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INCONTRI QUARESIMALI

Ovada, 1995

PRIMO VENERDI’.      Il fondamento della comunione : la fede.

Letture proposte: 1Pt 1,13-25

Rm  8, 35-39

Preghiera conclusiva                       (Dalla liturgia bizantina)

                        O Dio creatore delle cose visibili e invisibili,

                        luce vera e pace che riconcilia.

                        Tu che doni la tranquillità e l’amore,

                        consola noi, tuoi servi, con la pace perfetta;

                        allietaci con la piena serenità,

                        per quell’amore con cui ridoni la gioia al peccatore,

                        guidaci alla pace del cuore e legaci gli uni agli altri.

                        Allontana l’ira, l’odio, l’invidia e le liti;

                        dona a tutti il tuo Santo Spirito.

Ci accompagnerà lungo le varie stazioni quaresimali, come immagine-simbolo, l’icona della Trinità di Rublev, espressione della perfetta comunione tra le Persone divine e del loro supremo desiderio di far partecipi gli uomini della loro corrente d’amore.

La preghiera conclusiva, scelta appositamente secondo il tema sviluppato, tradurrà in invocazione e in desiderio del cuore quello che la nostra mente avrà cercato di afferrare.

Se voleste esprimere l’elogio più bello di una comunità di credenti, come lo formulereste? Per conto mio vorrei ripetere quello che viene riportato della comunità hassidica di Mezerici. All’uomo di Dio che l’aveva visitata chiedono: “Cosa avete scoperto laggiù?”. – Ho scoperto che Dio esiste, che è di questo mondo.

– Ma questa è una verità che qui sanno tutti!

– No, rispose l’uomo di Dio, tutti lo dicono; a Mezerici, lo sanno e si sente!

Ecco, questa esperienza non è sostituibile da nessun tipo di organizzazione, di pastorale, di impegno nel mondo. E’ l’esperienza dell’incontro con Dio che fonda il nostro stesso essere, la nostra stessa percezione del mondo.

Richiamo un’osservazione scontata: il contesto umano e sociale che viviamo non può più dirsi cristiano. Basta pensare all’impatto della pubblicità sul nostro mentale. La nostra psicologia nell’immediato, individuale e sociale, il nostro immaginario interiore non è più cristiano.

Sorge allora il problema: come ritornare a quella esperienza di fondo? Una comunità che non faccia più presagire la realtà e la possibilità di quell’esperienza può ancora dirsi cristiana?

C’è una frase terribile nella Scrittura: ciò che non procede dalla fede è peccato. L’esperienza di cui parliamo è l’esperienza della fede. Se non siamo fondati su quella, tutto ciò che viviamo non è più genuinamente cristiano. Qui cogliamo il valore della prima lettura, tratta dalla prima lettera di Pietro, in particolare il v. 22 del cap. I : “Dopo aver santificato le vostre anime con l’obbedienza alla verità, per amarvi sinceramente come fratelli, amatevi intensamente … “. Pietro dice in sostanza questo: siete stati santificati  (leggete: siete diventati cristiani) per essere fratelli. Allora, amatevi intensamente.

Il punto centrale è il seguente. Si deve partire dal mistero dell’amore di Dio per arrivare a modellare il nostro; si parte dal grande per arrivare al piccolo e non viceversa.

Io domando: chi di noi dà più importanza al fatto di voler essere cristiano, discepolo o seguace del Signore Gesù piuttosto che al fatto di voler essere, secondo la scala di valori in voga, belli, ricchi, simpatici, arrivati al successo ecc.? Con quale atteggiamento interiore di fondo affrontiamo la vita? e la vita della nostra comunità ecclesiale? Ci suonano forse famigliari le parole di Paolo che abbiamo ascoltate nella seconda lettura: chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione … ?

Assai raramente facciamo esperienza della nostra fede nel Signore Gesù come della base su cui costruire o del criterio di discernimento per fare spazio ad un affetto, un’amicizia, un’intesa, una collaborazione. Quante volte rischiamo di fare cose religiose con rivalità, cioè con quanto di più mondano ci sia. Il motivo? Credo che in gran parte ciò dipenda dal fatto che non ci apriamo agli orizzonti della fede, la sfioriamo soltanto, ci poniamo addosso un velo di vernice e ci riduciamo a vivere appiattiti su di una psicologia mondana. Il problema sta proprio qui: lasciamo vivere il nostro cuore troppo allo stretto, in modo troppo piatto. La prima regola del vivere interiore è: allargare i confini del cuore.

Voglio fare degli esempi. Mercoledì scorso abbiamo celebrato il rito delle ceneri. “Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai”. Forse che la chiesa ci deve ricordare che dobbiamo morire? Abbiamo proprio bisogno di essere convinti che dovremo morire? Certamente ognuno di noi tende a sentirsi e a comportarsi come immortale e non è male che in qualche occasione ci si ricordi che la realtà non segue i nostri sogni. Ma il senso del rito celebrato in chiesa ha tutta un’altra portata. Rammentate il racconto della creazione di Adamo, quando Dio prese della polvere della terra, la plasmò e con il suo soffio la rese essere vivente. Nel salmo 50 si dice che Dio gradisce un cuore contrito. Il termine contrito, dal latino ‘conterere’, allude proprio a questo rendere polvere il cuore. Quando ci sentiamo afflitti, quando subiamo un’offesa, un’ingiustizia, quando subiamo una prova, senza ribellarci o adirarci, è come se il nostro cuore venisse pestato fino ad essere ridotto in polvere. E’ reso polvere quando non ha più diritti da avanzare, da rivendicare. Allora, come la polvere della terra, Dio lo può plasmare di nuovo ed il nostro cuore rinasce come essere nuovo, capace di sentimenti nuovi, più umani e divini allo stesso tempo. E’ il senso appunto della penitenza quaresimale: riconsegnare il nostro cuore a Dio perchè possa essere di nuovo modellato da Lui. Ora, se impariamo a percepire il senso del mistero che viviamo, non pensate che il cuore scoprirà nuove energie per viverlo fino in fondo e troverà finalmente quella gioia che cerca?

Altro esempio. Quanta difficoltà nei rapporti con il prossimo! Quanta diffidenza, come viviamo in costante autodifesa, senza libertà e bontà!

Per qualcuno di noi ha forse valore il detto di Paolo: “Voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e famigliari di Dio” (Ef 2,19)? Nel rapportarci tra di noi, sentiamo la verità di queste parole? Credo che nemmeno ci sfiori l’idea.

Ora io dico: riusciremo mai a far sentire a casa sua un fratello nel nostro cuore, se ci sentiamo stranieri con Dio? Quando ricevo un’afflizione, una sgarberia, come riuscirò a perdonare se non ho mai sentito la dolcezza del perdono di Dio per me? Ma è solo a partire da questa esperienza personale con Dio che possiamo sperare di sanare i nostri rapporti con il prossimo e con il mondo. Ed è per questo che ciò che non proviene dalla fede è peccato, vale a dire: ciò che non si basa sulla fede, non può vincere il peccato.

