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MILLENARIO DELL’ABBAZIA DI SAN NILO 1004-2004

“GROTTAFERRATA – PORTA D’ORIENTE”

 LE GIORNATE ROMENE A GROTTAFERRATA

24-27 SETTEMBRE 2003

Intervento di p. ELIA CITTERIO:

(Condac I)

Cine este Aceasta, ca zorile de albă şi curată?

E Împărăteasa rugăciunii, e rugăciunea întrupată.

….

Bucură-Te Mireasă urzitoare de nesfârşită rugăciune.

(Icos VII)

Prea-sfântă, prea-mărita, prea-frumoasă

Prea-filocalică Mireasă!

(Icos IX)

Bucură-Te încuviinţată cunoştinţă a sfinţeniei la amănunt

Bucură-Te sofianică ştiinţă a lucrării prin lăuntric cuvânt

Bucură-Te dumnezeiască îndulcire a Numelui ca mirul vărsat

Bucură-Te monahicească iscusire în cântecul de lacrămi udat

Questi stupendi versi si potrebbero tradurre:

Chi è Costei, come aurora limpida e pura?

E’ la Regina della preghiera, è la preghiera incarnata

Gioisci Sposa trama della preghiera senza fine

Santissima, gloriosissima, bellissima

Filocalicissima Sposa!

Gioisci condivisa conoscenza di santità totale

Gioisci sofianica scienza dell’agire tramite verbo interiore

Gioisci divina dolcezza del Nome come profumo versato

Gioisci monastica arte del canto bagnato di lacrime…

 

Sono versi tratti dall’inno del Roveto ardente, un canto alla Vergine come iniziatrice e modello della preghiera del cuore[1], la garanzia più solida per una tradizione, come l’esicasmo, che ha modellato intimamente la spiritualità e la visione teologica della Chiesa romena. Con l’omaggio ad un uomo di cultura e ad un monaco, autore di quell’inno acatisto, Sandu Tudor[2], che ha fatto della preghiera del cuore l’itinerario paradigmatico della vita ed ha colto la ricchezza di una tradizione che, pur sempre viva, scorre spesso sotterranea, non visibile, non documentabile, entro subito nel vivo del mio intervento. La scelta del secolo XVIII, come appare nel titolo della mia relazione, non è casuale. Si situa in effetti in quel secolo il movimento di rinnovamento che ha segnato l’ortodossia in generale nel suo trapasso dal medioevo ai tempi moderni e che ha visto la Romania al centro di quel prodigioso movimento.

  1. Tre segni per un’immagine di riferimento:
  2. a) il Roveto ardente.

Rifarmi a Sandu Tudor e al cenacolo del Roveto ardente del monastero Antim, a Bucarest, tra gli anni ’40 e 50 del secolo scorso, ha il sapore di un’immagine di riferimento per delineare i contorni del contributo romeno alla spiritualità esicasta, prima ancora che al rinnovamento dell’ortodossia in generale. In effetti il movimento del Roveto ardente, insieme alla recentissima pubblicazione di quella che è invalso chiamare ‘Filocalia de la Prodomul’ e, cosa curiosa, la nuova accezione del termine russo ‘starec’ che ha finito per indicare il ‘padre spirituale’ senza più riferimento al compito del governo di un monastero come in precedenza, sono tutti elementi di un’immagine che hanno a che fare con il sec. XVIII e con l’ambiente romeno.

A Bucarest, dopo anni di incontri e conferenze tra un gruppo di intellettuali, laici ed ecclesiastici, interessati ed entusiasmati dalla riscoperta della tradizione ortodossa ed in particolare della tradizione esicasta, nei primi anni ’40 si costituisce una Associazione assolutamente originale, Il Roveto Ardente (Rugul Aprins)[3], per iniziativa di Sandu Tudor (Alexandru Teodorescu), poeta e saggista, segnato da un viaggio all’Athos nel 1929, monaco poi nel 1944 al monastero Antim con il nome di Agaton, arrestato e condannato ai lavori forzati nel lager sul Canale Danubio-Mar Nero nel 1948-49, monaco del grande abito con il nome di Daniil nel 1952 a Sihăstria e poi a Rărău, nel nord della Moldavia, quindi imprigionato come del resto tutti gli altri nel 1958 e morto nella terribile prigione di Aiud verso il 1961.  Gli incontri avvengono tra il monastero Antim e quello di Cernica, nei dintorni di Bucarest. L’elenco dei partecipanti è assai significativo per l’ambiente romeno di quell’ epoca. Accanto a letterati come Sandu Tudor, al poeta Vasile Voiculescu, al prosatore Ion Marin Sadoveanu, al filosofo Mircea Vulcănescu, al critico letterario Tudor Vianu, al bizantinista Alexandru Elian, al musicista Paul Constantinescu che ha musicato la formula della preghiera di Gesù, si trovavano molti scienziati, matematici e fisici importanti come Alexandru Mironescu, Dan Barbilian (anche importante poeta con lo pseudonimo Ion Barbu), Octav Onicescu, Mihai Neculce, medici come I. Plăcinţeanu, Valentin Poenaru, il filosofo logico Anton Dumitriu, l’architetto Constantin Joja, i generali Gheorghe Stratilescu, Gheorghe Iorgulescu, Constantin Manolache. Numerosi anche gli studenti di allora: André Scrima[4], Roman Braga[5], Felix Dubneac, Nicolae Bordaşiu, Nicolae Nicolau, etc. Tra i monaci che frequentano il gruppo, il più importante è p. Sofian Boghiu che secondo p. Scrima è stato il confessore di Antim, ma vi era anche p. Petroniu Tănase, il futuro igumeno del monastero Prodromu del Monte Athos e p. Arsenie Papacioc, oggi uno degli ultimi grandi padri spirituali del paese. Senza farvi parte hanno frequentato il gruppo anche lo scrittore Valeriu Anania, oggi vescovo Bartolomeo di Cluj, e specialmente il teologo p. Dumitru Stăniloae. La sua edizione della Filocalia apparsa in quel tempo (i primi 4 volumi sono stati pubblicati a Sibiu tra il  1946 ed il 1948) è stata accolta con grande entusiasmo, come un evento provvidenziale, dai membri del gruppo, sebbene questi avevano già avuto tra le mani le antiche traduzioni romene dei testi filocalici che si trovavano nelle biblioteche dei monasteri e soprattutto all’Accademia romena. Di grande importanza per gli intellettuali di Bucarest è risultato il trasferimento di p. Dumitru Stǎniloae da Sibiu a Bucarest dove presenta un corso di mistica ortodossa all’Università, (pubblicato poi nel terzo volume della Teologia Morale Ortodossa nel 1981). Sebbene p. Stăniloae non appartenesse al movimento del “Roveto Ardente” e lo frequentasse raramente, il gruppo ha approfittato pienamente della sua produzione editoriale. I partecipanti si riunivano all’inizio ogni domenica, dopo la liturgia, poi più tardi, la sera, dopo il vespro, per ascoltare delle conferenze e discutere sui temi di spiritualità, tutti connessi col grande tema della divinizzazione dell’uomo tramite la preghiera ininterrotta del Nome di Gesù.  La conferenza che ha dato avvio alle riunioni del gruppo è stata presentata da Sandu Tudor stesso e aveva come titolo “Il viaggio verso il luogo del cuore”.

L’avvenimento, percepito come una rivelazione, in quegli anni, è la comparsa di p. Ioan Kulygin[6], rifugiato da Valaam, monaco di Optina Pustyn, vero centro spirituale per la Russia del sec. XIX, erede e animatore del movimento a cui Paisij Veličkovskij aveva dato l’avvio proprio in Romania nel sec. XVIII. Dopo la chiusura del monastero e varie peripezie, era entrato al servizio del metropolita di Rostov che con l’esercito romeno si stava ritirando davanti all’avanzata dell’armata rossa. Trova rifugio a Cernica nel 1943 fino al gennaio del 1947 quando di nuovo sarà consegnato ai sovietici e di lui si perdono le tracce. Nella sua valigia porta numerosi testi della tradizione russa, che presto verranno tradotti in romeno da p. Gheorghe Roşca, rifugiato di Bessarabia che conosceva perfettamente il russo e diffusi in un samizdat ante litteram. Ricordo in particolare la famosa antologia Che cos’è la preghiera di Gesù secondo la tradizione della chiesa ortodossa, edita a Serdobol nel 1938 a cura del monastero di Valaam. Con la venuta di questo ‘starec’, tutto il gruppo ha avvertito di potersi ricollegare ad una tradizione vivente, ad una vera ‘paternità spirituale’. Quando, con il 1948, il regime comunista scioglieva ogni associazione che non dipendesse direttamente da esso, anche Il Roveto Ardente fu sciolto e le riunioni si tennero con un numero più stretto di persone, ad Antim o in case private fino ad arrivare al 1958, l’anno del processo e delle condanne al carcere duro per quasi tutti i componenti del gruppo. Il dramma del Roveto ardente diventava il dramma dell’intero paese: volendo stroncare ogni forma di opposizione al comunismo, si voleva ‘sradicare’ ogni tentativo di opposizione spirituale sia laica che ecclesiale. Ma la linfa che aveva nutrito ed entusiasmato quel gruppo continuerà a scorrere sotterranea e ad alimentare figure come quelle di p. Paisie Olaru e p. Cleopa Ilie di Sihăstria, recentemente scomparsi, veri testimoni della tradizione esicasta romena.

