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Santità e vita nello Spirito nella tradizione orientale e occidentale

Assisi, 5-8 settembre 1997

Gli eletti, nella visione dell’Apocalisse, portano in fronte il sigillo del Dio vivente e proclamano: “La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all’Agnello” (Apoc 7,10). La proclamazione, a livello sonoro, esprime quello che il tau significa a livello visivo: Dio è santo, a Lui la salvezza! Il sigillo e le parole rivelano la comprensione di Dio da parte degli uomini secondo la definizione giovannea: Dio è amore (1Gv 4,8). Come a dire: ora sappiamo per esperienza che il Dio che conosciamo è un Dio pieno di amore per noi! Ora ammiriamo la sua gloria nel vedere che Lui è tutto in tutti. E’ appunto lo splendore che emana da questa rivelazione al cuore dell’uomo a testimoniare la presenza della santità di Dio in mezzo agli uomini. Così intendo la visione di frate Pacifico quando scorge risplendere luminosissimo sulla fronte di Francesco il sigillo a forma di tau[1].

La santità dell’amore che parla al cuore degli uomini è quella che li fa sentire degni di essere amati e non semplicemente che sono oggetto di amore. L’amore ‘buono’, di quella bontà alla quale alludeva Gesù quando diceva ‘nessuno è buono, se non Dio solo’ (Mc 10,18), è quello animato solo dal desiderio che Dio sia tutto in tutti, allorquando il desiderio di ciascuno è compiuto nella totalità dell’esistenza di tutti. È l’esperienza di tale amore a trasformare la massa degli uomini nella moltitudine degli eletti, la somma degli individui in comunione di fraternità, la famiglia umana nella chiesa di Dio. Mi sembra essere proprio questo il compito, il senso della santità, segno della presenza di Dio tra i suoi.

Un santo non sa di esserlo, ma gli altri ne colgono lo splendore, la grazia per la loro umanità. Evidentemente parlare di santità, sebbene sfiorandola solamente attraverso il linguaggio che ce ne nasconde la realtà, suona come una millanteria. E di fatto lo è. L’unica ragione a giustificare la pretesa sarebbe quella di credere che cercare di far sognare la santità, anche solo per un attimo, contribuisce al bene dell’umanità.

La santità non fa più sognare.       

Parto proprio da questa costatazione: la santità non fa più sognare. Permettete l’aggiunta: la santità cristiana non fa più sognare. Possiamo rispondere affermativamente, senza barare, alla domanda se ci sia davvero ancora qualcosa che ci fa ardere il cuore come ai discepoli sulla via di Emmaus? Corrisponde a verità la sensazione diffusa che pare ormai tanto smorta quella fiamma che avrebbe dovuto incendiare il mondo?

Nel 1946 la rivista Vie Spirituelle  pubblicava i risultati di un’inchiesta sul tema: “Verso quale tipo di santità stiamo andando?”. Si era all’indomani della guerra. Le risposte, in un linguaggio che non aveva nulla dell’oleografia a cui avevano abituato i libri di vita spirituale, spostavano l’accento da un tipo di santità straordinaria, riservata ad una piccola élite mentre la massa del popolo cristiano si limitava a conformarsi a un ideale morale, riflettente la gerarchia tradizionale degli ‘stati di perfezione’ a un tipo di santità ordinario, appartenente alla normalità della vita con tutte le sue implicazioni, aperto a tutti e rispondente alle aspirazioni dei cuori di fronte ai tormenti e alle sfide della storia. Il Concilio Vaticano II, con il cap. 5 della Lumen Gentium[2], consacrava come acquisito in modo nuovo alla coscienza ecclesiale il dato tradizionale della universale vocazione alla santità nella chiesa. Paradossalmente, negli anni successivi, si registrava nettissimo il declino del culto dei santi a favore, giustamente, della centralità della Parola di Dio e della figura di Cristo, ma con la conseguenza o, forse meglio, la concomitanza, della messa in sordina dello stesso ideale di santità, come se la possibilità dell’esperienza stessa di Dio, tratto peculiare della santità, non fosse più percepito come costitutivo dell’essere cristiani e dell’essere chiesa. E’ vero che Dio non fa mai mancare i suoi santi, ma quelli che parlano al cuore degli uomini non sono più o non sono sempre i medesimi del santorale ufficialmente riconosciuto. Segno di deriva, spia di un malessere o attesa da parte dei cuori di altre risposte?

