WORDPDF

INTRODUZIONE

Un giorno padre Galaction pose questa domanda a un eremi­ta che aveva incontrato per caso nella foresta: “Ditemi, pa­dre: quando verrà la fine del mondo?” E quel sant’uomo, so­spirando, rispose: “Lo vuoi sapere, padre Galaction? Quan­do non ci sarà più sentiero tra l’uomo e il suo vicino[1]!”.

Troviamo qui una sorprendente definizione del senso della vita come comunione. Tanto più interessante e significativa in quanto a pronunciarla è un eremita, un sihastru, come viene chiamato in Romania il monaco che vive in solitudine. Quando gli uomi­ni pretenderanno di vivere dietro steccati egoistici, chiuderan­no i cuori l’uno nei confronti dell’altro, si scorderanno l’amore, il servizio reciproco, in una parola la “comunione”, la vita si svuo­terà di senso, il mondo sarà giunto alla sua fine.

La mirabile espressione dell’anonimo sihastru interpreta a fondo il tratto forse più saliente di un modo di intendere la vita, l’im­pegno religioso, la cultura, che da sempre ha caratterizzato la spiritualità del popolo romeno lungo la sua storia. La traduzio­ne dei colloqui con le grandi figure del monachesimo romeno contemporaneo che presentiamo in questo libro ne fornirà un’ul­teriore prova. L’aggiunta di una nostra Introduzione si giustifi­ca solo con il tentativo di delineare quel più vasto contesto storico-­religioso, generalmente poco conosciuto, che fa da sfondo alle testimonianze personali eco dell’anima di un popolo e di una chiesa, espressione del loro modo particolare di vivere l’espe­rienza cristiana.

Romania incrocio di culture

L’antica Dacia, che copriva grosso modo l’odierno territorio della Romania, è stata per eccellenza il paese degli incontri, co­me del resto in genere tutta la regione del sud-est europeo. In quella terra etnie, religioni e culture differenti si sono incontra­te, confrontate e mutualmente influenzate per almeno tre millenni. I geto-daci, popolo indoeuropeo imparentato con i traci, sono considerati gli antenati dei romeni. Costruirono la loro iden­tità culturale con l’apporto sia dei celti che degli sciti e delle co­lonie greche del mar Nero. Le ricerche archeologiche hanno por­tato alla luce le loro imponenti fortezze, le officine di lavorazio­ne dei metalli e i loro centri di culto. La compagine statale che si delineava sotto Burebitsa nel primo secolo a.C. appariva così potente che Roma stessa si mise in allarme, decidendo di sog­giogare la regione. Sarà appunto dalla fusione dei discendenti dei soldati e coloni romani con la popolazione indigena che avrà origine il popolo cosiddetto daco-romano, unito dalla stessa lin­gua, il latino.

Nel complesso delle diversità che caratterizzano la storia politico-culturale della Romania, associata com’è, verso sud, al mondo balcanico dominato dall’influenza religiosa e artistica di Bisanzio e più tardi dell’impero ottomano e, verso nord, espo­sta al mondo germanico e ungherese, l’elemento che fornisce il principio di unità è dovuto proprio alla latinità impressa dalla conquista di Traiano nel 106 d.C. e mai venuta meno. È singo­lare che il solo popolo che sia riuscito a vincere definitivamente i daci, che abbia occupato e colonizzato in profondità il loro paese e ne abbia imposto la lingua, sia stato il popolo romano. Ambe­due, daci e romani, hanno elaborato il loro mito genealogico at­torno all’animale mitico del lupo. I daci si chiamavano antica­mente “i lupi”, “quelli che somigliano ai lupi”; i loro stendardi di guerra portavano l’immagine del lupo-drago. I romani si so­no concepiti come i discendenti di Romolo e Remo, figli del dio­ lupo, Marte, allevato dalla lupa del Campidoglio. Dal punto di vista della prospettiva mitologica della storia, come nota il fa­moso storico delle religioni, il romeno Mircea Eliade, si potreb­be dire che il popolo romeno, nato dalla fusione dei daci e dei romani, sia stato generato sotto il segno del lupo, cioè predesti­nato a guerre, invasioni, emigrazioni[2]. In effetti sembra proprio che la storia si sia ripromessa di dimostrarlo. Invadono succes­sivamente la Dacia i goti, gli unni, gli avari; tuttavia, se pure obbligano gli abitanti a rifugiarsi sui e oltre i Carpazi abbando­nando le città, non ne intaccano la coesione e l’identità. Sarà invece la grande invasione degli slavi, che a partire dal VI seco­lo si riversano a ondate successive su tutta la penisola balcanica, a lasciare un segno profondo e a concludere la formazione del popolo romeno. Aggregata al potente impero bulgaro dello zar Simeone (893-927) l’antica Dacia entra nell’orbita culturale di Bisanzio. La chiesa romena adotta la liturgia nella lingua slava che gli inventori dell’alfabeto slavo, Cirillo e Metodio, avevano inutilmente creato per la Moravia, ma che i loro discepoli Cle­mente di Ochrida e Naum avevano introdotto in Bulgaria. La lingua romena si arricchisce di un nutrito vocabolario slavo, ma conserva inalterata la sua struttura latina.