È stato chiesto ad un gruppo di ragazzini di esprimere le loro impressioni dopo aver sostato cinque minuti in osservazione davanti all’icona della Trinità. Una ragazzina dodicenne – i ragazzi hanno spesso delle idee geniali improvvise – ha svelato uno dei segreti di quest’icona. Diceva: contemplando l’amore che intercorre tra i tre angeli  mi è venuto il desiderio di entrare in quella intimità, perché deve essere tanto bella. E poi ho notato che sul davanti c’è un posto libero alla tavola degli angeli. Mi sono sentita invitata. Quello è proprio il posto che Dio ha riservato per ciascuno di noi. Lui non sta felice da solo.

Ecco. Se non ci sentiamo invitati a quel posto, difficilmente sapremo riconoscere il bisogno di comunione dei cuori. E allora come potremo rispondervi, se nemmeno siamo capaci di sentire l’appello? In fondo, tutti i nostri peccati si riducono a questo, ci rendono insensibili a questo appello. Ma è proprio su questo che verremo giudicati. Avevo fame e mi avete dato da mangiare. Avevo sete e mi avete dato da bere…. Incontriamo Dio se siamo capaci di sentirlo in un uomo.

SECONDO VENERDI’.        Comunità di riconciliati.

Lettura proposta                        2Cor 5,14-6,2.

Preghiera conclusiva                        ( Inno delle Lodi dal Comune degli Apostoli )

                        L’annuncio che udiste nell’ombra

                        gridatelo alto nel sole:

                        è questa l’estrema consegna

                        del Dio crocifisso e risorto.

                                                E voi dite, ridite sui tetti

                                                la voce che parla nel cuore:

                                                apostoli siate alle genti

                                                di Cristo, salvezza e vittoria.

                        Il nuovo messaggio di vita

                        vi ha spinti ai confini del mondo,

                        su lunghi sentieri di croce,

                        araldi del giorno che viene.

                                                Su voi, resi saldi in eterno,

                                                s’edifica e innalza la Chiesa

                                                che eterna, riversa sul mondo

                                                da Dio, come un fiume, la pace.   Amen.

Una delle espressioni più belle che definiscono la chiesa, la comunità dei credenti, l’ho scoperta nell’ultima strofa dell’inno in lode degli apostoli: … la chiesa che eterna, riversa sul mondo da Dio, come un fiume, la pace.

La storia della chiesa, la nostra piccola storia quotidiana rivela la verità di questa espressione: “che eterna, riversa sul mondo da Dio, come un fiume, la pace” ? Chi ci avvicina, a livello personale e comunitario, sente innanzi tutto questo?

Nella nostra storia personale, prima di tutto con Dio ( ricordate il passo del vangelo in cui Pietro domanda a Gesù quante volte deve perdonare al fratello che manca nei suoi riguardi. Gesù gli risponde che deve perdonare non sette volte, ma settanta volte sette, cioè sempre. Il passo però va letto così. Devi perdonare al tuo fratello quante volte hai bisogno di domandarlo al tuo Dio, cioè sempre.) e poi con gli uomini ( si parla troppo di amore, carità e troppo poco delle condizioni che lo rendono possibile e veritiero ), pace significa essenzialmente riconciliazione. L’abbiamo sentito proclamare nella lettura: “Dio ha riconciliato a sè il mondo in Cristo … affidando a noi la parola della riconciliazione … Noi siamo suoi collaboratori”. Collaboratori a che cosa? All’opera della riconciliazione.

Dicevamo la volta scorsa del bisogno di allargare i confini del cuore sugli orizzonti della fede. Oggi ripeto: allargare i confini del cuore per percepire l’opera divina della riconciliazione in atto nella storia. Grazia, redenzione, salvezza, tutti termini che esprimono la realizzazione della riconciliazione tra Dio e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, tra l’uomo e il mondo, in Cristo. Come possiamo ‘rivelare’ la presenza di Dio nel mondo? Come collaboratori della sua opera di riconciliazione.

C’è un passo nella lettera agli Efesini assai significativo. Dice Paolo: “Siate benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo. Fatevi dunque imitatori di Dio …” ( Ef 4,32-5,1 ).

Il termine italiano ‘perdonandovi’ traduce la parola greca carizovmenoi, letteralmente ‘facendovi grazia’. Ora è tipicamente Dio che fa grazia di Sè a noi, cioè ci perdona. In altre parole, Dio  non subisce il nostro peccato ma resta sovranamente libero nel suo farsi grazia a noi, perché ha fiducia in noi e sa che scegliamo il male perché non sappiamo quello che facciamo. Il perdono di Dio è creativo, dà spazio e libertà al cuore. Non così, invece, il perdono che concediamo noi. Ma noi siamo chiamati ad imitare Dio, cioè ad agire secondo la dinamica del suo stare con gli uomini: perdonandoli o, meglio, facendo continuamente grazia di Sé a loro.

Ricordate la frase evangelica: a chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza e a chi non ha sarà tolto anche quello che crede di avere. Si può interpretare così. Soltanto a chi ha ricevuto il perdono da Dio sarà nell’abbondanza della vita, ma a chi non ce l’ha, cioè a chi pensa che gli possa bastare la sua giustizia, gli sarà tolta anche quella pretesa di giustizia. La questione essenziale è come disporci a ricevere da Dio questo ‘perdono’, questo suo farsi grazia, in tutte le fibre del nostro essere. E’ appunto la preghiera della chiesa durante la quaresima. Solo ricevendolo da Dio possiamo offrirlo al prossimo.

Nell’inno alla carità ( 1Cor 13,4-7) Paolo dice che la carità ‘non manca di rispetto’. In greco si usa il verbo aschmonei’. Propriamente vuol dire ‘non togliere la figura’, ‘non togliere la bellezza’.  Offrire il perdono significa custodire la bellezza delle creature. Agendo in tal modo, custodisco la mia bellezza e la bellezza del mondo e salvo quella del fratello’.  In tal senso, siamo i custodi dei nostri fratelli, i custodi della loro bellezza. Come aprirci a questa visione senza assumere la prospettiva di Dio sull’uomo?

Come noi possiamo verificare se il nostro cuore procede sulla via di Dio, se davvero assumiamo la prospettiva di Dio? Suggerirei due criteri.

1) Vogliamo sapere se quello che facciamo è giusto? Chiediamoci se ci avvicina agli uomini. In caso contrario cambiamo direzione, perché quel che non ci avvicina agli uomini, ci allontana da Dio. Se l’amore a Dio ci allontana dagli uomini, se sminuisce il nostro amore per gli uomini, può essere solo falso.

2) Quando riusciamo a percepire una qualità inferiore in un altro, è perché la possediamo noi. Dio vuole che ce ne accorgiamo e in tal modo ci indica anche la via del pentimento. E’ una norma di estrema importanza.

