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Articolo pubblicato su IL REGNO 10/97, pp. 317-320. E. Citterio, L’esperienza di Alessandria. Il primato della contemplazione.


Vivo ormai da 27 anni in una minuscola comunità di nuova fondazione, nel territorio della diocesi di Alessandria, comunità sorta sull’onda della riscoperta della centralità della parola di Dio e della Tradizione dei Padri che il Concilio Ecumenico Vaticano II ha insistentemente richiamato.        

Quattro sono i cardini su cui si regge la comunità: preghiera, Scrittura e Padri, attenzione interiore, vita di fraternità.  Mentre il cuore si unifica nella tensione verso Dio, si apre alla compassione per tutti gli uomini, sotto la guida dei Padri d’oriente e d’occidente, che insegnano ad appropriarsi della potenza delle Scritture. L’attenzione a se stessi (cfr. Deut. 15,9), unita all’invocazione al Signore Gesù Cristo perché purifichi l’atmosfera del cuore e lo renda capace di perdono e di comunione, costituisce la vera fatica ascetica, in uno stile di vita semplice e povera, in accordo [= riconciliati] con la fatica del vivere quotidiano di tanta parte dell’umanità.

Con il tempo, gradualmente, la comunità è diventata un punto di riferimento per tanti. Non però che si senta deputata ad alcun compito particolare nei confronti delle persone, provenienti dai più diversi ambienti, che vengono al monastero. Vive più semplicemente il ‘compimento’ del regno di Dio nel fatto stesso di accoglierle e camminare insieme, di suscitare e stabilire comunione. Sembra quasi che il nostro compito sia quello di confermare gli altri nella loro vocazione! La comunità ha sempre privilegiato rapporti personali, riducendo al minimo l’accoglienza e l’ospitalità di gruppi. E questo non solo per motivi logistici, data l’esiguità di spazio e l’inevitabile dispersione che ne deriva a una minuscola comunità quale la nostra, bensì per ragioni ideali, rispondenti ad una certa sensibilità spirituale. Si è trattato fondamentalmente di dar risposta ad una sollecitazione delle stesse persone le quali si lamentano che sono pochi i luoghi ecclesiali dove ci si dia premura di  ascoltare, di dedicare tempo ad una persona, dove trovare uno che sia disposto a farsi carico, di starti a fianco personalmente e di parlare la tua lingua, nel nome del Signore.

In sintesi, si potrebbe dire che da un monaco ci si attende che sia una sorta di ‘memoriale’, per la chiesa e per il mondo, del mistero di comunione di Dio con gli uomini sia per ricordare a Dio l’alleanza con i suoi figli, nell’offerta  costante e sempre nuova del suo perdono nel Cristo Signore   come per ricordare agli uomini l’unico vero grande anelito del cuore umano nel suo desiderio di assoluto e di  innocenza.

La comunione però non proviene dal basso, ma dall’alto. E’ come un sostanziarsi della visione di fede. Per questo non può essere ottenuta se non immergendosi nel mistero della preghiera, una preghiera che apra la fede alla visione attraverso l’amorosa obbedienza alla Parola trattenuta in cuore tanto da farne tessuto di memoria. E’ stato importante scoprire che un monaco ha come il compito nella chiesa di mostrare con la vita che per un credente il fare è in funzione del vedere. L’agire morale è in funzione della gloria di Dio, vale a dire in funzione della rivelazione al nostro cuore ed alla comunità degli uomini del volto di Dio, a cui tiene dietro anche la rivelazione dello splendore delle creature. Non che lui, per la sua vocazione, possa vivere meglio di altri, in  altre vocazioni, tutto questo nella chiesa; no, egli mostra semplicemente, a modo di memoriale, che si possa e si debba ricercare comunque di vivere in tale ottica. A livello ecclesiale, con la sua semplice esistenza, tiene viva la domanda essenziale per l’annuncio cristiano: è possibile una esperienza cristiana senza radicarsi in profondità contemplativa? Sarebbe ancora credibile una chiesa che non faccia più presagire la possibilità e la realtà dell’esperienza dell’incontro con Dio? Un agire che non riveli ai cuori la nostalgia di Dio, che vi portano sepolta, ha ancora a che fare con l’annuncio del vangelo?

