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Un approccio alle malattie dell’anima, ma soprattutto alla lotta col nemico che ci vorrebbe solidali nel rifiuto di Dio. Come partire dalle proprie debolezze per aprirsi al riconoscimento della presenza intima di Cristo. Nel cuore è più consentaneo il bene che il male. 

Intervento alla scuola di accoglienza, presso l’Oasi dell’Immacolata di Asti, il 4 novembre 2003, di E. Citterio.

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La malattia intacca il corpo, ma anche la psiche, la mente ed anche l’anima. Condiziona i comportamenti, le funzioni, le relazioni e l’organizzazione del particolare come del generale, del singolo organo come dell’insieme degli organi. E questo vale per il corpo ma anche per l’anima. La malattia inerisce al processo di crescita ed insidia tutto l’arco dello sviluppo.

Parlare in astratto delle malattie dell’anima sembra un’astruseria. Eppure è realtà, e dolorosa realtà quotidiana. Imparare a cogliere i tipi di malattia e individuarne la terapia significa cogliere la natura dei desideri che portiamo inscritti nel cuore, significa cogliere il senso stesso del nostro esistere e l’arco possibile di realizzazione di noi stessi, aperti sul mondo che vediamo fuori di noi e su quello che si muove dentro di noi.

Il discorso sulle malattie dello spirito riguarda anche la dimensione culturale, oltre che quella spirituale, anche se il mio discorso verterà soprattutto su quest’ultima. Tempo fa ho letto di un autore romeno, il filosofo Constantin Noica (1909-1987), il suo brillante saggio  “Sei malattie dello spirito contemporaneo”, Bologna 1993, ed. Il Mulino. Traccia una sorta di cartella clinica dell’uomo moderno, analizzando le carenze d’essere nell’uomo con le manifestazioni che ne conseguono. Diagnostica così, al di là della malattia cronica dell’essere umano misurato nel tempo, le malattie vere dell’uomo come essere che esiste nel tempo, ma che non trova la sua misura in seno al tempo. Distingue così la serie delle malattie come carenza di essere in Napoleone (carenza del generale), in Platone (carenza dell’individuale) e in don Chisciotte (carenza delle determinazioni adeguate) e la serie delle malattie come rifiuto d’essere in don Giovanni  (rifiuto del generale), in Tolstoj (rifiuto dell’individuale), in Godot, personaggio del dramma di Samuel Beckett (rifiuto delle determinazioni).

Si potrebbe anche riflettere, per un approfondimento culturale, anche al noto detto di Eraclito “ἦθος ἀνθρώπῳ δαίμων”, tradotto normalmente come “Il carattere proprio è per l’uomo il suo demone”. Ma un’annotazione lucida di Heidegger, in un suo celebre commento, così rende l’espressione eraclitea: “L’uomo, in quanto è uomo, abita nella vicinanza di Dio” oppure anche “l’uomo abita, nella misura in cui è uomo, nella vicinanza di Dio”. Vale a dire: il luogo ‘veritativo’ dell’uomo, quello che contiene e custodisce l’avvento di ciò a cui l’uomo appartiene nella sua essenza è Dio[1]. L’etica non è soltanto il complesso delle consuetudini, delle norme a cui ci si deve attenere (la parola greca è presa nel suo primo significato di costumi, consuetudini, ‘mos’ in latino), ma soprattutto il valore di riferimento in cui abitare, in cui far venire all’essere quello che si è (la parola greca è presa nell’altro significato che possiede, cioè quello di luogo dell’abitare, di soggiorno). Così le malattie dell’anima sono quelle che impediscono, indeboliscono, vanificano il desiderio di essere dell’uomo, desiderio che riceve possibilità di espressione in rapporto a ciò che lo costituisce dal di dentro, nella tensione a Dio in cui l’uomo abita.

A me preme però sottolineare la dimensione spirituale e non ho trovato di meglio, per presentare la serie delle malattie dell’anima, se non rifarmi ad un’antica preghiera quaresimale della tradizione bizantina, alla preghiera di s. Efrem:

Signore e Sovrano della mia vita,

non darmi uno spirito di pigrizia, di dissipazione, di predominio e di loquacità.

Dona invece al tuo servo

uno spirito di purità, di umiltà, di pazienza e di carità.

