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IL MONACHESIMO DELLA SANTA MONTAGNA FRA SPIRITUALITA’ E STORIA.

DA SANT’ATANASIO ALLA CADUTA DI COSTANTINOPOLI

Roma, 23 maggio 2009

p. ELIA CITTERIO

Commentando il passo scritturistico: “Un tempo per tacere e un tempo per parlare” (Qoelet 3,7), Callisto Angelicude scrive: “ [quando l’intelletto] vede intorno a sé divisione, allora è tempo di parlare; parlare però di cose degne di condurre al silenzio”.[1] A tutte le dissertazioni di oggi, vorrei aggiungere una riflessione da monaco partendo dalla costatazione che la nostra mente si sparpaglia necessariamente in tanti pensieri e conoscenze, ma aspira a quell’unità che solo un silenzio contemplante può saziare di fronte al mistero di Dio. Il senso delle nostre parole non può che essere quello di condurre al silenzio.

Il tratto che accomuna in generale gli scritti esicasti nella grande stagione della mistica bizantina tra i secoli XI e XIV, in particolare quelli che si presentano come manuali della tecnica esicasta di preghiera, è costituito dall’affermazione della necessità di far discendere la mente nel cuore. Il movimento è variamente inteso, ma l’indicazione è costante.

Ciò che colpisce, poi, nella lettura di quei testi, è l’esaltazione del particolare metodo di preghiera che viene propugnato, di cui si sottolinea che rappresenta la via più facile e più breve per arrivare all’unione con Dio in contrapposizione alla cosiddetta pratica ascetica, lunga e faticosa.

Vorrei incentrare la mia riflessione solo su questi due punti, nel tentativo di mostrare, a noi moderni, al di là del dettato specifico dei testi che oggi possiamo decifrare meglio di ieri per le informazioni storiche e letterarie accumulate in questi ultimi trent’anni[2], la profondità di intuizioni di questi maestri di spirito.

Anzitutto, una messa in guardia. Credo oggi si corra il rischio di una comprensione inappropriata per la concomitanza di una doppia illusione prospettica:

1) per una concezione della tradizione[3] che, invece di desumere dalla tipica esperienza ecclesiale, accogliamo da elaborazioni culturali o religiose non direttamente implicate in quella stessa esperienza;

2) per un difetto di intelligenza storica, benché oggi la documentazione e la conoscenza dei testi e degli autori siano assai più precise di ieri.  Avviene come se le informazioni storiche acquisite non siano ancora capaci di fermentare e far esplodere i clichés mentali costruiti e ricevuti nel tempo.

Mi spiego con qualche esempio. Se una pratica di preghiera fa scuola noi pensiamo debba trasmettersi da maestro a discepolo senza interruzione. Ma l’esicasmo[4], che noi confusamente percepiamo legato a certe ‘tecniche’ di preghiera, non è un esoterismo con le sue linee di discendenza da maestri a discepoli, come, ad esempio, nel sufismo, ma la realizzazione del mistero cristiano, sempre suscettibile di rinascere dalla vita sacramentale e dalla penetrazione spirituale delle Scritture. Quando non ci sono maestri, la tradizione rinvia alle Scritture e ai Padri, dentro una profonda vita sacramentale, nell’osservanza dei comandamenti, in umiltà e confidenza. In epoca moderna, si pensi a Nil Sorskij, Paisij Veličkovskij.[5] Il ricorso allo scritto segnala più una mancanza che una sovrabbondanza: i maestri si sono rarefatti o non ci sono più. É luogo comune, nella tradizione spirituale cristiana, la lamentela per la mancanza di maestri sperimentati e tutte le nuove stagioni di rifioritura, che pur hanno inizio da determinate personalità, non sono semplicemente la continuazione di quelle precedenti. Sempre si parla, nei vari periodi, di un movimento di rinnovamento, di rinascita. Tutto rimanda al tipico contesto ecclesiale e spirituale dell’esperienza cristiana, dove “ L’abbassamento di Dio permette l’elevazione dell’uomo e la sua «divinizzazione» («theosis»): assumendo nella sua carne l’intera umanità dell’uomo e vivificandola con la sua risurrezione, Cristo gli permette di partecipare alla vita divina; e solo conformandosi a lui, con l’aiuto del dono dello Spirito Santo, l’uomo giunge insieme alla somiglianza con Dio e alla pienezza della propria umanità”.[6]

Gli autori esicasti fondano sempre i loro testi sulla tradizione dei Padri. Ma qual è il valore specifico delle citazioni che adducono?[7] Certi termini ricorrono costanti lungo tutto l’arco dello sviluppo della tradizione bizantina, ma non indicano sempre la stessa realtà. Se Filoteo[8] di Batos insiste sulla pratica della sobrietà, della preghiera e della memoria di Dio prima sulla porta del cuore, poi all’interno, per condurre alla visione della luce, nella ripresa di Esichio[9] di Batos tutto viene ricondotto alla sobrietà, inglobando nozioni quali l’attenzione, la purezza di cuore, la custodia della mente, la hesychia del cuore. Gli autori successivi partono da queste equiparazioni, ma ognuno interpretandole a modo proprio, con le esperienze personali, correlate anche alle polemiche teologiche e al dibattito in atto tra varie tendenze. Soprattutto, è fuori luogo ricondurre i vari autori a ‘scuole di spiritualità’, come si potessero inglobare in maniera forzata in schemi bipolari: ‘mistica intellettualistica’ contro ‘mistica del cuore’, pratica contro contemplazione, ecc.

Far discendere la mente nel cuore.

