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Il rapporto tra scienza e sapienza, alla luce dei due grandi poli della scolastica: san Bonaventura e san Tommaso d’Aquino.

Intervento ad Assisi, 12 ottobre 1999 di E. Citterio, pubblicato in “Convivium assisiense”, VII (2005) 2, pp. 35-48.

 

1       Contesto storico

Per illustrare il tema che mi sono proposto prendo spunto dal confronto delle posizioni di un s. Bonaventura e di un s. Tommaso d’Aquino, ambedue rinomati maestri parigini, l’uno francescano e l’altro domenicano, attorno all’antico e sempre attuale problema se, nella visione cristiana, deve essere accordata la preferenza alla ‘scienza’ o alla ‘sapienza’. Oppure, diversamente espresso: è preferibile l’intelletto o la volontà, la conoscenza o l’amore, la ‘teoria’ o la ‘pratica’ ? Sono tutte formulazioni, in sfaccettature differenti, del medesimo problema. Non intendo evidentemente percorrere la storia dei vari tentativi di soluzione della questione. Mi interessa solo appuntare l’attenzione sui termini di un confronto che, per l’autorevolezza dei protagonisti e per la creatività del momento storico che li ha caratterizzati, si rivela particolarmente fecondo di riflessioni.

Credo sia utile presentare brevemente le coordinate storiche del momento e dei personaggi che prendo in esame[1]. Il secolo XIII, al quale appartengono s. Bonaventura (1217-1274) e s. Tommaso d’Aquino (1225-1274), può essere considerato come uno dei momenti più creativi nella storia del pensiero e della teologia in occidente. É il secolo della grande scolastica, le cui acquisizioni sono entrate a far parte del comune universo mentale occidentale. Non si comprenderebbe il fenomeno della scolastica senza tener conto di almeno tre coordinate storiche: il ruolo dell’università, l’ingresso di Aristotele, l’evangelismo. L’università, creazione del nuovo ordine nel passaggio dal feudo ai comuni, dove la vitalità economica e culturale appartiene ormai alle città, è forse la più significativa istituzione della nuova cristianità. Le antiche scuole monastiche ed episcopali, sebbene producano ancora figure ed opere di grande levatura, subiscono un declassamento istituzionale. La Chiesa si trova di casa nelle sedi universitarie; a volte è il papato stesso che intraprende l’iniziativa di creare centri universitari, come a Tolosa e Siena; in ogni caso favorisce il diritto di associazione e libera l’istituzione dal conservatorismo locale dell’antica scuola episcopale. In effetti, la mobilità e la centralizzazione dei nuovi ordini religiosi, domenicani e francescani, con il loro carattere internazionale rispondono adeguatamente alla evoluzione della società e della Chiesa. L’inglese Alessandro di Hales, il tedesco Alberto Magno, gli italiani Bonaventura e Tommaso d’Aquino, faranno di Parigi[2] la capitale intellettuale della cristianità. È un fatto nuovo nella Chiesa che una corporazione di professori patentati, provvisti della ‘licentia docendi ’ abbia nella chiesa l’incarico ed il mandato di insegnare la dottrina rivelata. Si tratta di professori, di professionisti della scuola, impegnati nell’elaborazione di un sapere il cui titolo giuridico dipende dalla corporazione e non è una funzione gerarchica, situazione che l’oriente non conoscerà, come non conoscerà il fenomeno della scolastica in modo così esteso. I ‘magistri ’ hanno titolo ufficiale per esporre la fede e la dottrina; la loro soluzione, una volta discussa la questione, è autorizzata. Ma non sono ‘auctoritates ’, nel senso decisivo del magistero ecclesiastico; sono un ‘luogo teologico’ [3]. La Scuola esiste nella Chiesa, al di sotto dei Padri nella fede. La teologia si stacca dalla pastoralità, ed è un rischio grosso, ma il genio e la santità, comunque la fede in chi fa teologia, domineranno il mestiere, anche se questo resterà lo strumento normale. Basta rifarsi alla Summa contra Gentiles di Tommaso o all’ Itinerarium mentis in Deum di Bonaventura  per accorgersi che i valori spirituali più genuini hanno potuto esprimersi in quella tecnicità di scuola.