Insieme a questo elemento percepito come frutto di una sapienza dall’alto, si abbina la grazia di una nuova fraternità, allargata a tutta l’umanità, offerta a tutti, goduta attraverso la porta misteriosa dell’obbedienza. E’ l’esito della lotta contro l’egoismo e la durezza di cuore perché l’obbedienza, che apre all’intimità con Dio, immerge il cuore in un clima di umiltà e pacatezza abituandolo ad onorare i fratelli. L’obbedienza nella chiesa è assai più che l’obbedienza ad una regola, ad un superiore; è la sottomissione vicendevole, un’obbedienza in umiltà  In tale obbedienza si forgia quella nuova fraternità in Cristo che apre il cuore a tutta l’umanità e a tutto il creato. Si impara a riconciliarsi con gli uomini e con il creato, senza più arroganza o autodifesa. Quando si incomincia a chinare la testa davanti al Signore in sincerità, nell’ascolto della sua parola, si impara anche a chinare la testa davanti ai fratelli e si diventa capaci di ascoltare la voce del loro cuore. Forse è questo il modo più efficace per tenere la testa aperta alla grazia che viene dall’alto. E non proviene forse da qui quella pace e quella consolazione che tutti andiamo  cercando?

 

Icona di uno stile.

La chiesa ha un unico ministero, quello della  riconciliazione (cfr. 2 Cor 5,18-21); ha un unico annuncio da fare: “ … noi siamo in pace con Dio …” (Rom 5,1). È la pace di Dio che viene riversata sul mondo tramite la chiesa. Un inno della liturgia latina in onore degli apostoli canta:

“Su voi, resi saldi in eterno,

s’edifica e innalza la Chiesa

che eterna, riversa sul mondo

da Dio, come un fiume, la pace”.

Spesso però l’annuncio della ‘pace’ nella chiesa è stereotipato, retorico (nel senso che si annuncia la verità, ma senza trasmettere la vita che l’anima); a volte perfino autoritario o presuntuoso (nel senso che la verità è difesa, ma secondo modalità non evangeliche, in modi ‘mondani’, con reazioni ‘mondane’).

Le persone sono sensibili allo ‘stile’ di una testimonianza cristiana. Il monaco richiama all’essenzialità di uno stile cristiano che io riassumerei, tenendo conto della nostra piccola esperienza, in tre caratteristiche:  mansuetudine, discrezione, coraggio.

Mansuetudine.  Il monaco, per vocazione, è sensibile a tutti i livelli, al mistero della comunione. La sola sfida che può raccogliere è la sfida della comunione: nella sua esistenza, nella sua comunità, nella sua chiesa, con i cristiani delle altre confessioni, con gli uomini, con le culture, con le grandi tradizioni spirituali dell’umanità, con il creato.

L’atteggiamento di cuore più propizio per vivere in profondità e verità la sfida della comunione è appunto la mansuetudine, che è la forza della speranza, il segno del radicamento nella fede del Signore Gesù Cristo. Fede che dice essenzialmente relazione, non possesso; cammino, non meta; fatica, non godimento.

Nella mansuetudine i cuori sono orientati a predisporre le condizioni per vivere nel concreto la pace offerta da Dio. In essa vengono superati gli ideali semplicemente umani, sprovvisti del lievito della grazia, come ogni senso di superiorità di doti, posizione sociale, cultura,  ecc. Non ogni difesa della verità è veritiera, cioè retta davanti a Dio, se manca lo spirito di mansuetudine, quel fermento evangelico che il monaco è chiamato ad impastare con la realtà di questo mondo, nella chiesa.