La mia riflessione si colloca secondo un preciso punto di osservazione. Ho l’impressione che nella chiesa ci si sforza di aprire la parola di Dio ai cuori, ma non altrettanto di aprire i cuori alla parola di Dio. Anzi, credo sia proprio questo oggi il preciso compito pastorale della chiesa. La mia riflessione vorrebbe essere un tentativo di aprire come uno spiraglio per riconciliare i cuori con l’ideale di santità e permettere loro di coglierlo a partire dalle loro stesse esigenze, così come oggi sono percepite. Lo sforzo sarebbe quello di riuscire a cogliere l’esperienza interiore che soggiace ai condizionamenti ed alla sensibilità attuali per riscattarne l’anelito di fondo, l’energia positiva e ‘compierla’ in verità. Senza un’operazione del genere la coscienza fatica a ritrovare negli ideali di sempre significatività e rilevanza.

Sembra che le immagini tradizionali di santità che agiscono come clichés mentali non interessino più le energie vive della coscienza moderna, che si direbbe alimentarsi altrove. Ho provato ad interrogarmi e ad interrogare le persone più diverse su chi sia un santo o su come ce lo si immagina oggi. Emerge l’immagine stereotipa, ingombrante, senza più presa sull’immaginario interiore, del santo come dell’uomo ‘perfetto’, al di sopra delle fragilità e dei tormenti dell’esistenza, un modello impossibile da imitare o comunque tanto distante che non concerne più la nostra vita vera. E’ l’immagine a sfondo moralistico che tiene ancora banco nelle pieghe della coscienza cristiana. Santità confusa con perfezione, dove perfezione è intesa riduttivamente come ideale morale e basta. Di contro, si vorrebbe suggerire la figura possibile di un santo nei termini di un ideale che la modernità ha evidenziato con prepotenza e che si presenta con la forza di ciò a cui non si può rinunciare, l’ideale della autenticità, della realizzazione di se stessi, della fedeltà a se stessi nella totalità di un impegno di vita, figura, questa, che ispira fascino e ammirazione. A differenza di cinquant’anni fa, non ci si stupisce di trovare un ‘santo’ oltre i confini della chiesa o della propria chiesa; non fa problema ammirare esperienze e persone in contesti differenti, nelle più disparate situazioni di vita e in religioni diverse. E ciò accresce la difficoltà di riconoscersi globalmente e significativamente in quelle esperienze, spesso in contrasto con le proprie radici. Di qui il senso di frammentazione e confusione dell’umanità nella nostra società.

In generale, direi che un ‘santo’ è sentito oggi in funzione della nostra come della sua umanità. Non più un modello da imitare, ma un compagno di viaggio, un battitore di strada; non più un essere perfetto, ma un uomo coerente e coraggioso, retto e generoso, capace di custodire la speranza per tutti; più che rapito in Dio, si vorrebbe sentirlo accanto a noi, nella nostra umanità ferita, come segno tangibile della misericordia di Dio per gli uomini; più che l’eroismo delle sue virtù, si ammira la sincerità della radicalità del dono di sé, della sua scelta di vita a fianco degli uomini, in nome del suo Dio. E’ un sentire il santo dalla nostra parte più che dalla parte di Dio. Evidentemente, si tratta di proiezioni della nostra coscienza, di cui però è urgente cogliere gli ideali positivi perseguiti,  con l’esercizio di un retto discernimento.

 

La trasformazione del linguaggio.