L’ingresso di Aristotele[4] nel XIII secolo a Parigi, così come lo sviluppo del diritto romano a Bologna nel XII secolo, sono i due cardini di quel nuovo movimento degli spiriti che interessa tanto la società civile quanto quella ecclesiastica, che contraddistingue tanto gli esiti più fecondi come quelli più nefasti. Finché Aristotele, letto sulla guida di Boezio, si limitava alle Categorie e al De interpretatione, l’apprezzamento cristiano rimaneva discreto; con la scoperta degli Analitici e dei Topici si scopre l’arte del pensare. Ma più che la ragione, fu prima di tutto la natura che Aristotele rivela agli spiriti. In effetti saranno per primi i medici che l’accoglieranno, gli spiriti curiosi delle scienze. Nel 1210 sono i suoi ‘libri de naturali philosophia ’ che saranno proibiti e Tolosa, nel 1229, proprio quei libri interpreta e diffonde, in rivalità con Parigi. Una doppia curiosità suscita nelle intelligenze medievali la natura aristotelica: contro uno spiritualismo idealista, che l’agostinismo tradizionale favoriva, lo sguardo dell’uomo si rivolge al mondo sensibile, ad investigare le leggi della vita e del cosmo e, contemporaneamente, coglie la potenza d’intelligibilità che porta il concetto di una natura, principio interno ad ogni essere e ragione sufficiente delle sue operazioni. Appare così un mondo reale, un mondo intelligibile: nasce la fisica e via via tutte le scienze. La scoperta di Aristotele sancisce definitivamente l’acquisizione che risulterà capitale per tutta la scolastica: questa fisica include il realismo ontologico ed epistemologico. Ma l’universo aristotelico appariva in se stesso inconciliabile con la concezione cristiana del mondo, dell’uomo e di Dio: senza creazione, senza provvidenza, una perfezione morale senza l’apertura alla dimensione religiosa. La scienza contro la sapienza cristiana! S. Bonaventura    riassume bene la resistenza ad Aristotele in terra cristiana, anche contro s. Tommaso[5]. Soltanto nel 1255 tutta l’opera dello Stagirita ha diritto di cittadinanza a Parigi, ma le polemiche sono incandescenti. Eppure, l’opera precipua di Tommaso, coraggiosa e creativa, benché non accolta subito (vedi le condanne di certe sue proposizioni nel 1270 e nel 1277) sarà quella di attrarre l’aristotelismo nell’orbita del pensiero cristiano.

Per seguirlo ed apprezzarne l’impresa, occorre scoprire la sorgente a cui attinge. È a Tommaso come frate predicatore, come seguace di s. Domenico, che occorre rifarsi. L’Ordine domenicano, come quello francescano, rispondeva ai bisogni della nuova società che emergeva dallo scomporsi della società feudale. Le istituzioni ecclesiastiche, secolari e monastiche, troppo impastate con l’antico ordine, erano impreparate ad offrire le condizioni umane e religiose delle libertà appena conquistate. La lungimiranza del papa Innocenzo III (1198-1216) offrì le opportunità istituzionali a queste ‘fraternità predicanti’ che la povertà evangelica teneva al riparo dalle seduzioni dei tempi nuovi e dall’ingombro del regime feudale. Il monastero passa dalle valli solitarie al centro delle città. S. Domenico fonda i suoi conventi nelle città universitarie, le Università saranno il luogo ideale per reclutare i suoi figli. Non sarà il clero secolare ad accogliere Aristotele con l’idea, nel 1231, di una edizione purgata delle sue opere, ma questi maestri ‘predicatori’, animati da uno spirito nuovo e fecondo. L’adozione di Aristotele nella cristianità è l’opera magistrale di una teologia nel pieno possesso della sua fede, non semplicemente l’opzione razionale tra filosofie concorrenti. Lo slancio parte da una aspirazione religiosa, il cui ideale, negli ordini mendicanti, non è che il ritorno alla Chiesa primitiva, al Vangelo.

I maestri parigini, a metà del secolo XIII, sono coscienti dell’impresa di costruire una teologia in scienza assumendo al proprio servizio la ragione aristotelica, ma dentro una fede matura che non teme l’investigazione più esigente,  forse soprattutto perché erano coscienti del pericolo che minacciava tale equilibrio, che in seguito scadrà o in razionalismo o in idealismo.

2       i personaggi

Una parola ora sui due personaggi, Bonaventura e Tommaso. Per Bonaventura è l’Università di Parigi il terreno spirituale in cui crebbe la sua vocazione religiosa. Entra nell’ordine francescano nel 1243, attirato dalla profonda ammirazione per il suo maestro Alessandro di Hales che egli chiama non solo ‘magister’ ma ‘pater’ [6]. Nel 1257 fu improvvisamente richiamato dalla sua fruttuosa attività di insegnante a Parigi per sostituire il Generale Giovanni da Parma e diventare il settimo successore di san Francesco alla guida dell’ordine. L’ Itinerarium mentis in Deum, che Bonaventura riporta dalle settimane passate in solitudine  sulla Verna nel 1259, è il primo segno di una nuova disposizione spirituale. A partire da questo testo la figura di san Francesco domina sempre più il suo pensiero. Con i sermoni che  tiene a Parigi dal 1267, dieci anni dopo il suo congedo dalla cattedra universitaria, (Collationes de decem praeceptis, Collationes de donis Spiritus Sancti e vari altri) Bonaventura prende posizione sulle più aspre controversie dottrinali non più come chi si trovi all’interno del conflitto proprio della scienza, ma piuttosto come chi, dall’esterno, mostri alla scienza i suoi limiti a partire dalla fede. L’ultima grande opera di Bonaventura, le Collationes in Hexaemeron sive Illuminationes Ecclesiae, del 1273, non è nata dalla scuola, ma dalla preoccupazione perché essa non smarrisse la sua identità a motivo della filosofia, che aveva la sua sede nella facoltà delle arti[7].