Sì, Re e Signore,

fa’ che io riconosca i miei peccati e non giudichi il mio fratello,

poiché tu sei benedetto nei secoli. Amen[2]

Chi di noi sottoscriverebbe espressioni di questo tipo:

“Beato l’uomo che conosce la sua debolezza: questa conoscenza sarà per lui fondamento e principio per tutte le cose buone e belle”; “L’uomo perfetto è l’uomo che conosce perfettamente la sua debolezza”; “L’uomo che è giunto alla conoscenza della propria debolezza, è giunto al fondo dell’umiltà”; “Non siamo mortali perché pecchiamo; ma poiché siamo mortali, siamo spinti al peccato” ? Tutte espressioni che appartengono al mistico per eccellenza della tradizione cristiana orientale, Isacco Siro[3]. E proprio il sentimento di estraneità di queste espressioni rivela quanto ci siamo allontanati dalla nostra grande tradizione, dalla sana tradizione.

Premetto perciò subito una serie di considerazioni generali che troppo spesso dimentichiamo, a nostro danno.

La preghiera parla di uno ‘spirito di pigrizia, di dissipazione …’ e non semplicemente di ‘pigrizia, dissipazione …’. Si ha cioè a che fare con la potenza di un avversario, di un nemico, del demonio che vuole condividere con noi la sua scelta di contrapposizione a Dio. Accogliere questa realtà libera da quella forma di ansietà che ci opprime facendoci immaginare che tutto si svolge a porte chiuse, tra noi e noi stessi, incapaci così di portare il peso di una lotta che non dà respiro. La lotta non è frutto di nostri errori né è castigo per errori altrui. E’ funzionale alla capacità di vivere una relazione, dentro la Relazione che ci costituisce e ci difende. Ogni vicenda dell’anima comporta uno scenario aperto dove, se il nemico ci tallona, Dio ha tutto l’agio di mostrare gli spazi di difesa adatti per crescere senza timori o timidezze. Istruttivo il passo di 2 Re 6,15-17: “Il giorno dopo, l’uomo di Dio, alzatosi di buon mattino, uscì. Ecco, un esercito circondava la città con cavalli e carri. Il suo servo disse: “Ohimè, mio signore, come faremo?”. Quegli rispose: “Non temere, perché i nostri sono più numerosi dei loro”. Eliseo pregò così: “Signore, apri i suoi occhi; egli veda”. Il Signore aprì gli occhi del servo, che vide. Ecco, il monte era pieno di cavalli e di carri di fuoco intorno a Eliseo” .

Il male, la malattia, non è dentro di noi, proviene da fuori. Troppo sovente, per la virulenza del male e della tentazione, siamo indotti a pensare che il male si annida dentro il cuore dell’uomo; invece è insegnamento costante dei nostri Padri, il male attornia il nostro cuore ed entra solo se il cuore apre l’accesso. La tentazione, come prova, non comporta di per sé inclinazione al male. Adamo subisce la tentazione quando ancora godeva della piena comunione con Dio, anche Gesù è stato tentato, e così la Vergine Santissima.  Nonostante tutta l’apparenza, è più consentaneo al cuore il bene del male, anche se spesso, nelle condizioni della vita quotidiana, il male sembra prevalere. Cristo abita in noi più ‘radicalmente’ di qualsiasi altro male, anche se in modo forse troppo ‘nascosto’ per la nostra coscienza. E la crescita spirituale altro non è che l’evoluzione di quell’uomo interiore, in Cristo, che da bambino si fa adulto, uomo maturo, ricco di tutti i doni adeguati. Questa convinzione libera dal disprezzo in cui inchiodiamo noi stessi di fronte al male che serpeggia e che ci attrae, nonostante il volere contrario. Libera dalla sfiducia in cui gettiamo il nostro cuore quando veniamo feriti dalla vita e dalla cattiveria degli uomini o dalla nostra stessa debolezza. Ci aiuta a vincere la paura, che spesso è proprio quella che ingigantisce il male.