L’esistenza ormai del popolo romeno risulta così inconfondi­bilmente caratterizzata per tutto il corso successivo della sua sto­ria. Come l’hanno definita gli storici: “la latinità orientale”, se­gnata in egual misura dal sigillo di Roma e dall’influenza di Bi­sanzio, con le radici saldamente piantate nel fondo ancestrale dei geto-daci. Dall’amalgama di questi tre elementi deriva al po­polo romeno la sua specifica consistenza che gli ha permesso di far fronte a tutte le influenze ulteriori dei popoli migratori che via via si sono succeduti. Da est scorrazzano i peceneghi, i cu­mani, i tatari e da nord-ovest gli ungheresi che, con i loro vas­salli, gli szekely o siculi, coloni turco-magiari e i sassoni, fatti venire dai re ungheresi per lo sfruttamento delle ricchezze mi­nerarie, prevalgono ormai in Transilvania.

Verso il XIII secolo il riflusso delle orde tatare dalle pianure danubiane favorisce il ritorno della popolazione romena dalla Transilvania verso sud, verso il Danubio e il mar Nero. Sotto l’autorità di voievodi[3], poi entrati nella leggenda, sorgono i principati di Valacchia, con Radu Negru e Basarab e di Molda­via, con Dragos e Bogdan. Sul finire del secolo XIV si rendono indipendenti dal dominio ungherese, ma appena un secolo dopo devono fare i conti con l’invasione ottomana. A differenza però delle altre regioni balcaniche, i principati romeni, pur pagando un tributo in denaro, conservano un’effettiva autonomia inter­na e la possibilità di crescere ne1 loro sviluppo culturale e religioso[4]. Anzi, da questo punto di vista, i secoli di vassallag­gio all’impero turco, specialmente i secoli XVI e XVII, registrano un momento di vero splendore. Le corti principesche di Sucea­va e poi di Iasi, capitale della Moldavia e di Curtea de Arges, Tîrgoviste e poi di Bucarest, capitale della Valacchia, conduco­no vita brillante e lussuosa, vengono fondati in gran numero chie­se e monasteri, si producono capolavori artistici nel campo dell’architettura, della pittura e della miniatura. Se la liturgia resta sempre slava, a partire dal secolo XVI si cominciano a tradurre i testi sacri dallo slavonico in romeno. L’impresa di Mihai Vi­teazul nel 1600 di riunire in un unico stato i principati di Valac­chia, Transilvania e Moldavia, benché di breve durata, rinforza la coscienza nazionale. Con il secolo XVII assistiamo al trionfo definitivo della lingua del popolo nella chiesa e nelle creazioni letterarie, soppiantando lo slavonico, anche se la scrittura della lingua romena conserverà i caratteri cirillici fino al 1860, quan­do verranno sostituiti con quelli latini.

