro, incontro con il Crocifisso Risorto.
Se seguiamo nei dettagli il racconto del vangelo di Giovanni a proposito delle apparizioni del Risorto ce ne rendiamo conto subito. Sono collocate non nel primo giorno della settimana, ma nel Giorno Uno, giorno che apre un tempo nuovo, che dà senso al succedersi del tempo senza dipendere dal tempo. La sera di quel Giorno Uno si chiude con l’espressione decisa di Tommaso, che non era stato presente quando Gesù era apparso ai discepoli: “io non credo!”. Così il Giorno Uno ha il suo corrispondente nel Giorno Ottavo quando, presente Tommaso, Gesù riappare ai discepoli. La cosa straordinaria è l’annotazione della corrispondenza tra il vedere e il toccare. Per l’apostolo Giovanni, il discepolo dallo sguardo di aquila, dallo sguardo acuto che sa vedere oltre il visibile, il senso tipico della fede è il ‘vedere’: “vide e credette”. Tommaso, invece, arriva al vedere tramite il toccare, il senso forse più terra terra, ma anche quello che dà immediata certezza.
La liturgia bizantina canta: “O straordinario prodigio! Il fieno ha toccato il fuoco ed è rimasto indenne. Tommaso ha infatti messo la mano nel costato igneo di Gesù Cristo Dio, e non è stato bruciato da questo contatto; con ardore ha infatti mutato in bella fede l’incertezza dell’anima, e dal profondo dell’anima ha gridato: Tu sei il mio Sovrano e Dio, risorto dai morti. Gloria a te”. E ancora: “O straordinario prodigio! Giovanni ha riposato sul petto del Verbo, Tommaso ha ottenuto di toccare il suo costato: e l’uno ne ha tremendamente tratto l’abisso della teologia, mentre l’altro è stato reso degno di iniziarci all’economia [= manifestazione all’esterno del mistero di Dio nel suo amore per noi], perché chiaramente ci presenta le prove della sua risurrezione, esclamando: O mio Signore e mio Dio, gloria a te”.
La confessione di Tommaso è la confessione di fede più solenne (è l’unico passo in tutto il vangelo in cui Gesù è chiamato ‘mio Dio’) e più intima (dove il cuore di ciascuno è implicato nel modo più personale). Del resto, tutta la narrazione evangelica tende a portare il possibile lettore a quella medesima confessione. Per noi, che veniamo dopo l’era apostolica, è finito il tempo di una certa visione, ma perdura evidentemente il tempo della ‘fede’, della possibilità reale di incontro con il Signore risorto, a cui il dono della pace fa riferimento e di cui la gioia è il segnale per eccellenza.
Ne dà testimonianza il racconto degli Atti degli apostoli, dove la caratteristica dei credenti è quella di ‘perseverare’, ‘durare nella fede gioiosa nel tempo’: perseverare nell’annuncio della Parola, nella nuova fraternità, nell’unione con Cristo, nella costanza della preghiera.
Se osserviamo la successione dei comportamenti pasquali di Gesù, come sono narrati nel vangelo di Giovanni, intuiamo la natura della fede in lui. Quando appare la sera di Pasqua ai discepoli tutti riuniti Gesù, prima dona la sua pace, la pace messianica, quella capace di attraversare ogni afflizione possibile perché l’amore del Signore è invincibile; poi invia i discepoli nel mondo, a prosecuzione del suo invio al mondo perché tutti conoscano l’amore del Padre; poi soffia su di loro lo Spirito per il perdono dei peccati; poi, l’ottavo giorno, con Tommaso, si lascia toccare nelle sue ferite, in particolare nella sua ferita al costato, da dove scaturisce la conoscenza più profonda del mistero di Gesù. La pace è in rapporto al segno dei chiodi e alla ferita del costato (è la pace pasquale, che deriva dall’agnello immolato, che invita a far dono di sé perché quella pace tutti conquisti); l’invio nel mondo è in rapporto alla missione di Gesù (adombrata dal fatto che lo Spirito, di cui è ripieno al battesimo nel Giordano, lo spinge nel deserto e lo conduce a consegnarsi alla passione perché l’amore di Dio possa splendere su tutto); il dono dello Spirito è in rapporto alla adozione a figli con il perdono dei peccati (Dio non è mai stato separato da noi ma noi possiamo vivere separati da Dio e dai fratelli, cosa che costituisce la sostanza del peccato. Se veniamo perdonati, ritroviamo la possibilità della nostra dignità di figli, che vivono secondo i sentimenti del Padre, il quale vuole tutti alla mensa del suo amore). Se Gesù risorge, e Tommaso ce ne procura l’assicurazione, vuol dire che il peccato non ha più potere definitivo sul cuore dell’uomo, che può vivere della vita del Risorto, cioè di quell’amore che non può più essere mortificato da nulla. Credere in Gesù per avere la vita, questa è la confessione di fede nel Risorto, che ha patito per noi, a cui il vangelo di Giovanni vuole portare ogni lettore. La prima comunità cristiana di questo è testimone nel mondo.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico A (2022-2023)
Tempo di Pasqua
III Domenica di Pasqua
(23 aprile 2023)
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At 2,14a.22-33; Sal 15(16); 1Pt 1,17-21; Lc 24,13-35
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Secondo il racconto del vangelo di Luca sulla risurrezione di Gesù, tre sono i passaggi per l’esperienza del Risorto, colto come la chiave delle Scritture. Il primo è definito dalla memoria commossa dei due discepoli di Emmaus: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava [letteralmente: ci apriva] le Scritture?”. L’intelligenza di ciò che si ascolta deriva dal calore del cuore. È l’antico principio: senza fuoco le Scritture restano chiuse. Il primo movimento di intelligenza della parola di Dio avviene con il fatto di ascoltarla con piacere, in benevolenza, con il cuore che si scalda alla voce di colui che ci ama e ci comunica il suo amore. È la predisposizione all’intelligenza.