Un’ultima cosa. I Padri antichi hanno sempre cercato di individuare il percorso che segue il male per entrare nel nostro cuore. Più che interessarsi dei singoli peccati si sono posti il problema di individuare la radice da cui questi prendono alimento. E spesso la nostra volontà di vincere il peccato si infrange sulla ignoranza della radice che lo produce. Come in una malattia del corpo: combattere i sintomi senza debellare la causa che li ha prodotti non porta alla salute, ma alla virulenza del male che si manifesterà più invasivo di prima. Tutti abbiamo imparato nel catechismo l’elenco dei sette vizi capitali, dai quali, come da radici, provengono poi tutti i singoli peccati. La malattia non è data dal peccato, ma dal vizio di fondo che lo origina e per vincere il peccato occorre debellare il vizio di fondo che lo supporta. Ma quell’elenco sembra ormai un incaglio della tradizione che non ci dice più nulla. Eppure le dinamiche che si scatenano sono quelle di sempre. E’ necessario riimparare a riconoscerle. Esiste una specie di radice di fondo delle malattie dell’anima. I padri antichi la chiamano φιλαυτία, l’amore di sé patologico, smodato, il contrario di un sano volersi bene, quando tutto e tutti sono piegati angosciosamente al proprio piacere in uno sfruttamento egoistico e narcisistico. E’ esattamente l’opposto della vocazione dell’uomo che è una creatura in tensione per la comunione, garanzia della sua felicità e per questo un essere essenzialmente aperto. Ora questo atteggiamento di fondo, così insidioso e sempre incombente, è protetto da tre ‘giganti’, sempre seguendo la terminologia dei Padri antichi, i quali rispondono al nome di ‘ignoranza, oblio e negligenza’. Più ci si trincera nel non coltivare la tensione a Dio, più lo si dimentica e si vive nell’illusione, più si resta distratti rispetto alla storia di alleanza che ha intessuto con noi uomini, più ci si allontana dalle radici del cuore, non riuscendo più a rapportarsi alla vita, ai fratelli, a noi stessi, in benevolenza e armonia, perché non troviamo più Colui che è la nostra misura, sia come individui che come società.

La preghiera di s. Efrem ci fa scoprire cosa avviene al nostro cuore quando predominano quei tre giganti, quali malattie ci procurano e, d’altra parte, come fare per ritornare liberi e sani. La preghiera ci presenta un elenco di quattro ‘spiriti cattivi’ e di quattro ‘spiriti buoni’, di quattro vizi e di quattro virtù, di quattro radici cattive e di quattro radici buone. Cominciamo con l’analizzare i quattro spiriti cattivi.

Primo. Chiediamo a Dio di non darci uno spirito di pigrizia; chiediamo che non ci sorprenda uno spirito di pigrizia; chiediamo di non cadere prigionieri di uno spirito di pigrizia. La pigrizia comporta il rifiuto dell’attività spirituale, il rifiuto di crescere nel nostro uomo interiore. E si cresce in rapporto alla pratica dei comandamenti di Dio che costituiscono la salute dello spirito. Comandamenti, che vanno letti nell’ottica della realizzazione di quella vocazione alla ‘umanità’ che costituisce la somiglianza con Dio e che comporta l’esperienza forte della comunione e dell’amore vicendevole. Quando Dio ha creato l’uomo, l’ha posto in un giardino, nel paradiso terrestre “perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gen 2,15). Ora, la terra di quel giardino allude alla terra del cuore; coltivare il giardino significa coltivare la terra del cuore, significa coltivarsi. Ricordate la beatitudine: “beati i miti di cuore perché erediteranno la terra”, da intendersi: solo i miti godranno la promessa che si porta in cuore, la promessa cioè di godere di quell’umanità che risplende della somiglianza con Dio. Il lavoro e la fatica non appartengono al peccato, perché lo precedono; appartengono al vivere, allo sviluppo, alla realizzazione di quello che si è ma non si è ancora rivelato. L’uomo è chiamato a passare da essere semplicemente individuo a diventare persona e volersi persona è volersi responsabili dell’esercizio di una libertà donata, che ha bisogno per realizzarsi di un lavorio costante e fecondo. La pigrizia è il rifiuto della propria vocazione a diventare ‘umani’.