Il cammino di Tommaso è diverso. Contro le tradizioni della sua famiglia rifiuta Monte Cassino affascinato dal nuovo spirito evangelico che Francesco e Domenico suscitavano nella chiesa. Per lui Parigi non è il destino occasionale di un giovane intellettuale precoce, ma conseguenza della logica istituzionale dei frati predicatori ai quali si è unito. Prematuramente promosso ‘magister’ nel 1256 per intervento dello stesso papa Alessandro IV, la Scuola è il suo ambiente naturale di vita e la Teologia, nella tensione di una fede che si fa intelligenza teologale, è l’occupazione centrale della sua vita (praecipuum vitae meae officium). La lucidità e l’audacia delle sue scelte nel discorso teologico che era andato maturando emergono in tutto il loro spessore nella controversia averroista. Nel 1270 vengono condannate come inconciliabili con la fede cristiana tredici proposizioni dell’interpretazione averroista di Aristotele. Una lo concerne direttamente, quella della tesi della possibilità della creazione eterna. La posta in gioco non era evidentemente la difesa della fede, assolutamente condivisa con i suoi colleghi parigini, ma la validità stessa del suo modo di procedere in teologia. Tommaso voleva mantenere nello stesso tempo l’assoluto della fede e la libertà della ricerca contro un certo integrismo dei suoi avversari. Nell’impostazione agostiniana caratteristica della mentalità medievale, negare la creazione nel tempo (che per Tommaso era da ascriversi al dato della fede) significava negare la contingenza radicale della creatura, svuotare il mistero di questa dipendenza che, nell’uomo, è la base di ogni spiritualità. Dal punto di vista del pensare umano, però, non è necessario riconoscere la creazione nel tempo per riconoscere la contingenza assoluta degli esseri finiti. L’analisi del concetto stesso di creazione, nell’ottica di una metafisica del movimento, di derivazione aristotelica, con la distinzione capitale di essenza ed esistenza, è sufficiente a porre la contingenza assoluta della creatura rispetto al Creatore, al di là di ogni temporalità. La visione che ne risulta è anzi più ottimista nel senso che resta meglio salvaguardata la consistenza propria della creatura nel suo ordine di natura[8].  Più la teologia è teologia, più le discipline razionali della filosofia hanno la loro consistenza. La grazia promuove la natura, nella sua stessa libertà e nei suoi metodi[9].

Altro punto di rottura tra Tommaso ed i teologi contemporanei sarà la tesi dell’unica forma sostanziale dell’essere umano, distinto sì in anima e corpo, in materia e spirito, ma senza il sottinteso culturale di un’anima che abbia consistenza in sé. L’uomo è un solo essere in cui la materia e lo spirito sono i principi consostanziali di una totalità determinata, senza soluzione di continuità, dalla loro mutua inerenza. Per Tommaso lo spirito dell’uomo è unico e il medesimo, dall’animazione del corpo fino alla visione delle cose divine, lo stesso che governa il gioco delle passioni e che diventa nella grazia l’abitazione dello Spirito. Malgrado la condanna post mortem ad opera di Stefano Tempier nel 1277, sarà la posizione che in seguito verrà ritenuta, criterio inflessibile della spiritualità di Tommaso. Il rifiuto di disgiungere intellettualità e spiritualità è la conseguenza diretta della sua visione teologica in antropologia[10].

3       il confronto

All’accusa “Vituperandi sunt doctores qui sacrae doctrinae philosophica documenta admiscent ” di Bonaventura, Tommaso risponde: “Quando alterum duorum transit in dominium alterius, non reputatur mixtio, sed quando utrumque a sua natura alteratur. Unde illi qui, utuntur phílosophicis documentis in sacra doctrina redigendo in obsequium fidei, non miscent aquam vino, sed aquam convertunt in vinum ” (Exp. s. libr. Boethii de Trinitate, 2, 2, 5m). Bonaventura, nell’ottica escatologica in cui si pone,  profetizza la fine della teologia ‘razionale’ e conclude: “Prendi esempio dal beato Francesco, che predicava al Sultano; questi gli propose di fare una disputa con i suoi sacerdoti. Ma Francesco rispose che non si poteva discutere seguendo le leggi della ragione intorno alla fede, perché la fede è superiore alla ragione; e non si poteva discutere per mezzo della Scrittura, perché essi non l’avrebbero accettata. Ma piuttosto lo pregava di accendere un rogo, e vi sarebbe entrato con essi. Pertanto, non si deve mescolare nel vino della sacra Scrittura tanta acqua di filosofia, in modo da trasformare il vino in acqua; questo sarebbe un pessimo miracolo. Infatti, noi leggiamo che Cristo cambiò l’acqua in vino, e non viceversa. Da questo risulta chiaro che ai credenti si può provare la fede, non per mezzo della ragione, ma per mezzo della Scrittura e dei miracoli. Anche nella chiesa primitiva si bruciavano i libri di filosofia. Infatti non si debbono tramutare i pani in pietre” [11].

Potremmo sintetizzare la posizione dei due grandi maestri specificando l’ottica in cui si pongono, il problema che affrontano e le condizioni che presuppongono prima di tentare una nostra valutazione e concludere con un suggerimento di prospettiva che costituisce come la risposta al quesito iniziale.