Posso ora riprendere il discorso sui due punti evidenziati. Affermare che la mente deve discendere nel cuore significa anzitutto sottolineare che l’attività intellettiva non è appannaggio specifico di una facoltà, ma di tutta la persona. Emerge subito la differenza di sensibilità tra un medievale e un moderno. Il moderno separa l’intelligenza dal registro affettivo e riferisce separatamente alla testa l’intelligenza e al cuore gli affetti, mentre per il medievale l’intelligenza intuitiva e razionale è unica ed è riferita al cuore. Così, la nozione di amore non è rapportata all’ordine dell’affettività, ma è concepito come uno strumento di intellezione del divino, delle realtà spirituali, dell’ordine voluto da Dio e il cuore è l’organo in cui si esercita l’insieme delle facoltà spirituali che sono indissociabilmente quelle dell’intelletto e quelle degli affetti. Nell’esperienza cristiana il cuore è fondamentalmente il luogo in cui lo Spirito Santo penetra e spira la caritas, permettendo all’uomo la comunicazione con Dio.[10] Come suggerisce la Sedakova, poetessa ed erede a Mosca di Sergej Averincev, in un suo saggio sulla percezione ortodossa, il cuore non è semplicemente il punto più interiore o profondo della persona, ma il luogo aperto di confine per l’incontro con l’Altro, il punto di apertura della nostra struttura psichica.[11]

Nell’invito a far discendere la mente nel cuore sono supposti due elementi precisi: la direzione del movimento, la discesa e l’unificazione delle potenze, a cui segue l’apparizione della luce. Ciò che intendo mettere in rilievo è il fatto che il movimento di discesa non risponde solo alla descrizione di una tecnica di attenzione o di concentrazione[12], preparatoria alla preghiera vera e propria, ma suggerisce come un percorso di realizzazione della persona. In effetti, le condizioni spirituali richieste all’orante, nei testi esicasti, esposte nella premessa alla formulazione dei vari metodi di preghiera, parlano sempre di obbedienza, abbandono del mondo, libertà dagli affanni della vita, umiltà, ecc. L’uomo, che è disperso all’esterno nei suoi sensi, diviso in se stesso e contraddittorio nelle sue tensioni, arroccato nell’affermazione di sé nei confronti degli altri, non può raggiungere l’unità se non ‘scendendo’. Esattamente sull’esempio del Cristo che, con l’incarnazione, si abbassa e sale poi sulla croce, in realtà scendendo fino a perdere ogni figura di bellezza, consegnato agli uomini che ne fanno quello che vogliono, ma facendo così risplendere l’amore di Dio per gli uomini, nell’intimità più assoluta con il Padre e lo Spirito Santo. Il movimento del discendere allude alla realizzazione dell’uomo come essere di comunione, ritrovando la somiglianza con Dio come uomo spirituale, in antitesi alla ricerca di sé incondizionata che caratterizza invece l’uomo carnale. Il ‘scendere’ suppone che l’uomo possa collocarsi là dove l’amore di Dio può splendere in tutta la sua luminosità e lo Spirito agire in tutta la sua potenza unitiva.

Il primo passo di questo ‘scendere’ è il porre fine a tutti i nostri ragionamenti e il secondo è quello di abbandonare ogni forma di rivendicazione che ostacola l’esperienza della comunione. L’unificazione del cuore che ne consegue si esprime come coscienza della consustanzialità, in Cristo, di tutti gli uomini. Di qui la luce di Dio, che non è semplicemente luce conoscitiva, ma luce di vita (cf. Gv 1,3) che sorge nel cuore e rende possibile, tramite partecipazione alle energie dello Spirito Santo, l’assunzione della persona nei segreti dell’amore di Dio: il cuore cosciente si trasforma in cuore ecclesiale.[13] L’espressione più celebrativa di questo cammino si trova nello scritto di Callisto Angelicude, L’unione divina e la vita contemplativa, testo che è stato recepito dalla Filocalia.

Nei testi esicasti, in genere, due sono gli accessi che introducono e rendono effettiva la discesa della mente nel cuore per l’insieme della persona: l’abbandono della volontà propria e la mitezza. Nell’Epistola a un igumeno[14] di Giovanni l’eremita leggiamo: “É infatti impossibile che qualcuno raggiunga il regno, se prima non ha rinnegato la propria volontà e se non fa senza mormorazione e con timore di Dio quello che l’igumeno gli ha ordinato. Come dice il Signore: “Non sono venuto per fare la mia volontà, ma la volontà del Padre che mi ha mandato”. Se uno subisce e sopporta quello che non vuole, ciò gli è considerato come una crocifissione ed egli diventa figlio della risurrezione e della vita eterna. … e non chiedete nient’altro, se non misericordia al Signore e ciò vi basti. Chiedendo misericordia in un cuore umile e degno di compassione, chiedete”.[15] Nel trattato Sulla pratica esicastica di Callisto Angelicude leggiamo: “Ora è piuttosto il momento che tu impari, prima di altre cose e assieme ad altre cose: come chi vuole imparare a tirare con l’arco non lancia la freccia senza bersaglio, così chi vuole imparare a vivere nella hesychia deve avere quale bersaglio l’essere sempre mite di cuore”.[16]

L’abbandono della volontà propria e la mitezza sono interrelati strettamente e comportano la rinuncia a ogni ragionamento a livello mentale e a ogni forma di rivendicazione a livello affettivo. In sostanza, si tratta di passare dall’essere psichico all’essere spirituale. Nessuno, per quanto desideri il Signore e l’amore suo, ha il coraggio di lasciare completamente se stesso. Si vorrebbe il frutto che verrebbe dall’aver lasciato completamente se stessi: avere un cuore completamente puro. Ma sembra impossibile all’uomo rinunciare alle sue ragioni. D’altra parte, se si discute con le proprie ragioni, si sarà sempre prigionieri di un cuore senza luminosità.

Il comandamento più appropriato a tale riguardo è: “Siate sottomessi gli uni agli altri” (Ef 5,21), commentato dai Padri del deserto: “State sotto i piedi di tutti”. Il primo, grande, vero sforzo del cammino spirituale resta il seguente: tutti i riferimenti di natura psichica, dominati dal principio dell’amore di sé, devono essere lasciati per dei riferimenti di natura spirituale, fondati sul principio della comunione.