Nell’oriente cristiano, durante la quaresima, si ripete nove volte al giorno la seguente preghiera, detta di sant’Efrem: Signore e Sovrano della mia vita, non darmi uno spirito di pigrizia, di dissipazione, di predominio e di loquacità. Dona invece al tuo servo uno spirito di purità, di umiltà, di pazienza e di carità. Sì, re e Signore, fa’ che io riconosca i miei peccati e non giudichi il mio fratello, poiché tu sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen.

” Fa’ che io riconosca i miei peccati e non giudichi il mio fratello “. Così si è nella pace.


TERZO VENERDI’.                Comunità di salvati nella speranza.

Letture proposte Eb  8, 7-13 e      Fil  3, 7-14

Preghiera conclusiva    (dello starets Ambrogio, del monastero di Optino, Russia, sec. XVIII)

Signore, concedimi di ricevere con serenità tutto ciò che questo nuovo giorno mi porterà.

Aiutami ad affidarmi interamente alla tua Volontà.

Ad ogni istante di questo giorno, istruiscimi in tutto e sostienimi.

Sii la guida dei miei pensieri e dei miei sentimenti in tutte le mie azioni ed in tutte le mie parole.

Davanti all’imprevisto, aiutami a non dimenticare che tutto è retto da Te.

Insegnami a comportarmi in maniera giusta e coscienziosa con i miei fratelli, non rattristando nè ferendo nessuno.

Signore, guida la mia volontà e insegnami a pregare, a sperare, a credere, ad amare, a sopportare e a perdonare.

Due sono i passi centrali attinenti al nostro tema nelle letture proposte.  Nella lettera agli Ebrei, cap. 8, vv. 11 e 12 : ” Tutti infatti mi conosceranno dal più piccolo al più grande di loro. Perché io perdonerò le loro iniquità …”. Quel ‘perché’ dice la condizione e il tempo del conoscere. Possiamo conoscere Dio solo sperimentando il suo perdono. Solo allora lo conosciamo per quello che si è rivelato a noi: Dio buono e misericordioso. In ciò ci riconosciamo salvati.  Nella lettera ai Filippesi, cap. 3, v. 13 : “Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro …”. La salvezza non è ‘posseduta’, acquisita stabilmente. E’ una salvezza continuamente data, mai soddisfatta; sempre cercata avanti, mai ancorata indietro. Per questo ho detto: salvati nella speranza.

La nostra riflessione verte su tre punti. Si tratta di vivere secondo una certa prospettiva, di vedere dove fa leva la speranza e di non aver paura della fatica.

1) Vivere secondo una certa prospettiva.  E’ in gioco il fattore tempo. A differenza del modo usuale di pensare,  il passato va compreso a partire dal futuro. Cosa intendo dire? Spesso nella nostra vita molte difficoltà o, perlomeno, il peso di molte difficoltà proviene dal fatto di vedere le cose in una certa prospettiva piuttosto che in un’altra. Camminiamo con le gambe avanti e gli occhi indietro. Ad esempio, a livello della fede, è Dio a sovrastare il nostro peccato con la sua bontà. Il riconoscimento del peccato richiama in primo luogo la bontà di Dio, non la nostra condanna. Il tempo di Dio è il tempo del perdono, quindi il tempo del futuro. La bontà crea sempre uno spazio nuovo al cuore dell’altro permettendogli di entrare nuovamente nella vita, apre un tempo nuovo senza bloccare il cuore al passato. Solo Dio però sa fare questo perché lui solo è sovranamente libero, gratuito e creativo nel suo amore, può sempre aver fiducia in noi perchè è inesauribile nel suo amore. Ma non dimentichiamo che il nostro cuore, nelle sue fibre più intime, è fatto ad immagine di Dio e quindi ha nostalgia dei comportamenti secondo Dio. Altro esempio, a livello della nostra psicologia. Quanto più facile ci è acconsentire al giudizio, al rimpianto (ho fatto male!… avrei potuto fare …) che alla fiducia (posso fare ora …). E’ assai più naturale ritrovarsi in un senso di colpa che non nel pentimento, in un giudizio di condanna che in un perdono aperto. Prevale il passato sul futuro.

Anche a livello della nostra cultura in generale vale la stessa cosa. Pensate alla diversità con cui la classicità considera il tempo rispetto al cristianesimo. Un poeta come Esiodo, un pensatore come Platone, quando dipingono il sogno umano del vivere secondo equità, giustizia, fratellanza, lo proiettano sempre nel passato. Il mito dell’età dell’oro, il mito dell’Atene primordiale, seguono tale dimanica. La visione ebraica e successivamente quella cristiana, invece, pongono l’ideale nel futuro, nell’escatologia: pensano alla Gerusalemme futura, alla seconda venuta di Gesù, al compimento del Regno di Dio che ora non si è ancora manifestato, ecc. E’ come se volessero dare consistenza e speranza ai sogni umani, agli ideali più grandi che l’uomo porta in cuore. Ma cosa differenzia un vero sogno, ricco delle energie che impegnano la propria storia in qualcosa di grande, da una  pia fantasia, per lo più consolatoria, come tante volte è stato rimproverato alla religione dal pensiero laico?

2) Siamo al secondo punto della nostra riflessione. Dove fa leva la speranza perché non si risolva in una mera fantasia?

La speranza, che procede dalla fede, fa leva sulla certezza della fedeltà di Dio. Non si tratta di dar credito alle nostre capacità, ma di credere fino in fondo a Dio, che non manca di compiere le sue promesse. Prendiamo, ad esempio, le beatitudini proclamate da Gesù. In gioco è la credibilità di Dio, la sua promessa, come se dicesse: non temete, sarete davvero felici, se non avete paura di essere poveri, di essere miti, misericordiosi, ecc. Ma questo si risolve nel fatto che l’importante è il cercare Dio, il fondarci su di Lui, l’affidarsi a Lui, piuttosto che volere i suoi doni, possibilmente in fretta, subito, con poca spesa, secondo i dettami di una certa psicologia consumistica che invade anche il campo dello spirito.

Dice il salmo 36, v. 4 : ” Cerca la gioia nel Signore, esaudirà i desideri del tuo cuore “. Se noi cerchiamo prima di esaudire i desideri del nostro cuore,  rischiamo di strumentalizzare Dio a nostro vantaggio. Non otterremo nulla. La gioia sta nell’incontro, nella comunione con Colui che dice essere sua gioia portarci alla vita e il cuore riconoscerà che in quella gioia tutti i suoi desideri si compiono. Lo stesso salmo 36, al v. 10 dice: ” niente manca a coloro che lo temono “. Sapete perché? Tutto quello che Dio dà è per il giusto causa di gioia. E nella gioia non c’è nulla che faccia difetto. Anche nell’afflizione, nella prova. Spesso, nell’afflizione, noi tormentiamo noi stessi, mentre il giusto pone la sua fiducia in Dio, sta contento in Dio e non manca di nulla.