Discrezione.  E’ la lotta contro lo spirito di questo mondo che tanto indulge al protagonismo e all’esteriorità. E’ necessario un esercizio continuo di discernimento per separare ciò che vale da ciò che ha sembianza di valore, ciò che è attinente alla comunione in Cristo da ciò che sembra soltanto rassomigliarle, ciò che è profondamente umano da ciò che suona come giustificazione delle nostre abitudini, la dimensione spirituale dalla dimensione psicologica o emotiva,  fuggendo il protagonismo e puntando all’interiorità, come alla forza che tiene aperti i cuori alla solidarietà profonda e concreta con gli uomini.

Coraggio.   Lo sforzo di liberarsi da ogni spirito di dominio e da ogni forma di possesso, si tratti di se stesso come delle proprie visioni del mondo, fa nascere il coraggio della speranza. E’ il coraggio di saper andare contro il mondo, ma a fianco dell’uomo; è il coraggio di una parola schietta e viva, che tanto manca proprio negli ambienti di chiesa; è il coraggio della purificazione della memoria, a livello della propria storia personale come del proprio popolo o della propria chiesa, in spirito di mansuetudine e discrezione. Favorisce un tale coraggio il tratto di una nobiltà di animo e di intenzioni, unito ad una gioia semplice, tranquilla, capace di toccare i cuori al di là di tutte le strategie pastorali.

Mistero e ministero dell’accoglienza.

Dentro quel certo stile di testimonianza si caratterizza anche un certo stile di accoglienza che  la comunità è andata via via elaborando e che l’ha indotta a riflettere per coglierne le ragioni spirituali soggiacenti.

  1. Paolo, scrivendo a Tito, invita i credenti ad essere ” mansueti, mostrando ogni dolcezza verso tutti gli uomini ” (Tit. 3,2), eco della parola del Signore ” imparate da me, che sono mite ed umile di cuore ” (Mt. 11,29). Nel fratello che accompagna un altro nel suo cammino spirituale tale mansuetudine si fa immagine dell’accondiscendenza di Dio. L’accondiscendenza si traduce essenzialmente in uno sguardo costante di benevolenza, di pazienza e di tenerezza, avvertito immediatamente dalla persona che così non si sente mai giudicata, soppesata, valutata. In effetti la vera speranza che parla al cuore è quella di accorgersi che Dio c’è ed è presente se si sente che è Lui che dà ad un uomo la capacità di usarci tenerezza, di essere buono con noi.

L’esperienza insegna che diventare più amorevoli significa diventare più veri e più capaci di verità. Nella visione cristiana la verità si coniuga con l’amore, la lucidità con la bontà. L’esperienza di questo fatto è liberante per l’anima e consente di schiudere il livello psicologico alla dimensione spirituale, superando quel certo psicologismo che costruisce sulla sabbia. Allora la guida spirituale non è più avvertita come un estraneo, la sua voce non risuona dal di fuori, da distante; le sue parole sono sentite vere, sebbene il cuore debba come faticare ancora per un certo tempo per sentirle sue. Ma è appunto questo il cammino dell’obbedienza e della libertà, in una ritrovata fraternità.

All’accondiscendenza è legato anche il problema del linguaggio. Molto spesso i fedeli si lamentano del linguaggio astratto, lontano e separato dalla vita, moralistico, clericale, nella presentazione della fede da parte della chiesa. Si è come inceppata la mediazione tra la fede custodita e le esigenze dei cuori, mediazione che costituisce il terreno specifico dell’azione pastorale della chiesa. Se ci è stato ingiunto di custodire integri (cfr. 1Tim. 6,14) e di praticare i comandamenti di Dio, via della salvezza, quindi via della vita, non possiamo allora nemmeno esimerci dal compito di far parlare il comandamento al cuore dell’uomo sia per amore della Parola di Dio che per amore dell’uomo al quale essa è indirizzata.