Non per nulla, la finale di molti testi esicasti, dopo aver parlato della sobrietà e della preghiera, ricorda: “Molti salgono sulla croce della mortificazione, ma pochi ne accettano i chiodi. Molti si sottomettono alle fatiche e alle afflizioni volontarie. Solo coloro che sono perfettamente morti al mondo e al suo riposo si sottomettono a quelle che sopraggiungono senza la nostra volontà”[17]; “Nessun fatto importuno o molesto, che tutti i giorni può capitare, ci porterà danno né ci causerà angustia finché, sapendo (che ciò è inevitabile), terremo sempre ben in mente questo pensiero. Perciò dice il divino apostolo Paolo: ‘provo diletto nelle infermità, negli oltraggi, nelle necessità’ (2Cor 12,10); ‘e tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati’ (2 Tm 3,12), ‘a lui sia gloria in eterno. Amen!’ (Rm 11,36)”.[18]

Lo conferma Callisto Angelicude: “Infatti non troveresti altrove, se tu lo cercassi, un intelletto elevato, che guarda in alto e contempla la verità, se non in un cuore che ha ricevuto la pace di Cristo e che è tutto trasformato quanto allo stato di una vita che effonde pace”.[19]

Quando s. Paisij Veličkovskij (1722-1794) riprenderà la tradizione esicasta facendola rivivere in una comunità cenobitica, al di là degli ordinamenti monastici adottati, sarà un certo clima particolare a caratterizzare la vita, centrata sul mistero dell’obbedienza: il clima che deriva da un’obbedienza praticata in umiltà e mansuetudine, come sottomissione ai fratelli (Paisij insiste molto di più sull’obbedienza vicendevole che sull’obbedienza al superiore) e da  quel ‘lavorio del cuore’ unito alla preghiera incessante che dà un respiro esicasta alla vita del cenobio. “Per imparare l’umiltà, non esiste apprendimento più conveniente di quello che possiamo effettuare nel segreto del nostro cuore: ognuno biasimi se stesso, si ritenga sotto i piedi di tutti, si pensi polvere e cenere … L’istruzione che agisce nell’intimo, insieme alla lettura, è casa dell’anima dove non ha accesso l’avversario, è pilastro incrollabile, porto tranquillo, senza agitazione e senza scosse, che salva l’anima. I demoni in effetti si agitano grandemente e si arrabbiano molto quando il monaco si premunisce con le armi di questo lavorio interiore di istruzione e con l’incessante invocazione: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore”, insieme ad una lettura conveniente[20].

Se la discesa comporta questa totale rinuncia all’amor proprio sia in termini intellettivi che affettivi, allora si comprende come l’unificazione delle potenze non avvenga per una intensità di concentrazione, ma per l’infuocata sincerità del pentimento. Proprio come dice Angelicude: “Il pentimento è effettivamente il principio e la vivificazione dei sensi interiori, l’esito in cui avviene la conoscenza di Dio liberata dalle tenebre”; “Nel luogo del cuore dove scorrono le lacrime applica la mente alla preghiera”.[21] Se vale la premessa: “Beati coloro che piangono dal cuore lacrime dolorose, perché allora saranno rallegrati, beati coloro che amano il Signore e il prossimo, perché riceveranno misericordia! Chi ama il fratello, ama se stesso e chi odia il fratello, odia se stesso. Nel fratello sta la possibilità di ereditare i beni eterni”, vale la conseguenza: “Persevera incessantemente a gridare il Nome del Signore Gesù Cristo, affinché il cuore assorba il Signore e il Signore il cuore e i due diventino uno”.[22] Detto con le parole di Callisto e Ignazio Xanthopouloi, i quali citano Isaia di Scete: “Tre sono le virtù che illuminano sempre la mente: il non conoscere la malvagità di nessun uomo, il sopportare senza turbamento quello che accade e il beneficare quelli che fanno del male. Queste tre virtù generano altre tre virtù a loro superiori: il non conoscere la malvagità di nessun uomo genera l’amore, il sopportare senza turbamento quello che accade genera la mitezza e il beneficare quelli che fanno del male procura la pace”.[23]

Nessuna tecnica di preghiera garantisce il risultato della preghiera. Perché? Perché la preghiera non sboccia in conseguenza della capacità di usare una tecnica appropriata, ma unicamente in conseguenza della capacità di essere obbedienti ed umili, frutti appunto del pentimento. Parlo dell’obbedienza nel senso di quell’espressione così cara alla tradizione: “Ho visto il mio fratello, ho visto il mio Signore”.[24] Paisij la ripeteva spesso e diceva che su di essa era fondata l’organizzazione interiore di una Comunità, che voglia vivere fino in fondo il mistero di comunione con Dio e con i fratelli. La santità non è una perfezione che si guadagna; la santità è la capacità di vivere in sintonia con Qualcuno. Ora, a partire dalla Parola di Dio come dalla parola dei Padri che commentano quella Parola, la luce che spunta in cuore e che ci mostra poco a poco tutte le cose non proviene che da questo: quella Parola rivela, fa sentire una comunione. La santità rivela appunto la comunione tra due persone. E la vita spirituale potrebbe essere definita semplicemente così: ‘mettere Qualcuno vivente in comunione con qualcuno vivo’, Qualcuno con la ‘Q’ maiuscola con qualcuno con la ‘q’ minuscola. Ma è possibile accedere al mistero della comunione senza passare attraverso il pentimento? Con l’insistenza sul pentimento, la tradizione esicasta custodisce il meglio dell’insegnamento patristico sulla preghiera. Il pentimento porta l’anima a trovarsi dentro il mistero. La concentrazione di cui parlano i testi spirituali a proposito della pratica della preghiera non procede dallo sforzo di introspezione psicologica o di attenzione mentale; deriva dalla intensità del pentimento. La concentrazione, l’attenzione e quindi il senso della presenza del Signore è direttamente proporzionale al pentimento, e non solo al pentimento rispetto ai propri peccati, ma alla coscienza del proprio stato di peccatori. L’intensità della nostra invocazione nella preghiera risulta direttamente proporzionale alla visione interiore di quanto il nostro cuore sia asservito al e dal peccato, alle e dalle ‘passioni’. Più è vera la coscienza del nostro essere peccatori davanti a Dio, più bruciante si fa il pentimento e più vivo l’amore a Dio e al prossimo. In realtà, non sono i nostri sforzi a vincere il male; è la forza del pentimento a bruciare le nostre passioni ed ogni pensiero cattivo.[25] Qui sta tutta l’essenza della preghiera di Gesù. In questo senso va anche compresa l’affermazione patristica più volte ripetuta nella Filocalia che la preghiera, strutturata sull’attenzione e sul pentimento, costituisce l’attività propria di un uomo spirituale.