 

  1. b) la Filocalia de la Prodromul.

Già prima dell’edizione greca della Filocalia (Venezia 1782) e dell’edizione slavonica di Paisij (Dobrotoljubie, Mosca 1793), i romeni potevano disporre di una Filocalia romena[7] detta ‘Filocalia de la Dragomirna’ fin dal 1769 (ms. rom. 2597 della B.A.R.), redatta dal noto copista Rafail di Dragomirna, dove nel 1763 si era installata la comunità paisiana proveniente dall’Athos,  comprendente diversi autori della stessa Filocalia greca più le Introduzioni di Basilio di Poiana Mărului a Gregorio Sinaita e a Filoteo Sinaita  nonché l’opera di Nil Sorskij (1433-1508). Dopo la pubblicazione dell’edizione greca a Venezia nel 1782, si era anche cercato di predisporre un’edizione romena ricalcata su quella greca. Ne fa fede il ms. 1455 B.A.R., volume di 1004 pagine, costituito a Neamţ all’inizio del 1800, comprendente i primi 18 autori della Filocalia greca più le aggiunte di tutta l’opera di Marco Asceta e il Discorso ascetico di Massimo Confessore. Ma anche i restanti testi della Filocalia greca in versione romena erano stati predisposti, sebbene il lavoro non sia confluito in un progetto editoriale conveniente. Così in romeno, fino all’edizione di p. Stăniloae, non esisteva una versione integrale della Filocalia, pur essendo i traduttori romeni i primi a produrre in una lingua moderna parlata gli antichi testi patristici filocalici. L’edizione della ‘Filocalia de la Prodromul’[8] (New York-Bucarest 2001, ed. Universalia) vuole riportare in onore il lavoro di quei traduttori e copisti romeni che traducevano e ricopiavano i testi filocalici[9]. Quando p. Dumitru Stăniloae compone il primo volume della sua ‘Filocalia’, egli aveva avuto proprio tra le mani una copia dattiloscritta di questa ‘Filocalia de la Prodromul’, che era stata inviata dai monaci romeni athoniti al vescovo Gherasim Safirin (1850-1922), allora ritirato a Frăsinei e che erroneamente riteneva essere l’autore di quella traduzione. L’edizione testimonia gli orientamenti dei monaci romeni che, insieme alla tradizione greca, si volgono anche alla tradizione slava: sono inclusi i testi di Nil Sorskij, estratti di Dimitri di Rostov, le Introduzioni di Basilio di Poiana Mărului, autore ricopiatissimo in ambiente romeno, il testo sulla preghiera di Gesù di Paisij Veličkovskij, e alcuni pensieri di Giovanni di Kronštad.

  1. c) la nuova accezione del termine ‘starec’

Il lettore dei Fratelli Karamazov ricorda, in uno dei primi capitoli del romanzo[10], la digressione sugli starcy: lo scrittore riconduce la rifioritura dell’antichissima tradizione della paternità spirituale all’opera di “uno dei più grandi asceti (come lo chiamano), Paisij Veličkovskij”. Il termine starec designa il padre spirituale, al quale il discepolo si affida completamente, per essere guidato nella vita interiore. Questa accezione della parola russa, tuttavia, non risale oltre gli inizi dell’Ottocento. Il senso tecnico del termine starec come “padre spirituale” nasce proprio tra i discepoli russi di Paisij, e si afferma nel corso dell’Ottocento, soprattutto con la fioritura dell’eremo di Optina. Come si forma la nuova accezione? In romeno stareţ indica il superiore di una comunità, non necessariamente il suo padre spirituale. Ma Paisij interpretava il ruolo di superiore essenzialmente come quello di un padre spirituale per i suoi monaci: molto naturalmente, dunque, il termine slavo starec, che secondo l’uso romeno egli impiegava per indicare la propria qualità di responsabile della comunità[11], agli orecchi dei monaci russi ha finito per assumere l’altro significato, di “padre spirituale”. L’accezione tradizionale di “starec/monaco anziano” non poteva infatti sovrapporsi a quella di “nastojatel’/superiore”. I discepoli russi di Paisij, rimpatriati all’inizio dell’Ottocento, hanno continuato ad usare il termine, applicandolo ormai al rapporto che lega un anziano al discepolo, il “padre spirituale” ai suoi “figli spirituali”, secondo l’antica prassi dei padri del deserto, rinnovata da Paisij. I titoli redazionali dell’edizione di Optina (1847) delle opere dello starec Paisij utilizzano starec nel senso tecnico di “padre spirituale”. Leonid Kavelin, nel suo libro su Optina[12] (1861), sente il bisogno di inserire un capitolo per spiegare ai suoi lettori che cos’è lo ‘starčestvo’. Si tratta di una spiegazione al contempo lessicale (starec, nell’accezione di “padre spirituale”, è avvertito evidentemente come un neologismo) e teologico-spirituale,  per dimostrare che la paternità spirituale praticata a Optina dai discepoli dei discepoli di Paisij affonda le sue radici nella tradizione patristica . Il rinnovamento della tradizione implica uno spostamento semantico e un arricchimento del lessico tradizionale, che avviene curiosamente transitando temporaneamente per il romeno ‘stareţul’. “Paisij, l’anziano”, ovvero “la guida della comunità”, come egli stesso si firmava, è ormai diventato per tutti “lo starec Paisij”.

 

  1. La tradizione esicasta romena.

Come si concretizza, a livello della tensione spirituale, l’esicasmo romeno sia nella sua dimensione religiosa che culturale? Dove è ravvisabile? Davanti alla storia dell’evoluzione del cristianesimo nelle regioni romene, si ha 1’impressione che, se 1’elemento portante di quel­la evoluzione, come del resto in genere nell’oriente cristiano, è dato dal monachesimo, non si tratta però di un monachesimo come parte a sé stante, separato dal resto del mondo e della chiesa. Si tratta di un monachesimo come fermento, in vera osmosi con un popolo e capace di ispirare tutta una cultura. Di questo mo­nachesimo, poi, il carattere più specifico che emerge è la sua ispi­razione esicasta. La fortuna che conobbe in Romania il termine esicasta, in romeno sihastru, è unica in tutta 1’ortodossia. Ne fanno testimonianza le innumerevoli denominazioni di montagne, col­line, fiumi e località con termini di origine monastica, che ri­cordano per lo più il nome di tale o tal altro monaco esicasta vissuto in quei paraggi.

L’appellativo esicasta deriva dal greco hesychía, termine che designa uno stato di calma, pace, solitudine, silenzio, assenza di ogni forma di agitazione tanto esteriore che interiore. Nel­l’ambito della spiritualità cristiana con la parola esicasmo ci si riferisce oggi ad almeno due fenomeni distinti. Il primo concer­ne quel particolare orientamento spirituale che coincide con le origini stesse del monachesimo orientale e che può essere defi­nito come un orientamento essenzialmente contemplativo che pone la perfezione dell’uomo nell’unione con Dio tramite la pre­ghiera continua. Definisce cioè lo stile di vita dei padri del deserto egiziano (“L’opera dell’hesychia è restare seduti nella propria cella con timore e conoscenza di Dio”[13] ), e trova la sua espressione teorica in diversi “filoni” della spiritualità antica, specie nella scuola sinaitica (Giovanni Climaco, Esichio di Batos, Filoteo Sinaita). A Giovanni Climaco risale il detto sempre citato: “L’esichia è la perpetua adorazione in presenza di Dio: che il ricordo di Gesù si unisca al tuo respiro, e allora tu conoscerai l’utilità dell’esichia[14] . Il secondo riguarda quel particolare metodo di preghiera, basato sull’invocazione incessante del nome di Ge­sù, la cui forma venne codificata negli ambienti monastici del Monte Athos nei secoli XIII e XIV. In tale contesto il termine esicasmo si estende fino a comprendere sia il movimento di rin­novamento spirituale in seno al quale quel metodo di preghiera si sviluppò e si precisò grazie soprattutto alla figura di Gregorio il Sinaita, sia la sintesi filosofico-teologica elaborata da Grego­rio Palamas per difendere e sostenere quanti si servivano pro­prio di quel metodo. Tutti e due i fenomeni legati al termine esicasmo hanno avuto grande influenza sulla spiritualità della chiesa romena. Essi però sono stati assunti e fusi in modo vivo e originale, tanto che si parla a buon diritto della “tradizione esicasta romena” come di un fenomeno tipico, sviluppatosi fin dalle origini stesse del cristianesimo nelle terre romene e perdu­rante fino ai nostri giorni[15]. Il sorgere e lo svilupparsi di un numero così impressionante di esicasteri, fenomeno pressoché unico nel mondo cristiano, tro­va anzitutto la sua giustificazione in una particolare sensibilità dell’animo romeno, che sente profondamente connaturale 1’ideale di hesychía ricercata in seno alla natura. Ciò ha permesso al popolo romeno di vivere nei Carpazi, vera colonna vertebrale della loro stessa esistenza lun­go i secoli, “come in una grandiosa cattedrale, come in un mera­viglioso ‘esicastero’ naturale”[16]. Ed è per questo che ai piedi del­le montagne, da Tismana fino al nord della Moldavia, sorge il maggior numero dei monasteri.