La difficoltà dell’ascesi, di quel ‘terribile’  “rinuncia a te stesso” proclamato da Gesù, dove sta? Invece di guardare le cose dal punto di vista di quello che Dio dà, le vediamo dal punto di vista di ciò che dovremmo perdere. In realtà la rinuncia non consiste nel lasciare qualcosa, ma nel liberare il cuore perché possa essere contento in Dio. Se siamo pieni di noi stessi, possiamo riempirci di un altro? Ma noi sappiamo di essere contenti solo quando sentiamo di amare e di essere amati da un altro, solo quando un altro ci riempie. La gioia riflessa sul volto di colui che amiamo raggiunge le fibre più sensibili del nostro cuore, rimandandocela maggiorata.  La fatica che ci occorre è quella che è necessaria a vincere l’illusione di prospettiva. Vorremmo credere, ma più a modo nostro, invece che credere fino in fondo al nostro Dio.

 

3) Eccoci al terzo punto. Non possiamo sottrarci alla fatica. Anzi, con più precisione debbo dire: non riusciamo nella vita spirituale perché non abbiamo compreso il mistero del Regno di Dio che sboccia nella fatica, nella lotta interiore e nell’acquisizione della conoscenza delle nostre anime. Pensiamo alla parabola del seminatore ( cfr. Luca 8,4-15 ). Il seme della parola di Dio cade in diversi tipi di terreni, che raffigurano sia le diverse categorie di persone che le varie fasi del cammino spirituale. Dice il Signore che il seme che cade lungo la strada,   il diavolo lo porta via. La strada raffigura le anime incapaci di fermare il vagabondare dei loro pensieri. La nostra mente è un continuo ticchettio di pensieri, spesso senza capo né coda, ci troviamo continuamente al mercato, in un vociare generale, dove chiunque passa, avanti e indietro, come vuole.

Ecco, il primo combattimento che dobbiamo intraprendere perché il diavolo non prelevi le parole di Cristo nel nostro cuore è il combattimento con i pensieri. Il nemico penetra attraverso i pensieri e non attraverso i desideri. All’inizio della vita spirituale non possiamo padroneggiare i nostri desideri. La lotta comincia nei pensieri; cerchiamo di bloccare questo continuo va e vieni dei pensieri.  Se lasciamo che i pensieri ci invadano e si scontrino in noi, perdiamo ogni difesa contro il diavolo. Come fare? Cerchiamo di fissarci un solo pensiero, un pensiero unico. Proviamo, ad esempio, a piantare al centro della nostra giornata un pensiero e ritorniamoci appena ci accorgiamo che ce ne siamo allontanati. Per esempio: Dio è buono, oppure Dio ci salva, ecc. Una folla di preoccupazioni, di desideri e di pensieri si appiccicano a noi, gli uni sugli altri. All’inizio del cammino, teniamo conto dei nostri sentimenti, non maltrattiamo il nostro cuore, ma creiamoci un pensiero, anche attraverso una preghiera corta spesso ripetuta, come la preghiera di Gesù, ad esempio. Nella psicologia è il desiderio a sostenere il pensiero. Se sono innamorato, non faccio fatica a pensare alla mia donna. Ma nello spirito, succede il contrario. E’ il pensiero a far nascere il desiderio, perché non credo che alcuno di noi abbia un desiderio del cielo così forte da  calamitare i suoi pensieri!

C’è un’altra parabola di Gesù che fa al caso nostro, la parabola del granello di senapa ( Matteo 13, 31-32 ). E’ il più piccolo di tutti i semi, ma poi diventa un albero e gli uccelli del cielo vengono ad annidarsi fra i suoi rami. Gli uccelli sono simbolo dei nostri pensieri. Pensate alla fatica che occorrerebbe se dovessimo inseguire pensiero per pensiero. Sarebbe impossibile riuscire nell’impresa.  Se invece ci fissiamo su un pensiero unico, su di una parola di Dio che lasciamo crescere nella terra del nostro cuore, allora questa, ingrandendosi, radicandosi, attira a sè tutti gli altri pensieri. E’ questo lo sforzo vero che deve fare il nostro cuore: credere fino in fondo a Dio, credere alla sua fedeltà e alla sua potenza di compiere le sue promesse. Accogliere la sua parola di salvezza significa fidarsi del suo dono e lottare per non lasciarsi smuovere da questa fiducia.

QUARTO VENERDI’.  Chiesa, segno di benedizione.

Letture proposte Ef. 1, 3-114; Ef. 2, 13-22

Preghiera conclusiva  (composta in un lager )

         Lodato sia il Signore per tutte le cose,

         la sua umiltà e la sua provvidenza.

         Lodato il suo amore per tutte le cose,

         lodata la sua lunga pazienza.

         Lodato sia il Signore che perdona le colpe,

         largisce successi ed afflizioni;

         lodato il Signore il quale ha disposto

         che vivessimo tempi fatali.

         Lodate il Signore pene e rovesci,

         voi gioie serene e dolori,

         voi mali affliggenti la vita

         che fate più umile il cuore.

         Lodato sia il Signore che aiuta noi stanchi

         in cammino alla meta agognata,

         lodato lui che accende nel cuore

         l’anelito al vero e alla pace.

         Lodato sia il Signore per le croci che pesano,

         l’aiuto che accorda nella lotta interiore,

         la quiete e il fuoco che provano.

         Per tutte le cose sia lodato il Signore!

Il tono di Paolo nella lettera agli Efesini è estremamente solenne : Benedetto Dio … che ci ha benedetto … con ogni benedizione.

La chiesa, la comunità dei credenti, è il luogo della coscienza di tale benedizione.

La chiesa è ‘segno’ di benedizione a doppio titolo:

1) in senso oggettivo. La chiesa custodisce la benedizione di Dio riservata a tutta l’umanità. Il libro degli Atti degli apostoli, cap. 3, v. 25, dice : ” Voi siete i figli dei profeti e dell’alleanza che Dio stabilì con i vostri padri, quando disse ad Abramo: nella tua discendenza saranno benedette tutte le famiglie della terra “.

Sorge la domanda : che cosa gli altri, i non credenti, i non cristiani, ci dovrebbero ‘invidiare’? In che cosa custodiamo questa ‘benedizione’ di Dio per tutti? Sarebbe bello che ognuno rispondesse per iscritto e poi si desse conto di tutte le risposte. Avremmo l’immagine interiore della nostra comunità.

2) in senso soggettivo. La chiesa celebra la benedizione di Dio, è capace di benedire Dio e attira la benedizione di Dio. Mi soffermerò solo su questo secondo aspetto, che coinvolge gli atteggiamenti del cuore di fronte alla vita.