Solo scendendo e stando nel fondo dell’abisso si possono compiere le ascensioni luminose allorquando in gioco è oramai l’uomo unificato, la persona intera. Ed è per questo che la tensione suprema che caratterizza queste ascensioni è l’amore, ma l’amore che non riguarda semplicemente la dimensione affettiva, bensì la dimensione totale dell’uomo. L’espressione più comprensiva mi sembra ancora una volta appartenere a Callisto Angelicude, benché in un linguaggio dal sapore neoplatonico: “ Bisogna dunque che l’intelletto guardi e si protenda verso quello che è il vero Uno senza principio, semplice, indeterminato, e di lì cerchi di illuminarsi e di unirsi a questa Enade sommamente unificante, e perciò a se stesso, affinché non soltanto sia amato dal Migliore perché si è a lui assimilato, come gli è possibile, per l’infinitudine, la semplicità, l’assenza di forme e di figure, ma perché possa egli stesso amare la divina, più che bella e soprannaturale bellezza, come chi è ritornato – secondo quanto si è detto – alla somiglianza”.[26]

D’altronde, è assai caratteristico che l’amore sia associato alla luce, all’illuminazione della grazia dello Spirito Santo, come dice sempre Angelicude: “Assai semplicemente, Davide e tutti gli altri profeti ispirati avevano i loro occhi quasi continuamente levati in contemplazione su Dio e la gloria del suo Volto. Perciò, gustando le grazie che ne sgorgavano, divenuti, per la loro rassomiglianza con Dio, ugualmente amici degli uomini, esortano tutti gli uomini allo stesso compito, alla ricerca di Dio, per mezzo della vigilanza sull’intelletto unita alla contemplazione e alla sapienza che deriva dal mondo sensibile, che fanno splendere poi sull’anima contemplativa la luce spirituale. Tale luce apre la porta dell’amore divino che domina l’insieme degli stati che ci è dato conoscere in Dio e merita mille volte di essere proclamata beata. Poiché dove riposa l’amore di Dio, là è già scesa l’illuminazione divina, illuminazione che in sapienza l’hesychia scopre e che la pace genera”; “… dove dimora l’amore, Dio dimora; dove Dio dimora, dimora la luce perché Dio è luce; là dove è la luce, non c’è tenebra: non si dà alcuna unione tra la luce e le tenebre, intendendo per tenebre il peccato; così il peccato sarà assente dall’uomo nel quale vive l’amore”.[27]

L’esaltazione del metodo della preghiera

Vengo al secondo punto che mi ero proposto di indagare. Notavo sopra come ciò  che colpisce nella lettura di determinati testi esicasti sia l’esaltazione del particolare metodo di preghiera, di cui si dice sia la via più facile e più breve per arrivare all’unione con Dio in contrapposizione alla cosiddetta pratica ascetica, lunga e faticosa. Sono indicazioni che vanno prese alla lettera? Vogliono davvero dire quello che sembrano dire?

Premetto alcune osservazioni generali. I testi esicasti sono scritti per lo più da monaci per monaci. Oltre alla vita sacramentale, che consisteva anzitutto nella partecipazione alla liturgia domenicale, era presupposta una condotta conforme alle regole monastiche e non si sottacevano i requisiti necessari per dedicarsi alla pratica della preghiera. Se, in ragione del loro tema specifico e del fatto che non sono molto sviluppati, il Trattato colmo di utilità sulla custodia del cuore di Niceforo e il Metodo della santa preghiera e attenzione[28] esaltavano la preghiera in contrapposizione alle altre pratiche di devozione e di ascesi, gli scritti più estesi e particolareggiati dei grandi maestri, Gregorio Sinaita, Callisto e Ignazio Xanthopouloi, mostrano come la pratica della tecnica d’orazione sia inserita nel contesto delle tradizionali opere monastiche. Gran parte del tempo del monaco era così dedicata proprio agli sforzi della πρακτική: digiuno, veglia, salmodia, lettura, metanie, ecc. Gregorio Sinaita sembra fissare i contorni definitivi della opposizione tra ‘preghiera’ e ‘pratica’ quando scrive: “Ci sono due modi per ritrovare l’operazione dello Spirito Santo che abbiamo ricevuto misticamente col battesimo. In primo luogo questo dono si manifesta più comunemente con la pratica dei comandamenti e con molti sforzi e lungo tempo […]. In secondo luogo si manifesta nella sottomissione, per mezzo della continua invocazione metodica del Signore Gesù, cioè la memoria di Dio”.[29] Tale contrapposizione, però, è più apparente che reale; sembra piuttosto una esaltazione verbale che non ha alcun riscontro nella condotta quotidiana dei monaci esicasti. D’altra parte, non si può non considerare che i ‘metodi’ di preghiera consigliati valgono soprattutto per i principianti, come si può vedere in alcuni passi di Gregorio Sinaita e in molti capitoli delle Triadi di Gregorio Palamas, i quali ne definiscono pur sempre in modo chiaro e inequivocabile i limiti e l’efficacia. In verità, in questi testi esicasti non viene proposta una tecnica di preghiera, ma soltanto un metodo di reintegrazione dell’unità della mente, un metodo per l’attenzione, preliminare necessario e indispensabile della preghiera. In sintesi, potremmo dire che l’esaltazione della tecnica sia più verbale che effettiva. La conferma della coscienza che in genere si ebbe dei limiti dei metodi ci viene dalla loro stessa storia successiva. Dopo la fioritura di opuscoli sulle tecniche psicofisiche, nei sec. XIII-XIV, si dovrà attendere quattro secoli per ritrovare di nuovo qualcosa di simile con Nicodemo Aghiorita, nel sec. XVIII.[30]