L’ottica di Bonaventura[12], discepolo appassionato di s. Francesco, come già ho accennato, è escatologica: “Credetemi, verrà ancora tempo, nel quale non varranno niente i vasi dì oro e di argento, cioè gli argomenti; e non vi sarà più difesa per mezzo della ragione, ma solo per mezzo dell’autorità. Onde, come per indicare questo tempo, il Salvatore, quando fu tentato, non si difese per mezzo della ragione, ma per rnezzo dell’autorità; egli che avrebbe saputo difendersi bene per mezzo della ragione. Infatti, volle insegnare che cosa dovrà fare il suo corpo mistico nella tribolazione futura” [13]. Bonaventura è preoccupato di difendere la fede contro l’invasione di una filosofia che stava mettendo a repentaglio l’intelligenza cristiana.

Il problema si origina dalla distinzione tra l’ albero della scienza del bene e del male e l’ albero della vita[14]. E’ facile che l’anima, abbandonando l’albero della vita, cioè la soavità dell’affetto, vada errando intorno alle altre scienze e si allontani tanto che non possa più far ritorno e non gusti più dell’albero della vita con i suoi frutti di sapienza e di carità. Ora, l’intelletto è ordinato all’affetto affinché da speculativo diventi pratico, dalla scienza passi alla sapienza. Il passaggio però non è sicuro; è necessario un termine medio che faccia da collegamento fra i due ed è la santità. Il processo si articola partendo dalla scienza ‘con misura’ in modo da preferire alla scienza la sapienza e la santità. Tuttavia la scienza è necessaria per aver parte ai frutti della sapienza che sono costituiti dall’essere umili ai propri occhi, dal tenere a freno le passioni, dall’ordinare i pensieri e dal portare verso l’alto i desideri. La necessità della scienza è data dal fatto che l’intelletto deve esercitarsi ma lo deve in primo luogo a partire dalle Scritture. Lo studio, l’esercizio dell’intelletto,  Bonaventura lo specifica in quattro punti. Richiede ordine, assiduità, compiacimento e misura.  Si dilunga sull’ordine: prima si devono studiare le Scritture, poi i Libri dei Padri e dei Santi, poi le Sentenze dei Maestri e poi i Filosofi. La successione segue la pericolosità crescente di errore: meno nelle Scritture, massimo nei filosofi[15].

Per Bonaventura resta essenziale cercare la vita, avere la vita e, se prende le distanze dalle conquiste dello spirito umano, lo fa nel tentativo di salvaguardarlo dalle possibili e concrete deviazioni che gli impedirebbero di arrivare al suo obiettivo, quello di gustare la sapienza. Per lui risulta pericoloso concedere troppo alle creature e l’umiltà è tesa a minimizzare il loro ruolo. Di contro, Bonaventura si preoccupa del fascino della proposta cristiana e la sua esposizione è tutto un susseguirsi di allusioni e contemplazioni che tendono a rendere più profondo e gustoso il mistero delle Scritture, il mistero di Dio, il mondo della fede.

L’ottica di Tommaso è la contemplazione della verità, la memoria intelligente di Dio, di una intelligenza che sia mossa dalla carità nel senso che tutto sia visto in relazione a Dio, nel suo ritorno a Lui. Contemplare la verità per Tommaso non è un semplice atto intellettivo perché sottintende sempre che la verità che si vuol contemplare è la verità di Colui che si ama.

Il problema che Tommaso affronta è l’assimilazione della rivelazione. Davanti sta sempre il bisogno di assimilare la verità[16]. Partendo dall’esistenza di obiezioni contro la fede e di erronee interpretazioni di alcuni punti della dottrina, Tommaso rileva due bisogni dell’anima cristiana: a) un bisogno di difendere la verità contestata o sfigurata,  di confutare, di convincere, di persuadere superando così l’obiezione;  b) un bisogno di una maggiore intelligenza della verità per entrare con sempre maggior pienezza nella totalità del mistero. Quanto al bisogno di difendere la verità, si scopre che esistono due livelli di verità: le verità accessibili alla ragione naturale e che si possono difendere validamente a livello razionale e quelle che vanno al di là della possibilità della ragione naturale dove vale il principio del ricorso alle ‘auctoritates’. Ora, ogni tipo di discussione è in vista dell’incontro con l’avversario, in modo da offrirgli delle ‘rationes persuasoriae’ per indurlo a cogliere la plausibilità del mistero, il fatto cioè che del mistero si possa dare una certa qual intelligibilità ( utcumque concipere )[17]. Questo porta a una certa manifestazione della verità e fornisce un aliquid inspicere, un certo fissare lo sguardo sul mistero. E Tommaso nota espressamente “quia de rebus altissimis etiam parva et debili consideratione aliquid posse inspicere iucundissimum est[18]. Non è solo la gioia dell’intelligenza, ma anche della carità, la quale sviluppa un forte desiderio di conoscere, di scoprire delle convenienze interne a quanto la fede propone di credere[19]. E’ il desiderio di accomunare l’interlocutore all’ammirazione per il disegno di Dio a favore dell’uomo. Ed è questa gioia che risponde all’altro bisogno dell’anima cristiana, il bisogno dell’intelligenza della  verità. Si tratta di quell’avidità contemplativa che cerca di ottenere l’intelligenza della verità con considerazioni che tendono a scoprire la radice della verità, il quomodo verum sit, sotto quale modalità ciò è vero, senza di che si ha l’impressione di andarsene a stomaco vuoto[20].

Tommaso fa propria la professione di s. Ilario: “Sono consapevole che il compito principale cui sono tenuto ad applicarmi di fronte a Dio è di far sì che tutti i miei discorsi e tutti i miei pensieri servano ad esprimere il suo mistero” [21].