Le comunità esicaste rappresentano degli importanti punti di riferimento non solo in relazione alla diffusione e allo sviluppo del monachesimo, ma anche per la popolazione cristiana nel suo insieme. Si calcola che almeno trecento esicasteri abbiano dato origine ad altrettanti in­sediamenti di villaggi e siano così scomparsi senza lasciare traccia[17]. D’altra parte, sul luogo di esicasteri precedenti sorse la maggioranza dei monasteri romeni. Per farsene un’idea, basti pensare che di almeno ottocento monasteri, lungo la storia, si è potuta stabilire un’origine siffatta. Il fenomeno di trasforma­zione degli esicasteri in monasteri assume notevoli proporzioni soprattutto a partire dal secolo XIV con 1’opera di san Nicode­mo di Tismana[18]. Il rinnovamento portato da Nicodemo di Tismana coincide­va con 1’azione di profondi fermenti spirituali già ormai diffusi dal movimento esicasta che aveva avuto in Gregorio il Sinaita (1255-1346) e Gregorio Palamas (1296-1359) i suoi insigni mae­stri. La presenza di monaci romeni alla Paroria, nel regno bul­garo, nell’insediamento esicasta fondato da Gregorio il Sinaita e sull’Athos, specie a Kutlumus, ricostruito grazie agli aiuti del principe Vladislav I Voda, rendono naturale il travaso nei terri­tori romeni di quei fermenti così caratteristici di quell’epoca. I metropoliti e i principi romeni non si impegnarono soltanto nella costruzione di nuovi monasteri, ma cercarono anche di “or­ganizzare” la folta schiera dei sihastri, raggruppandoli e impo­nendo loro una vita comunitaria secondo la tradizione dei mo­nasteri athoniti, promuovendo il passaggio dalla vita idioritmi­ca in minuscole comunità alla vita cenobitica in grandi monasteri. Insieme a tale tendenza, che conoscerà sviluppi prosperi, anche se a fasi alterne, persisterà sempre viva, pur subendo profonde modificazioni, quella “tradizione esicasta” che costituisce come l’humus più genuino della sensibilità monastica romena. Senza ripercorrerne le linee di evoluzione, si può notare come, pur proseguendo nella tendenza di trasfor­mare gli esicasteri in monasteri., si assista tuttavia all’aumento del numero totale di nuovi insediamenti esicasti. Ciò si spiega con il fatto che ogni monastero tende a costruire uno, due o più esicasteri per i propri monaci. Allo scopo di trovare un ritmo di vita più tranquillo che i grandi monasteri non potevano offri­re, i monaci si addentravano di tanto in tanto nelle vicine fore­ste. Si costruivano delle celle e ben presto attorno a queste pren­deva inizio 1’esicastero. La zona che conosce il più alto numero di nuove fondazioni è quella di Buzău. Con i suoi cin­quanta insediamenti esicasti, nel sec. XVII, la regione sub-carpatica di Buzău-­Vrancea costituiva uno dei più fiorenti centri di vita esicasta che permetterà la nascita e lo sviluppo del movimento di rinnova­mento spirituale del secolo successivo avviato a Poiana Mărului dallo stareţ Basilio[19]. Il sorprendente moltiplicarsi di tanti esicasteri segnalava tut­tavia un’incipiente crisi nella vita comunitaria dei grandi mona­steri. I monaci si allontanavano dalle loro comunità per fuggire le preoccupazioni materiali ed economiche che inevitabilmente procuravano le grandi proprietà fondiarie che si venivano a co­stituire attorno ai monasteri. La crisi si fa sentire più pesantemente nel secolo XVIII. Sem­pre indicativo 1’alto numero di nuovi esicasteri fondati: in Mol­davia, ad esempio, sono ottantatré contro solo quattro mona­steri; in Valacchia, novantatré contro quattordici monasteri. I grandi monasteri incontravano sempre maggiore difficoltà nel­1’amministrazione dei terreni e delle dipendenze e nel contem­po si trovavano aggravati dalla politica del nuovo regime fana­riota che perseguiva il disegno di “inchinare” i monasteri all’e­stero. Se pensiamo poi alle numerose guerre e devastazioni che in quello stesso periodo la terra romena dovette subire, possia­mo immaginare come si andasse verso un esaurimento morale e materiale. La Provvidenza aveva disposto però le cose diversamente suscitando un insperato quanto prodigioso rinnovamento.

Ma prima di delineare i contorni di quel rinnovamento, vorrei sottolineare subito una impressione generale. Quando io penso all’esicasmo romeno, penso soprattutto ad un atteggiamento dell’anima che lo contraddistingue. Un aneddoto mi sembra particolarmente espressivo. E’ riportato dal fratello di p. Galaction, il famoso stareţ di Sihăstria, p. Cleopa, recentemente scomparso: “Un giorno padre Galaction pose questa domanda a un eremi­ta che aveva incontrato per caso nella foresta: “Ditemi, pa­dre: quando verrà la fine del mondo?” E quel sant’uomo, so­spirando, rispose: “Lo vuoi sapere, padre Galaction? Quan­do non ci sarà più sentiero tra 1’uomo e il suo vicino!” [20]. Quando gli uomi­ni pretenderanno di vivere dietro steccati egoistici, chiuderan­no i cuori 1’uno nei confronti dell’altro, si scorderanno l’amore, il servizio reciproco, in una parola la “comunione”, la vita si svuo­terà di senso, il mondo sarà giunto alla sua fine. La mirabile espressione dell’anonimo sihastru interpreta a fondo il tratto forse più saliente di un modo di intendere la vita, 1’im­pegno religioso, la cultura, che da sempre ha caratterizzato la spiritualità del popolo romeno lungo la sua storia. Un rapporto molto stretto e naturale lega fra loro monaci e fedeli, tutti respirano lo stesso clima spirituale. La Moldavia, dove si conserva ancora intatta la struttura tradizionale del villaggio di cui il monastero rappresenta come l’appendice naturale e nello stesso tempo il centro vitale unificante, tale simbiosi ha sempre prodotto notevoli frutti culturali e spirituali. Ancora oggi questo fatto costituisce una delle caratteristiche più vistose ed originali della società romena, distinguendosi da questo punto di vista anche dagli altri paesi ortodossi.

Ho pensato di ravvisare la fonte di queste due caratteristiche che si richiamano a vicenda, una di tipo più interiore (la vita come comunione), l’altra di tipo più socio-religioso (la stretta osmosi tra fedeli e monachesimo), in ciò che il famoso Libro di insegnamento del principe romeno Neagoe Basarab per suo figlio Teodosio, ha chiamato ‘dulceaţa lui Dumnezeu’: «rădăcina bunătăţilor iasti dulceaţa lui Dumnezeu»[21] . Il passo completo suona: “Chi si farà compagno delle virtù divine, questi avrà vita ed esistenza imperitura, poiché la radice della bontà è la dolce intimità con Dio”. ‘Dulceaţa dumnezeiasca’ comporta una dimensione, un timbro, che tocca la natura stessa delle terre romene, la spiritualità , la stessa celebrazione liturgica ed il canto, gli uomini. Denota una visione, rivela un’esperienza interiore specifica, quella che è maturata nel clima della tradizione esicasta che ha permeato profondamente lo spazio spirituale dell’oriente, in particolare romeno. Un uomo spirituale riuscito, oserei dire, nella tradizione romena diventa ‘blînd’ (mite, mansueto, dolce), si riveste di ‘blîndeţe’, culmine dell’ascesi e segno di un cuore puro e pieno di amore. Questo tratto è sopravvissuto a tutte le ferite della storia, forse proprio in ragione di una risposta, a livello spirituale, a tali ferite, ieri come oggi.