Nubi minacciose accompagnano lo spuntare del secolo XVIII. Il tentativo dei principi Brâncoveanu (Valacchia) e Cantemir (Moldavia) per scuotersi di dosso il giogo ottomano con l’appoggio di Pietro il Grande sfocia nel disastro del 1711. I turchi occu­pano i principati, ai principi del posto sostituiscono degli “ho­spodars” nominati per tre anni dal sultano. Tali governatori ven­gono scelti tra le grandi famiglie bizantine del quartiere del Fa­nar di Costantinopoli, da cui l’espressione “regime fanariota” per designare questo periodo. Nello stesso anno 1711 la Tran­silvania viene annessa all’Austria. Verso la fine del secolo, con il declino del potere.ottomano, avanzano pretese territoriali, a danno dei principati, l’Austria, che nel 1775 si annette la Buco­vina, e la Russia, che nel 1812 si annette la Bessarabia, territo­rio moldavo compreso tra i fiumi Prut e Dnestr. Il risveglio di una coscienza nazionale, sotto la spinta delle idee libertarie dell’Europa dei Lumi e della cultura neo-bizantina delle classi diri­genti, lievita assieme ai tentativi di liberazione generale dei po­poli balcanici dal dominio turco. Ora sotto il protettorato russo-­turco, ora sotto quello austriaco-turco, i principati riacquistano una certa autonomia interna e nel 1881, dopo un’ennesima guerra russo-turca, viene proclamata l’indipendenza dei principati di Valacchia e di Moldavia, unificati fin dal 1859, i quali adottano un regime monarchico. Nel 1918 si costituisce la “grande Ro­mania” con l’unione della Bessarabia, della Bucovina e della Tran­silvania. Con alterne annessioni e cessioni territoriali nei con­fronti delle potenze confinanti, la Romania, con l’adesione al fascismo, esce sconfitta dalla seconda guerra mondiale. Si è do­vuta così integrare in un contesto politico ed economico a lei per nulla familiare. Il modello di sviluppo che si è imposto, sor­retto dalle istituzioni politiche, sociali ed economiche prese a prestito dall’Unione Sovietica, si è rivelato per molti aspetti con­trario alle sue disposizioni naturali oltre che oppressivo delle li­bertà civili, come è apparso a tutti chiaro con i recenti avveni­menti della rivolta popolare romena del dicembre 1989.

Tradizione esicasta romena

Se pare storicamente improponibile la credenza di una mis­sione evangelizzatrice dell’apostolo Andrea tra i daci della re­gione compresa tra il Danubio e il mar Nero, ciò nondimeno è sicuro che il cristianesimo è stato introdotto nella Dacia assai presto. G1i storici delle religioni non si spiegano facilmente co­me il dio principale dei geto-daci, Zalmoxis, l’unico che abbia interessato i greci e le élites del mondo ellenistico e romano e di cui si trovano testimonianze in vari scrittori fino alla tarda antichità, sia stato definitivamente dimenticato dopo la trasfor­mazione della Dacia in provincia romana. Tutti gli aspetti della religione di Zalmoxis spingevano a un confronto con il cristia­nesimo: il carattere misterico del suo culto, la sua dottrina dell’immortalità, l’ascetismo di gruppi religiosi caratterizzati da una vita monacale, in solitudine, celibi e vegetariani. Così che la spie­gazione più plausibile della scomparsa del culto di Zalmoxis sem­bra possa essere la cristianizzazione precoce della Dacia. Il cri­stianesimo, predicato in latino volgare, giocò un ruolo assoluta­mente determinante per la formazione del popolo daco-romano tanto che a buon diritto è stato detto che “la romanità e il cri­stianesimo sono le coordinate fondamentali della genesi del po­polo romeno”[5].

L’argomento più convincente dell’antichità della fede cristiana presso i romeni resta la loro stessa lingua. Di origine latina, essa esprime le nozioni fondamentali della fede cristiana con termi­ni provenienti dal latino, ma non identici a quelli che, nell’occi­dente latino, esprimono le medesime nozioni di fede. Ne conse­gue che i missionari in Dacia non venivano da Roma, con un linguaggio cristiano già ben definito, ma dalle regioni sud­-danubiane romanizzate ove la fede trovò espressione diversa[6]. Solo con l’invasione e la cristianizzazione dei popoli slavi (VII-IX sec.) le terre romene vengono integrate nella sfera della civiltà bizantina di lingua slava. Lo slavonico diventa la lingua liturgi­ca ed ecclesiastica nonché, più tardi, la lingua letteraria, della cultura e delle relazioni diplomatiche.