Il lavoro teologico è al servizio dell’avidità che l’uomo ha, quando è afferrato dalla carità, di entrare pienamente in contatto con la totalità del mistero, raggiungendolo per quanto è possibile in se stesso[22]. Tommaso è tutto proteso all’intelligenza della fede; vuol guardare fino in fondo, nei limiti del possibile. Per lui, dare agli esseri la loro densità significa dare a Dio la sua piena gloria. La condizione è l’interesse per la globalità del mistero, a doppio titolo: tutti gli interessi suoi sono concentrati qui e tutte le cose sono considerate dentro questo interesse.


4       valutazione e suggerimento di  prospettiva

La posizione di Bonaventura può essere definita saggia nel senso che tiene fin troppo bene in conto la fragilità dell’uomo di cui si propone la salvaguardia perché possa gustare la sapienza in verità e avere la vita. La difesa della fede, in Bonaventura, si accompagna con l’esposizione affascinante della proposta di fede (dovrebbero ricordarlo tutti quelli che si sentono investiti del compito di salvaguardare la fede: non basta ricordare i dati della fede; occorre anche saper esprimere il fascino della proposta di fede!).

La posizione di Tommaso può essere definita audace[23] nel senso che è attirato dalla profondità del mistero che è svelato allo sguardo dell’uomo e di cui costituisce la beatitudine. Non semplicemente quella di conoscere, come se il meglio dell’uomo consistesse semplicemente nel suo ‘intelligere’, senza tener conto dell’intensità del suo desiderio e del suo amore, ma di conoscere Colui che si ama, con quello sguardo che proviene dall’intelligenza dello spirito tutto teso alla comunione[24]. La tensione all’intelligenza della fede si accompagna all’interesse per la totalità del mistero: intelligenza e ‘cattolicità’, secondo la radice greca del termine (kath olon, ‘secondo l’insieme’ tanto in estensione di spazio e tempo quanto in profondità ed interezza), non possono essere disgiunte (dovrebbero ricordarlo tutti quelli che si sentono all’altezza di una audace intelligenza della fede: senza tenere la totalità del mistero e questa a doppio titolo, vale a dire concentrando tutto il proprio interesse per l’intelligenza di questo mistero e considerando ogni cosa nell’ottica di questo mistero, accolto nella totalità di una tradizione vivente, l’acutezza del proprio guardare si riduce ad una smania di novità senza profondità!). Il famoso ‘contemplata aliis tradere’ non significa semplicemente: dopo aver contemplato una verità, la puoi trasmettere agli altri. Il momento contemplativo è già un momento ‘predicante’, come il momento ‘predicante’ è ancora un momento contemplativo, nel senso che la contemplazione non può che essere partecipata a tutto il mio essere e a tutti contemporaneamente perché tutti ci ritroviamo concordi nello stesso sguardo di beatitudine, nella condivisione della stessa ammirazione per il grande disegno di amore per l’uomo da parte di Dio, in Cristo. La contemplazione non può che riguardare tutto l’essere dell’uomo ed essere ecclesiale per natura sua.

Di qui scaturisce una prospettiva che può guidare il nostro procedere interiore verso Dio tenendo insieme la dimensione intellettuale e spirituale. La formulerei in quattro punti:

  1. a) la dinamica spirituale non è duale, ma ternaria. Il contemplare non è in funzione del fare; piuttosto, è l’agire che è in funzione del vedere, nel senso che la dinamica dell’intelligenza di fede si struttura in : conoscere – fare – vedere oppure in: sapere – agire – conoscere. Come per l’intelligenza delle Scritture, la dinamica non si riduce ad un capire per poi mettere in pratica, ma più precisamente: leggere – praticare – comprendere e non come comunemente si sarebbe indotti a pensare: leggere – comprendere – praticare. Come a dire: l’azione buona non è l’ultimo obiettivo. Il fare il bene è in vista del conoscere nel senso di quel conoscere esperienziale, di quel conoscere Colui che si ama, di quel conoscere in intimità, in comunione, dal di dentro. Solo qui si ha il superamento di ogni intellettualismo o di ogni spiritualismo. Qui sta la forza del comandamento divino che non è semplicemente una istruzione etica, bensì una partecipazione ad una intimità di vita. Per questo la tradizione, a proposito delle Scritture, non insiste tanto su una comprensione da avere, ma su una potenza da assimilare.
  2. b) la nota di ‘cattolicità’ della Chiesa, secondo l’accezione greca del termine come è professata nel Simbolo di fede, è sempre da scoprire, da assumere, da vivere, da testimoniare da parte di tutti e di tutte le Chiese. Dio ha fatto grazia di Sé in Cristo (cfr. Ef 4,32), non a te o a me, ma a te come a me, a voi come a noi, a te perché possa farla scoprire a me, a tutti, vicendevolmente. Questa ‘cattolicità’ viene mai assunta a criterio veritativo di discernimento per il nostro agire e sentire ecclesiale, per la nostra intelligenza di fede? L’esercizio dell’intelligenza comporta sempre un esercizio di ‘cattolicità’ e viceversa. Il dimenticarsene, permette alle nostre paure o presunzioni di avere il sopravvento. E questo non lede solamente l’intelligenza della fede, ma anche la fraternità ecclesiale e umana e mina la credibilità dell’annuncio del vangelo.
  3. c) È ancora questa ‘cattolicità’ che induce ad inserire l’elemento ‘tempo’ nella tradizione e a coniugarlo anche al futuro. Il Vangelo è l’eredità delle genti. Non è forse così terribilmente e tragicamente facile ingombrare la bellezza e la verità evangeliche con l’impedire al futuro di ereditarle per la nostra miopia? Un’ascesi del pensare è altrettanto necessaria quanto un’ascesi del volere, ma in funzione evangelizzante. Il lavoro che attende la Chiesa è quello di riflettere sul destino della verità in un mondo sempre più pluralista e di rendere amabile ciò che il vero implica, in vista di una fraternità rinnovata segnata dalla grazia della Rivelazione. Ma anche quello di imparare a volere. Più che cercare di ‘volere bene a qualcuno’, dove bene è il complemento oggetto del volere, si dovrebbe imparare a ‘volere bene qualcuno’, dove bene è un avverbio che esprime il modo adeguato di volere che qualcuno o qualcosa siano. Un’ascesi che tenda a generare un nuovo modo di volere in cui l’accento non sia posto tanto sull’affermazione di sé quanto sulla disponibilità a servire ciò che è voluto, ad accompagnarlo al suo destino, servitori e testimoni di un mistero che ci supera e ci racchiude. È il ruolo della Chiesa nel mondo, antico e sempre nuovo, oggi riscoperto in una dimensione di fede più umile. Dio non ha abbandonato il mondo e alla Chiesa tocca il compito di testimoniarne la Presenza tra i suoi figli con la maggior trasparenza possibile. È la sapienza di una visione, capace di farsi lievito di evangelizzazione per offrire nuova speranza al mondo. Ogni difesa della fede o ogni audacia nell’intelligenza della fede deve evitare di ostacolare l’accesso al vangelo o di annacquare il vangelo.
  4. d) il teologo, il credente, alla fin fine e più di tutto, è il testimone della gioia[25] di Dio che ha fatto conoscere la profondità del suo amore per l’uomo. Se si combatte con un avversario è per chiedergli la benedizione, perché si desidera ricevere ciò che può dare. Se ci si oppone al mondo non è per cambiarlo con il nostro volere; sarebbe impresa vana, tragica, il trionfo dell’ideologia e non della santità cristiana, ma per aprirlo allo splendore di Dio, solidali con l’umanità e con il creato. Per usare un’espressione del p. Timothy Radcliffe, il teologo guarisce le ferite della chiesa liberandoci dalle strette dell’ideologia in modo da poter essere liberi per la gioia di incontrare Dio nelle altre persone[26].

Concludo ricordando un aneddoto della vita dello sceicco musulmano Abu Sa’id (967-1049), un uomo carismatico di grande levatura. Si narra del fascino che abbia esercitato su un promettente discepolo dell’Imam Bu Mohammed Djoveyni, famoso legista coranico, tanto da indurlo a lasciare gli studi per mettersi alla sua scuola. Saputolo, Djoveyni gli disse: “Io non ti impedirò di raggiungere lo sceicco. Che tu abbia trovato il suo livello mistico superiore alla tua scienza, va bene, ma se tu immagini che anche tu diventerai lo sceicco Abu Sa’id, ti sbagli. Tu non conosci gli esercizi di mortificazione e le lotte di purificazione spirituale che lui ha compiuto. Noi sappiamo che cosa ha fatto per raggiungere quel livello spirituale. Se tu abbandonerai i tuoi studi, ti priverai della scienza, senza peraltro raggiungere il livello spirituale dello sceicco”. E il discepolo ci ripensò e proseguì con assiduità i suoi studi, ed insieme frequentando la compagnia di Abu Sa’id[27].

Ognuno ha la sua misura. Come dice Bonaventura: “Non volere sforzarti più di quanto possa salire il tuo ingegno; ma neppure rimani al di sotto delle tue possibilità”[28]. E questo tanto in saggezza quanto in audacia.

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[1] Mi sono servito, come saggio storico,  del vol. 5 della nuova Storia del cristianesimo, a cura di J.-M. Mayeur, Ch. et L. Pietri, A. Vauchez, M. Venard, ed. italiana a cura di G. Alberigo, dal titolo Apogeo del papato ed espansione della cristianità (1054-1274), Roma 1997. E moltissimo devo agli studi di Marie-Dominique Chenu, OP, in particolare ai suoi St. Thomas d’Aquin et la théologie, Parigi 1959; Introduction à l’étude de saint Thomas d’Aquin, Montréal-Parigi 1954, 2° ed.