  1. Il secolo XVIII.

L’inizio dell’azione di rinnovamento prende le mosse con lo stareţ Basilio di Poiana Mărului (1692-1767) e continua, su scala allargata, con il suo discepolo e amico Paisij Veličkovskij[22] (1722-1794). Il 1700 è l’epoca dell’illuminismo e della rivoluzione francese nell’Europa occidentale, il secolo delle riforme di Pietro il Grande in Russia, con i Balcani sotto il giogo dei Turchi, nel continuo scontro tra le potenze che si contendono la supremazia nell’Europa orientale: l’impero ottomano, l’Austria e la Russia. Nella prima metà del sec. XVIII, nelle regioni della Podolia e della Volinia, prende avvio il movimento chassidico[23]. Dal punto di vista del clima tra le varie Chiese, nel 1700, a differenza del 1600, si assiste ad un accentuato ripiegamento confessionale dominato dalla corrente apologetica e polemica diretta soprattutto contro la cattolicità latina. Basti pensare all’enciclica del 1755 del patriarca Cirillo V di Costantinopoli nella quale si dichiara la nullità dei sacramenti amministrati dalla Chiesa di Roma.

Ora, proprio con il XVIII secolo i territori dei principati ro­meni diventano il centro dell’ortodossia dove viva permane la tradizione patristica orientale, a differenza degli altri paesi nei quali la cultura della fede ortodossa ha le ali tarpate per la poli­tica antiecclesiastica degli zar o per la dominazione turca[24]. Il fe­nomeno di osmosi tra i territori romeni e le terre russe, ucraine in particolare, assume proporzioni considerevoli. In effetti, sul finire del sec. XVII, con il molti­plicarsi in Russia delle misure restrittive nei confronti del mo­nachesimo nella linea di una politica di controllo dei beni eccle­siastici e a causa di una politica di uniatismo perseguita dai po­lacchi in Ucraina, si determinò un flusso di emigrazione monastica russo-ucraina verso i territori romeni, dove i principi si distin­guevano nello zelo per il sostegno alla chiesa e al monachesimo. Quando il giovane Paisij, alla ricerca della tradizione viva dei padri, emigra dall’Ucraina, sua terra natale e arriva nei paesi romeni nel 1743, è già stato preceduto da tutta una generazione di suoi compa­trioti, i quali, nel clima di elevata cultura ortodossa dell’ambiente romeno, hanno potuto portare a maturazione i germi di geniali­tà e spiritualità loro propri[25]. Le skiti visitate da Paisij, vale a di­re Dălhăuţi, Traişteni e Cîrnul, sono tutte sotto 1’influenza del­lo stareţ Basilio di Poiana Mărului, anch’egli emigrato dall’U­craina e diventato ormai un punto di riferimento per tutti. Nelle comunità che a lui si richiamavano, alla pratica esicasta era uni­to lo studio dei padri, i cui testi lo scriptorium di Poiana Măru­lui, la skite fondata da Basilio nel 1733, si incaricava di ricopia­re e di diffondere tanto in lingua slavonica che romena. Fatto unico nella storia dell’esicasmo romeno, Basilio aveva fondato una sorta di confederazione di oltre dieci esicasteri legati a Poiana Mărului. Non è all’Athos, dove pure risiede per diciassette an­ni, dal 1746 al 1763, che Paisij Veličkovskij respira la tradizio­ne esicasta. L’Athos costituisce solo il riferimento ideale e il “de­posito” degli scritti patristici che si premurerà di scandagliare con zelo infaticabile. Il modello di vita, 1’esempio vivente della tradizione esicasta, Paisij lo scopre e lo farà rifiorire su larga scala nei principati romeni nei suoi monasteri di Dragomirna, Secu e Neamţ, in Moldavia, dando vita a tutto quel poderoso movi­mento spirituale che gli storici denomineranno “paisianesimo”. Un suo biografo riassume così l’esperienza dei tre anni passati nelle skiti della Muntenia: «Da quei padri ha compreso cos’è la vera obbedienza, da cui nasce la vera umiltà, nella quale si arriva a far morire la propria volontà e la propria opinione personale, anche nei confronti di tutte le cose di questo mondo, fatto che costituisce l’inizio e la fine interminabile della vera opera monastica; che cos’è l’attenzione e la vera pace della mente, la preghiera attenta compiuta soprattutto nel cuore»[26].

Nell’introdurre la biografia del beato stareţ Paisij Veličkovskij, Grigorie Dascălul[27] traccia una panoramica storica dello sviluppo del monachesimo partendo dai Padri dei deserti egiziani Antonio, Macario, Pacomio, proseguendo con i Padri dei deserti di Palestina Eutimio, Saba e Teodosio, con lo sviluppo in Tracia e Macedonia come anche a Costantinopoli e dintorni per arrivare all’Athos. Di qui il monachesimo si irradia in Russia con Antonio e Teodosio delle Grotte, arriva poi in Valacchia e in Moldavia, ‘regioni ortodosse tranquille, allorché principi ferventi hanno fatto erigere i santi monasteri che adornano questi luoghi come le stelle il cielo’ per giungere all’evento di oggi, alla venuta di questo beato stareţ Paisij. Ecco le parole precise di Grigorie: “Mostrerò invece come e quando, con la venuta di questo beato stareţ e il costituirsi di questa grande comunità, si sia dato avvio, secondo la benevola provvidenza dell’Altissimo, ad un’opera che ora non ha riscontro in tutta l’Ortodossia, perché resti nota anche ai posteri un’opera divina come questa, a gloria di Dio e per loro utilità[28].

Quando il principe Costantino Moruzi, d’accordo con il metropolita Gabriele, ordina a Paisij di trasferirsi a Neamţ, dà la seguente motivazione: “Questo monastero è stato concesso alla vostra comunità non soltanto per la vostra fondazione, ma anche perché diventi il modello per gli altri monasteri, secondo il vostro ordinamento di vita[29]. La decisione del principe era stata sollecitata involontariamente da Paisij stesso perché dal monastero di Secu gli si era rivolto per avere sovvenzioni al fine di costruire altri quattro grossi edifici per i bisogni della comunità che si stava ingrossando. Aveva bisogno di una sartoria, di una calzoleria, di una tessitoria e di un ambiente per l’insegnamento ai giovani monaci della lingua greca per renderli capaci di tradurre libri utili all’anima. Il particolare interessante, che desumiamo da una lettera[30] dello stesso Paisij, è dato dal fatto che l’ambiente per l’insegnamento della lingua greca era riservato a p. Ilarion, romeno, con studi all’Accademia s. Saba di Bucarest, entrato nella comunità paisiana a Dragomirna e diventato, insieme al più anziano Macarie, anche lui romeno, il ‘grecista’ della comunità, l’uomo di fiducia di Paisij nel lavoro di traduzione dei testi patristici. I primi discepoli di Paisij all’Athos sono tutti romeni, i suoi primi ‘maestri’ in fatto di traduzioni dal greco sono romeni (Macarie e Ilarion). Va ascritto indubbiamente alle autorità ecclesiastiche e civili romene l’accortezza di avergli offerto le strutture più adatte al fine di sfruttare al meglio la carica spirituale e culturale di cui era portatrice la sua opera e che aveva trovato, in territorio romeno e nella tradizione romena, l’humus ideale per il suo sviluppo.

Con Paisij –  e questa è una vera rivoluzione! – la ‘vita comune’, scuola impareggiabile della vera obbedienza, dalla quale fiorisce l’umiltà, giunge ad essere il vero luogo della pratica esicasta, senza cui si finirebbe per fraintenderla[31]. Ora, la vera forza di Paisij sta nel mettere in mano ai suoi discepoli la chiave per comprendere dall’interno ciò che li esorta a praticare. In questo contesto riceve tutto il suo significato la lettura assidua ed amorosa delle Scritture e dei Padri insieme alle pratiche della confessione quotidiana dei pensieri e la preghiera di Gesù. Lo scrutare, giorno e notte, le Scritture e gli scritti patristici, è la risposta di Paisij alla mancanza di guide sperimentate. Risposta così seria e impegnativa che lo studio dei testi patristici, unito allo sforzo di tradurli in slavo ecclesiastico e in romeno, è diventato poco a poco l’attività principale del nostro stareţ, il fondamento, il punto di forza della sua opera, attività che trovava in ambiente romeno il suo supporto più efficace. Quello che però resta come grandioso nella coscienza dei suoi discepoli non sarà il risultato di questo immenso lavoro di correzione e traduzione dei testi patristici, bensì lo scopo e la vitalità spirituale con cui era vissuto tale compito. E’ risaputa la grande importanza e la diffusione che ha goduto nel mondo slavo il Dobrotoljubie, la versione slavonica della Filocalia edita a Mosca nel 1793, undici anni dopo l’edizione greca di Venezia. Nessuna delle cinque biografie conosciute di Paisij, composte dai suoi discepoli circa una ventina d’anni dopo la sua morte, ne fa menzione. Eppure tutti unanimemente sottolineano la straordinaria fecondità del lavoro di correzione e traduzione dei testi patristici ad opera del nostro starets, lavoro che costituisce il contesto più diretto di quel rinnovamento monastico che ha così colpito i contemporanei.