Emerge qui il problema della trasformazione del linguaggio. A tutti i livelli, nell’individuo come nella società, nel mondo come nella chiesa, la variazione dei modelli culturali si afferra attraverso il linguaggio. Non si tratta di un semplice adeguamento al nuovo modo di sentire; vi è sottesa la forza di ideali che hanno presa nella coscienza e di cui bisogna articolare le esigenze e le dinamiche perché si sviluppino e si concretizzino adeguatamente. Per sua natura, il linguaggio comporta una ambiguità di fondo che va svelata in rapporto proprio all’ideale che sottende. La coscienza odierna è estremamente sensibile alla cultura cosiddetta dell’autenticità[3], dove l’aspirazione all’auto-realizzazione non deve essere vista come una concessione all’individualismo, all’egoismo autoindulgente, permissivo, ma in funzione di un certo ideale che ha presa sulla coscienza stessa. Nel definire il  movimento dalle molte facce che caratterizza la nostra cultura e che si potrebbe chiamare ‘soggettivizzazione’, occorre distinguere due aspetti tra i quali corre una differenza importante: uno concerne la maniera e l’altro il contenuto dell’azione. A livello della maniera in cui abbracciamo una qualunque meta o forma di vita, l’autenticità è palesemente auto-referenziale: l’orientamento che scelgo deve essere il mio orientamento. Ma ciò non significa che, ad un altro livello, il contenuto debba essere anch’esso auto-referenziale. Anzi, l’appagamento si ottiene solamente in qualcosa che ha un significato oltre e indipendentemente da noi o dai nostri desideri. Confondere questi due livelli è disastroso.  Solamente il primo è ineluttabile, nel senso che è inammissibile un ritorno all’indietro che ci riporti a prima dell’epoca dell’autenticità, mentre il secondo, se viene confuso col primo, finisce per fornire legittimità alle peggiori forme di soggettivismo.

I termini precisi del problema per la coscienza moderna credo siano i seguenti: se l’autenticità significa recuperare un contatto morale autentico con noi stessi, che è fonte di gioia e di appagamento, se significa essere fedeli a noi stessi, allora si può trovare compiutamente la  propria realizzazione soltanto se riconosciamo che questa tensione interiore ci congiunge a una totalità più ampia. Noi abbiamo perso  il senso di appartenenza operante attraverso un sistema dato di valori  e questa perdita va compensata con il senso, più forte e più intimo, di un legame. Al di là del discorso culturale, che qui non ci interessa, l’ideale di santità lo porrei qui a condensare e a svelare la forza e l’intimità di quel legame che ci viene dall’alto e ci costituisce nell’intimo.  Rientra nella capacità e nel dovere di mediazione della chiesa, attenta alla voce di Dio e alle esigenze dei cuori, proporre questo ideale di santità in tutta la sua rilevanza. La posta in gioco è la vivacità stessa della trasmissione della fede. Chiaramente la più convincente articolazione di quel ‘legame’ per gli uomini del nostro tempo appartiene alla genialità e fecondità dell’esperienza cristiana  testimoniata dai santi in carne ed ossa. E quando preghiamo perché il Padre mandi operai per la sua messe (cfr. Lc 10,2) preghiamo Dio perché continui a fare dono di Sé agli uomini attraverso i suoi santi, come ha fatto dono di Sé nel Figlio, il Santo, che ha rivelato il Suo volto agli uomini.

Il fenomeno della trasformazione del linguaggio si osserva naturalmente anche nella chiesa, nella coscienza dei credenti. Ad esempio, per stare al nostro tema, quanto è significativo che nei documenti del concilio Vaticano II non sono tematizzati i concetti di ascesi e di vita ascetica che si ritrovano citati soltanto quattro volte, due a proposito delle religioni non cristiane e due in riferimento alla vita sacerdotale?[4]. Come comprendere il fatto che termini e valori come ‘pace, uguaglianza, libertà’’, che pure sono così affini al sentire evangelico ed oggi così irrinunciabili, per lungo tempo sono stati negati dalla chiesa come istituzione? Oggi la chiesa si trova ad usare il termine ‘solidarietà’, di origine profana, per indicare un atteggiamento chiaramente evangelico come quello della giustizia e della carità insieme. Sarebbe riduttivo, frutto di atteggiamenti nostalgici o malevoli,  vedere in questo solo una specie di adeguamento, di accomodamento alla cultura o, peggio ancora, alla sensibilità del momento, sebbene un certo stile di parola e di azione nella chiesa faccia pensare più al tentativo di catturare il consenso che allo sforzo di arrivare con risposte vive alla domanda vera dei cuori. In effetti, quando la risposta si appiattisce su una domanda fasulla, il dialogo o il confronto non è interessante per nessuno e non scaturisce nessuna verità per il cuore.