[2] Chenu, nel suo Introduction à l’étude de saint Thomas d’Aquin, Montréal-Paris 1954, 2° ed., p. 22, riporta un testo assai interessante: “Car c’est à Paris que s’accomplit le transitus hellenismi ad Christianismum. Thomas d’Irlande, 0. P., à la fin du XIII siècle, fixera ainsi (sans oublier son pays) le thème de cette histoire symbolique de la culture : « Le bienheureux Denys… vint à Paris pour faire de cette ville la mère des études, à l’instar d’Athènes. La ville de Paris, est, comme Athènes, divisée en trois parties : l’une celle des marchands, des artisans et du populaire, qu’oa appelle la grande ville (magna villa) ; l’autre, celle des nobles hommes, où est la cour du roi et l’église cathédrale, qu’on appelle la Cité ; la troisième, celle des étudiants et des collèges qu’on appelle l’Université. Les études furent d’abord transférées de la Grèce à Rome, ensuite de Rome à Paris, au temps de Charlemagne, vers l’an 800, et l’école de Paris eut quatre fondateurs : Raban, Claude, Alcuin, maître du roi Charles, et Jean surnommé Scot, né toutefois en Irlande, l’Irlande étant la grande Écosse, lequel Jean fut un des quatre commentateurs du bienheureux Denys, car ses livres ont été quatre fois commentés par Jean Scot, Jean Sarrazin, Maxime et Hugues de Saint‑Victor ». De tribus sensibus S. Scripturae, Ms. Paris Nat. 15966 (cité Hist. litt. de la France, XXX, p. 406).

[3] Una visione sistematica sui ‘luoghi teologici’ è stata formulata per primo dal teologo domenicano di Salamanca Melchior Cano (1509-1560) nella sua opera De locis theologicis, pubblicata postuma nel 1563. ‘Luogo’ è una referenza che costituisce un’autorità per la determinazione della dottrina cristiana. Cfr. BERNARD SESBOÜÉ  e CHRISTOPH THEOBALD, Storia dei dogmi, IV, La parola della salvezza, XVI-XX secolo, Dottrina della Parola di Dio, Rivelazione, Fede, Scrittura, Tradizione, Magistero, Casale Monf.to (AL) 1998, p. 147-154.

[4] Aristotele, in traduzione latina dall’arabo, arriva mediato dal neoplatonismo e mescolato alla speculazione araba, specialmente quella di Avicenna (980-1037), di stirpe e di lingua persiana e poi quella di Averroé (1126-1198), filosofo di Cordova, in Andalusia. In particolare, su Avicenna, cfr. Encyclopédie de l’Islam, tome III, nouvelle édition, Leyde-Paris 1971, p. 965-972. Interessante l’aneddoto riportato nella vita di Abu Sa’id (967-1049), grande mistico del Khorasan, la patria di Avicenna. A Nishapur i due, il filosofo e il mistico, si incontrano per tre giorni e alla fine i discepoli di Abu Sa’id chiedono al loro maestro: “Come hai trovato Avicenna?”. Il maestro risponde: “Tutto ciò che io vedo, lui lo sa”. Ed i discepoli di Avicenna chiedono: “Come hai trovato Abu Sa’id?”. Al che risponde: “Tutto ciò che io so, lui lo vede”. Cfr. Mohammed Ebn E. MONAWWAR Les étapes mystiques du shaykh Abu Sa’id. Mystères de la connaissance de l’Unique, trad. du persan et notes par M. Achena, 1974, DDB, p. 199-200.

[5] Bonaventura opta per la sapienza cristiana oltre la scienza, mentre Tommaso, più coraggiosamente, non distacca la scienza dalla sapienza. Vedi infra.

[6] Cfr. J. RATZINGER, San Bonaventura. La teologia della storia, Firenze1991, p. 31.

[7] Su Bonaventura, sulle sue opere e sulla bibliografia relativa vedi Jacques Guy BOUGEROL, Opere di san Bonaventura. Introduzione generale, Roma 1990 (l’edizione latino-italiana, a cura di J. G. Bougerol, C. Del Zotto e L. Sileo, condotta sulla edizione critica fatta dai Padri del Collegio S. Bonaventura di Quaracchi-Firenze, 1882-1902, appartiene all’iniziativa della Conferenza Italiana Ministri Provinciali O.F.M. e dell’editrice Città Nuova).

[8] “Perfectio effectus demonstrat perfectionem causae: maior enim virtus perfectiorem effectum inducit. Deus autem est perfectissimum agens. Oportet igitur quod res ab ipso creatae perfectionem ab ipso consequantur. Detrahere ergo perfectioni creaturarum est detrahere perfectioni divinae virtutis” aveva scritto Tommaso pochi anni prima nella Summa contra Gentiles, lib. III,c. 69.

[9] La metodologia intellettuale di Tommaso è riassunta nell’espressione: “judicium de unaquaque re fit secundum propria principia ejus”, Summa theologica I-II, q. 57, art. 6, ad 3.

[10] Nelle Quaestiones disputatae de potentia, q. 3, art. 10, dove si discute se l’anima razionale sia creata in un corpo o al di fuori di un corpo, risponde all’obiezione che l’anima, essendo impedita nella sua operazione dal corpo, non può essere unita al corpo ‘naturaliter’ : “Natura corporis non aggravat animam, sed eius corruptio” (ad 17). Né l’immortalità dell’anima né la contemplazione né la vita interiore né la dignità assoluta della persona né la libertà sono minacciate dalla unione ‘naturale’ del corpo e dell’anima, poiché lo spirito, nel composto umano, resta soggetto di essere e principio di sussistenza.

[11] S. BONAVENTURA, La sapienza cristiana. Collationes in Hexaemeron, XIX, 14, Milano 1985, p. 265.