Il racconto dei due discepoli di Emmaus lo esprime in modo drammatico. Sono come rassegnati alla loro tristezza. Avevano iniziato un’avventura entusiasmante e ora si dichiarano delusi nelle loro aspettative. Se ne tornano a casa, col volto triste. “Speravamo” dicono al misterioso pellegrino riferendo dei fatti di cui sono stati testimoni. I due discepoli conoscevano le Scritture, ma restavano loro chiuse. La loro vicenda potrebbe essere riassunta in questo modo: proprio a partire dalla loro fede nel Dio di Israele erano stati affascinati dalla figura di Gesù e avevano creduto in lui; l’avevano seguito, ma forse in funzione delle loro attese secondo la storia di Israele, perché avevano, sì, sentito Gesù predire la sua passione, ma a passione avvenuta non si raccapezzavano più e cedettero alla delusione. S. Agostino spiega: “Nel tempo trascorso con loro prima della passione, infatti, egli aveva predetto ogni cosa: che avrebbe patito, che sarebbe morto, che il terzo giorno sarebbe risorto. Aveva predetto tutto, ma la sua morte fu per loro come una perdita di memoria. Quando lo videro sospeso al patibolo furono così turbati che dimenticarono i suoi insegnamenti, non attesero più la sua risurrezione, non rimasero saldi nelle promesse”. I due discepoli non avevano però rinunciato alla loro storia con Gesù e quando il viandante che si accompagna loro ritorna alle Scritture, che loro stessi conoscevano, pur senza essere capaci di aprirle, il loro cuore torna a ardere, sommessamente; quando vogliono con loro quel pellegrino e lo invitano a cena e Gesù si fa riconoscere, la loro storia si riaccende, tutto si collega e prende vita; devono tornare a Gerusalemme dai compagni che a loro volta hanno fatto la stessa esperienza e nella gioia che tutti insieme provano vivranno ormai la loro storia aperta sul mondo, che ha diritto anch’esso a quella letizia.
Il secondo passaggio riporta il carico della prova della risurrezione non tanto alla visione del corpo glorioso di Gesù (Luca sembra voglia avvalorare la realtà del corpo con il fatto che può addirittura mangiare) ma al duplice raccordo del Risorto al Crocifisso e dell’evento salvifico di Gesù alle Scritture. L’azione specifica del Risorto è quella di aprire la mente alle Scritture e le Scritture alla mente. La testimonianza suprema resta il fatto che Gesù ha patito ed è morto mostrando la grandezza dell’amore di Dio per gli uomini e la risurrezione è la conferma che questo amore è vita eterna, vita divina comunicata a noi perché anche noi, in Gesù, possiamo vivere del suo stesso amore. La prova della risurrezione non è il corpo glorioso di Gesù non più soggetto alle leggi fisiche del mondo, ma il corpo crocifisso: il risorto è il crocifisso. E siccome la crocifissione è la manifestazione suprema dell’amore di Dio per gli uomini nella sua massima concretezza e evidenza, allora si comprende come tutte le Scritture in realtà di questo parlano, fin dalla creazione del mondo. Tutto è racchiuso nell’amore di Dio che struttura il mondo e ne costituisce il senso. L’aspetto straordinario di questa rivelazione è il fatto che Gesù apre sia le Scritture che il cuore. Ciò significa che sia il cuore che le Scritture anelano a Colui che mostra tutto l’amore del Padre per i suoi figli.
Il terzo passaggio si risolve nel fatto che i credenti nel Cristo risorto diventano i suoi testimoni nel mondo. È la conclusione del brano dei discepoli di Emmaus: una volta che gli occhi si sono schiusi e la fede si è fatta ‘visione’ per la parola e per il corpo del Signore Gesù, il cuore mette fretta ai piedi in due direzioni: una, verso la chiesa, nel senso di vedere confermata e condivisa la propria visione; l’altra, verso il mondo, perché nessuno possa restare privo di questa visione, tanto racconta la verità di Dio e la verità del cuore dell’uomo. In questa comunione condivisa, testimoniata, cercata, donata, accolta, il cuore può riposarsi perché gode lo stesso riposo di Dio: si faccia una sola famiglia, nel regno di Dio. E non per nulla il corpo glorioso di Gesù reca i segni della sua passione d’amore, che soltanto in questo mondo poteva ricevere. Ciò significa che tutto può essere riscattato e attraversato dallo splendore di Dio e il luogo da cui questo si esprime è proprio il nostro cuore, che alimenta il suo ardore lasciando bruciare le sue delusioni.
Il luogo poi per eccellenza di riconoscimento del Signore è la celebrazione eucaristica, in cui risuona la parola che scalda il cuore e la comunione con il suo corpo dato per noi, in modo da imprimere alla vita dei credenti lo stesso movimento di invio al mondo del Figlio dell’uomo perché il mondo creda e abbia la vita. Perché per tutti suonino assolutamente condivisibili le espressioni del salmista: “il mio Signore sei tu: il mio bene non è che in te”. Come a dire: se non ho te, nessun bene mi soddisfa; se ho te, qualsiasi cosa si tramuta in bene per me.
Il messaggio del brano evangelico è dunque questo: quando celebrate l’eucaristia (cosa che i lettori del vangelo già facevano regolarmente) avviene per voi come per i discepoli di Emmaus. Alla lettura della parola di Dio si scalderà il vostro cuore, vedendo come in Gesù si compiono tutte le promesse di Dio e lo riconoscerete presente in mezzo a voi comunicando al suo stesso corpo dato per noi. Questa ‘emozione’ del cuore metterà ali ai piedi per dire al mondo la verità dell’amore del Signore finalmente goduto e condiviso. Corrisponde al saluto finale della celebrazione liturgica: la messa è finita, andate in pace. Avete celebrato l’amore del Signore per voi, di cui tutte le Scritture portano testimonianza e ora condividete con tutti la pace che scaturisce da quell’amore condiviso.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico A (2022-2023)
Tempo di Pasqua
IV Domenica di Pasqua
(30 aprile 2023)
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At 2,14a.36-41; Sal 22 (23); 1Pt 2,20b-25; Gv 10,1-10
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Gesù si presenta come il Buon Pastore, ma il brano di oggi si limita all’affermazione che lui è la porta delle pecore. La porta per entrare dove? Sembra che l’immagine si riferisca alla porta delle pecore come ingresso per il tempio di Gerusalemme e quindi l’affermazione si riferisca al fatto che lui è il vero tempio, il luogo della Presenza. È proprio questo che si stenta a comprendere, ma proprio qui Gesù vuole portare i suoi ascoltatori.