Benedire equivale a ringraziare. Benedire significa riconoscere con gratitudine  il bene ricevuto. Nel nostro linguaggio religioso usuale adoperiamo un termine di cui ci sfugge oramai la pregnanza, anche perché non ne viviamo più il contenuto in tutta la sua forza e verità. Mi riferisco all’ EUCARESTIA. La parola ‘eucarestia’ non è che la traduzione greca della parola ebraica ‘berakah’, ‘benedizione’. La preghiera più solenne della cristianità è una preghiera di benedizione, vale a dire di ringraziamento e di lode per il dono di Gesù nato, morto, risorto e partecipato a noi nella potenza del suo Spirito perché  si ricomponga la famiglia di Dio, pienamente riconciliata con Lui, in un mondo rinnovato e trasparente alla sua grazia, a gloria del Padre.

All’inizio del canone eucaristico, quando il sacerdote proclama il prefazio, inizia con le parole:” E’ cosa veramente buona e giusta ringraziarti (= benedirti) sempre e ovunque …”.

Come dice il salmo 34, 2 : ” Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode “. 

Abbiamo disimparato a benedire. Troviamo difficile rinvenire in ogni cosa o avvenimento la bontà di Dio, stentiamo a riconoscere e non muoviamo più il cuore a vedere in ogni cosa la sua grazia. La vita allora si appiattisce e il cuore cade nella rivendicazione. Perdiamo l’umiltà per aprirci alla vita e la vita si ritira da noi. 

Nella prima lettera ai Tessalonicesi, cap. 5, v. 16, ci sono dati tre comandi da parte del Signore:      – state sempre lieti

                   – pregate incessantemente

                   – in ogni cosa rendete grazie.

Letizia, preghiera continua, rendimento di grazie: tre cose inscindibili. Senza una della tre, le altre due diventano irraggiungibili. Di per sé l’ordine non è interscambiabile. Dalla letizia di cuore proviene la preghiera continua, la quale genera il rendimento di grazie. Tuttavia, in qualche modo, il rendimento di grazie (= la benedizione) contiene i primi due, dato che il rendere grazie comporta sempre, sebbene spesso senza viva coscienza, la letizia di cuore e la preghiera. In effetti è un dato dell’esperienza e della tradizione il fatto che l’esercizio del rendere grazie in ogni cosa libera l’uomo da se stesso perché lo affida a Dio, il quale ci guida e tutto stabilisce per il nostro bene. Solo l’umile lo capisce, ma il conoscere che qualunque cosa ti accade è per il bene, ti innalza ad una vita da paradiso. ” Benedirò il Signore in ogni tempo …”, nella gioia e nel dolore, nel successo e nell’afflizione, nella pace e nell’angoscia, nella virtù e nel peccato, ecc. A volte la vita è drammatica. Ricordarci allora che non abbiamo nulla da rivendicare, ma aprire il cuore alla benedizione, non è tanto facile. Eppure, non ci sono altre porte per entrare nella vita. Scriveva una giovane ebrea olandese morta nei campi di sterminio nazisti, Etty Hillesum: ” Va bene che tu affacci la tua testa in cielo, ma non che tu cacci il cielo nella tua testa. Ogni volta vorresti rifare il mondo, invece di goderlo com’è “.

La ragione di questo atteggiamento è mostrata da un pensiero di Isacco Siro, un grande autore mistico dei sec. VII-VIII, vissuto nella regione che oggi si chiama Iraq : ” Il cuore portato a rendere grazie continuamente conduce all’uomo i carismi di Dio … La grazia investe il cuore che persevera in tale eucarestia “.

Voglio portare due esempi. Il primo è riportato dalla stessa s. Teresa d’Avila. Aveva incontrato una nobildonna, tutta opere pie, dedita alla carità verso i poveri e gli ammalati. Un giorno si ammala ed è costretta a letto. Si lamenta col Signore: “Perché, Signore? Potevo fare tanto bene, ed invece sono qui a letto, di peso agli altri …”. In poche parole, faceva la lagna davanti al Signore e a quanti venivano a visitarla. S. Teresa commenta: quando faceva le opere di carità era gradita a Dio perché agiva secondo quanto Dio le chiedeva; ora che è a letto è gradita a Dio perché così a Dio è piaciuto. Nell’un caso come nell’altro, il vero atteggiamento dell’uomo credente è quello di cercare di seguire ciò che a Dio piace, non di fare una cosa o l’altra, pur nel suo nome. E come riuscirvi meglio che nell’imparare a benedirlo in tutto?

Nei detti dei Padri del deserto si riporta il caso di un fratello affetto da malattia, che si lamentava, nel suo zelo, di non poter più partecipare alla preghiera, di non poter più seguire i digiuni prescritti e di essere di peso agli altri a causa della sua malattia. L’anziano così l’ammonì : ricorda che chi sa rendere grazie in tutto è assolto da ogni altro obbligo.

C’è tanta saggezza e tanta pace in questo. A noi impararla.

In sostanza, credo che l’impedimento ad assumere una tale disposizione di cuore, che certifica la sincerità del nostro essere discepoli del Signore, sia l’incapacità o perlomeno la non abitudine a tenere un atteggiamento positivo di fondo. Mi spiego con un esempio preso dal vangelo. Se prendiamo il passo di Matteo 5, 17-19, troviamo che Gesù ci ingiunge di osservare i comandamenti, anche minimi. La sua esortazione a praticare anche i comandamenti più piccoli non procede certo da una sensibilità rigorista, perfezionista, come se l’uomo dovesse tendere principalmente a non fare mancanze. Procede invece da una motivazione eminentemente positiva, che però stentiamo a riconoscere e che dobbiamo invece abituarci a scoprire. Ogni pur minimo comandamento è luogo della manifestazione di Dio, è possibile luogo di incontro con Dio. L’uomo è circondato dalla bontà del Signore che gli permette di aprirsi a Lui in ogni sia pur minima cosa. Occorre come costringere (all’inizio si tratta di una vera e propria fatica, anche se poi ci si accorge che è una fatica liberante e che sprigiona energia, piuttosto che consumarne. All’inizio si sente di più ‘quanto è stretta la via del cielo’, in seguito ‘il mio giogo è soave e il mio carico leggero’), dicevo, occorre come costringere il cuore al riconoscimento di questa reale possibilità e il modo migliore è quello di imparare a benedire Dio in tutto, sempre, per ogni cosa. Il resto il cuore lo impara dall’esperienza e dalla guida dello stesso Signore che abita  dentro di noi. Così, non bisogna crucciarsi delle mancanze commesse ( a volte, troppo spesso, ci riduciamo a far la lagna!) quanto dell’incapacità di cogliere le continue occasioni di vedere Dio, di sentire Dio, di incontrarlo.