Non è il caso qui di presentare la storia dell’evoluzione del cristianesimo nelle regioni romene. Il nostro intento è piuttosto quello di cogliere la dimensione specifica, particolare, che I’ha connotata. Si ha l’impressione che, se l’elemento portante di quel­la evoluzione, come del resto in genere nell’oriente cristiano, è dato dal monachesimo, non si tratta però di un monachesimo come parte a sé stante, separato dal resto del mondo e della chiesa. Si tratta di un monachesimo come fermento, in vera osmosi con un popolo e capace di ispirare tutta una cultura. Di questo mo­nachesimo, poi, il carattere più specifico che emerge è la sua ispi­razione esicasta. La fortuna che conobbe in Romania il termine esicasta, in romeno sihastru, è unica in tutta l’ortodossia. Ne fanno testimonianza le innumerevoli denominazioni di montagne, col­line, fiumi e località con termini di origine monastica, che ri­cordano per lo più il nome di tale o tal altro monaco esicasta vissuto in quei paraggi.

L’appellativo esicasta deriva dal greco hesychía, termine che designa uno stato di calma, pace, solitudine, silenzio, assenza di ogni forma di agitazione tanto esteriore che interiore. Nel­l’ambito della spiritualità cristiana con la parola esicasmo ci si riferisce oggi ad almeno due fenomeni distinti. Il primo concer­ne quel particolare orientamento spirituale che coincide con le origini stesse del monachesimo orientale e che può essere defi­nito come un orientamento essenzialmente contemplativo che pone la perfezione dell’uomo nell’unione con Dio tramite la pre­ghiera continua. Il secondo riguarda quel particolare metodo di preghiera, basato sull’invocazione incessante del nome di Ge­sù, la cui forma venne codificata negli ambienti monastici del Monte Athos nei secoli XIII e XIV. In tale contesto il termine esicasmo si estende fino a comprendere sia il movimento di rin­novamento spirituale in seno al quale quel metodo di preghiera si sviluppò e si precisò grazie soprattutto alla figura di Gregorio il Sinaita, sia la sintesi filosofico-teologica elaborata da Grego­rio Palamas per difendere e sostenere quanti si servivano pro­prio di quel metodo. Tutti e due i fenomeni legati al termine esicasmo hanno avuto grande influenza sulla spiritualità della chiesa romena. Essi però sono stati assunti e fusi in modo vivo e originale, tanto che si parla a buon diritto della “tradizione esicasta romena” come di un fenomeno tipico, sviluppatosi fin dalle origini stesse del cristianesimo nelle terre romene e perdu­rante fino ai nostri giorni.

II monaco romeno, padre Ioanichie Balan, che per primo ha cercato di radunare e sistemare tutta una serie di dati riguar­danti la tradizione esicasta della sua patria, ha intitolato un suo recente libro che raccoglie il frutto del suo pluriennale lavoro Vetre de sihastrie româneasca, cbe si potrebbe rendere con Centri di insediamento di vita esicasta romena. La parola sihastrie, dal ter­mine greco hesychastérion, indica il luogo dove vivono gli esica­sti, in romeno sihastri. Questi esicasteri hanno conosciuto una tale fortuna e sono stati così numerosi che la migliore soluzione per presentarli è parsa all’autore quella di individuare i vari centri o aree o zone geografiche che ne hanno visto fiorire stabili e importanti raggruppamenti. Vengono così descritti ben venti­quattro di questi centri distribuiti nelle cinque regioni che co­stituiscono l’odierna Romania: Dobrogea, Moldavia, Terra Ro­mena o Ungro-Valacchia, Banat e Transilvania.

Il sorgere e lo svilupparsi di un numero così impressionante di esicasteri, fenomeno pressoché unico nel mondo cristiano, tro­va anzitutto la sua giustificazione in una particolare sensibilità dell’animo romeno, che sente profondamente connaturale l’ideale di hesychía ricercata in seno alla natura. Si è parlato spesso della seduzione suscitata dal richiamo della foresta che ha lasciato se­gni profondi in diverse espressioni artistiche e culturali. I ro­meni sentono l’oscuro bisogno di sfuggire di tanto in tanto alle necessità imposte dalla vita sociale e di ascoltare la voce della foresta ancestrale verso la quale amerebbero lanciarsi. Già pri­ma del cristianesimo la dimensione religiosa si esprimeva in una specie di ordine monastico costituito da gruppi di devoti che vi­vevano in solitudine, ai margini delle foreste, celibi e vegetaria­ni. Del messaggio cristiano verranno sviluppate soprattutto quelle caratteristiche che favoriscono la realizzazione dell’ideale di he­sychía e cioè: “la misericordia, il perdono, l’abbandono alla vo­lontà di Dio, il canto, l’allegrezza del cuore, il vivere in seno alla natura”[7]. Ciò ha permesso al popolo romeno di vivere nei Carpazi, vera colonna vertebrale della loro stessa esistenza lun­go i secoli, “come in una grandiosa cattedrale, come in un mera­viglioso esicastero naturale”[8]. Ed è per questo che ai piedi del­le montagne, da Tismana fino al nord della Moldavia, sorge il maggior numero dei monasteri.