I brani di oggi potrebbero essere ascoltati in questa ottica. Con l’invito di Pietro alla conversione, riportato dagli Atti degli apostoli, ci si chiede di riconoscerci non solo seguaci di Gesù, ma di entrare nel segreto della sua rivelazione e così essere da lui guidati a condividere la stessa vita divina. Il salmo 22 lo proclama: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla …”. Non manco di nulla perché ricevo dal mio pastore vita e vita in abbondanza. Da intendere, come spiega lo stesso Pietro nella sua lettera: il tornare a Dio (=conversione) comporta l’essere seppellito con Gesù rispetto a tutto ciò che questo mondo esalta sotto l’azione del principe di questo mondo (potere, prestigio, supremazia, gloria), in modo da essere guidato dallo Spirito a vivere ogni situazione unicamente nell’esperienza dell’amore di Dio. Questo significa appunto essere ricondotto al pastore e custode delle anime nostre.
Quando Pietro descrive Gesù, nel suo essere pastore delle nostre anime, lo descrive così: “soffrendo non minacciava vendetta”. A questo io collego l’espressione forte di Gesù rispetto a noi che lo vogliamo seguire: “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore” (Gv 10,14-15). Il conoscere è in rapporto alla disponibilità a porre in gioco la propria vita. Gesù si definisce ‘buon pastore’ perché pone la sua vita a favore delle pecore. La particolarità dell’espressione di Gesù sta nel fatto che, non solo dà la sua vita per le pecore, ma che dà la vita alle pecore. Fa in modo cioè che la vita sua passi a noi, perché anche noi viviamo di quella stessa vita, che è splendore di amore. È l’azione dello Spirito Santo nei nostri cuori. Per questo possiamo dire che il Signore è il nostro pastore e non manchiamo di nulla, perché, una volta che si sia entrati nella prospettiva di una vita vissuta nell’amore, non c’è nulla che ci potrà distogliere, non ci sarà nulla capace di rapircela, nulla sarà superiore all’amore. Non è però una conquista puntuale, ma un vero e proprio processo di vita, il vero processo di conversione.
La conversione potrebbe essere definita come un tornare a dar credito alla potenza salvatrice di Dio che, per mezzo di quel pastore buono, ha realizzato la sua promessa di vita, la quale non è che l’offerta incondizionata della sua comunione perché tutto e tutti possano godere del suo amore. Proprio come chiediamo nella colletta: “O Dio, nostro Padre, che nel tuo Figlio ci hai riaperto la porta della salvezza, infondi in noi la sapienza dello Spirito, perché fra le insidie del mondo sappiamo riconoscere la voce di Cristo, buon pastore, che ci dona l’abbondanza della vita”. ‘Infondi in noi la sapienza del tuo Spirito’ allude alla possibilità di accogliere la comunione con Gesù perché il suo amore sia reso noto in questo mondo.
Nel seguito del discorso di Gesù riportato nel capitolo 10 di Giovanni, Gesù pungola la nostra fede vacillante con due affermazioni. “Vi ho parlato e non credete!” (Gv 10,25). Deduzione: avevano sentito con gli orecchi, ma non con il cuore. Se il cuore resta chiuso, la parola non comunica vita. Eppure, l’evangelista aveva fatto notare che proprio la sua parola aveva ridato la vista ai ciechi. Se la sua parola è stata potente per alcuni, perché per me non è potente? E se è vero che noi abbiamo creduto in Dio, perché non possiamo credere a Colui che Dio ha inviato? Sarebbe il contenuto dell’affermazione con cui Gesù sigilla l’intero suo discorso: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30). Quell’affermazione risalterà in tutto il suo splendore di rivelazione proprio nella passione di Gesù, dove lui e il Padre sono totalmente intimi nel loro amore per noi a volere la comunione con noi. Allora, la conversione sarà compresa nel perdono di Dio che sopravanza tutte le colpe e ogni genere di colpa.
L’estensione e la profondità del processo di conversione sono segnalate dall’equiparazione tra l’intimità del Padre con il Figlio e tra quella del Figlio con i suoi discepoli. La corrispondenza è giocata sulla disponibilità a dare la vita: il Padre ama il Figlio perché lui pone la vita a favore di, così il Figlio ama i suoi discepoli nell’attrarli dentro lo stesso movimento del dare la vita a favore di. Lo scopo è il medesimo: perché su tutto splenda l’amore di Dio e tutti ne restino conquistati.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico A (2022-2023)
Tempo di Pasqua
V Domenica di Pasqua
(7 maggio 2023)
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At 6,1-7; Sal 32 (33); 1Pt 2,4-9; Gv 14,1-12
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Gesù sta introducendo i suoi discepoli al mistero della sua persona e della sua morte-risurrezione. A quale promessa allude con le solenni parole con le quali si rivolge ai suoi discepoli: “… vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi?”. Dopo che Gesù ebbe lavato i piedi ai discepoli, Giuda se ne era andato. Solo dopo l’uscita di scena del traditore, Gesù parla del comandamento nuovo e rivela: “dove vado io, voi non potete venire”. A cosa allude quel ‘dove’? I discepoli non comprendono. Intervengono allora con domande puntuali. Il primo a esporsi è Pietro: “Signore dove vai? … Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la vita per te!”. Rispondendogli, Gesù non gli preannuncia semplicemente il tradimento, ma dice anche altro. Gesù non può accettare che Pietro dia la vita per lui. Sarà Gesù a dare la vita perché l’amore del Padre per gli uomini sia noto a tutti gli uomini. Quando segue Gesù, il discepolo non è invitato a sacrificare la sua vita a Dio, ma viene trasformato in dono di Dio sempre più pieno all’umanità, come Gesù. Così l’uomo finisce di percorrere il suo cammino quando giunge a essere dono totale di Dio ai suoi fratelli. Gesù non chiede la vita del discepolo per lui, ma chiede che il discepolo, in lui, dia la sua vita a tutti perché l’amore di Dio splenda nel cuore di tutti e si faccia una sola famiglia.