 

L’ideale di santità ha mutato prospettiva.

Dietro la trasformazione del linguaggio sta una trasformazione di prospettiva, di orizzonte interiore e la trasformazione opera nel senso di un allargamento, di un’estensione dei confini interiori. 

L’ideale di santità deve poter rispondere alle attese dei cuori nella nostra società, attese che io specificherei attorno a tre bisogni e a una grande paura.

Primo, il bisogno di senso. Gli uomini di oggi non hanno più il senso di uno scopo superiore, qualcosa per cui valga la pena di morire. Concentrandoci sulle proprie vite individuali, abbiamo perso la visione più ampia di un’appartenenza ad un insieme significativo e fonte di significato. Ciò appiattisce e restringe le nostre vite, impoverendone il significato. E’ inevitabile uno scadimento della tensione etica, che rafforza questa chiusura d’orizzonti sull’io, sempre più in balia delle sue ossessioni. In effetti, alla perdita di senso si accompagna sempre una forma di ir-responsabilità, cioè di non risposta di fronte alle questioni che trascendono l’individuo. Il riapparire del ‘religioso’, anche nelle sue forme più assurde, assolve al bisogno di senso, spesso però in maniera tragicamente illusoria (vedi il proliferare di sette e movimenti dalle qualifiche più fantasiose). Rispondere al bisogno di senso significa ridare capacità di responsabilità come portatori di un compito che ci trascende e ci rivela a noi stessi. A tale riguardo, come suona sentimentale l’ammissione che oggi si sente spesso ripetere di fronte ai gravi problemi sociali del mondo: “siamo tutti responsabili”, (intendendo, nessuno ha colpa, nessuno può fare nulla) dall’ammissione di un santo: “io sono responsabile del peccato del mio prossimo”, dove l’amore che porta agli altri fratelli dà loro dei diritti su di lui!

Secondo, il bisogno di interiorità. La tendenza alla valorizzazione del soggetto nella nostra cultura è un fatto ricco di conseguenze positive, ma in pratica spesso si risolve in una specie di relativismo dove il soggetto si sente arbitro non solo dell’agire, ma del suo essere. E’ l’illusione di definirsi in base a ciò che si sente senza voler o poter raccordare ciò che si sente a uno scopo e a un compito che ci precede e ci interpella. Si finisce col restare prigionieri della propria soggettività, dilatata all’infinito fino alla vacuità, senza più radici, senza più identità. La conseguenza, per quanto strana possa sembrare, è che il soggetto non è più capace di intimità, non sa più vivere in intimità né con se stesso né con Dio né con gli altri né con le cose. Dove si stempera l’identità non può esserci intimità. Ma il desiderio di intimità come della propria identità è costitutivo del nostro essere. Così, alla illusione di una dilatazione interiore fasulla, si accompagna il desiderio di una interiorità autentica, che si traduce nel rifiuto della vacuità, nel desiderio di essenzialità, nella disponibilità a cercare un cammino spirituale che dia ragione delle aspirazioni del nostro cuore e si configuri come un riappropriarsi della totalità del nostro essere. Quando abbiamo la fortuna di cogliere la santità in un  uomo notiamo subito questa capacità di intimità che comunica calore e  rivela quanto naturalmente abbia investito la sua capacità emozionale al livello spirituale.

Terzo, il bisogno di comunione. La perdita di senso e di interiorità lascia gli individui troppo distanti tra loro e nell’impossibilità di superare la distanza. Troppo preoccupati dei propri diritti, non ci si accorge dello scadimento di livello nel difenderli perché, invece di lottare in nome dell’essere,  finiamo per lottare solo per l’avere, nell’illusione che il possesso ci porti all’essere. Se per il possesso agire con la forza della rivendicazione porta a qualche risultato, nell’essere rivendicare, esigere e difendere porta al fallimento. In effetti, insieme all’affermazione di se stessi sta l’incapacità del dono di sé, l’incapacità di un rapporto in gratuità e gratitudine, vera porta d’ingresso al mistero della comunione e della riscoperta delle radici del proprio cuore. Non è forse quello che fa presagire un uomo che sentiamo lambito dalla santità allorquando scopriamo che ha un cuore più vasto del suo interesse personale, che oltre a farci sentire il bene di cui è capace senza nulla in cambio, ci rende a nostra volta capaci di agire similmente? Si apre allora una finestra sul mistero stesso di Dio. Scoprire Dio passa spesso attraverso lo scoprire la Fonte e il Nome di quel bene. Tutto quello che succede al cuore dopo questa scoperta resta  segreto, ma la sensazione sicura è che il mondo è diventato più vivibile ed umano.