Ad espressioni come queste: “ … vi spiegherò la scienza della vita eterna, meglio celeste – o meglio ancora il metodo -, che introduce senza fatica e sudore colui che la pratica nel porto dell’impassibilità” [31]; “Poiché abbiamo delimitato e definito la vera attenzione, se credi, diremo alcune chiare e brevi parole sulle sue caratteristiche. Queste sono l’attenzione e la preghiera vere e senza errore: la mente, quando prega, custodisce il cuore, vi ritorna sempre all’interno e dal suo profondo eleva le domande al Signore. Allora la mente, che ha gustato quanto è buono il Signore, non è più espulsa dal soggiorno del cuore” [32], si oppongono espressioni contrarie che sottolineano invece la rarità, la violenza e la difficoltà della pratica della preghiera. Ne riporto alcune: “Tramite tale illuminazione si attua la beata deificazione nella misura dell’intuizione, cosa che però è sempre stata rara e difficile per quelli che vivono nell’esichia per mancanza di chi insegni tramite l’esperienza, causa la cessazione della grazia. Questo dice la somma guida dell’esichia, sant’Isacco il Siro, nel discorso in cui subito comincia a parlare della percezione spirituale e della potenza contemplativa” [33]; “Vi esorto, dunque, fate violenza, lo ripeto di nuovo: fate violenza alla vostra mente sino alla morte. Quest’opera ha bisogno di molta violenza …” [34]; “Ma sono pochissimi oggi che sanno che cosa significhi questo ‘Signore, pietà’, e ogni giorno gridano inutilmente, ahimé, e invano il ‘Signore, pietà’, e non ricevono la misericordia del Signore, perché non sanno ciò che chiedono” [35], “L’uomo ha bisogno di un lungo spazio di tempo, di fatica e di pazienza per stare nelle realtà intelligibili rigettando in qualche modo i sensi e spezzate con l’intelletto le realtà sensibili. Dopo di ciò risplende nell’anima la contemplazione della verità” [36].

La posizione più realistica potrebbe essere riassunta in questa frase dell’Angelicude: “E la sua pratica non è cieca, come se fosse separata dalla contemplazione, né la sua contemplazione è senza vita, come sarebbe se fosse senza la pratica” [37]. Posizione, che si rifà in generale a ciò che lo stesso Angelicude osserva: “ Fai attenzione, non agire come se tu fossi senza nemici, poiché lui, il nemico, è là e – cosa più importante – è immateriale, invisibile, sempre sveglio per procurarti il male, pronto ad agire e colmo di malizia e invidia” [38]. Vale sempre il principio: “Se la mente non è purificata dalle passioni, la pratica del bene è inefficace” [39], per la pratica della preghiera a maggior ragione. Perché: “Se chi prega guarda alla vedova che chiedeva giustizia al severo giudice, non si scoraggerà perché i beni della preghiera tardano a venire” [40]. Da verificare con questa disposizione, per nulla agevole: “Il primo bene consiste nel non cadere in nessuna occasione. Il secondo nel non nascondere il proprio errore per vergogna, né ricadervi. Ma piuttosto umiliarsi, accusare se stessi, se si è incolpati, e accettare con gioia la punizione. Se non si fa così, tutto quello che si presenta a Dio è senza vigore”. [41]

Rilievi conclusivi

         La pratica esicasta rimanda al centro dell’esperienza cristiana rendendo il cuore totalmente remissivo alla rivelazione di Dio. E la rivelazione di Dio che costituisce il grande annuncio della nostra fede non è che questa: “Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4,32). Letteralmente: “Dio ha fatto grazia di Sé a voi in Cristo” (ὁ Θεὸς ἐν Χριστῷ ἐχαρίσατο ὑμῖν).Continuando: “se anche voi perdonerete, cioè farete grazia di voi a tutti in Cristo”, il mondo risplenderà della Sua presenza, fino a che Dio sarà tutto in tutti, definitivamente, compiutamente. L’unica perfezione desiderabile è appunto quella di lasciarsi penetrare fin nelle midolla da questo far grazia di Sé da parte di Dio agli uomini  in Cristo per la potenza del suo Spirito. Come dice stupendamente anche s. Francesco, sintesi dell’intera Tradizione: “ciò che devono  desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”[42]. La volontà del Padre è vedere l’uomo investito dal suo Spirito, consegnato alla sua misteriosa operazione, quella cioè di compiere quel mistero di riconciliazione rivelato a noi in Cristo. La santità dell’uomo non è che la volontà di compiere quel compito, la risposta a quell’ appello che viene dal desiderio di Dio di essere in comunione con gli uomini.