Lo spirito di accondiscendenza, facilitato dal rapporto personale instaurato, tende a rendere il linguaggio semplice, immediato e concreto, nello sforzo di ricollegare l’annuncio cristiano alle esigenze del cuore, badando a che l’immediatezza sia espressione del senso di concretezza e non effetto di strategie psicologiche, rivestite di spiritualità. Ciò che permette un simile ricollegamento è illustrato da un passo di s. Paolo, forse troppo sottovalutato: ” Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari ” (1 Tess. 2,8). Le domande da porsi sono le seguenti: è  possibile dare il vangelo ad una persona senza che questa ci diventi cara? Ed è possibile che questa ci diventi cara senza che in qualche modo senta di esserlo diventata?  Il senso dell’accondiscendenza per quanto riguarda il linguaggio sta tutto qui. Solo a patto che una persona ci diventi cara, il nostro linguaggio saprà essere concreto, capace di dare parola ai suoi disagi, di offrire una rivelazione vissuta e vivente che suscita una risposta, una conversione, un espandersi e un lasciarsi prendere da quella nostalgia di Dio che già portiamo racchiusa dentro di noi.

È inevitabile che la dinamica interiore dell’accoglienza si risolva in assunzione di responsabilità. Viene riferita al Signore Gesù l’espressione: «Ecco, io vengo a fare la tua volontà ». Si tratta di un fare che non procede tanto dalla volontà, bensì dalla coscienza e dal vissuto d’intimità col Padre. Pure per noi vale lo stesso dinamismo: la responsabilità nei confronti dei fratelli non procede tanto dal fatto di dover svolgere un dato compito, quanto dal fatto di compierlo perché attratti dal grande mistero di riconciliazione in atto nella storia (cfr. Ef. 2,14-22), innestati in Colui che ne è la forza propulsiva e il compimento stesso, per la potenza del suo Spirito. Ed è qui che risuona particolarmente incisiva l’ammonizione di s. Paolo verso i vari ministri nella chiesa: « …  tutti cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo » (Fil 2,21).

La responsabilità si traduce poi nell’accettazione di un compito, il cui senso sta tutto nel favorire la riconciliazione con Dio e con se stessi, con i fratelli, con il mondo, liberando gli spazi del cuore e creando rapporti rinnovati. Si è tanto smarrito il senso della realtà di Dio che l’uomo è rimasto in balia delle sue ossessioni. E’ tanto difficile per l’uomo d’oggi, anche per il credente, per le stesse persone consacrate, custodire la tenerezza verso l’umano nella sua trasparenza del divino senza contrapporre o contrarre nervosamente i due poli a scapito della sanità di fondo dell’anima. Vivere senza illusioni e senza vergogna, evitare cioè di cadere nelle opposte tentazioni di idolatrare o disprezzare la carne, la dimensione umana nella sua concretezza, non è agevole. Eppure cielo e terra possono ancora essere vissuti in unità e la guida spirituale si impegna ad essere come il ponte, la strada vivente, nel senso che la percezione della possibilità di tale verità in lei schiude l’anima alla stessa verità. Una persona sente il desiderio di guarire se intuisce che qualcuno la conosce dal di dentro , la sta rivelando a se stessa. Di qui comincia il vero cammino ascetico, lungo e faticoso, ma gioioso, con l’energia del cuore ormai rinnovata e continuamente rinnovantesi.

Alla serietà del compito non si confanno le improvvisazioni o i sentimentalismi. Proprio il profondo rispetto e l’amore all’uomo inducono ad umiltà e delicatezza, incapaci come siamo di cogliere la presenza dello Spirito di cui non dovremmo essere che i servi-collaboratori. Diventa essenziale perciò metterci alla scuola dei Padri, i maestri insostituibili di fede e di vita, per diventare più recettivi nei confronti dello Spirito, più malleabili alla sua azione, più attenti alle tracce del suo passaggio e più coinvolti nelle ‘segrete’ intenzioni divine operanti nella storia a rivelazione di quell’amore di Dio che siamo chiamati a certificare.

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Capriata d’Orba, 25 aprile 1997

p. ELIA CITTERIO

  • Pubblicato come L’esperienza di Alessandria. Il primato della contemplazione, IL REGNO 10/97, 317-320