Secondo. Chiediamo a Dio di non darci uno spirito di dissipazione. La parola greca περιεργία significa propriamente una curiosità vana e generalizzata che comporta, per il cuore, la frantumazione. Incomincia ad insidiarci l’illusione, l’inganno cioè di poter trovare la realizzazione di sé, la propria felicità nelle cose esteriori. Dentro la pura logica della ricerca del piacere e della fuga del dolore l’uomo non riconosce più la consistenza delle cose in rapporto ai desideri ed alla verità del suo cuore, si trova parcellizzato, non ha più possibilità di costruire uno spazio di senso in cui abitare e far abitare. Così l’illusione comincia ad avviluppare il cuore e da qui ne conseguono almeno tre effetti: la fatica, che non si può comunque evitare nella vita, risulta vana e perciò oppressiva, mortificante; le risorse interiori si assottigliano, si perdono sempre più energie e non si riesce a rigenerarle per cui, terzo effetto, comincia a prevalere l’insoddisfazione, la quale originerà quello che i padri antichi chiamavano lo spirito di giustificazione: si vive al ribasso, si proietta moltissimo sugli altri e si resta solo pieni di se stessi perché vuoti di verità.

Terzo. Chiediamo a Dio di non darci uno spirito di predominio. In greco φιλαρχία, il termine significa propriamente amore del potere. L’illusione si ispessisce. Se precedentemente si cercava nelle cose esteriori la realizzazione di sé, vittime della frantumazione, ora il cuore subisce una vera e propria schiavitù perché tende a vedere gli uomini, suoi simili, semplicemente come strumenti e mezzi di profitto personale. Non esiste più l’orizzonte della comunione, ma solo quello dello sfruttamento. Il nostro agire, oltre a non soddisfare il nostro cuore, attizzerà violenza e ingiustizia e così il tormento sarà esteso alla società intera.

Quarto. Chiediamo a Dio di non darci uno spirito di loquacità, in greco ἀργολογία, propriamente il parlare vano, il parlare vuoto. E’ il massimo dell’illusione: non solo le cose e le persone, ma perfino la stessa parola risulta degradata. La perdita di dignità è totale. Non solo non c’è più comunione, ma manca anche ogni forma di comunicazione e la cosa è tanto tragica perché non riguarda solo gli altri, ma riguarda il nostro stesso mondo interiore: tutto è vano, suona fesso.

Teniamo conto che la successione degli atteggiamenti è assai ben concatenata. Se si concede spazio al primo non può mancare il secondo, che darà luogo al terzo e finirà per portarci al quarto. E così tutta la realtà che ci riguarda sarà inevitabilmente contagiata, rivelando la malattia profonda che ci insidia. Siamo danneggiati nella coscienza verso Dio con la pigrizia perché non prestiamo più cura alla nostra salute; siamo danneggiati nella coscienza verso le cose non conoscendo più la misura adatta per servircene ed esaltare il loro ‘servizio’ per la vita nostra e di tutti; siamo danneggiati nella coscienza verso il prossimo perché cadiamo nel disprezzo dei fratelli, di cui non riconosciamo più il valore essenziale; siamo danneggiati nella coscienza verso noi stessi per il degrado della parola, dono divino all’uomo per aprirsi all’incontro e vivere in comunione. All’opposto, se reagiamo a questi quattro spiriti cattivi come la preghiera ci insegna, ritroveremo il gusto di una fatica feconda, di quel lavorio del cuore che sta aperto a Dio e ai suoi doni; l’urgenza di ricercare una cosa sola (“Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena”, Mt 6,33-34) senza cadere in una sorte di preoccupazione diffusa che non ti lascia requie; la bellezza del servizio nei confronti del prossimo come capacità di custodire la dignità propria e altrui; il valore del silenzio, che dà corpo alle parole perché arrivino al cuore e non semplicemente alla testa o alle orecchie. La serie degli spiriti buoni che domandiamo è funzionale alla risalita, come su di una scala, verso Colui che custodisce il segreto della nostra ‘piena umanità’, della realizzazione della nostra vocazione all’umanità, alla santità come pienezza di vita possibile. Strana, a prima vista, è solo la successione degli spiriti buoni che la preghiera ci fa domandare, perché ogni richiesta è la risposta di terapia alla malattia manifestatasi. Contro la loquacità è invocata la purità, contro il predominio l’umiltà, contro la dissipazione la pazienza, contro la pigrizia la carità.