Grazie a questo tratto particolare del carattere, alcune forme di vita cristiana hanno assunto in terra romena dei lineamenti ben specifici. L’esempio significativo è dato dal fenomeno dei cosiddetti “esicasteri paesani”. La loro origine è da collegare con quelle piccole comunità, nate fin dai primordi del cristianesimo, che svolgevano la loro attività a favore della chiesa del villag­gio. Questo stile di vita nasceva dal costume invalso nelle terre cristiane del bacino mediterraneo per cui alcuni anziani o vedo­ve rinunciavano alle cose del mondo per porsi al servizio di Cri­sto e della chiesa del luogo, sotto la guida del presbitero. Pur non pronunciando voti monastici veri e propri, questi cristiani davano i loro averi ai poveri e vivevano fino alla morte nel di­giuno, nella preghiera e nella sobrietà, sovvenendo ai bisogni della chiesa e prendendosi cura dei malati. In molti casi, inoltre, svol­gevano anche un’attività missionaria, aiutando il presbitero nel­l’opera di catechesi. Tali comunità, con l’avvento del monache­simo organizzato attorno al IV-V secolo, ben presto scomparve­ro in tutto il mondo cristiano. In Romania, al contrario, esse continuarono a esistere per almeno un millennio. In alcuni casi le comunità vennero a stabilirsi nel cortile delle chiese dove co­struirono semplici abitazioni. Ancora oggi se ne scoprono i resti accanto al perimetro di molte chiese[9].

Una trasformazione e uno sviluppo particolare di questo ge­nere di “esicasteri paesani” interesserà più direttamente la stes­sa storia del monachesimo. Alcune comunità, infatti, incomin­ciarono a costruirsi per loro conto piccole chiese in legno cir­condate da modeste abitazioni, scegliendosi luoghi un po’ più ritirati, fuori del paese e ai margini delle foreste, pur continuando a rimanere in stretto contatto con il popolo cristiano. È così che apparvero le prime vere e proprie comunità esicaste di tipo mo­nastico. In effetti, per giungere alla sistematica organizzazione della vita monastica e alla costruzione di grandi monasteri in terra romena, bisognerà attendere il XIV secolo.

Le comunità esicaste rappresentano degli importanti punti di riferimento non solo in relazione alla diffusione e allo sviluppo del monachesimo, ma anche per la popolazione cristiana nel suo insieme. A grandi tratti, possiamo immaginarci come queste siano giunte a svolgere il loro importante ruolo. Intendendo vivere nel­l’hesychía, qualche fedele zelante lascia il suo villaggio per diri­gersi verso la foresta, le radure delle valli e dei monti circostan­ti. Taglia degli alberi per costruirsi una cella e una cappella. Con lui vengono a contatto i pastori e gli abitanti dei dintorni, i quali gli chiedono preghiere e gli lasciano qualcosa da mangiare. Col tempo altri fedeli si uniscono all’eremita desiderosi di condivi­derne la vita. Vengono costruite altre celle, in qualche caso si provvede a scavare delle grotte nella pietra per ritirarsi in più completa solitudine. Si incomincia poi a organizzare il lavoro per il sostentamento della piccola comunità nascente: un frutte­to, un orto e spesso qualche arnia per le api. Ben presto sorgono nelle vicinanze le prime case di pastori e contadini. Non passa­vano più di due generazioni che ormai era sorto un nuovo paese e allora gli esicasti lasciavano agli abitanti la loro chiesetta in legno, le icone, le costruzioni e si trasferivano in un luogo più solitario, più addentro nelle foreste o sui monti. Si calcola che almeno trecento esicasteri abbiano dato origine ad altrettanti in­sediamenti di villaggi e siano così scomparsi senza lasciare traccia[10]. D’altra parte, sul luogo di esicasteri precedenti sorse la maggioranza dei monasteri romeni. Per farsene un’idea, basti pensare che di almeno ottocento monasteri, lungo la storia, si è potuta stabilire un’origine siffatta. Il fenomeno di trasforma­zione degli esicasteri in monasteri assume notevoli proporzioni soprattutto a partire dal secolo XIV con l’opera di san Nicode­mo di Tismana[11].