I discepoli non sono ancora pronti a entrare in questa prospettiva e restano bloccati sul timore della predizione. Gesù allora li esorta: “non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” (Gv 14,1). Ed è per sciogliere questo turbamento che promette loro di tornare indietro da dove andrà perché “dove sono io siate anche voi” (Gv 14,3). Il mistero è dato da quel ‘dove’. Dove è Gesù? Quel ‘dove’ esprime il punto in cui rimanere con lui. Ma qual è?
Se ritorniamo al principio del racconto evangelico di Giovanni noteremo che la prima domanda che i discepoli fanno a Gesù è: “maestro, dove rimani” (abiti, dimori, stai, vivi)? In greco, il verbo è sempre il medesimo: rimanere. Lo stesso verbo, che ricorre nell’ultima cena quando Gesù dice: ‘rimanete in me e io in voi’. Rimanere in lui dove? È questa la sfumatura di senso da cogliere. Sebbene i discepoli non riescano a comprendere, intuiscono però che il discorso verte sul fatto che l’amore di Dio risulterà manifesto. Di quell’amore sarà testimone proprio il loro maestro, per cui aver fiducia in Dio comporta l’aver fiducia in Gesù. È caratteristico come Gesù spieghi la ragione della fiducia che contemporaneamente suona come la sua promessa: io tornerò perché vi voglio presso di me, voglio che dove sono io siate anche voi.
Ecco il passaggio nevralgico. Il ‘dove’ è definito dalla risposta di Gesù a Tommaso, l’uomo ardente e con i piedi per terra: ma se non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via? L’impossibilità per i discepoli di capire è proprio data dal fatto di non collegare luogo e movimento. Il dove è una via, non è un posto. La via ha una valenza dinamica potente perché corrisponde alla direzione del movimento di riportare tutto al Padre. Il dove è il movimento in cui essere trascinati con Gesù nel dare testimonianza al mondo della grandezza dell’amore del Padre perché tutto torni a splendere proprio nel suo amore. Ecco perché Gesù non ha bisogno di chiedere ai suoi discepoli di dare la vita per lui. Lui trascina i suoi discepoli perché, in lui, diano la loro vita ai fratelli perché tutti conoscano l’amore di Dio. Ora, questo movimento non è che il movimento dell’emergere della verità dell’amore che prevale su tutto e l’amore non è che vita eterna, vita cioè non più soggetta ad alcuna mortificazione o confinamento o restrizione. È la descrizione della stessa vita divina, della vita della Trinità che, in Gesù, ci viene partecipata. In questo senso si può comprendere anche la frase finale: “chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre” (Gv 10,12). Con la glorificazione di Gesù presso il Padre con la sua morte-risurrezione-ascensione al cielo, lo splendore dell’amore di Dio rifulge in tutta la sua potenza e di questa potenza i discepoli saranno resi partecipi, perché in loro dimorerà il Cristo nella potenza del suo Spirito.
Quando il salmo responsoriale annuncia: “dell’amore del Signore è piena la terra”, allude proprio al mistero dell’invio di Gesù al mondo perché il mondo torni a vivere della comunione con il suo Dio, comunione che fa la sua bellezza e il suo compimento. La fede in Gesù non è che la visione e la condivisione di questo movimento a favore del mondo. È da dentro questa prospettiva che prende risalto il comandamento nuovo, l’amore vicendevole, consegnato da Gesù ai suoi discepoli quando ancora non ne potevano capire la portata.
Così la fede dei discepoli non può non avere una tensione ‘apostolica’: per credere al Cristo occorre ritrovarsi nel suo stesso ‘essere inviati’ perché il mondo conosca che amiamo il Padre e facciamo quello che il Padre ha comandato, cioè di amare tutti. Solo a mistero pasquale compiuto gli apostoli si rendono conto della reale posta in gioco del loro seguire il Signore e della grazia concessa al mondo. Tanto che possiamo dire: noi siamo il luogo della gloria di Dio (cfr. Gv 1,14)! Grazia e responsabilità tremenda per i discepoli.
Se Filippo incalza: “Signore, mostraci il Padre e ci basta” e Gesù risponde: “Io sono nel Padre e il Padre è in me”, vuol dire che si ripresenta l’antica richiesta di Mosè: “Mostrami la tua Gloria” (Es 33,18). Filippo non si rende conto che chiedere di ‘mostrare il Padre’ significa voler vedere il Dio che salva e il Regno di Dio venire con potenza; significa cioè voler vedere risplendere in Gesù l’amore di Dio per gli uomini dall’alto della croce.
L’ultimo sigillo sarà posto con l’intervento Giuda, non l’Iscariota: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?” (Gv 14,22). La rivelazione di Dio non atterra nessuno, non si impone a nessuno, non costringe nessuno. Dio si svela nell’amore per lui, scoperto in Gesù e quello che è avvenuto per i suoi discepoli, così avverrà per tutti e i discepoli si presenteranno a tutti con l’invito a entrare nella stessa via, per vedere la stessa verità e avere la stessa vita.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico A (2022-2023)
Tempo di Pasqua
VI Domenica di Pasqua
(14 maggio 2023)
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At 8,5-8.14-17; Sal 65 (66); 1Pt 3,15-18; Gv 14,15-21
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Tutta la liturgia di oggi è incentrata sulla promessa dello Spirito Santo. Tra due settimane sarà Pentecoste e domenica prossima è l’Ascensione, che sigillerà appunto la promessa dello Spirito. A che scopo Gesù intercede presso il Padre perché venga inviato a noi lo Spirito Santo? I brani di oggi celano collegamenti segreti che parlano più al cuore che alla mente, ancora bloccata nelle sue fissazioni. Non per nulla il seguito del brano proclamato oggi comporta l’intervento di Giuda di Giacomo, stupìto e perplesso nel constatare che quello che si immaginava non corrisponde al senso delle parole di Gesù: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?” (Gv 14,22).