La prima cosa che domandiamo a Dio è uno spirito di purità, in greco σωφροσύνη. Cosa ha a che fare la purità con la loquacità? La parola greca corrisponde al termine latino ‘castitas’, connesso con il verbo ‘carere’, essere privo e quindi propriamente essere esente da colpa. Purità non allude però semplicemente al fatto di non avere colpe ma più propriamente allude alla condizione integra dell’essere, ad una armonia vissuta, ad una costituzione integra e sana, come del resto la stessa parola greca significa essendo composta di σως , integro, sano, a posto e  φρην, mente, cuore, sentimenti. Come si dice comunemente in certe espressioni dialettali: avere i sentimenti a posto. E’ la ripresa della dignità dell’insieme, che la parola degradata rivelava ormai compromessa.

Chiediamo poi lo spirito dell’umiltà. La ripresa della propria dignità si risolve nel dare dignità a tutti e questo è frutto dell’umiltà che fa’ in modo che nessuno debba mai chinare la testa davanti a noi. Si ricostituiscono gli spazi per vivere rapporti di comunione con i fratelli.

Segue la domanda della pazienza, intesa non come la capacità si sopportare pazientemente le persone moleste, ma la capacità di portarsi, di star bene con tutti e con tutto perché ci si possiede. E’ il rimedio contro la dispersione, contro la frantumazione del cuore. E riguarda principalmente gli eventi che sono colti dentro una Provvidenza, in una benevolenza per noi di fondo. Si supera anche quella certa ostilità che registriamo da parte delle cose stesse e degli avvenimenti e che ci dà l’impressione di una specie di congiura contro di noi. Sentimento infantile, ma non di meno insidioso e persistente. Un bellissimo passo di Origine, nel suo commento al libro di Giosuè, illustra con precisione questo fatto. ” Tutte le creature sono ostili al peccatore, come sta scritto a proposito degli Egiziani: la terra era contro di loro; il fiume era contro, l’aria stessa, il cielo era contro di loro. Per il giusto, invece, anche le realtà che appaiono inaccessibili diventano piane e proclivi. Il Mar Rosso il giusto lo attraversa come terra asciutta … Il giusto, anche se entra nel deserto spaventoso e immenso, viene servito del cibo dal cielo. … Non vi è assolutamente nulla che il giusto debba temere, ogni creatura infatti è al suo servizio.” (Omelia IV). La pazienza ha a che fare soprattutto con la mitezza. E ricordo ancora la beatitudine citata sopra: “Beati i miti, perché erediteranno la terra” (Mt 5,5), la terra del loro cuore. Solo il mite possiede davvero se stesso, senza paura, perché ha rinunciato ad ogni rapporto di possesso, ad ogni senso di difesa. Ha un’ottica verso le cose e verso se stesso così larga che nessun’altra, di parziale, ha presa su di lui. E’ libero, non ha più nulla che gli impedisce di praticare i comandamenti, potrà davvero essere discepolo del Signore. Si è tanto liberi dalle circostanze e così poveri di pretese che tutto, persone, cose, avvenimenti, appaiono in veste di fratelli e sorelle, di francescana memoria. Imparare a dare il nome di fratello e sorella a tutte le cose: è la compiutezza della mitezza, il carattere distintivo del vero discepolato del Signore.

E tutto si risolve nell’ultima richiesta: dammi, o Signore, lo spirito della carità, dell’amore. Tutto ha preparato l’avvento di questa carità, che nell’esperienza dell’alleanza di Dio con l’uomo si fa promotrice e testimone vivente di tale alleanza in fedeltà. E’ l’esatto contrario di quella pigrizia che, dimenticando la storia di alleanza di Dio con l’uomo, non si preoccupava minimamente di coltivarla e di viverla aprendo la porta ad ogni sorta di malattie dell’anima. Con l’amore si ritorna all’energia di un ‘corpo spirituale’ sano, integro, salvato, dove tutto porta alla realizzazione di quell’umanità che costituisce la nostra vocazione.