Quello che dice il salmo 133 ” quanto è buono e soave che i fratelli vivano insieme ” diventa, per la comunità dei credenti che hanno imparato a benedire Dio in ogni tempo, a rendergli grazie in tutto, l’assunzione di un compito, quello di far provare la gioia di quelle parole. Se impariamo a benedire Dio per ogni cosa, come non benedirlo per ogni incontro, per ogni occasione di incontro. Se l’incontro è vissuto con questo atteggiamento di benedizione svelerà la sua grazia. Mi diceva un anziano monaco: c’è tanta noia a voler essere i primi. Non si ha nulla da imparare e la vita diventa noiosa. Ad essere ultimi, la vita è sempre interessante, perché c’è sempre da imparare. Chi benedice è capace di portare la beatitudine di Gesù: beati gli ultimi perché saranno primi.

QUINTO VENERDI’.     Chiesa, comunità orante.

Lettura proposta Daniele  3, 26-45

Preghiera conclusiva

         Santa Maria, Madre di Dio

         conservami un cuore di fanciullo,

         puro e limpido come acqua di sorgente.

         Ottienimi un cuore semplice,

         che non si pieghi ad assaporare le proprie tristezze.

         Un cuore grande nel donarsi,

         facile alla comprensione,

         un cuore fedele e generoso

         che non dimentichi alcun bene

         e non serbi rancore per nessun male.

         Formami un cuore umile e dolce

         che ami senza esigere di essere riamato;

         un cuore grande e indomabile

         così che nessuna ingratitudine lo possa chiudere

         e nessuna indifferenza lo possa stancare;

         un cuore tormentato dalla gloria di Gesù Cristo,

         ferito dal suo amore con una piaga,

         che non si rimargini se non in cielo.

La preghiera che è stata letta dal libro del profeta Daniele acquista tutta un’altra consistenza quando teniamo presente che si tratta del cantico di Azaria, uno dei tre giovani condannati dal re Nabucodonosor al fuoco della fornace , per essersi rifiutato di idolatrare la sua statua d’oro. Situare le sue suppliche e le sue benedizioni in quel contesto drammatico significa afferrare la profondità del suo sentimento di fede.

Che cos’è la preghiera? Ogni definizione non può che sfiorarne l’essenza.

Noi siamo soliti considerare la preghiera a partire da noi. E se la considerassimo a partire da Dio? Cos’è la nostra preghiera per Dio?

Come ci suggerisce un racconto hassidico, immaginate la scena di due bambini che giocano a nascondino sotto la sorveglianza del nonno. Conoscete tutti il gioco. Uno si nasconde e l’altro lo deve cercare. Succede che uno dei due bambini si nasconde così bene che l’altro, stufo, desiste nel cercarlo e si mette a giocare ad altro. Allora il primo, tutto piangente, corre dal nonno e si lamenta così: ” Non mi cerca più! “. Al che il nonno, pensando al rapporto tra Dio e gli uomini, esclama: ” Ecco, questo è proprio il lamento di Dio: non mi cercano!”.

Dice il salmo 34, 5 : ” Ho cercato il Signore e mi ha risposto e da ogni timore mi ha liberato “. Ho cercato il Signore, non : ho cercato salute … beni … ricchezza e mi ha risposto! Ecco l’ostacolo, l’impedimento che spesso avanziamo a giustificazione della fatica o dell’inutilità della preghiera: Dio non mi ascolta. Perché chiedere se poi non ottengo risposta?

Luca 18, 1-8 (la vedova che importuna il giudice disonesto) riporta una frase che suona contradditoria. Come può il Signore dire che Dio esaudisce prontamente quando ha appena ricordato che i suoi eletti bussano giorno e notte nella speranza di essere esauditi ( quindi, in realtà, non lo sono )?

In un  altro passo Gesù dice: ” Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono! ” (Luca 11, 13).

Ecco il senso della preghiera: chiedere lo Spirito Santo. Dio esaudisce prontamente ogni richiesta di Spirito Santo, vale a dire l’anelito del cuore che non si accontenta delle cose che provengono da Dio, ma che cerca proprio Dio, l’incontro, l’intimità con Lui. Allora, per le cose di cui abbiamo bisogno, prima che di richiesta, si tratta di affidamento: abbiamo fiducia che Dio dispone ogni cosa per il nostro bene.  Fare la volontà di Dio significa prima di tutto fidarsi del proprio Dio, credere al suo amore fino in fondo e cercare di stare con Lui, non di avere i suoi doni. Se la preghiera è questo, allora non c’è preghiera che non venga esaudita. Dio cerca adoratori e amici, non semplicemente ‘consumatori’, ‘utenti’, ‘fruitori’, ‘clienti’, termini che ben si addicono a quanti ricercano prima di tutto le cose.

Due sono gli aspetti che metterei in rilievo a proposito della preghiera:

1) la preghiera è il luogo della nostra trasformazione da individui a persone. L’individuo è istinto di sopravvivenza, istinto egoistico: tutto mi serve e di tutti mi servo per affermare me stesso. Persona dice invece istinto di comunione, capacità di relazione, incontro d’amore. Egoismo dice solitudine e l’uomo sente che non è fatto per star solo. La preghiera è il luogo per eccellenza che svela al cuore questa sua esigenza assoluta e l’accompagna lungo la via per realizzarla, perché fa cadere ogni pretesa o giustificazione per il proprio egoismo di fronte a Colui che lo chiama a partecipare alla beatitudine dell’amore, sebbene sia tanto diversa da quella che noi ci aspetteremmo.  Basta che ci specchiamo nelle beatitudini proclamate da Gesù:  le sentiamo davvero nostre?

2) la preghiera è esperienza profonda di umanità. La preghiera dei salmi è l’espressione di una umanità che grida, impreca, implora, ringrazia, loda. La banda dei sentimenti che lasciamo disponibile per la preghiera è davvero ristretta. Impariamo dalle Scritture: tutta la gamma dei sentimenti deve passare nella preghiera, senza timore. E poi è esperienza di umanità ad un altro titolo. La preghiera permette la scopertura del nostro cuore a tutti i moti e gli affetti che lo attraversano, imparando a prenderlo in mano e a presentarlo davanti al nostro Dio, Lui che conosce tutti i segreti, con la fiducia di essere accolti, non perché belli, ma perché grande è il suo amore per noi.

In uno dei miei viaggi in Romania, al tempo della dittatura di Ceausescu, alla domanda di come si debba fare per pregare in modo puro, un eremita mi rispose così: “Padre, non siamo più capaci di pregare in modo puro. Era una caratteristica dei nostri Padri, i quali erano molto più santi di noi. Noi non possiamo più essere a quel livello. La preghiera pura per noi oggi è la preghiera che fa scaturire nel cuore l’amore per i fratelli”. Parlava un eremita che da più di trent’anni viveva in solitudine in un eremo sperduto nella foresta, in Moldavia. Mi spiegava: “Vede, padre, siamo in una foresta, qui passano pochissime persone, eppure il clima che respiro non è più il clima puro di un tempo. Respiro il clima del mondo di oggi, tormentato da angosce, ingiustizie, passioni, dolori (non si dimentichi che eravamo in pieno regime comunista!). Il primo compito, il più essenziale, non è allora quello di tendere alla preghiera pura, irraggiungibile, ma di tendere ad avere il cuore pieno di amore per i fratelli. E poi scopro che non posso ottenere questo senza la preghiera”. Ecco, la preghiera è anche questo: esperienza di solidarietà con i nostri fratelli, nel bene e nel male.