Primo collegamento: la Parola comporta la dinamica di manifestazione di Colui che quella parola proferisce. Ecco il primo scopo dell’invio dello Spirito Santo: agirà nel senso di procurarci un’intimità di conoscenza del Signore Gesù, in cui crediamo. La sottolineatura è la seguente: non si tratta semplicemente di credere a certe cose, a certi fatti, ma di dedurre dalla fede in quei fatti, che riguardano la persona di Gesù, una potenza di vita che investe tutta la nostra esistenza. Intimità comporta sia profondità sia vivacità. E non può che riferirsi al legame con il Signore Gesù, nostro Salvatore. La conoscenza di Gesù comporterà l’intimità di condivisione con lui dell’invio al mondo perché il mondo conosca la grandezza dell’amore del Padre per i suoi figli.
A questo proposito il testo del vangelo è costruito in modo mirabile, in perfetta corrispondenza tra quello che avviene in Gesù e quello che avverrà nei discepoli. Di sé Gesù dirà alla fine del capitolo 14: “…viene il principe del mondo; contro di me non può nulla, ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così io agisco” (Gv 14,30-31). Il diavolo eserciterà contro di me tutta la sua violenza cercando di piegarmi ai suoi voleri ma non otterrà nulla, anzi, resterà scornato e sconfitto. Il testo però dice espressamente: viene il principe di questo mondo e in me non ha nulla. Cercherà qualcosa di suo in me, ma non troverà nulla. Il diavolo cerca ciò che appartiene a questo mondo nei suoi valori di potere, prestigio, gloria, superiorità, ecc., ma di tutto questo nell’umanità di Gesù non c’è neppure l’ombra. In lui c’è solo ed esclusivamente tutto l’amore del Padre per noi. Gesù descrive il discepolo che ama lui e accoglie la sua parola alla stessa maniera perché dice: “Chi accoglie (letteralmente: ha) i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv 14,21). Vuol dire: chi nel suo cuore non trattiene nulla di questo mondo ma ha solo la mia parola, allora è pieno dell’amore del Padre come me, perché la mia parola è espressione di questo amore per tutti voi. Ora è esattamente l’azione dello Spirito in noi quella di custodire la parola di Gesù nel nostro cuore perché tutto sia mosso da questo amore.
Ecco il secondo collegamento. Quando Gesù dovrà spiegare più in dettaglio l’azione dello Spirito che promette di mandare dirà: “Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito” (Gv 16,13). Guidare a tutta la verità, ecco l’azione dello Spirito. Ma anche qui, il testo non dice di guidare alla verità come moto a luogo, ma come stato in luogo. Vale a dire: guiderà a che la verità dell’amore di Dio emerga in tutte le situazioni della vita e farà in modo che solo la verità dell’amore prevalga nel cuore, anche quando subiremo violenza e ingiustizia, perché non venga meno nel mondo la manifestazione della presenza di Dio nel suo amore per tutti. A questo allude la prima lettera di Pietro. Nella promessa di Gesù va colta l’urgenza per i discepoli di ricevere il dono dello Spirito Santo perché nel mondo essi si troveranno a testimoniare la fede in Gesù in situazione di persecuzione. Dovranno vivere quel “rimanete in me e io in voi” che Gesù dirà loro subito dopo (Gv 15,4) nel contesto di una lotta senza respiro, perché l’amore di Dio prevalga e redima il mondo. Come è stato per il Maestro, così per i discepoli. Tanto che la traduzione italiana della lettera di Pietro ‘adorate il Signore nei vostri cuori’ non rende la drammaticità di quello che quell’adorazione comporta. Il termine greco è ‘santificate il Signore’, alludendo al profeta Isaia quando dice: “Non chiamate congiura ciò che questo popolo chiama congiura, non temete ciò che esso teme e non abbiate paura. Il Signore degli eserciti, lui solo ritenete santo. Egli sia l’oggetto del vostro timore, della vostra paura” (Is 8,12-13). Il contesto è quello della persecuzione, quando il principe di questo mondo si scatena e il profeta invita a restare fermi nella fede in Dio: solo lui è il Santo, nessun altro va temuto. Proprio come un vecchio detto chassidico spiega: “Rabbi Michal diceva: “Questa è la nostra vergogna, che noi temiamo qualcun altro fuori di Dio”.
L’abbinamento: parola/manifestazione evoca il senso del comandamento come la verità di un legame, di un’alleanza. Il comandamento non ha a che fare con un dovere morale; ha a che fare con l’esperienza di un amore. Come a dire: chi ha in sé la parola, il comandamento di Dio, non offre presa alcuna al potere del demonio e quindi il demonio non può rapirgli quell’amore che lo abita. Come è per Gesù, così per i discepoli.
Lo Spirito ci è inviato perché i nostri cuori godano del ‘manifestarsi’ di Gesù nel suo essere Signore e Salvatore e dell’intimità di quel ‘dimorare’ della Trinità nel cuore perché ogni tipo di prova che si subisce nella vita del mondo non ci svii né dall’amore di Dio né dall’amore dei fratelli, mai. Avviene quello che Gesù aveva appena detto loro: “Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete” (Gv 14,19). Questa è la distinzione tra il discepolo e il mondano: il discepolo vede con gli occhi del cuore, percepisce quello che l’altro non vede né può vedere. È lo sguardo aperto della fede. A questa fede, alla potenza di questo sguardo, nemmeno gli apostoli erano pronti. Si immaginavano una specie di rivelazione costringente tanto che tutti avrebbero dovuto riconoscere la potenza di Dio, come atterrati. Noi ora sappiamo bene che non è così e lo sappiamo per l’azione dello Spirito Santo che ci toglie dalle nostre fissazioni per spingerci nel movimento di amore capace di conquistare il cuore e di svelare la presenza del Signore nel mondo, comunque il mondo ci tratti.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico A (2022-2023)
Solennità e feste
Ascensione del Signore
(21 maggio 2023)
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At 1,1-11; Sal 46 (47); Ef 1,17-23; Mt 28,16-20
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L’immagine più potente, che definisce il senso dell’ascensione, mi sembra sia quella descritta da s. Ambrogio nel commento del salmo 23, dove, incalzanti, si susseguono le grida dei custodi delle porte celesti al vedere un uomo salire nel cielo: “Chi è questo re della gloria? … Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi, soglie antiche ed entri il re della gloria”: “Angeli e arcangeli lo precedevano, ammirando il bottino fatto sulla morte. Sapevano che niente di corporeo può accedere a Dio e tuttavia vedevano il trofeo della croce sulla sua spalla: era come se le porte del cielo, che l’avevano visto uscire, non fossero più abbastanza grandi per riaccoglierlo. Non erano mai state a misura della sua grandezza, ma per il suo ingresso di vincitore occorreva una via più trionfale: davvero non aveva perso nulla ad annientarsi!”.