La preghiera non si conclude però qui. Aggiunge ancora: fa’ che io riconosca i miei peccati e non giudichi il mio fratello. Vedere i propri peccati e non accusare il fratello riassume la forza di una santa associazione: l’umiltà della carità. Quando domandiamo nel Padre nostro: ‘rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori’, qual è la prima cosa che domandiamo a Dio? Semplicemente la coscienza di essere peccatori. Non domandiamo la generosità di saper perdonare. Se ci sentiamo nel bisogno di essere perdonati, faremo esperienza di quanto grande è l’amore di Dio per l’uomo e se questa esperienza è autentica, non potremo che condividerla con tutti. Mi ha sempre colpito l’acuta riflessione di Massimo Confessore nel suo celebre commento al Padre nostro. Il Padre Nostro è una preghiera che  può essere letta dall’inizio alla fine e dalla fine all’inizio. Proprio rileggendo il Padre nostro con il risalire dal fondo al principio, Massimo Confessore ha questa intuizione geniale. Spiegando la richiesta “non ci indurre in tentazione” dà questa interpretazione: “La Scrittura rivela infatti con questo come chi non ha perfettamente perdonato a chi cade e non ha presentato a Dio un cuore privo di tristezza, reso splendente dalla luce della riconciliazione con il prossimo, non otterrà la grazia dei beni per cui ha pregato, e, per giusto giudizio, sarà consegnato alla tentazione e al Maligno. Imparerà così a purificarsi dalle colpe, eliminando le sue lagnanze contro gli altri… E’ detto infatti: Se voi non rimettete agli uomini i loro peccati, neppure il Padre vostro celeste li rimetterà a voi. Così non soltanto riceveremo il perdono delle colpe commesse, ma, oltre a ciò, vinceremo la legge del peccato, perché non sarà permesso che noi ne facciamo l’esperienza”[4]

Siamo indotti in tentazione, siamo provati dal male e al male fin tanto che non rimettiamo i debiti ai nostri debitori. L’espressione è molto forte. Ci dice che l’uomo, con un giusto giudizio di Dio, sarà messo in balia della tentazione e del maligno al solo scopo di imparare a purificarsi dalle sue colpe sopprimendo il suo atto di accusa agli altri. La cosa è profondamente vera. Se un uomo potesse ritirare fino in fondo il suo dito puntato,  ogni atto di accusa contro un altro uomo, non subirebbe alcuna tentazione al male. Non è poi così semplice crederci, ma la cosa resta pur tuttavia profondamente vera. Tutte le nostre esposizioni al male sono soltanto in funzione del fatto che noi impariamo a non accusare mai nessuno. Invece se guardassimo dentro il nostro cuore ci scopriremmo pieni di lamentele contro il prossimo, la vita, Dio e l’universo. Massimo Confessore ci dice che non subiremo tentazioni se noi avremo la capacità, da assimilare poco a poco, di non accusare nessuno perché il cuore sarà mite e umile come quello di Gesù, Lui che era abitato dallo Spirito Santo, e che poteva dire: “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero»” (Mt 11,28-30).

L’elogio dell’accoglienza: l’arte del servire per guarire le malattie dell’anima.

A questo punto posso allora intessere l’elogio dell’accoglienza come arte del servire.

Anzitutto, servire come solidarietà.

Quando Gesù chiede ai figli di Zebedeo: ‘potete bere il calice che io bevo?’ è come se chiedesse: potete stare solidali con il desiderio di Dio verso gli uomini e contemporaneamente stare solidali con l’umanità di modo che il Suo amore risplenda liberatore per voi stessi come per loro? Questa è la posta in gioco del servire.

E’ strano come noi immaginiamo l’amore e l’incontro con Dio;  ci attendiamo una ‘beatitudine’ in cui stare come rapiti. Invece, tutte le grandi realtà della vita comportano un aspetto angosciante, non nel senso di un’oppressione mortificante, ma nel senso di una partecipazione drammatica, di una solidarietà nel patimento di ingiustizie e sofferenze. Dio non vive un amore ‘beatificante’ nei nostri confronti, eppure è appassionato e totale nella sua benevolenza. E’ l’amore dell’angoscia santa di Gesù: “sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! C’è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto!(Lc 12,49). La missione alle genti della chiesa vive proprio degli echi di questo grido che attraversa il mondo e la storia. E’ la stessa tensione apostolica, identica alla tensione del desiderio di Dio, compiuto da Gesù e comunicato dallo Spirito Santo; è la stessa tensione dei cuori che, mentre sono condotti a Dio, sono guidati a diventare solidali con l’umanità finché il regno di Dio si compia, finalmente. La tensione di una gioia che non si dà pace finché tutto in noi e tutti, fino agli estremi confini della terra, vivano la stessa realtà. Non può esistere un amore che non solidarizzi con la sofferenza di chi subisce l’ingiustizia. Ma quale cuore non subisce ingiustizia o violenza? La via di Dio è proprio quella che allarga la capacità dei cuori di vivere questa solidarietà stabilmente, nel profondo, in modo che tutto ciò che di cattivo e di avverso ti sopraggiunge non ti sposti più, non ti vanifichi la ‘perfetta letizia’, segno di quella gloria di Dio che risplende al di sopra di tutto.