Parlavo prima anche di una grande paura, la paura di perdere la propria umanità. Evocare la santità significa il più delle volte provocare la resistenza della nostra umanità. Non alludo qui evidentemente alla contrapposizione tra la carne e lo spirito che contrassegnerà sempre ogni vita umana, ma al timore indotto da una certa visione delle cose. Nel sentire comune, ricercare la santità equivale a fuggire, a staccarsi dalla propria umanità. La difficoltà di credito e di amabilità che trova oggi la virtù dell’umiltà ne è il segnale più evidente. Mettersi dalla parte di Dio pare comportare l’alienazione della propria personale e concreta umanità, per cui la necessaria rinuncia a se stessi è temuta risolversi in un processo che porta a ritrovarci ‘sfigurati’, non già ‘trasfigurati’. E’ venuta meno la sapienza di una visione che non dà più ragione dei vari spezzoni  religiosi incagliati nella coscienza. E tutto fa resistenza; il cuore non sa più liberare i suoi desideri e le sue energie.

 Tre sono allora gli elementi che mi sembrano qualificare  l’allargamento dei confini interiori scaturito da quella trasformazione in atto dell’ideale di santità che sto cercando di illustrare:

–  il fatto di percepire la santità  come una santità nel mondo, non più in fuga dal mondo

–  il fatto di percepirla come una potenza di trasfigurazione, non tanto un effetto dello spirito di mortificazione     

– il fatto di fondarla sulla fede, non più sulla morale.

Anzitutto, santità nel mondo. Se la santità verrà avvertita come una fuga dall’umanità, non sarà mai desiderata. L’ideale non agisce più nel senso di sottolineare la fuga dal mondo il più radicalmente possibile, bensì nel senso di testimoniare una Presenza con la maggior trasparenza possibile. Siamo chiamati più a scoprire e a far scoprire che Dio non ha abbandonato il mondo che non a preferire Dio al mondo. E quando dico santità nel mondo non intendo solo il mondo dell’umanità, della società e della storia degli uomini, con tutto il carico di dolore e di ingiustizie che caratterizza le vicende umane, ma anche il mondo della mia umanità, della mia storia personale, delle mie debolezze. L’illusione di dedicarsi al prossimo o di cercare Dio fuggendo da noi stessi rivela il disprezzo che ci inchioda al nostro limite, l’incapacità di schiuderlo ad uno sguardo amorevole che ci risani e ci intenerisca per disporci alla vera adorazione e alla intimità di un rapporto con Lui che interessi tutto il nostro essere. Dio non ha lasciato il mondo, il nostro mondo e la risposta alla santità di Dio che preme alla radice dei cuori non è quella di tirarlo giù dal cielo o di modellargli la terra facendo leva sulla nostra buona volontà, ma più semplicemente di aprire la nostra terra, la terra del nostro cuore al Suo splendore. Se il rifiuto del mondo prima attirava era perché i cuori sentivano in quel rifiuto il desiderio del cielo. Ora non più. Ma il desiderio del cielo è sempre il desiderio del cuore. Come liberarlo?  Accettare il mondo non porta sicuramente a trovare il cielo. Il mondo non ha perso nulla della sua ambiguità!  Ma anche il cielo non ha perso nulla della sua inafferrabilità! Il percorso più pertinente è allora nella logica del ‘compimento’ dei desideri dei cuori di interiorità e di comunione: staccarsi dal mondo per rientrare in se stessi e poter accedere, dalla profondità del cuore, alla solidarietà con l’umanità e il creato, scoprendo Dio che è Padre di tutti e Creatore di tutto. 