Ecco: il senso dell’ascensione risiede in questo riportare l’umanità nella gloria di Dio. Tuttavia, non sembra che la narrazione dei Vangeli e degli Atti degli apostoli sia su questo che insista. Il contesto del racconto dell’ascensione comporta due orizzonti di senso che si sovrappongono: l’orizzonte della missione degli apostoli nel mondo e l’orizzonte della interiorizzazione della presenza di Gesù nel cuore degli apostoli, che lo sperimenteranno sempre con loro proprio nel loro essere inviati al mondo.
Il vangelo di Marco termina con le parole: “Allora essi partirono e predicarono dappertutto” (16,20).
Il vangelo di Matteo: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (28,18).
Il vangelo di Luca: “Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia” (24,51-52).
Nel vangelo di Marco ciò che colpisce è una specie di forza potente che muove tutto: il cuore degli apostoli come l’insieme del mondo e lo stesso desiderio di Dio per l’uomo. Nel vangelo di Luca viene sottolineato lo stato interiore dei discepoli che trovano nella benedizione di Gesù il segno della sua presenza in loro da riempirli di gioia. Nel vangelo di Matteo, è rimarcata la nota di compiutezza, universalità, totalità del mistero che si compie perché per quattro volte si ripete la parola tutto: “ogni potere … tutti i popoli … tutto ciò che vi ho comandato … tutti i giorni”.
Nel concludere il racconto del vangelo con l’ascensione di Gesù, Matteo si premura di riassumere in quaranta parole (contate!) tutto l’annuncio del vangelo di Gesù. Chi ascolta le sue parole ha modo di ripercorrere in filigrana tutto il vangelo e tutto l’insegnamento di Gesù. Possiamo intravedere nel suo racconto i rimandi al vangelo attraverso cinque parole:
1. Parla di un monte, senza specificare quale. Il lettore del vangelo può riandare almeno a tre monti che ha ritrovato nel racconto di Matteo: il monte altissimo della tentazione (proprio quello dove il diavolo ha chiesto a Gesù di prostrarsi in adorazione a lui), il monte delle beatitudini dove Gesù ha proclamato la novità del suo insegnamento, il monte della trasfigurazione dove Gesù ha svelato la luce della sua divinità;
2. Parla dell’adorazione dei discepoli, ma annotando che serpeggiavano ancora dubbi. Matteo non presenta mai la fede dei discepoli sicura, definitiva, totale. La fede è sempre passibile dell’incertezza del cuore, incertezza che si risolve nel riferirsi fiducioso alla persona di Gesù;
3. Parla di un potere: “a me è stato dato ogni potere in cielo e in terra”. È forse il termine più ambiguo per i nostri cuori. Di quale potere Gesù si arroga? È il potere dell’obbedienza all’amore del Padre, del servizio, dello stare in mezzo ai discepoli come colui che serve. Questo potere è lo splendore della divinità. Come Figlio di Dio, ha tutto il potere di rivelare il vero volto del Padre, che è amore misericordioso per noi; ha il potere della verità su Dio. Come Figlio dell’uomo, ha il potere di portare a compimento tutti gli aneliti di fondo della umanità; quel disporsi al servizio, quello stare solidale anche con coloro che lo oltraggiano, quel custodire l’amore nell’ingiustizia, rivela una pienezza di umanità desiderabile;
4. Parla di un comando: “fate discepoli tutti i popoli”. È il comando che riassume il senso stesso del discepolato di Gesù. Credere in Gesù significa accettare di essere assunti nella dinamica del suo stesso invio al mondo per far conoscere la grandezza dell’amore del Padre. In pratica, quella che è stata l’esperienza dei discepoli rispetto all’agire di Gesù con loro, diventa il modello di riferimento per l’agire dei discepoli verso il mondo;
5. Parla di una presenza costante: “Io sono con voi tutti i giorni”. Con questo è giustificata la gioia dei discepoli rispetto alla sottrazione di Gesù ai loro sguardi. Ciò significa che nella percezione degli apostoli l’ascensione è colta come un dono di presenza, come un’interiorizzazione di rapporto, che non solo non perde nulla della sua realtà con la sottrazione della fisicità di Gesù, ma acquista profondità e intensità insospettate. Se volessi riassumere con mie parole la sensazione degli apostoli, direi che si è trattato dell’esperienza di una gioia assolutamente dinamica, capace di allargare i confini del cuore e le energie corrispondenti in maniera illimitata. Come per loro, così per noi.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico A (2022-2023)
Solennità e feste
Pentecoste
(28 maggio 2023)
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At 2,1-11; Sal 103 (104); 1Cor 12,3b-7.12-13; Gv 20,19-23
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Nella novena in preparazione alla Pentecoste, la preghiera della chiesa ha insistentemente chiesto per noi di poter aderire pienamente alla volontà del Padre, di trovarci conformi alla sua volontà, di trasformarci in tempio della sua gloria. L’assicurazione di Paolo ci ha accompagnati: “l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5). Ecco il punto: l’effusione dello Spirito ha a che vedere con la volontà di bene di Dio per l’uomo perché se ne renda conto, ne resti conquistato e lo testimoni dovunque. E siccome la volontà di bene del Padre si è manifestata in tutta la sua potenza salvatrice con l’invio del Figlio, allora l’effusione dello Spirito ha a che fare con lo splendore dell’amore di Dio rivelato e testimoniato nell’umanità di Gesù.