I testi esicasti propugnano un ritorno all’uomo interiore, in un contesto ascetico ed ecclesiale che ne garantisce il pieno e sano sviluppo. Ritornare all’uomo interiore non significa però semplicemente ritornare in se stessi, ma precisamente ritornare al luogo della presenza di Cristo in noi. É il mistero dell’esistenza cristiana che soltanto nella fede possiamo percepire. L’ascesi, lo sforzo di purificare il corpo e lo spirito perché non venga offuscata la luce dello Spirito Santo infusaci nel battesimo, la quale ci guida alla pratica dei comandamenti del vangelo, è tutta tesa ad affinare e sensibilizzare la coscienza di questa presenza di Cristo in noi, in tutta la consistenza della sua realtà divino-umana e trinitaria, esaltata dal sacramento dell’Eucarestia. In effetti, la liturgia eucaristica e la liturgia interiore, espressa dall’offerta di noi stessi al Cristo nell’osservanza dei suoi comandamenti, si richiamano a vicenda fondendosi. Quello che la comunione eucaristica realizza sul piano del mistero, l’ascesi e la preghiera del cuore lo manifesta a livello della nostra percezione spirituale, nell’incessante cammino verso la piena e manifesta comunione con Lui, in attesa della nostra risurrezione finale.

Lo strumento ideale proposto è la preghiera del cuore, la preghiera di Gesù. La ripetizione di questa invocazione mira a far concentrare tutte le nostre energie direttamente su Gesù. L’energia spirituale è attenta unicamente alla Presenza del Signore dentro di noi; l’energia mentale è tutta intenta alle semplici parole della preghiera senza divagare in immagini o percezioni di qualsiasi tipo; l’energia affettivo-volitiva resta tesa completamente ad aderire al Signore presente nel nostro cuore.

Il punto centrale sembra quello di riprendere in tutto il suo vigore la visione antropologica dei Padri. Una delle più belle definizioni di uomo nella storia del cristianesimo è quella fornita da Gregorio di Nazianzo: l’uomo è un ‘animale chiamato a diventare Dio’ (ζῶον θεούμενον)[43], riprendendo un’affermazione di Basilio Magno il quale definisce l’uomo una creatura ‘ordinata a diventare Dio’ (θεός κεκελευσμένος). L’uomo è definito non nella sua ‘natura’, ma nella sua ‘persona’. La specificità dell’essere umano risiede nel fatto precipuo che è ‘ordinato a diventare Dio’. Ne deriva che il valore della vita viene definito in rapporto al progresso verso la perfezione, vale a dire verso il Cristo: diventare figli come il Figlio, diventare figli nel Figlio. Di qui l’importanza di saper procedere lungo questa traiettoria precisa senza improvvisazioni, approssimazioni, sentimentalismi, tutte cose che promanano dal nostro fondo passionale non purificato. Riprendere la ‘scienza dello spirito’ è il primo dei frutti di un sapiente accostarsi ai testi esicasti. Scienza, che va intesa come la capacità di tradurre in valori concreti il tesoro della fede, in valori vitali che coinvolgano tutto il nostro essere. Così, combattere i pensieri che ci illudono non significa distruggerli, ma trasfigurarli perché in ogni nostro pensiero, anche cattivo, in ogni nostro peccato, di qualsiasi tipo, vi sta come racchiuso un anelito che va liberato perché il cuore torni a vivere profondamente e liberamente. E l’anelito è in diretta dipendenza con la presenza del Signore nel cuore. In altre parole, combattere contro le passioni non significa altro che cercare di ridare ai nostri pensieri l’oggetto ed il contenuto loro proprio, il Cristo, per mezzo del quale tutto è stato fatto e ad immagine del quale noi siamo stati creati e nel quale tutto ritorna, riconciliato, a Dio. Il Cristo è il fondamento della nostra purificazione e la trasfigurazione della nostra mente, che è possibile realizzare progressivamente concentrando i nostri pensieri su di Lui, punto a cui tende direttamente la pratica della preghiera.

Se la preghiera ci mette in comunione con Dio, comunione di Persone, allora la porta di accesso a tale comunione non può che essere il pentimento, perché il pentimento è ciò che fa cadere ogni barriera di separazione, ci ‘concentra’ nella comunione con Dio, ci rende eminentemente persone, non più alienati nelle cose o nelle illusioni che creano barriere. Così, più ognuno perde la sua individualità alienata, la sua chiusura, più si apre alla comunione, più diventa persona tra persone, più è assunto nella comunione con Dio e con i fratelli.

Un ultimo rilievo. Al di là delle indicazioni sulla pratica della preghiera, i testi esicasti ci richiamano alla tensione contemplativa dell’esperienza della fede. Siamo troppo abituati a ridurre i comandamenti alla pratica del bene senza renderci conto che il bene non è lo scopo dell’agire. Osservare i comandamenti significa viverli in funzione della gloria di Dio, vale a dire in funzione della rivelazione al nostro cuore del volto di Dio e dello splendore delle cose, di tutte le creature, dei nostri fratelli. Il fare è in funzione del vedere. E il vedere ha a che fare con la vita del cuore, la cui attività specifica è la ‘memoria’ di Dio, la preghiera come esperienza di comunione. In sostanza, i testi esicasti ci ripropongono con forza la questione del frutto nell’agire spirituale, il cui movimento segue la traiettoria indicata da Callisto Angelicude: “La regina tra tutte le opere buone è la preghiera, che genera le lacrime del pentimento, che contribuisce al più alto grado alla pace dei pensieri, nella sua tensione a non meditare che Dio solo, somma pace. É la madre dell’amore di Dio, purifica la potenza intellettiva dell’anima … Orientandola verso Dio, conserva alla potenza affettiva dell’anima la sua purezza poiché, con il commercio e il dialogo con Dio, la cui bellezza e bontà sorpassano la natura, radica tutto il suo desiderio in Lui”.[44]

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[1] CALLISTO CATAPHUGIOTA, L’unione divina e la vita contemplativa, n. 63, in La Filocalia, Torino 1987, Gribaudi , vol. IV, p. 445. Si tratta di Callisto Angelicude, guida del monastero da lui fondato a Melenikon, odierna Melnik, in Bulgaria, dedicato alla Madre di Dio ‘del rifugio’ (Kataphygion), morto verso la fine del sec. XIV.