Nella espressione ‘santità nel mondo’, l’accento va posto su santità. E’ qualcosa che il mondo non ha e che attende per vedersi compiuto. Capire o accogliere  il mondo non porta alla santità. Se per far accettare la santità, se ne abbassa l’esigenza per adeguarla al mondo, si tradisce il mondo e si fallisce lo scopo. Ma imporla sul mondo come dovessimo cambiarlo con il nostro volere è impresa vana, tragica. Sarebbe il trionfo dell’ideologia, non della santità.   E non si è mai visto nessuna ideologia portare salvezza o consolazione al mondo.

Santità come potenza di trasfigurazione. Trasfigurazione dice essenzialmente sguardo, lo sguardo della beatitudine evangelica: ‘beati i puri di cuore, perché vedranno Dio’ (Mt 5,8). Noi non siamo affascinati dalla purità di cuore, che abbiniamo ad un perfezionismo individuale, ma dallo splendore che emana da un cuore puro che è capace di guardare in modo nuovo. E lo sguardo nuovo che affascina è quello di chi non ha mai paura di noi né dei nostri peccati, di chi custodisce la nostra bellezza nonostante ci sentiamo brutti, di chi ci usa bontà perché tiene a noi più di noi stessi. Scopriamo cosa significhi bontà non domandandoci ‘quando mi sento buono?’, ma ‘quando gli altri mi trovano buono?’.  Quando gli altri sentono che noi desideriamo la loro vita, quando sentono che sono desiderati nel loro essere concreto, che sono degni di amore e non solo oggetto del nostro amore,  abbracciati da uno sguardo che, come quello di Gesù, redime cioè ri-suscita la vita dove sia sopita o sofferente o bloccata, facendola decollare verso la sua pienezza. E’ la visione di quell’ oltre delle creature, segno dello splendore di Dio colto nella sua relazione intima  con esse, che muove il cuore. Di uomini capaci di vedere con tale sguardo sentiamo di avere bisogno.

Trasfigurazione dice ancora spazio di rapporti, liberazione dai confini angusti e irrigiditi in cui chiudiamo noi stessi ed i nostri fratelli. “Beati i miti, perché erediteranno la terra” (Mt 5,5), compreso nell’ottica dell’altro versetto “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi … imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime” (Mt 11,28-29), rivela la grazia e lo splendore di quella liberazione. Mitezza ed umiltà sono il paradigma di tutte le disposizioni buone  nell’uomo, quando l’io diventa capace di una misura piena ‘scossa e traboccante’(cfr. Lc 6,38), come costituisse l’esito finale e maturo di una ascesi volta a purificare la volontà. Forse, più che cercare di ‘volere bene’ a qualcuno, dove bene è il complemento oggetto del volere, si dovrebbe imparare a ‘volere bene’ qualcuno, dove bene è un avverbio che esprime il modo adeguato di volere che qualcuno o qualcosa siano. L’ascesi per la santità è un’ascesi che tende a generare un nuovo modo di volere in cui l’accento non sia posto tanto sull’affermazione di sé quanto sulla disponibilità a servire ciò che è voluto, ad accompagnarlo al suo destino, servitori e testimoni di un mistero che ci supera e ci racchiude. In questo contesto trova piena espressione quella libertà oggi tanto agognata e così facilmente fraintesa. Un uomo libero è un uomo che in mitezza ed umiltà ‘vuole bene’ chiunque: non ha più ostruiti i sentieri interiori verso chiunque o qualunque cosa. Il mondo può risplendere ancora della primitiva luce di Dio.

Santità infine fondata sulla fede, in funzione cioè dell’intimità di un rapporto, non dell’esercizio di un potere, che sa troppo di questo mondo. Non si guadagna in santità in ragione degli sforzi su se stessi, per la propria perfezione, che del resto non interessa a nessuno, ma in ragione della remissività del cuore alla rivelazione di Dio. E la rivelazione di Dio che costituisce il grande annuncio della nostra fede non è che questa: “Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4,32). Traducendo più letteralmente il testo greco dovremmo rendere “Dio ha fatto grazia di Sé a voi in Cristo”. Parafrasando il testo si può continuare: se anche voi perdonerete, cioè farete grazia di voi a tutti in Cristo, il mondo risplenderà della Sua presenza, fino a che Dio sarà tutto in tutti, definitivamente, compiutamente. L’unica perfezione desiderabile è quella di lasciarsi penetrare fin nelle midolla da questo far grazia di Sé da parte di Dio agli uomini  in Cristo. E’ quanto dice stupendamente s. Francesco, sintesi dell’intera Tradizione: “desiderare sopra ogni cosa di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”[5]. La volontà del Padre è vedere l’uomo investito dal suo Spirito, consegnato alla sua misteriosa operazione, quella cioè di compiere quel mistero di riconciliazione rivelato a noi in Cristo. Perfezione ha allora il valore di compiere un compito, rispondere a un appello, l’appello che viene dal desiderio di Dio di essere in comunione con gli uomini. A tal riguardo, la testimonianza dei sette monaci trappisti di Nostra Signora dell’Atlante, in Algeria, uccisi il 21 maggio scorso dai fondamentalisti islamici, mi sembra particolarmente illuminante.