Se si potesse riassumere in pochi cenni il mistero dell’effusione dello Spirito Santo, mi esprimerei così. Lo Spirito fa vivere ogni discepolo nella potenza della risurrezione con la vittoria dell’amore. La risurrezione di Gesù è la consacrazione dell’abbassamento del Figlio per far risplendere l’amore di Dio nel mondo. Ecco allora che le preghiere della chiesa, che hanno preceduto la festa, acquistano tutto il loro senso: “Venga su di noi, o Padre, la potenza dello Spirito Santo, perché aderiamo pienamente alla tua volontà, per testimoniarla con amore di figli” (colletta del lunedì); “Venga, o Padre, il tuo Spirito e ci trasformi interiormente con i suoi doni; crei in noi un cuore nuovo, perché possiamo piacere a te e cooperare alla tua volontà” (colletta del giovedì). Si realizza la promessa di Gesù: “Riceverete la forza dello Spirito Santo, che scenderà su di voi, e mi sarete testimoni sino agli estremi confini della terra” (At 1,8), intendendo terra non solo in senso geografico ma spirituale, vale a dire in ogni circostanza, in ogni situazione, in ogni prova, in ogni afflizione interiore ed esteriore. E siccome si tratta di testimonianza della grandezza dell’amore del Padre nel nostro vivere quotidiano, come faremmo, se non riempiti e accesi del fuoco del suo stesso amore?
Se consideriamo il racconto di Giovanni, la Pentecoste coincide con la Pasqua. Gesù compare agli apostoli, riuniti a porte chiuse nel cenacolo, la sera di Pasqua. Offre loro il saluto pasquale per eccellenza: shalom, pace a voi. La pace sta in relazione con il mostrare le cicatrici delle ferite della passione, non solo per rimarcare che il risorto è proprio il crocifisso, ma per suggerire che la pace che annuncia è il frutto della passione. È una pace che scaturisce dal crogiolo dell’amore, di un amore così obbediente da consegnare se stesso senza ombra di rivendicazione. Di questa pace fa dono (l’aveva già proclamato nell’ultima cena: ‘vi do la mia pace non come la dà il mondo’) per la missione di cui investe i suoi discepoli, come lui a sua volta è stato investito dal Padre.
La fede in Gesù, che è gioia della sua presenza, vale in rapporto all’essere trovati nello stesso movimento di invio al mondo perché tutti conoscano la grandezza dell’amore del Padre. Proprio nella prospettiva di tale invio Gesù ‘soffia’ lo Spirito Santo. Il termine corrisponde al soffio dello Spirito all’inizio della creazione, per cui quel ‘soffiare’ equivale a ‘ricreare’, ridare la vita secondo la potenza divina di un amore che tutto ha conquistato. E in che cosa viene descritta questa potenza? Nel perdono dei peccati. È la presentazione più radicale del compito missionario evangelico: il perdono è la cifra storica della pace divina che tiene insieme tutto e tutti nell’amore di Dio. Lo Spirito è colui che disporrà e guiderà i discepoli alla realizzazione di questo supremo volere di Dio testimoniato da Gesù nella sua preghiera sacerdotale: che si faccia una cosa sola, tu in me e io in loro, perché tutti conoscano te! La preghiera della chiesa: “Vieni, Santo Spirito, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore” non è che l’invocazione pressante perché quel ‘volere’ di Dio si compia finalmente. Gesù abilita i discepoli a far arrivare a tutti la sua buona notizia e a far sì che tutti formino una sola famiglia alla mensa dell’amore di Dio. È la venuta del regno, secondo l’invocazione della preghiera del Padre Nostro.
La prima lettura invece riporta la descrizione di Luca dell’evento della Pentecoste. Il racconto va letto in filigrana con il racconto della torre di Babele quando gli uomini non si sono più capiti perché Dio ha confuso le loro lingue. Gli ebrei erano spaventati dalla potenza assira e si sono accorti che il principio del dominio universale, che l’impero assiro richiamava, non corrispondeva al piano di Dio per l’uomo. L’uomo sente la potenza dell’unità e della coesione, ma la gioca sul registro del dominio su tutti, secondo il principio di forza. Da ciò deriva schiavitù, non felicità. Quando, a Pentecoste, lo Spirito è effuso, assume la forma di lingue di fuoco a sottolineare che sarà lo Spirito dell’amore a realizzare quell’unità e quella coesione tra gli uomini attraverso l’armonia delle differenze, sul registro della comunione. Tutti, diversi tra loro, sentiranno la stessa cosa e tutti, nelle loro diversità, si troveranno uniti a lodare Dio per la stessa cosa. Se la Scrittura aveva fatto intervenire Dio a mettere scompiglio tra gli uomini in modo che non si capissero più, non è per invidia o gelosia, ma per significare che, se il tentativo di unità procede dalla forza, non si realizzerà mai quella comunione che corrisponde al progetto di Dio per l’uomo. Così, non viene condannato l’anelito all’unità, ma solo il modo perverso di realizzarla. La cosa non è scontata nemmeno oggi. Quante perversioni per raggiungere l’unità senza la comunione! Quello che solitamente si dice: comunione, non uniformità. Ma nelle differenze serpeggia la paura di essere da meno, di essere messi da parte, di essere prevaricati. Così si preferisce la menzogna di un’unità imposta piuttosto che la fatica di una comunione cercata.
Qui allora è bene ricordare le caratteristiche dell’azione dello Spirito Santo secondo la descrizione di Gesù, come ci ha promesso: ‘il Padre vi darà un altro Paraclito perché rimanga sempre con voi, egli vi insegnerà ogni cosa, vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto, vi guiderà a tutta la verità’. Lo Spirito è colui che non permetterà a nessuno di arrogarsi qualche diritto speciale sugli altri (quando l’uomo se l’arrogasse questo diritto, non è ‘spirituale’ e perciò perde in umanità e calpesta quella di tutti). È colui che custodirà nel cuore dei discepoli la potenza di salvezza delle parole di Gesù. È colui che farà in modo che ogni circostanza, soprattutto di afflizione o di persecuzione, si possa aprire all’esperienza dell’amore di Dio, tanto che niente e nessuno possa disperdere o mortificare il fuoco che ha acceso. È colui che, conoscendo la lingua della comunione, conoscerà tutte le lingue, potrà ascoltare tutti con benevolenza e custodire la dignità di tutti.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico A (2022-2023)
Solennità e feste
Santissima Trinità
(4 giugno 2023)
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Es 34,4b-6. 8-9; Dn 3,52.56; 2Cor 13,11-13; Gv 3,16-18
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I brani delle letture di oggi sono una mirabile sintesi della rivelazione di Dio testimoniata dalle Scritture. Dio è unico ma Trinità, vale a dire un fuoco di amore che dà esistenza a tutto e tutto ingloba nel suo amore. Il Padre creatore, il Figlio redentore, lo Spirito santificatore, in un’unica comunione d’amore in se stesso e con noi. Potremmo interpretare sinteticamente le letture di oggi in questo modo. Siccome il nome del Signore è ‘Dio misericordioso’, il Padre ha mandato il Figlio perché mostri quanto ha amato il mondo, affinché la vita di Dio, che è splendore di amore, diventi per tutti godibile e piena nel suo Spirito.