[2] Si veda, per esempio, la messa a punto, rigorosa nella sua documentazione storico-filologica e attenta nella disanima delle questioni implicate, di A. RIGO, a cura, Mistici bizantini, Torino 2008, Einaudi (I millenni) [in seguito, RIGO].  Lo stesso studioso sta preparando l’edizione di testi manoscritti inediti di autori esicasti, quali i Cento Capitoli sulla purezza della’anima di Callisto I, discepolo di Gregorio Sinaita; la Consolazione esicastica di Callisto Angelicude, di cui sono stati editi solo alcuni trattati (ed. S. Koutsas, Atene 1998: Quatre traités hésychastes inédits. Introduction, texte critique, traduction et notes), oltre alle opere riportate nella Filocalia sotto i nomi di Callisto Telicoudes e Catafigiota. Tra le numerose edizioni che hanno visto la luce in questi anni in edizione critica, ricordo l’opera di Teolepto di Filadelfia (ed. Sinkewicz, Toronto 1992 – tr. italiana:  Lettere e Discorsi, Bose 2007, Qiqajon); l’opera di Filoteo Sinaita (ed. Raffaele Ogliari, Torino 1999, Thessaloniki 2002; tr. romena di Ioan I. Ică : FILOTEI SINAITUL, Trezia minţii şi cerul inimii. Integrala scrierilor, Sibiu 2009, Deisis); la seconda centuria di Giovanni Carpazio (ed. Balfour, Brookline 1994; tr. romena di Ioan I. Ică: Scriere filocalice uitate, Sibiu 2007, Deisis).

[3] Sul tesoro della tradizione, si veda il mio L’insegnamento dei santi Padri nella vita cristiana, in AA.VV., Le vie della rivelazione di Dio. Parola e tradizione, a cura di Natalino Valentini, Roma 2006, Studium (Coscienza studi, 46), pp. 185-207.

[4] Da notare che la categoria ‘esicasmo’ è un elemento estraneo, assente nei testi spirituali. La nozione e il termine di ‘Esicasmo’ sono connotati da una buona dose di ambiguità. Cf. RIGO, p. XCIII.

[5] Si veda PAISIJ VELIČKOVSKIJ, Autobiografia di uno starets. Introduzione, traduzione e note a cura della comunità dei Fratelli Contemplativi di Gesù, Abbazia di Praglia 1988, Scritti monastici,  ripubblicato presso le ed. Qiqajon, Bose1998; E. CITTERIO, La dottrina spirituale dello starets Paisij. Radiografia di una comunità  in  N. KAUCHTSCHISCHWILI, A.-AI. N. TACHIAOS  e  AA.VV., “Paisij, lo starec”, Bose 1997, Qiqajon, p. 55-82; idem, L’esperienza monastica di Paisij Velickovskij. La fecondità della sua eredità: una santità come fermento di umanità, in Il monachesimo tra eredità e aperture, a cura di Maciej BIELAWSKI e Daniel HOMBERGEN, Roma 2004, Studia Anselmiana, pp. 459-469.

[6] Dalla prefazione di Enzo Bianchi a RIGO, p. IX.

[7] Tipico, in questo senso, il trattato di Niceforo l’Athonita: “Trattato colmo di utilità sulla custodia del cuore”, redatto verso il 1260/70, con la citazione da opere patristiche precedenti dove, evidentemente, i passi citati parlano più dell’autore del manuale che dei Padri esaminati. Si veda il bel volume di M. BIELAWSKI, Il cielo nel cuore. Invito al mondo esicasta di Niceforo il Solitario, Roma 2002, Lipa.

[8] Filoteo, monaco sul Sinai in un periodo imprecisato del sec. X, deve la sua fortuna ad una compilazione più tarda formata da materiale tratto dalle sue opere autentiche (forse sec. XI), i Capitoli neptici, riportati nella Filocalia.

[9] Esichio, abate del monastero del Roveto ardente sul Sinai, nella seconda metà del sec. XII, è autore di 200 capitoli, dal titolo: Di Esichio presbitero a Teodulo, discorso utile all’anima e salvifico sulla sobrietà e sulla virtù in capitoli, riportati nella Filocalia. Egli riconduce tutto il cammino spirituale alla sobrietà.

[10] Interessanti, dal punto di vista della ricerca storica e letteraria, gli articoli che compongono la miscellanea dedicata al tema del cuore:  Il cuore. The Heart, Micrologus. Natura, Scienze e Società Medievali, XI, 2003, Firenze, SISMEL, Edizioni del Galluzzo. In particolare, Anita Guerreau-Jalabert, “Aimer de fin cuer”. Le coeur dans la thématique courtoise, 343-371; Michela Pereira, Il cuore dell’alchimia, 287-304, dove si sottolinea la necessità del cuore puro, vale a dire una conveniente maturazione affettiva e morale, prima di ottenere la conoscenza dei segreti della natura e dell’arte alchemica.

[11] OL’GA SEDAKOVA, La luce della vita. Alcune considerazioni sulla percezione ortodossa, in LA NUOVA EUROPA 2, 2009, 23-41. Una bella riflessione a tale proposito si può leggere in M. ZAMBRANO, Verso un sapere dell’anima, Milano 1996, Raffaello Cortina, pp. 43-52 (la metafora del cuore. Frammento).

[12] “Quindi, seduto in una cella tranquilla, in disparte, in un angolo, fa’ quello che ti dico: chiudi la porta, ed eleva la tua mente al di sopra di ogni oggetto vano e temporale. Quindi appoggia la barba sul petto, volgi l’occhio del tuo corpo, assieme a tutta la tua mente, nel centro del ventre, cioè nell’ombelico. Comprimi l’inspirazione che passa per il naso, in modo da non respirare agevolmente, esplora con la mente all’interno delle viscere, per trovare il posto del cuore ove sono solite dimorare tutte le potenze dell’anima”, Metodo della santa preghiera e attenzione, RIGO, 409; “Tu, dunque, siediti e, raccogliendo la mente, introducila – la tua mente – nel naso: è la via per la quale il respiro scende nel cuore. Spingila, forzala a scendere nel cuore assieme all’aria inspirata”, NICEFORO L’ATHONITA, Trattato sulla custodia del cuore, RIGO, 428.