Con Paisij, uomo di profonda esperienza spirituale e guida carismatica, la vita monastica torna ad essere vissuta come un ideale appassionante capace di forgiare uomini e comunità fino a plasmare l’intera vita ecclesiale. Paisij immette nella vita del cenobio la linfa della spiritualità esicasta. La riscoperta della Scrittura e dei Padri va di pari passo con la riscoperta della preghiera di Gesù. Averle poste a fondamento della vita cenobitica, con tutte le conseguenze che comportavano nell’organizzazione della vita comunitaria e dell’ascesi personale, è l’essenza del grande rinnovamento portato da Paisij. A Dragomirna la sua occupazione principale consisteva proprio nel “servizio della parola” – espressione che usano i suoi discepoli! – , nel preparare cioè i capitoli serali per la comunità dove leggeva e spiegava i testi che andava traducendo insieme ai suoi più stretti collaboratori, tutti romeni. L’introduzione di quei capitoli serali, in cui si affrontavano i temi della battaglia interiore sulla base dell’esegesi delle Scritture e dell’insegnamento dei Padri, che sono valsi a Paisij il titolo di ‘bocca d’oro’ della Moldavia, il giovane Paisij li aveva visti praticare nelle skiti della Valacchia già negli anni 1743-46. Li riprende, li regola e li anima sulla base di tutto quel lavoro di traduzione e correzione di testi patristici, soprattutto ‘filocalici’, che andava organizzando. Come già ricordato, fin dal 1769, a Dragomirna, il monaco Rafail poteva raccogliere in una voluminosa antologia di 626 pagine una serie di testi sulla preghiera di Gesù, frutto di traduzioni romene antiche e nuove, comprendente gli autori della famosa ‘Filocalia’, più due autori moderni, vale a dire l’opera di Nil Sorskij e dello stareţ Basilio di Poiana Mărului.

Proprio nell’impresa a cui si era accinto Paisij, che si presentava irta di difficoltà, risulta assai significativo l’apporto dell’ambiente romeno. Riscontrando numerosi errori nei testi slavonici di cui disponeva, aveva pensato di correggerli confrontando tra loro i vari manoscritti. Comprese presto che sarebbe stato necessario risalire all’originale greco, ma lui non conosceva bene il greco. Si affida allora a Macario, suo discepolo, di nazionalità romena, che aveva studiato all’Accademia san Saba di Bucarest con il professore greco Alessandro Turnavitis. Inizia così a lavorare a traduzioni in slavonico sul modello delle versioni romene preparate da Macario e dall’altro grecista di Dragomirna, il monaco Ilarion. Più tardi, a Neamţ, arriva a costituire una vera e propria scuola di traduttori, con la preoccupazione di preparare le nuove leve. Invia infatti all’Accademia di Bucarest i monaci Gherontie, romeno e Doroteo, russo. Paisij lavorava quasi esclusivamente alle traduzioni in slavonico, mentre lasciava al nutrito gruppetto di grecisti romeni il compito delle traduzioni in romeno. Con gli anni il metodo di lavoro si era perfezionato in norme rigorose. Si doveva prima stabilire il testo originale autentico valutando le diverse recensioni manoscritte, quindi si procedeva ad una traduzione piuttosto letterale per evitare la soggettività del traduttore, per arrivare poi ad una revisione finale. Anche gli strumenti di lavoro si erano notevolmente perfezionati: disponeva di dizionari, grammatiche, di manuali di paleografia, con regole fisse per la trascrizione e la traslitterazione da una lingua all’altra.

La parte più cospicua nel lavoro di traduzione dei testi patristici era sostenuta dai traduttori romeni. Scriveva Paisij in una sua lettera: “Iniziai il mio lavoro nel modo seguente: posi a mia guida e istruzione la traduzione dei testi patristici che i nostri amati fratelli, lo ieromonaco Macario e Ilarione il Didascalo, esperti nella traduzione e istruiti, avevano fatto per me alla Santa Montagna dal greco antico in romeno, loro lingua natale. Il fratello Macario tradusse una parte dei libri mentre si trovava all’Athos, e un’altra parte a Dragomirna; ugualmente, anche l’onorato Didascalo, il fratello Ilarione, tradusse una parte di essi presso la nostra comunità. Considerando senza dubbio questa loro traduzione vera sotto ogni riguardo, cominciai a correggere i testi patristici che avevo presso di me …”[32]. Il metropolita Grigorie Dăscalul, nella sua biografia paisiana, annota espressamente che solo Paisij e Doroteo traducevano dal greco in slavo, ma numerosi erano i traduttori romeni che traducevano nella loro lingua materna dal greco e dallo slavo. E nomina, tra gli altri, indicando anche le opere tradotte, pubblicate e non: Macarie, autore pure di una ‘Gramatica rumânească’ (1772), Ilarion, Gherontie, Ştefan, Isaac[33].

In Romania l’opera di Paisij suscitò, oltre che un rinnovamento monastico, anche un rinnovamento ecclesiale.Verso la metà del 1800 quasi tutti i monasteri romeni seguivano la Regola di Paisij. Nel 1792, appena eletto vescovo di Huşi, Veniamin Costachi, il futuro metropolita di Moldavia, prende a Neamţ alcuni padri per insediarli nelle varie chiese della sua diocesi perché rivivifichino con lo spirito paisiano la vita ecclesiale, liturgica e spirituale. E’ lui a realizzare il sogno di Paisij di avere una stamperia a Neamţ favorendo in ogni modo la pubblicazione e la diffusione dei testi patristici. Sotto l’impulso dei metropoliti ‘paisiani’ Veniamin Costachi (1803-1843) e Grigorie Dăscalul (1822-1834), uomini insieme spirituali, letterati e patrioti, il paisianesimo arriva a rinnovare l’intero tessuto ecclesiale, come ben sottolinea lo storico Nicola Iorga (1871-1940) definendo la riforma paisiana “învierea spiritului bisericesc autentic”[34].

Esula dai limiti del nostro studio la considerazione degli sviluppi storici, dagli esiti assai differenti, di quel prodigioso rinnovamento in paesi come la Russia e la Romania. In Russia il rinnovamento paisiano conosce lentamente ma stabilmente un progresso continuo fino a confluire in quella che verrà denominata la grande tradizione degli ‘starcy’ di Optina, vero centro di irradiazione dell’eredità paisiana, con una profondo eco culturale religiosa e letteraria[35]. In Romania invece, dopo un rapido percorso ascendente, segue un lento ma sicuro declino. Quel contesto specifico in cui Paisij è venuto modellando la sua esperienza, vale a dire il fatto del grande numero di fratelli che vivevano radunati in un’unica comunità (come stareţ dei monasteri di Secu e Neamţ aveva la guida di circa un migliaio di monaci) ed il fatto che tali fratelli fossero di provenienza e di popoli diversi (romeni, ucraini, russi, bulgari, serbi, greci) non ha retto alla prova del tempo. Forse per le mutate circostanze storiche sopraggiunte sul finire della vita di Paisij con la Moldavia occupata dall’esercito russo, con le tensioni ecclesiastiche che si erano scatenate, con l’insorgere di un nuovo spirito nazionale, se non nazionalistico?[36] O forse per la diminuita tensione interiore della comunità paisiana stessa? Il fatto è che, venendo meno quelle due caratteristiche, viene meno sicuramente quel fascino che aveva attirato tanti e suscitato tanta ammirazione.

  1. In sintesi.

La Romania è un’area di frontiera. I Principati danubiani, Moldavia e Valacchia, fin dal loro apparire, si sono sempre rivelati come luogo di interazione e di scambio tra mondi diversi: civiltà bizantina, mondo slavo e cristianità occidentale. Le trasformazioni dell’età moderna collocano questo stratificato spazio, a un tempo geografico e culturale, sulla nuova frontiera che separa e unisce l’Europa cristiana e l’Impero ottomano. Formalmente vassalli del sultano, i voevod valacco e moldavo godono di un notevole margine di autonomia, che permette loro di presentarsi come i nuovi protettori dell’eredità culturale e religiosa dell’Impero cristiano d’Oriente. In quest’area ‘liminale’ si ricreano le condizioni per quella continuazione originale della civiltà bizantina che l’illustre storico romeno Nicolae Iorga ha sintetizzato nella fortunata formula di “Bisanzio dopo Bisanzio”[37]. E’ interessante osservare come “questo spazio, che osservato dai centri di irradiazione della Cristianità latina e del Commonwealth bizantino può essere ritenuto una lontana propaggine e l’estrema periferia dei rispettivi ‘sistemi’, se assunto esso stesso quale punto di osservazione, viene configurandosi come un vero microcosmo in cui le grandi tradizioni religiose, culturali, istituzionali della storia europea si ricompongono, in un quadro che – pur nei suoi limiti e non senza tensioni – è stato, fino all’esplodere dei nazionalismi ottocenteschi, di sostanziale complementarietà” [38].