Il discorso sulla santità e sul cammino per arrivarci comincerebbe qui; ad altri però toccherà illustrare il suo mistero. Il mio intento era un altro: cercare di ridisegnare per i cuori la possibilità desiderabile dell’orizzonte della santità.

Vorrei concludere suggerendo due ultime domande che ritengo particolarmente attuali nel mondo di oggi, così segnato dalla divisione tra cristiani.   

1) Possibile che l’esperienza cristiana non riesca a fondare le ragioni di un’umanità in cui siano superati gli ideali semplicementi umani, sprovvisti del lievito della grazia, come ogni senso di superiorità di cultura, razza, etnia, nazione, confessione religiosa, ecc.? E’ destinato ad agire così poco in profondità l’ideale della santità tra i cristiani, tra le chiese cristiane? Mi pare di ravvisare a volte una difesa ‘mondana’ della verità, che non si cura cioè di predisporre le condizioni per vivere nel concreto la pace offerta da Dio a tutti. La santità ha un ruolo profetico, che incombe su tutti, quello di suggerire nuovi modi di sentire e di pensare più consoni a servire nel concreto delle situazioni storiche quel desiderio di Dio di comunione con gli uomini.

2) Credo che l’orizzonte possibile della santità possa ridare alla chiesa e al cristiano la sua nota di ‘cattolicità’, secondo l’accezione greca del termine (‘secondo l’insieme’ tanto in estensione di spazio e tempo quanto in profondità ed interezza). Siamo ancora capaci di una visione ‘cattolica’ degna di questo nome? Nei lager di ogni tipo, esito tragico di questo secolo di un’umanità in preda ai suoi sogni ideologici, la scoperta della santità faceva cadere ogni tipo di steccato religioso, confessionale, politico, sociale, culturale. La ‘santità’ era il riconoscimento più immediato del mistero dell’umanità, senza più altre qualifiche[6]. Perché nella società normale, nelle condizioni di vita più normali delle nostre chiese, questo non vale più? Al di fuori della tragedia imposta, si ritorna ai propri steccati come fossimo incapaci di fidarci fino in fondo della promessa di Dio all’umanità: Dio ha fatto grazia di Sé in Cristo, non a te o a me, ma a te come a me, a voi come a noi, a te perché possa farla scoprire a me, a tutti, vicendevolmente. Questa ‘cattolicità’ viene mai assunta a criterio di discernimento del nostro agire e sentire ecclesiale? E se questo non capita, bisogna dedurre che la nostra umanità non si vuol lasciare toccare più di tanto dal mistero di Dio, non vuol prendere sul serio la sua vocazione alla santità?

P. Elia Citterio

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[1] Cfr. la Leggenda maggiore di san Bonaventura, IV,9  e la Vita seconda di Tommaso da Celano, LXXII,106.

[2] Il capitolo V della Lumen Gentium porta il titolo “De universali vocatione ad sanctitatem in Ecclesia”.

[3] Si veda  Charles Taylor, Il disagio della modernità, Bari 19942, Laterza.

[4] Precisamente: Ad gentes divinitus, 18 e Nostra aetate, 2; Presbyterorum ordinis, 13 e 16.

[5] Regola bollata, X,8 in Fonti francescane, editio minor, Assisi-Padova 1987, editrici francescane, p. 63-64.

[6] Si veda, ad esempio, N. Steinhardt, Diario della felicità, Bologna 1996, Il Mulino.