Il brano della seconda lettera ai Corinzi riporta la formula trinitaria più chiara di tutto il Nuovo Testamento, formula che è diventata il saluto liturgico iniziale della celebrazione eucaristica: “La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio [Padre] e la comunione dello Spirito santo siano con tutti voi” (2Cor 13,13). La risposta a questo saluto si avrà alla conclusione della grande preghiera eucaristica quando, dopo aver fatto memoria della grande opera di salvezza del Cristo e del dono dello Spirito Santo, la chiesa proclama: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli”. È l’eco della lode eterna che l’Apocalisse descrive come l’esultanza dei redenti davanti alla manifestazione dell’amore eterno di Dio per i suoi figli.
Il saluto e la risposta della chiesa acquistano tutto il loro valore nella doppia testimonianza del libro dell’Esodo e del vangelo di Giovanni. Dopo il peccato del vitello d’oro e l’angoscia tragica che ne era seguita per l’eventualità del ritiro di Dio e quindi della distruzione del popolo, Mosé si era interposto tra il popolo e Dio per ottenere misericordia. I capitoli 32-34 dell’Esodo sono tra i brani più eccelsi di tutta la Bibbia. Mosé era riuscito nella sua intercessione, aveva ottenuto che Dio continuasse a stare con il suo popolo ma si chiede: potrò mai vedere il volto di Dio? E domanda: “Mostrami la tua gloria” (Es 33,18). Voglio vederti in faccia, voglio sapere chi davvero sei! Richiesta oltremodo pericolosa, sapendo che non si può vedere Dio e restare in vita. Dio però si concede al suo servo e si dichiara in modo da infuocare il cuore di Mosé: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà” (Es 34,6). Insieme al brano del roveto ardente (Es 3,2) e alla rivelazione al profeta Elia sull’Oreb nella brezza leggera (‘un silenzio sottile’, secondo il termine ebraico, 1Re 19,12), qui si raggiunge l’apice della rivelazione di Dio nell’AT.
Ora, quel NOME, così carico della Presenza di Dio da significarne la natura intima, è proprio quello che il Figlio rivela con la sua passione-morte-risurrezione. Gesù anticipa questa rivelazione nel suo colloquio con Nicodemo dicendogli: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,19). Gesù è la rivelazione del volto del Padre, che è misericordia. Se Gesù fornisce la ragione di questa sua rivelazione (‘perché abbiano la vita eterna’) non è per motivare la sua opera, ma per mostrare il fuoco che anima lui e la sua opera redentiva fin dall’eternità, negli abissi divini delle relazioni trinitarie. La sottolineatura resta la seguente: se l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio, vuol dire che è stato concepito perché potesse, lui, creatura, godere dello stesso amore che costituisce Dio in se stesso, nelle sue relazioni trinitarie. La rivelazione ha dell’inaudito. L’uomo è chiamato a condividere la stessa vita divina, che è splendore di amore in se stesso. Vita eterna e amore dicono la stessa realtà perché definiscono la natura intima di Dio.
Tutta la Scrittura ricorda come quell’esperienza sia la più sublime e la più tormentosa, la più agognata e la più temuta. Non è così facile spiegarne il perché nonostante non ci manchino le ragioni di comprensione, che però il cuore stenta ad accogliere. Eppure, anche per noi risulta vera la proclamazione evangelica: “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1,16-17). Se l’uomo cerca la verità, la verità di cui ha sete il suo cuore è una verità di grazia e contemporaneamente una grazia di verità. La festa di oggi invita ciascuno a vivere la propria vita nell’atteggiamento di chi si dispone ad accogliere nel suo cuore la grazia di verità che il Signore Gesù testimonia rivelando l’amore del Padre e donandoci il suo Spirito.
Così, avere la vita eterna comporta l’essere conquistati radicalmente dall’amore (per questo è effuso lo Spirito Santo) in modo che quell’amore divino diventi radice e splendore di vita, nella lode al Dio delle misericordie, come lo è stato per l’umanità di Gesù. La richiesta di Mosé: “Mostrami la tua gloria”, con Gesù che rivela il volto del Padre, assume un significato nuovo: possiamo conoscere personalmente il Dio che ci ha amati così tanto da darci il suo Figlio.
L’aspetto drammatico, che continua a essere tale per noi nonostante l’assolutezza e la definitività di questa rivelazione, sta nel fatto che non si tratta di un riconoscimento fattuale, puntuale, ma di un inglobamento totale della nostra esistenza in quella rivelazione, dentro una storia che tende a mettere continuamente in discussione la sua verità. Non per nulla la definizione di Dio che l’Apocalisse riporta suona: “Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!” (Ap 1,8). Vale a dire: l’assorbimento degli effetti di questa straordinaria rivelazione si gioca nella successione degli eventi, belli e brutti, beati e dolorosi, della nostra vita. Non veniamo custoditi per il fatto che tutto avverrà come piace a noi, ma per il fatto che comunque avremo l’opportunità di fare esperienza della grandezza dell’amore di Dio, perché, come dice s. Paolo, tutto concorre al bene di coloro che amano Dio.
È caratteristico che il cristiano, tracciando il segno di croce sulla propria persona, l’accompagni con la confessione trinitaria: Padre, Figlio, Spirito Santo. Come a dire: l’amore di Dio per gli uomini, che si è rivelato in tutto il suo splendore a partire dalla croce di Gesù, riempia e copra tutta la mia persona partecipando alla stessa comunione di vita che intercorre tra le tre Persone divine. E quando quel segno si traccia sulle cose o prima delle varie azioni si intende accedere alla dimensione di rivelazione dell’amore di Dio per il nostro cuore che quegli atti comportano nella sua provvidenza per noi.
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