Una costante che si osserva nell’azione dei principi valacchi e moldavi dal secolo XV fino al secolo XVIII è il loro respiro ‘ecumenico’. Si pensi soltanto a C. Brâncoveanu (1688-1714), che sostiene i centri spirituali in patria e nelle regioni ortodosse (come, ad esempio, in particolare, i monasteri bulgari di Kapinovo e di Prisovo[39]), promovendo la vita politica e culturale in Valacchia e nel mondo ortodosso in generale (Athos, Palestina, Bulgaria, Grecia, Serbia). L’ispirazione, culturale e religiosa, sempre ravvisabile e sempre riemergente è la medesima: l’ispirazione esicasta. In effetti, i voievod dei due principati di Valacchia e Moldavia avevano adottato, come modello da seguire per riprodurre l’immagine del sovrano cristiano ideale, l’opera del patriarca Eutimio di Tărnovo, ideologo del movimento esicasta bulgaro sul finire del sec. XIV: “Panegirico di s. Costantino e di s. Elena”. Questa opera aveva influenzato l’ideologia statale delle grandi figure politiche, come Stefano il Grande (1457-1504) e Neagoe Basarab (1512-1521). Lo stesso C. Brâncoveanu ne aveva chiesto una traduzione per sé, fedele all’ideologia politico-religiosa che aveva caratterizzato i secoli del dominio turco: era preciso compito del sovrano favorire e rinvigorire l’unione dei popoli ortodossi contro l’Islam.

È abitudine diffusa far risalire i frutti del rinnovamento esicasta nella chiesa ortodossa dei tempi moderni a quel movimento fiorito in seno alla chiesa greca, in particolare all’Athos, nel secolo XVIII, denominato movimento dei ‘kollibades’, di cui Macario di Corinto e Nicodemo Agiorita, gli editori della Filocalia greca e di numerose altre opere patristiche, liturgiche, innografiche, ascetiche, canoniche, costituiscono gli esponenti di maggior spicco[40]. Eppure le vie per le quali il rinnovamento esicasta ha contagiato i paesi ortodossi ed ha lambito, nel secolo scorso, anche il mondo cattolico, sono riconducibili ad un altro contesto, quello di Paisij Veličkovskij e dei suoi discepoli russi, con la mediazione dell’ambiente e della tradizione romena, fino ad oggi quasi completamente in ombra. Se prendiamo come simbolo di quel rinnovamento la Filocalia, non ci si può riferire ad essa come ad un libro sul quale istruirsi ed imparare a pregare. Prima che essere un libro, la Filocalia è stata l’esperienza quotidiana di una comunità di fratelli, con tutta l’efficacia che una realtà vivente comporta. In tal senso la Filocalia, per Paisij e per i suoi discepoli, non rappresenta soltanto il ‘deposito’ della sapienza di una tradizione, ma il riverbero di un’esperienza sotto gli occhi di tutti, almeno per due generazioni. E’ questa ‘vitalità spirituale’, che raccorda la pratica monastica e la vita fraterna sulla centralità della rivelazione cristiana, che consiste in quel ‘fra grazia di Sé a noi in Cristo’ (Ef 4,32) da parte di Dio, ad aver prodotto tanti frutti. Tutto l’insegnamento era basato sulle Scritture e sui Padri, letti con amorevole sollecitudine e acribia, ma solo allo scopo di imparare a stare sottomessi l’uno all’altro e crescere nell’intelligenza spirituale del mistero di Dio. E se la pratica della preghiera di Gesù veniva privilegiata, lo era perché quella pratica si raccordava direttamente alla radicalità del mistero della rivelazione cristiana, portava cioè a sperimentare il far grazia di Sé da parte di Dio, in Cristo, al cuore peccatore, sottomesso a tutti. Ma qui ravviso proprio quella caratteristica a cui sopra accennavo, tipica della tradizione romena e, direi, dell’esperienza romena della tradizione comune: l’uomo spirituale riuscito diventa ‘blînd’, si riveste di ‘blîndeţe’, culmine dell’ascesi e segno di un cuore puro e pieno di amore, dove tutti vanno a cercare quella ‘dulceaţa dumnezeiasca’, radice di ogni bontà e fonte di speranza per il faticoso vivere quotidiano. E’ questo il tessuto connettivo spirituale che lega monachesimo e fedeli, così tipico della Romania e che così ‘normalmente’ ha potuto recepire la fecondità dell’opera paisiana e che può giocare un ruolo di fermento ancora oggi in seno alle chiese ed alle comunità. Quando viene però a mancare la consistenza teologico-spirituale, il radicamento nella tradizione, oppure si indulge ad una visione ‘ideologica’ o ‘nazionalistica’ di quella stessa tradizione, quel tipo di tessuto connettivo tende ad assumere un valore di autodifesa, di chiusura difensiva, perché impoverito ormai della sua fecondità[41].   Viene meno quella fierezza di chi sa di poter contare su una tradizione ricca e preziosa e con umiltà lotta con l’altro, come Giacobbe lottò con l’angelo, per chiedere una benedizione. In quest’ottica leggo oggi quello spazio ‘ecumenico’ della tradizione romena che tanti frutti ha portato e che continuerà a portare.

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[1] Già Gregorio Palamas, nella sua Omelia sulla Presentazione di Maria al Tempio (hom. 52), presentava la Madonna come modello della preghiera del cuore. Lo riprende Paisie Veličkovskij, nel suo Rotolo sulla preghiera della mente, Dragomirna 1770. Si veda Sf. PAISIE DE LA NEAMŢ, Cuvinte şi scrisori duhovniceşti, II, Chişinău 1999, p. 139-142 (Alcătuire despre rugăciunea minţii).

[2] Ieroschimonah Daniil Tudor ( Sandu Tudor), Acatiste, Ed. Christiana, Bucureşti, 1999, p. 35-55 (Imn acatist la Rugul Aprins al Născătoarei de Dumnezeu – Inno acatisto del Roveto Ardente della Madre di Dio). Composto da Sandu Tudor (Alexandru Teodorescu), monaco al monastero Antim di Bucarest con il nome di Agaton, nel 1948 e ricorretto nel 1958, quando era stareţ dell’eremitaggio di s. Giovanni Teologo sui monti Rarău.

[3] Si veda André SCRIMA, Timpul rugului aprins. Maestrul spiritual în tradiţia răsăriteană. Prefaţă de Andrei Pleşu. Volumul îngrijit de Anca Manolescu, Humanitas, Bucureşti 1996 [versione italiana a cura di Adalberto Mainardi: A. Scrima, Il Padre spirituale, Qiqajon, Bose 1999]. Una buona documentazione si trova in Mihai RĂDULESCU, Rugul aprins. Duhovnicii ortodoxiei, sub lespezi, în gherlele comuniste, Bucureşti 1993. Una testimonianza di un altro partecipante è quella di ROMAN BLAGA (ora egumeno in un monastero ortodosso in Michigan, USA), Rugul Aprins, «Lumină lină», nr. 2 (mai 1991), pp. 117-128, ripreso nel volume Pe drumul credinţei, Mănăstirea Adormirea Maicii Domnului, HDM Press, 1995, pp. 171-183.  Si veda ancora Antonie Plămădeală, Rugul Aprins — moment de spiritualitate românească, «Sæculum. Revistă de sinteză culturală» (Sibiu 1995), serie nouă, Anul I (III), nr. 3–4 (12); Ieroschimonahul Daniil Sandu Tudor, Taina Rugului Aprins. Scrieri şi documente inedite, Anastasia, Bucureşti 1999. Di prossima apparizione IOAN I. ICĂ Jr., Il Roveto ardente. Una fioritura dell’ideale esicasta all’alba del comunismo in Romania, in Testi e temi nella tradizione del monachesimo cristiano (Atti del simposio al Pontificio Ateneo S. Anselmo, Istituto Monastico, Roma 28 maggio – 1 giugno 2002).