Due sono i punti deboli del nostro vivere quotidiano che ci fanno prigionieri di un timore che portiamo latente dentro di noi, timore che ci chiude in un certo disprezzo di noi stessi, nella diffidenza verso gli altri e, per contrapposizione, come forma di autodifesa, nell’arroganza e nell’aggressività. Viviamo un’umanità senza profondità e senza intimità.

Vi riporto la riflessione di una conversazione con una responsabile di una comunità terapeutica. Mi diceva: “Padre, se non avessi la mia ora di preghiera quotidiana e di confronto con la Parola del Signore, come potrei distinguere nel mio cuore la rabbia dovuta al mio amor proprio ferito da quella che invece è frutto dello zelo per il Signore e dell’amore verso le mie sorelle malate? Quando sono afflitta da un atteggiamento cattivo degli altri, come posso capire se deriva dalla malevolenza altrui e quindi sopportarla in pace oppure se si tratta soltanto della mia vanità e quindi farmi interrogare sui miei atteggiamenti? A volte son proprio tirata per i capelli, si creano situazioni che ti mandano fuori dalla grazia di Dio … Solo con la preghiera si impara a riconoscere il proprio cuore in sincerità”.

La profondità comporta due elementi:

– la pazienza. Pregare costa fatica.  Diversamente da quanto ci si immagina, la preghiera, per diventare spontanea e forte, deve prima essere tenace. Richiede tanta fatica quanto quella necessaria per passare dall’essere individui a diventare persone, per preferire l’incontro di una persona alla fruizione di cose, la gratuità all’interesse. C’è un detto dei Padri del deserto che illustra bene la cosa.  I fratelli chiesero al padre Agatone:”Padre, nella vita spirituale quale virtù richiede maggior fatica?”. Dice loro:”Perdonatemi, ma penso che non vi sia fatica più grande come pregare Dio. Infatti, quando l’uomo vuole pregare , i nemici cercano di impedirlo, ben sapendo che da nulla sono così ostacolati come dalla preghiera. Qualsiasi opera l’uomo intraprenda, se persevera in essa, possederà la quiete. La preghiera invece richiede lotta fino all’ultimo respiro”.

– il pentimento. Cosa pensate porti alla concentrazione? Forse che è sufficiente cercare un luogo tranquillo, non avere preoccupazioni (come se la vita te lo concedesse facilmente!), fare uno sforzo mentale o di volontà? Tutte cose utili, ma non essenziali. L’unica cosa essenziale è stabilirsi in un atteggiamento di profondo e sincero pentimento. Questo significa che più riconosciamo i nostri peccati, i peccati nel nostro cuore e più saremo concentrati nella preghiera perché consapevoli del bisogno del perdono del Signore. La concentrazione non è un compito mentale o un problema psicologico. La preghiera non sboccia in conseguenza della capacità di usare una tecnica appropriata, ma unicamente in conseguenza della capacità di essere obbedienti e umili, i due segni di riconoscimento del pentimento.

Permettetemi una battuta. Quando il Signore va alla ricerca di Adamo dopo il peccato, lo trova ancora sull’albero. Ecco, noi siamo ancora appollaiati lassù. Se non scendiamo (= se non abbandoniamo le nostre giustificazioni), non potremo trovare il Signore che si trova ai piedi dell’albero perché è disceso per farsi uomo. E se non incontriamo il Signore, non troveremo nemmeno l’amore per i fratelli. Infatti ogni perfezione perseguita per se stessa, senza che porti all’amore per i fratelli, è vuota, sciocca.

L’intimità invece richiama la sincerità. Non siamo mai sinceri davanti a Dio (ancor meno davanti agli altri e spesso davanti a noi stessi). Dove non c’è sincerità non c’è intimità e dove manca intimità l’incontro è freddo e banale. Si riporta del Baal Shem Tov, il fondatore del movimento chassidico che tanto fervore ha suscitato nelle comunità ebraiche del centro Europa nel settecento, che una volta era stato invitato a visitare una sinagoga gremita di gente. Al suo arrivo la gente gli fa ala per farlo entrare ma lui si ferma sulla soglia e dice: “Non posso entrare. Non c’è spazio”. E commenta: “Le preghiere che sono state fatte in questo luogo non hanno superato il tetto, sono rimaste ammassate dentro”. Le nostre preghiere oltrepassano il tetto della chiesa, della casa, dove le compiamo?

La sincerità dà ali alla preghiera. Imparare ad essere sinceri, fino in fondo, senza barare, è la credenziale migliore alla porta del cielo. E non crediate sia così facile come sembra!

Potremmo fare una preghiera come questa? ” O Signore del mondo. So che non ho virtù o meriti che ti autorizzino a mandarmi in paradiso dopo la mia morte. Ma se è tua volontà mandarmi all’inferno in mezzo agli empi, sai che non sono fatto per intendermela con loro. Quindi, ti prego di portare fuori dall’inferno tutti i malvagi prima di spedirmi laggiù”.

Un’ultima annotazione. Un grande teologo romeno recentmento scomparso, padre Dumitru Staniloae, definiva il peccato in modo singolare: un attaccamento infinito a ciò che è finito. Anche in questo il cuore umano ha la percezione netta di desiderare l’infinito. Il problema è quello di ridare il contesto infinito a questo attaccamento infinito. Ed è proprio quello che avviene nella preghiera, aprendoci a Dio, aprendo ogni nostro pensiero e preoccupazione a Dio.

SESTO VENERDI’.     Comunità di inviati.

Letture      Atti  1, 6-11;  2, 32-39

Preghiera conclusiva

         Ti preghiamo, o Cristo, di rendere puri i nostri cuori

         da ogni umana paura,

         perché nella paura c’è l’ingiustizia.

         Fa’ che possiamo essere liberi nel tuo amore,

         liberi nel nostro cammino verso di te.

         Insegnaci a vivere in te,

         a servire te e a morire per amor tuo.

         Insegnaci, Signore, ad abbandonare a te

         noi stessi, l’un l’altro e tutta la nostra vita.

Tutto parte dal principio che la fede muore se non è condivisa.

La dinamica della missione investe tre soggetti: Dio che invia, noi come inviati e il mondo a cui si è inviati. Parlando ai giovani a Manila il papa sottolineava che non bisogna amare solo Dio che invia, ma anche il mondo a cui si è inviati. E’ una costatazione semplice ma assai spesso disattesa. Siamo capaci di guardare con benevolenza e non con diffidenza, con compiacenza o con connivenza la società, il mondo, la cultura, la modernità, la vita, le azioni degli altri ?

