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Ciò che intendo illustrare è un aspetto della corrispondenza chiesa/parola di Dio. Parto dall’assunto che la rivelazione di Dio, che costituisce il grande annuncio della nostra fede, la ‘buona notizia’ per il mondo, si riassume in questo: “Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4,32). Letteralmente: “Dio ha fatto grazia di Sé a voi in Cristo”.

L’esperienza dell’amore di Dio per l’uomo, svelatasi in Cristo e condivisa dai suoi discepoli, ha rivoluzionato la percezione interiore delle prime generazioni cristiane a tal punto da costituire la radice di una nuova umanità di cui essere fermento nel mondo intero. Di quell’esperienza la chiesa vive tanto che l’unico ministero della chiesa nel mondo è appunto la riconciliazione: “Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione”, 2Cor 5,18). Ciò significa:

1) che l’esperienza fondamentale dell’uomo è l’accoglienza del ‘far grazia di sé’ da parte di Dio, in Cristo, esperienza così fondante della nuova umanità a noi donata in Cristo, che tutta la vita dei discepoli assume la tensione di estendere a tutto e a tutti il perdono ricevuto, nella condivisione comune. Così si impara a stare solidali con i sentimenti di Dio e a vivere effettivamente nella comunione con lui, senza illusioni e senza vergogna. È il segreto della felicità dei figli (cf. Lc 15,11-32), che si possono riconoscere fratelli nella comunione con la premura e la gioia del Padre verso di loro;

2) che se Dio affida all’uomo il ministero della riconciliazione, vuol dire che ritiene l’uomo suo compagno (“Siamo infatti collaboratori di Dio”, 1Cor 3,9). Con la rivelazione di Gesù, che svela, mentre compie, il supremo desiderio di Dio di stare in comunione con i suoi figli, possiamo scorgere all’opera nel mondo le segrete intenzioni di Dio nei confronti delle sue creature. Parlare di redenzione, di salvezza, di grazia, significa alludere a questa opera di riconciliazione in atto nella storia, come dice Gesù, lui che è la nostra pace (“Egli infatti è la nostra pace“, Ef 2,14):  “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero” (Gv 5,17). Noi tutti siamo appunto chiamati a concorrere alla realizzazione di questa opera, invitati a giudicare ogni cosa in base alla convergenza verso questo supremo scopo divino.

In effetti, la frase di s. Paolo sopra citata comporta nella sua logica intrinseca la continuazione: “se anche voi perdonerete, cioè farete grazia di voi a tutti in Cristo”, il mondo risplenderà della Sua presenza. Se la volontà del Padre è vedere l’uomo investito dal suo Spirito, consegnato alla sua misteriosa operazione di realizzare nella storia il mistero della riconciliazione rivelato a noi in Cristo, la santità dell’uomo non è che la volontà di compiere quel compito, rispondendo all’appello che viene dal desiderio di Dio di essere in comunione con gli uomini.

Il brano citato di 2Cor comporta un particolare misterioso. Dice che ci è affidata la parola della riconciliazione. Il testo direbbe più propriamente che è posta in noi la parola della riconciliazione. Quale parola? Non la parola da dire, ma la parola come fondamento dell’essere, come le ragioni che convincono il cuore della realtà di quella pace ottenuta, che per sua stessa dinamica interna tende a coinvolgere tutti e tutto. È la parola come forza d’attrazione, come potenza di irradiazione, come rivelazione del segreto della felicità nel godere quel ‘suo far grazia di Sé a noi’ in modo da renderci capaci, ormai solidali con i suoi sentimenti, di estendere a tutti la condivisione di quel segreto.

L’essere della Chiesa nel mondo.