[4] Suo è il pregevole articolo sulla tradizione spirituale romena : UN MOINE DE L’EGLISE ORTHODOXE ROUMAINE, L’avénement philocalique dans l’Orthodoxie roumaine, «Istina» 5 (1958), pp. 295-328, 443-474.

[5] Roman Braga, “Ogni monaco ha un suo segreto con Dio”, Lipa Edizioni, Roma 1999

[6] Cuviosul Ioan cel Străin (din arhiva Rugului Aprins), ediţie alcătuită de prof. Gheorghe Vasilescu, cu o postfaţă  de arhim. Sofian Boghiu, ed. Anastasia, Bucureşti 1999 (Comorile pustiei 28).

[7] Si veda C. ZAHARIA, La chiesa ortodossa romena in rapporto alle traduzioni patristiche filocaliche nelle lingue moderne, in «Benedictina» 35 (1988), p. 153-172. In romeno: D. ZAMFIRESCU, Paisianismul. Un moment românesc în istoria spiritualităţii europee, Ed. Roza vânturilor, Bucarest 1996, p. 46-64.

[8] Filocalia. Versiunea în limba română a antologiei în limba greacă, publicata la Veneţia, în 1782, de Sfântul Nicodim Aghioritul & Sfântul Macarie mitropolitul Corintului la care s-au adăugat şi alte texte. Ediţie îngrijită, note, notă asupra ediţiei şi postfaţă de Doina Uricariu. Studiu introductiv de academician Virgil Cândea, 2 voll., Bucureşti 2001, ed. Universalia. Chiamata ‘Filocalia de la Prodromul’ per l’iniziativa dei monaci romeni del monastero athonita di raccogliere le antiche versioni romene dei testi filocalici. Il lavoro di trascrizione dei testi, dattilografato e riunito in un unico tomo voluminoso di oltre 1600 pagine, fu concluso nel 1922. L’edizione attuale, in due volumi, ripresenta quel tomo. I testi coprono tutta la Filocalia greca del 1782 con l’aggiunta di alcuni testi: Vita di s. Nifon di Costantinopoli (estratti), Dimitri di Rostov (estratti dal titolo: Dottrina spirituale dell’uomo interiore), Basilio di Poiana Mărului (Introduzione a Filoteo Sinaita, Introduzione a Gregorio Sinaita), Paisij Veličkovskij (Sulla preghiera di Gesù), Giovanni Crisostomo (brani dalle lettere ai monaci), Nil Sorskij (la sua opera e l’introduzione ai suoi scritti di Basilio di Poiana Mărului), Giovanni di Kronštad (alcuni pensieri ).

[9] Una nota dei curatori (Însămnărĭ oarecare de pricina adunăriĭ aceştiĭ Cărţĭ, vol. 1, p. 34-35) spiega dove si trovano i manoscritti delle versioni utilizzate ed indicano i loro autori.

[10] F. DOSTOEVSKIJ, I Fratelli Karamazov, a cura di E. Bazzarelli, Milano 1963, p. 11.

[11] La firma ‘Paisij starec’ è evidentemente ricalcata su ‘Paisie, Stareţul’.

[12] Istoričeskoe opisanie Kozel’skoj Vvedenskoj Optinoj pustyni.

[13] Apophtegmata, Rufus 1.

[14] Giovanni Climaco, Scala XXVII, PG 88,1112c. Cfr. P. ADNÈS, “Hésychasme”, DS VII, coll. 381-399.

[15] II monaco romeno, padre Ioanichie Bălan, che per primo ha cercato di radunare e sistemare tutta una serie di dati riguar­danti la tradizione esicasta della sua patria, ha intitolato un suo recente libro che raccoglie il frutto del suo pluriennale lavoro Vetre de sihastrie româneasca, Bucarest 1982, che si potrebbe rendere con Centri di insediamento di vita esicasta romena. La parola sihastrie, dal ter­mine greco hesychastérion, indica il luogo dove vivono gli esica­sti, in romeno sihastri. Questi esicasteri hanno conosciuto una tale fortuna e sono stati così numerosi che la migliore soluzione per presentarli è parsa all’autore quella di individuare i vari centri o aree o zone geografiche che ne hanno visto fiorire stabili e importanti raggruppamenti. Vengono così descritti ben venti­quattro di questi centri distribuiti nelle cinque regioni che co­stituiscono 1’odierna Romania: Dobrogea, Moldavia, Terra Ro­mena o Ungro-Valacchia, Banat e Transilvania.

[16] Vetre de sihastrie româneasca, Bucarest 1982, p. 9.

[17] Ivi, pp. 18-19.

[18] Nicodemo di Tismana (prima metà del sec. XIV – 1406), originario pro­babilmente del sud della Serbia, monaco e poi superiore di Chilandar sull’A­thos, fonda nel 1370 in Valacchia il monastero di Vodiţa. Sospinto più a nord dall’occupaziooe ungherese della regione del Banat di Severin, fonda il mona­stero di Tismana dove muore il 26 dicembre 1406. Importante la sua corri­spondenza con l’ultimo patriarca di Tărnovo, Eutimio, e pregevole il suo Li­bro dei quattro vangeli, capolavoro di calligrafia, copiato tra il 1404 e il 1405 in lingua slavonica di redazione serba. Il santo Sinodo della chiesa ortodossa romena, nel 1955, ha esteso a tutta la Romania il culto del santo.

[19] La skite di Poiana Mărului (letterelmente: “radura del melo”) si trova nel comune di Jitia, distretto di Vrancea, a circa 150 km a nord di Bucarest. Fu fondata dallo stareţ Basilio nel 1733, sulla cui figura si può vedere D. RACCANELLO, La preghiera di Gesù negli scritti di Basilio di Poiana Mărului, Alessandria 1986 (tr. romena: Rugăciunea lui Iisus în scrierile stareţului Vasile de la Poiana Mărului, Deisis, Sibiu 1996).. Sulla storia e lo sviluppo dell’esicasmo in terre romene, cfr. D. Stă­niloae, Isihaşti sau sihaştrii şi rugăciunea lui Iisus în tradiţia ortodoxiei româneşti, in  Filocalia, vol. VIII, Bucarest 1979, pp. 555-587.

[20] Vedi I. Bălan, Pateric românesc, Institutul biblic, Bucureşti 1980, p. 621.

[21] In romeno vedi Învăţăturile lui Neagoe Basarab către fiul său Theodosie. Texte ales şi stabilit de Florica Moisil şi Dan Zamfirescu, traducerea originalului slavon G. Mihăilă, repere istorico-literare alcătuite în redacţie de Andrei Rusu, Minerva, Bucureşti 1984, p. 125. In italiano vedi Come vivere e praticare l’esichia. Libro di insegnamento del principe romeno Neagoe Basarab per suo figlio Teodosio. Traduzione, studio introduttivo e note a cura di Adriana Mitescu, Bulzoni, Roma 1993 (biblioteca di cultura, 480), p. 69. Il passo è tratto dal cap. V, Discorso sul timore e l’amore di Dio, conservato solo nella stesura romena.

[22] Su di lui si vedano i testi da me curati: PAISIJ VELIČKOVSKIJ, Autobiografia di uno starets, Scritti monastici, Abbazia di Praglia 1988 (tradotta in francese nella collana ‘Spiritualité orientale’, n. 54, Abbaye de Bellefontaine 1991), ripubblicato presso le ed. Qiqajon, Comunità di Bose 1998; (in romeno: Cuviosul PAISIE DE LA NEAMŢ, Autobiografia unui “stareţ”, urmată de Viaţa “stareţului” Paisie scrisa de monahul Mitrofan , a cura di Ioan I. Ică jr., Editura Deisis, Sibiu 1996. Nella seconda edizione, rivista e aggiornata, il titolo suona: Autobiografia şi Vieţile unui stareţ, urmate de Aşezăminte şi alte texte, Deisis, Sibiu 2002); La scuola filocalica di Paisij Veličkovskij e la Filocalia di Nicodemo Aghiorita. Un confronto,  in  T. SPIDLIK, K. WARE E AA.VV., Amore del bello. Studi sulla Filocalia, Qiqajon, Comunità di Bose 1991, pp. 179-207; La dottrina spirituale dello starets Paisij. Radiografia di una comunità  in  N. KAUCHTSCHISCHWILI, A.-AI. N. TACHIAOS  e  AA.VV., Paisij, lo starec. Atti del III Convegno ecumenico internazionale di spiritualità russa “Paisij Veličkovskij e il suo movimento spirituale”, Bose, 20-23 settembre 1995, a cura di A. Mainardi, Qiqajon, Bose 1997, p. 97-114.