Servire come capacità di custodire la bellezza dei cuori.

E’ il ‘segreto del re’, che si fa noto in Gesù, avvertito confusamente ma potentemente anche dal cieco di Gerico, Bartimeo. Troppo a lungo ha dovuto soffrire, troppo a lungo ha dovuto aspettare, troppo a lungo aveva sperato per indugiare ancora: tutto scoppia, prorompe, perdendo ogni ritegno. E Gesù, che anche lui vive con impazienza ormai la dinamica di rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini da non vedere l’ora di arrivare a Gerusalemme, riconosce il suo desiderio, lo risana e lo rende suo compagno di viaggio, partecipe ‘vedente’ del suo segreto da parte di Dio. E’ l’esito della nostra preghiera: tornare ad avere il cuore che vede compiersi, svelarsi nella nostra vita il segreto di Dio, la sua offerta di comunione con noi.

Servire come occasione di liberare la dignità degli uomini.

La ‘gioia del regno’ è coinvolgente e radicale, arriva alle radici del cuore e ne alimenta la vita. Capace di far dire: l’afflizione del tuo cuore è affare tra te e Dio, mentre i tuoi fratelli hanno diritto alla tua gioia; non tenere i tuoi beni come costituissero la tua gioia, perché quando te li toccassero, sparirebbe la tua gioia; non rivendicare diritti perché quando non te li riconoscessero resteresti schiacciato. Perché noi ci lamentiamo tanto nella vita? La lamentela è il sintomo della precarietà della libertà conquistata, lo spazio di morte nel quale indugiamo, un impedire al nostro cuore di vivere nell’amore esattamente là dove si trova, né  più in qua né più in là, né più su né più giù!

Servire come vittoria sulle illusioni.

E’ strano: c’è una fatica che si assomma e che finisce per opprimere; c’è una fatica invece che moltiplica la gioia e la ‘leggerezza’ del procedere, che rinnova le energie e dà impulso di vita. E’ la fatica delle beatitudini, che mortificano le nostre illusioni ed i nostri sogni di esibizione, ma che rinnovano l’energia del cuore e moltiplicano la vita.

Servire come condivisione di speranza.

Se io veramente condivido e partecipo alla sofferenza dei cuori e gli altri possono davvero sentire che sono accolti ed amati,  avranno modo di vivere la loro vita in tutt’altra prospettiva, con tutt’altro vigore. L’essenziale è arrivare a vivere in modo che gli altri si sentano accolti ed amati, perché l’esito sarà che il mondo risulterà più vivibile, la presenza di Dio nel mondo sarà più visibile e la consolazione vicendevole più determinante per le sorti della nostra stessa vita.

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[1] Cfr. Basilio Petrà, L’ethos del futuro. Etica e vita spirituale di fronte alle sfide del terzo millennio, in Natalino Valentini, a cura. Una spiritualità per il tempo presente, Bologna 2003, EDB (quaderni di Camaldoli, 11), p. 114-132.

[2] Cfr. Ioanichie BALAN, Volti e parole dei padri del deserto romeno. Introduzione, traduzione e note a cura della comunità dei Fratelli contemplativi di Gesù, Comunità di Bose 1991, Qiqajon, p. 91.

[3] Si veda  ISACCO SIRO, Un’umile speranza. Antologia, a cura di Sabino Chialà, Comunità di Bose 1999, Qiqajon.

[4] Vedi Massimo Confessore, Sul Padre nostro, in  La Filocalia, vol. II, Torino 1983, Gribaudi, p.310-311.