Tre sono le caratteristiche che mi sembrano dover contraddistinguere gli inviati:

1) devono riuscire credibili. C’è quindi un problema di credibilità, che è data dal rapporto di intimità con chi ci invia. Gesù dice: “Allora ho detto, ecco io vengo a fare la tua volontà” (cfr. Ebrei 10, 5-10). Notate la contraddizione. Gesù nei vangeli è presentato come la persona che parla ed agisce con autorità, che insegna con autorità e poi di se stesso dice: non faccio nulla da me stesso, faccio solo ciò che piace al Padre. E’ autorevole, ma fa solo ciò che vuole un Altro. Come risolvere la contraddizione? L’agire di Gesù è un fare che non procede tanto dalla volontà, bensì dalla coscienza e dal vissuto di intimità con il Padre. Il legame con lui è così intimo e profondo che ciò che vuole l’uno vuole l’altro. Pensate alla libertà. Come immaginate sia possibile conquistarla? Entra solo dalla porta dell’obbedienza. Chi sa obbedire nel corso della sua vita si libera dalla pesantezza del destino; chi si rivolta contro tale pesantezza, rafforza i legami del suo destino interiore.

Pensate al trucco delle donne. La donna che si trucca sa che costa fatica, tempo ed anche soldi truccarsi bene, ma sopporta facilmente perchè è tutta immedesimata nello scopo che si prefigge: piacere! Nello spirito succede la stessa cosa.  La fatica dell’umiltà, della generosità di cuore, del perdono fa accedere all’intimità dell’amore, alla gioia ed alla pienezza del vivere. La fatica della preghiera all’intimità dell’incontro con Dio e di conseguenza alla potenza dell’annuncio perché eco di quella intimità, che tutti desiderano, ma per la quale pochi si predispongono.

La forza del messaggio è basata prima di tutto sulla forza di Chi ci affida il messaggio e la nostra credibilità è in funzione del grado e dell’intensità dell’intimità nel rapporto con Colui che ci invia. ” .. ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita … quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo a voi …” ( 1 Gv. 1, 1-3 ).

Il cuore umano non ha bisogno di illusioni. Così, non illudiamoci di poter riempire di noi un altro cuore. Esso è fatto per un’infinità più grande. Se il nostro amore lascerà trasparire qualcosa di più grande di lui, allora i cuori staranno bene con noi, si sentiranno consolati e la speranza rinascerà dentro di loro. 

2) devono essere portatori di speranza. E’ il problema dell’ossatura spirituale. Occorre imparare a fare il bene fino in fondo, a fare il bene ‘bene’. Lascio solo dei flash veloci.

La speranza è non aver paura della verità. Il carisma dei credenti mi sembra ben riassunto da un’espressione di Ernesto Olivero, il fondatore del SER.MI.G. (Servizio Missionario Giovani): contemplativi in azione nel mondo.

Si parla troppo, credo a sproposito, dell’amore, della carità, senza indicarne i tragitti perchè i cuori se ne possano riempire. Io parlerei più semplicemente di uno di questo tragitti: imparare ad onorare il prossimo, sempre, in ogni circostanza, senza badare al nostro interesse. Quante presunzioni coltiviamo nel desiderio di amare il prossimo! Impegnamoci invece ad onorarlo, semplicemente e scoprirete che il cuore si predisporrà all’amore. Come sull’umiltà, quante immagini false! L’umiltà non è tanto chinare la testa, ma fare in modo che nessuno chini la testa davanti a noi.

L’espressione, un po’ sconsolata, del Signore: “Quanto ritornerò, troverò ancora fede sulla terra?”, penso si possa interpretare anche così: finita un’azione, pur iniziata nel nome di Dio, siamo ancora in compagnia di Dio? Il nostro impegnarci in qualche azione di volontariato, in qualche attività della parrocchia, nei vari compiti ministeriali per noi sacerdoti, finisce in compagnia del Signore oppure si riduce a registrare il successo o l’insuccesso, la rabbia se qualcosa non è andato per il verso giusto, l’irritazione per la mancata collaborazione di qualcuno, ecc. ?

Chiaramente tutti siamo manchevoli. Nella parabola delle vergini, sia le stolte che le sagge dormono. Io dico: almeno, che il nostro sonno sia leggero, perché il gemito che sale dal cuore degli uomini che incontriamo ci svegli per andare incontro al Signore nei nostri fratelli. L’eco delle sue parole ci accompagni: ” L’avete fatto a me ” (Mt. 25, 40).

Fare il bene fino in fondo significa non rinunciare al bene per alcun motivo e spesso, nella vita, fare il bene significa sopportare con pace il male che si scatena contro. Allora diventiamo portatori di speranza: siamo divenuti testimoni viventi che Dio è in mezzo a noi e che ha vinto il male e la morte.

3) devono esprimere gioia. Il loro agire deve avere un certo timbro, quello appunto della gioia. Sempre secondo san Giovanni, la gioia è la vita che si diffonde ( cfr. 1 Gv. 1, 4 ).

Potrei definire la gioia come il test di credibilità del nostro annuncio sia come persone che come stile di vita. Mi spiego. Anzitutto come persone. Nella vita ci si può benissimo ribellare, specie con Dio, ma mugugnare no. Ci possiamo sì lamentare, ma far la lagna no. Troppo spesso abbiamo azionato il registro della lagna. Essa denota povertà di intimità e quindi impossibilità di gioia, perchè la gioia non viene dal successo delle cose, ma dall’intimità di un incontro. Poi come stile di vita. Volete scoprire una scorciatoia per indurre al bene il vostro cuore? Imparate prima di tutto a gioire del bene dell’altro. Il modo più semplice (benchè non proprio il più facile!) di fare il bene è quello di imparare a godere sinceramente del bene che vediamo presente negli altri o fatto dagli altri.  E ancora: abbiamo disimparato a benedire. Benedire significa vivere dentro la grazia, e quindi la gioia, che ogni avvenimento porta con sè, perchè accolto dalle mani di Dio. Se riusciamo a benedire Dio per ogni fatto che ci capita, allora viviamo nella sua grazia e la gioia non può mancare (e si deve vedere!).

La gioia è legata a doppio filo con la fiducia negli uomini e nelle cose perchè Dio è padre di tutti e creatore di tutte le cose e con la benevolenza/dolcezza, con quello sguardo interiore che  definisce l’atteggiamento profondo del nostro cuore. Un piccolo suggerimento per ritrovare la fiducia? Non permettetevi di parlare male alle spalle. Non dico di non parlare male, non criticare, non arrabbiarsi, ecc. Semplicemente, di non farlo alle spalle.

Se potessi sintetizzare il tutto, direi con san Paolo: ” Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari ” ( 1 Tess. 2, 8 ). Due domande. La prima. E’ possibile annunciare il vangelo a qualcuno senza sentirlo caro? La seconda. E’ possibile sentirlo caro senza che l’altro se ne accorga? Ecco, qui mi sembra racchiuso tutto il senso della missione.