Nel miracolo della moltiplicazione dei pani (cf. Mt 14,15-20) gli apostoli agiscono da intermediari. Sono strumenti perché la compassione del Signore raggiunga tutti e tutti siano sfamati. I Padri vi hanno letto l’allusione al compito dei ministri della chiesa: spezzare il pane della Parola per l’intelligenza della fede. Ma vi si può leggere anche il compito dei discepoli rispetto al mondo che attende la rivelazione di Dio. Ci possiamo allora domandare: con quale ‘parola’ la chiesa è strumento? E con quale ‘potenza’ la parola spezzata diventa fonte di vita per tutti?

Quando l’apostolo Paolo invita i cristiani ad agire nel mondo, scrive che lo devono fare “tenendo alta la parola di vita” (Fil 2,16) [secondo la nuova traduzione CEI: ‘tenendo salda la parola di vita’] e allude al vangelo di cui i discepoli sono i testimoni e gli araldi nel mondo. Si riferisce a una determinata parola, quella che è illustrata dal passo: “Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo” (2Tim 1,10).

Ora, lo splendore di quella parola, goduta, testimoniata e annunciata, si riferisce al segreto della comunione con Dio, in Cristo, che gli uomini possono vivere e che, nella loro storia concreta, possono condividere nella dimensione della riconciliazione. Se leggiamo con attenzione il passo di  Lc 24,44-49, quando Gesù risorto rimanda alle Scritture, non possiamo non accorgerci che spezzare la parola significa partecipare alla stessa dinamica di rivelazione che ha sempre caratterizzato l’opera di Dio per il suo popolo e che in Gesù ha il suo culmine e la sua ragione ultimativa. In altre parole, fa sempre parte dell’intelligenza delle Scritture comprendere, insieme al mistero del Cristo che doveva patire e risuscitare, l’annuncio della conversione per il perdono dei peccati, di cui gli apostoli sono i testimoni per averne gustato intimamente la verità. Riconoscere il Cristo significa allora contemporaneamente essere proiettati nell’opera di riconciliazione in atto nella storia, partecipare al desiderio di Dio della comunione con gli uomini, diventare collaboratori con l’opera del Figlio, morto e risorto, per riunire i figli di Dio dispersi (cf. Gv 11,52). Solo così l’umanità risplende, come fa presagire Mario Vittorino nel suo commento a Fil 2,16: “Io mi glorio in voi, perché possedete la parola di vita, cioè perché conoscete Cristo, che è la Parola di vita, perché quello che è fatto in Cristo, è vita”.[1]

È la testimonianza di un’umanità dall’alto, la cui coscienza comporta l’assunzione di uno stile di responsabilità nell’agire. È la responsabilità che si traduce nell’accettazione di un compito, il cui senso sta tutto nel favorire la riconciliazione con Dio e con se stessi, con i fratelli, con il mondo, liberando gli spazi del cuore e creando rapporti rinnovati. Questo, ad esempio, fa sì che il valore dell’agire apostolico non dipenda da ciò che si fa, come se fosse più importante una cosa piuttosto che un’altra, ma più semplicemente dal vivere quello che si fa, qualunque cosa sia, nella coscienza di quel mistero. Non solo, ma un’opera risulta evangelica ed evangelizzante non tanto quanto al contenuto bensì rispetto alla modalità di compierla, in diretta dipendenza dalla trasparenza della riconciliazione vissuta. Non basta annunciare una verità, se poi la difesa di questa verità risulta mondana. E questo è anche il motivo per cui, davanti a Dio, non vale minimamente la differenza dei carismi o l’importanza delle cose: tutto è banale e tutto è importante, perché ciò che conta è la coscienza di quel compito, indipendentemente dalle cose nelle quali siamo implicati. La Chiesa non è allora che la parola di riconciliazione che mira allo splendore di un’umanità dall’alto.

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Testo pubblicato su “Consacrazione e servizio”, 1/2009, pp. 65-68.

[1] Cf. La Bibbia commentata dai Padri, Nuovo Testamento 8: Galati, Efesini, Filippesi, Roma 2005, Città Nuova, p. 283.