[12] Intendo semplicemente gettare una sonda nel pozzo di sapienza di questo grande teologo a partire dalla sua ultima opera, le Collationes in Hexaemeron.

[13] Collationes, XVII, 28, p. 244.

[14] Cfr. Collationes, XVIII, 3, p. 246.

[15] Cfr. Collationes XIX, p. 259-270.

[16] Una buona presentazione dell’ottica con cui Tommaso considera il lavoro teologico è offerta da A. PATFORT, Tommaso d’Aquino. Introduzione a una teologia, Genova 1988. I tre luoghi principali in cui Tommaso affronta i compiti specifici della teologia sono: Exp. Super librum Boethii De Trin., q. 2, aa. 1-3 ; Summa contra Gentiles, lib. I, capp. 1-9 ; Quodl. 4, q. 9, a. 3.

[17] Cfr. Summa contra Gentiles, lib. IV, c. 13 e c. 19.

[18] Idem, lib. I, c. 8.

[19] Cfr. Summa theologica II-II, q. 2, a 10.

[20] Cfr. Summa theologica II-II, q. 180, a. 1; Quodl. 4, q. 9, a. 3.

[21] De Trin. I, 37  (PL 10, 48D).

[22] Vedi PATFORT, Tommaso d’Aquino. Introduzione a una teologia, p. 13-20.

[23] L’audacia non significa mancanza di saggezza. Esprime soltanto la profondità di una intuizione che non ha paura di nulla tanto è fiduciosa nella forza della propria visione di fede. Degni di interesse sono i suggerimenti ad uno studente attribuiti a Tommaso, benché io non sia in grado di precisare ulteriormente la fonte: “Carissimo,  giacché mi hai chiesto in che modo tu debba applicarti allo studio per acquistare il tesoro della scienza, ecco in proposito il mio consiglio: non voler entrare subito in mare, ma arrivaci attraverso i ruscelli, perché è dalle cose più facili che bisogna pervenire alle più difficili. Questo è dunque l’avviso mio, che ti servirà di regola. Voglio che tu eviti i discorsi inutili; abbi purezza di coscienza; non trascurare la preghiera; ama il raccoglimento; sii cordiale con tutti; non essere curioso dei fatti altrui; non avere eccessiva familiarità con alcuno, perché essa genera disprezzo e dà occasione di trascurare lo studio; non divagare su tutto; cerca di imitare gli esempi delle persone rette; non guardare chi è colui che parla, ma tieni a mente tutto ciò che di buono egli dice; procura di comprendere ciò che leggi e ascolti; certificati delle cose dubbie e studiati di disporre nello scrigno della memoria tutto ciò che ti sarà possibile; non cercare, infine, cose superiori alla tua capacità. Seguendo queste norme, metterai fronde e produrrai utili frutti dove il Signore ti ha destinato a vivere. Mettendo in pratica questi insegnamenti, potrai raggiungere la meta alla quale tu aspiri. Addio”. E una preghiera dice: O Signore, dammi acutezza nell’intendere, capacità nel ritenere, ordine e facilità nell’apprendere, sottigliezza nell’interpretare e nel parlare.

[24] Interessante è la risposta, a proposito della missione delle Persone divine, all’obiezione che i doni che perfezionano l’intelletto non sono i doni di grazia santificante. Vedi Summa theologica I, q. 43, a. 5, ad 2: “ L’anima mediante la grazia diviene conforme a Dio. Quindi perchè [si possa dire che] una Persona divina è inviata mediante la grazia a una creatura, è necessario che quest’ultima per qualche dono di grazia diventi simile alla Persona divina inviata. Ora, poichè lo Spirito Santo è Amore, mediante il dono della carità l’anima diventa simile a lui: quindi in vista del dono della carità si ha la missione dello Spirito Santo. Invece il Figlio è Verbo, ma non un verbo qualunque, bensì un verbo che spira l’Amore: cosicchè S. Agostino può affermare: «Il Verbo di cui ragioniamo è una cognizione piena di amore ». Quindi il Figlio non è inviato per un perfezionamento qualsiasi dell’ intelletto: ma solo per quell’insegnamento da cui prorompe l’amore,  come dice la Scrittura: «chiunque ha udito il Padre ed ha appreso, viene a me »; e altrove: « un fuoco divampò nelle mie considerazioni». Per questo S. Agostino espressamente afferma: «il Figlio è mandato quando da qualcuno è conosciuto e percepito» ; e qui percezione indica una certa cognizione sperimentale. E questa propriamente viene chiamata sapienza, quasi sapida scientia, [ossia scienza gustosa], come sta scritto: «la sapienza della dottrina corrisponde al suo nome »” (La Somma teologica, ed. Salani, vol. III, p. 344).

[25]  Si veda la bellissima lettera del Maestro dell’Ordine, Fr. Timothy Radcliffe, ai domenicani : La perenne sorgente della speranza. Lo studio e l’annuncio della buona novella, Roma 1995.

[26] Cfr. RADCLIFFE, Felicità della teologia, in  REGNO 12/1999, p. 378.

[27] Vedi MONAWWAR, Mohammed Ebn E., Les étapes mystiques du shaykh Abu Sa’id. Mystères de la connaissance de l’Unique, Trad. du persan et notes par M. Achena, 1974, DDB, p. 138-9.

[28] Collationes, XIX, 19, p. 267.