[23] Cfr. Moshe ROSMAN, Founder of Chassidism. A quest for the historical Ba’al Shem Tov, Univ. Of California press, Berkeley 1996; Gershom David HUNDERT, ed., Essential papers on Hasidism. Origins to present, New York Univ. Press, New York-London 1991; Ladislau Gyémánt, ed., Hasidism (Pietism) in Romania, International Conference, Cluj-Napoca, october 11-13, 1993, in «Studia Judaica», III, Cluj-Napoca 1994.

[24] Nel suo Sfinţenia – împlinirea umanului (Curs de teologie mistică) (1935-1936), ediţie îngrijită de Teodosie Paraschiv, Ed. Mitropoliei Moldovei şi Bucovinei, Iaşi 1993, cap. XVI, Rugăciunea lui Iisus, esenţa Paisianismului, Nichifor Crainic sostiene con ragione che il sec. XVIII è “veacul de aur al ortodoxiei româneşti” (p. 150).

[25] Anche nei territori ucraini, nel corso del sec. XVII, si assiste al fenomeno della fioritura di innumerevoli skiti. Un’esperienza particolarmente significativa fu quella di Iov Knjahynyc’kyj, il fondatore della skit di Manjava (una remota località sul versante ucraino dei Carpazi). Tra i testi ispiranti della Regola di Manjava incontriamo Nil Sorskij e le costituzioni pseudo-basiliane. Cfr. SENYK, S. (ed.), Sottomessi all’evangelo. Vita di Iov di Manjava, Testamento di Teodosio, Regola dello skytyk, Magnano (BI), 2001; idem, “L’esicasmo nel mondo ucraino prima di Paisij Velichkovskij: le testimonianze della letteratura monastica”, in Amore del bello, pp. 279-288; idem, “L’hésychasme dans le monachisme ukrainien”, in «Irénikon» 62 (1989), pp. 172-212.

[26] Cfr. Isaac Dascălul, Biografia inedita dello starets Paisij il Grande, a cura di  D. ZAMFIRESCU, «Revista fundaţiei Drăgan», n. 3-4, 1987, p. 498.

[27] Grigorie Dascălul (1765-1834), tonsurato monaco a Neamţ da Paisij nel 1790, fino al 1802 a Bucarest alla scuola di s. Saba, di nuovo a Neamţ tra il 1802 e il 1819, poi a Căldăruşani e dal 1823 metropolita di Ungrovalacchia. Aveva ricevuto da Paisij l’obbedienza di dedicarsi alla traduzione dei testi patristici.  La sua biografia dello stareţ Paisij, che porta il titolo Povestire din parte a vieţii prea cuviosului părintelui nostru Paisie, è inserita nel volume Adunare a cuvintelor celor pentru ascultare, Neamţ 1817. Ora si può leggere in D. Zamfirescu, Paisianismul, un moment românesc în istoria spiritualităţii europene, Roza vânturilor, Bucureşti 1996, pp. 117-141, come anche in Cuvinte despre ascultare, publicate de ucenicii cuviosului Paisie stareţului la mănăstirea Neamţu în anul 1817, date acum pe slovă nouă şi grai îndreptat de Virgil Cândea, Editura Anastasia, Bucarest 1997, pp. 171-191. Ed anche in Cuviosul PAISIE DE LA NEAMŢ (VELICICOVSKI), Autobiografia şi Vieţile unui stareţ, urmate de Aşezăminte şi alte texte, a cura di Ioan I. Ică jr., Deisis, Sibiu 20022 (1996), p. 333-351.

[28] D. Zamfirescu, Paisianismul,  p. 119; Cuvinte despre ascultare, p. 172.

[29] Cfr. D. ZAMFIRESCU, Paisianismul, p. 128; Cuvinte despre ascultare, p. 183.

[30] Si tratta della lettera scritta ai discepoli Ambrogio, Atanasio e Teofanie, partiti per la Russia nel 1777, dove Paisij descrive gli avvenimenti  relativi al trasferimento da Secu a Neamţ avvenuto nel 1779. Il testo si può vedere in Sf. PAISIE DE LA NEAMŢ, Cuvinte şi scrisori duhovniceşti, a cura di Valentina Pelin, ed. Tipografia centrală,  Chişinău 1998, vol. I, pp. 84-98.

[31] Cfr. E. CITTERIO, La scuola filocalica di Paisij Velichkovskij e la Filocalia di Nicodimo Aghiorita. Un confronto, in T. SPIDLIK, K. WARE, E. LANNE, M. VAN PARYS e AA.VV., Amore del bello. Studi sulla Filocalia, Qiqajon, Comunità di Bose 1991, p. 187-8.

[32] Lettera a Teodosio, in N. KAUCHTSCHISCHWILI, A.-AI. N. TACHIAOS  e  AA.VV., Paisij, lo starec. Atti del III Convegno ecumenico internazionale di spiritualità russa “Paisij Veličkovskij e il suo movimento spirituale”, Bose, 20-23 settembre 1995, a cura di A. Mainardi, Qiqajon, Bose 1997, p. 289.

[33] Una rassegna completa della produzione di questi traduttori romeni e di altri ancora si trova negli studi di  N. A. URSU, Şcoala de traducători români din obştea stareţului Paisie de la Mănăstirile Dragomirna, Secu şi Neamţ, in Românii în reînnoirea isihastă, Trinitas, Iaşi 1997, p. 39-82 e di V. PELIN, Contribuţia cărturarilor români la traducerile Şcolii paisiene, ibidem, p. 83-120.

[34] N. IORGA, Istoria Bisericii româneşti şi a vieţii religiose a românilor, Vălenii de Munte 1909. Citazione tratta dalla 2° ed., Bucarest 1930, vol. II, p. 175.

[35] Si può consultare la tavola prospettica dell’irradiazione paisiana con l’elenco impressionante dei discepoli e dei monasteri sotto l’influenza di Paisij , predisposta da Cetverikov, pubblicata solo nella versione romena del vescovo Nicodim: S. CETVERIKOV, Paisie stareţul Mânăstirii Neamţului din Moldova. Viaţa, învăţătura şi influenţa lui aspra Bisericii Ortodoxe, Neamţ 1933. Cfr. anche V. KOTELNIKOV, L’eremo di Optina e i Grandi della cultura russa, Casa di Matriona, Milano 1996.

[36] Si veda Ioan I. Ică, La posterità romena dello ‘starec’ Paisij  in N. KAUCHTSCHISCHWILI, A.-AI. N. TACHIAOS, V. PELIN E AA.VV., Paisij, lo starec. Atti del III Convegno ecumenico internazionale di spiritualità russa “Paisij Veličkovskij e il suo movimento spirituale”, Bose, 20-23 settembre 1995, a cura di A. Mainardi, Qiqajon, Bose 1997, p. 245-266. Ed anche, dello stesso Posteritatea românească a paisianismului şi dilemele ei, in PAISIE DE LA NEAMŢ, Autobiografia şi Vieţile unui stareţ, urmate de Aşezăminte şi alte texte, Deisis, Sibiu 2002, 2° ed., p. 55-83.

[37] IORGA, N., Byzance après Byzance, Bucarest 1971.

[38] ALZATI, C., Lo spazio romeno tra frontiera e integrazione in età medioevale e moderna, ed. ETS, Pisa 2002 (Piccola Biblioteca Gisem 16), p. 68

[39] Si veda PAVLINA BOJČEVA, Un document de Constantin Brâncoveanu relatif au monastère de Kapinovo (saint-Nicolas) près de Tărnovo, in PAUL H. STAHL, ed., Omagiu Virgil Cândea la 75 de ani, vol. I, Editura Academiei Române-Ed. Roza vânturilor, Bucureşti 2002, p. 97-107. E’ risaputa la generosità dei principi romeni per l’Athos, cfr. A. SCRIMA, Les Roumains et le Mont Athos, in Le millénaire du Mont Athos, 963-1963, Etudes et mélanges, Fondazione Cini-éditions de Chevetogne, Venezia 1964, vol. II, p. 145-152.

[40] Per tutti questi aspetti si veda il mio Nicodemo Agiorita, in La théologie bizantine et sa tradition, II, sous la direction de C. G. Conticello & V. Conticello, Brepols, Turnhout 2002 (Corpus christianorum), p. 905-997.

[41] Pur nella stima per lo spirito con cui sono state formulate, trovo deboli le posizioni espresse da p. Stăniloae nel suo Reflexii despre spiritualitatea poporului român, Scrisul Românesc, Craiova 1992. Non si tratta di riservare al popolo romeno l’esclusiva di una misura, di un’armonia spirituale che farebbe difetto ai greci come agli slavi, all’est come all’ovest. Nel mondo spirituale niente è esclusivo di nessuno perché tutto è grazia comune; particolare è solo il timbro dell’esperienza di uno rispetto a un altro, di un popolo rispetto ad un altro, di una tradizione rispetto ad un’altra, in simbiosi reciproca perché il mistero è il medesimo per tutti.