[13] Si possono trovare riflessioni stimolanti nell’analisi di Olivier Clément sulla preghiera di Gesù, La prière de Jésus, in J. SERR – O. CLEMENT, La prière du coeur, Abbaye de Bellefontaine 1977 (Spiritualité orientale, 6 bis), pp. 49-121.

[14] Il testo originario Esposizione di un canone del monaco Giovanni l’eremita a un certo Teofilo, ancora inedito secondo un codice della seconda metà del sec. XI, ha subito due rimaneggiamenti successivi diventati molto popolari, l’ Epistola a un igumeno e l’Epistola ai monaci, posti sotto il nome di Giovanni Crisostomo, diventando il manifesto della pratica della preghiera di Gesù.  Nel Metodo e canone di Callisto e Ignazio Xanthopouloi (capp. 21, 29) figurano tra le auctoritates sulla preghiera di Gesù, a fianco di Diadoco di Fotice e di Giovanni Climaco.

[15] Cf. RIGO, 170

[16] Cf. RIGO, 664.

[17] ELIA l’ekdicos, Antologia gnomica di filosofi zelanti, n. 240, RIGO, 229.

[18] FILOTEO SINAITA, Quaranta capitoli sulla sobrietà, n. 40.

[19] Filocalia, vol. IV, p. 345, n. 53 dei Capitoli sulla preghiera, attribuiti a Callisto patriarca.

[20] Lettera per i fratelli alla mietitura, in Adunare a cuvintelor celor pentru ascultare, Neamţ 1817, pp. 342-343. Anche in Sf. PAISIE DE LA NEAMŢ, Cuvinte şi scrisori duhovniceşti, Chişinău 1999, Tipografia centrală, vol. II, p. 164-165.

[21] Trattato XVI, ed. Koutsas, p. 123; trattato XXII, p. 115.

[22] GIOVANNI l’eremita, Epistola a un igumeno, n. 15 (si veda anche il n. 3) e 21, RIGO, 168, 171.

[23] Metodo e canone esatto, n. 78, RIGO, 761.

[24] “Bisogna prostrarsi ai piedi dei fratelli che vengono: con questo ci prostriamo a Dio, e non a loro. Quando vedi il tuo fratello, vedi il Signore Dio tuo”, in Vita e detti dei Padri del deserto, a cura di Luciana Mortari, Roma 1975, Città nuova, vol. I, p. 148 (Apollo, 3).

[25] Cf. GIOVANNI l’eremita, Epistola a un igumeno, n. 21: “La memoria può disperdere tutta la potenza del diavolo nel cuore e la memoria la può vincere e sradicare un po’ alla volta, in modo che il Nome del Signore Gesù Cristo, sceso nell’abisso del cuore, umili il dragone che ne domina i pascoli, salvi e vivifichi l’anima”, RIGO, 171.

[26] CALLISTO CATAPHUGIOTA, L’unione divina e la vita contemplativa, 25, in Filocalia, vol. IV, p. 417.

[27] Trattato XVI, ed. Koutsas, p. 143, 149.

[28] Cf. RIGO, rispettivamente alle pp. 417-428, 404-412.

[29] Citazione tratta dall’opera Sulle operazioni della grazia e i segni dell’illusione, nella traduzione di A. Rigo, Gregorio il Sinaita, in La théologie byzantine et sa tradition (XIII-XIX s.), t. II, a cura di C.C. e V. Conticello, Turnhout 2002, Brepols Publishers (Corpus Christianorum), p. 118.

[30] Sono osservazioni di A. Rigo, Gregorio il Sinaita, in La théologie byzantine et sa tradition (XIII-XIX s.), t. II, a cura di C.C. e V. Conticello, Turnhout 2002, Brepols Publishers (Corpus Christianorum), p. 119, che sottoscrivo pienamente.

[31] NICEFORO L’ATHONITA, Trattato colmo di utilità sulla custodia del cuore, in RIGO, 417.

[32] Metodo della santa preghiera e attenzione, in RIGO, 407. Il testo, più avanti, continua con l’elogio della ‘sobrietà’: “Perciò abbracciala prima di ogni altra cosa per imparare dall’esperienza quanto di dico che è sconosciuto a tutti gli uomini”, 409.

[33] CALLISTO CATAPHUGIOTA, L’unione divina e la vita contemplativa, n. 81, in Filocalia, vol. IV, p. 463.

[34] GIOVANNI l’eremita, Epistola a un igumeno, n. 19, RIGO, 170.

[35] Dall’opuscolo anonimo in neoellenico Spiegazione del ‘Signore, pietà’, in Filocalia, vol. IV, 493.

[36] CALLISTO CATAPHUGIOTA, L’unione divina e la vita contemplativa, n. 80, in Filocalia, vol. IV, p. 457.

[37] CALLISTO CATAPHUGIOTA, L’unione divina e la vita contemplativa, n. 81, in Filocalia, vol. IV, p. 461.

[38] Trattato XVI, ed. Koutsas, 135.

[39] TEOLEPTO DI FILADELFIA, Lettere e discorsi, Bose 2007, Qiqajon, Discorso XIV, 24, p. 207.

[40] ELIA L’EKDIKOS, Antologia gnomica di filosofi zelanti, 99, in RIGO, 208.

[41] ELIA L’EKDIKOS, Antologia gnomica di filosofi zelanti, 48, in RIGO, 201.

[42] Regola bollata, X, in  Fonti Francescane, 104.

[43] In Sanctum Pascha, hom. 45,7.

[44] CALLISTO ANGELICUDE, Trattato XXII, ed. Koutsas, p. 115.