Fioritura monastica nei secoli XIV-XVII

Con Nicodemo di Tismana il monachesimo conobbe un pe­riodo di grande fioritura e nel contempo venne ad assumere una configurazione più organica e organizzata all’interno della strut­tura ecclesiastica della chiesa romena, che in quel periodo stava mettendo le basi per rendersi indipendente. Infatti solo dal 1359 il Patriarcato di Costantinopoli aveva stabilito a Curtea de Ar­ges, l’allora capitale della Valacchia, il primo metropolita per­manente. Con l’aiuto dei principi si provvide a organizzare i mo­nasteri elevando costruzioni in pietra. In effetti, il primo mona­stero in pietra, di cui si conserva documentazione storica, è quello di Vodita, fondato nel 1370 proprio da Nicodemo di Tismana e dotato di beni e privilegi da parte del principe Vladislav I Vo­da. Come Vodita e poi Tismana, anch’esso fondato da Nicode­mo, sorsero ben presto altri monasteri: Topolnita, Gura Motru­lui, Cosustea, Illovat, Prislop, che la tradizione attribuisce al­l’opera di Nicodemo di Tismana, ma che è più verosimile pensare si ispirassero semplicemente agli stessi princìpi organizzativi dei due monasteri fondati direttamente da Nicodemo.

Il rinnovamento portato da Nicodemo di Tismana coincide­va con l’azione di profondi fermenti spirituali già ormai diffusi dal movimento esicasta che aveva avuto in Gregorio il Sinaita (1255-1346) e Gregorio Palamas (1296-1359) i suoi insigni mae­stri. La presenza di monaci romeni alla Paroria, nel regno bul­garo, nell’insediamento esicasta fondato da Gregorio il Sinaita e sull’Athos, specie a Kutlumus, ricostruito grazie agli aiuti del principe Vladislav I Voda, rendono naturale il travaso nei terri­tori romeni di quei fermenti così caratteristici di quell’epoca. I metropoliti e i principi romeni non si impegnarono soltanto nella costruzione di nuovi monasteri, ma cercarono anche di “or­ganizzare” la folta schiera dei sihastri, raggruppandoli e impo­nendo loro una vita comunitaria secondo la tradizione dei mo­nasteri athoniti, promuovendo il passaggio dalla vita idioritmi­ca in minuscole comunità alla vita cenobitica in grandi monasteri. Insieme a tale tendenza, che conoscerà sviluppi prosperi, anche se a fasi alterne, persisterà sempre viva, pur subendo profonde modificazioni, quella “tradizione esicasta” che costituisce come l’humus più genuino della sensibilità monastica romena. Ne pos­siamo percorrere a grandi linee l’evoluzione.

Nel corso del secolo XV, nella regione dell’Ungro-Valacchia, che più da vicino aveva subìto l’influenza di Nicodemo di Ti­smana, il processo di trasformazione di esicasteri in monasteri conosce un periodo di stagnazione. Gli esicasti si opposero con maggior vigore all’accettazione della vita comunitaria e si ebbe addirittura una fioritura di nuovi esicasteri. In Moldavia, d’al­tro canto, il monachesimo viveva l’epoca più gloriosa della sua storia, per cui si assiste a uno sviluppo tanto dei grandi mona­steri con le loro scuole di copisti e miniaturisti (ad esempio: Neamt, Probota, Moldovita, Bistrita, Humor, Putna, Voronet, ecc.) quanto degli esicasteri. I due più grandi centri moldavi di vita esicasta furono quello della regione di Neamt, il più vasto di tutta la Romania, e quello di Putna-Voronet-Rarau, nel qua­le brillarono per la loro vita ascetica i santi Lorenzo di Radauti e Danilo “Sihastru”. Quest’ultimo deve la sua grande fama al fatto di essere stato consigliere spirituale di Stefano il Grande, gran principe di Moldavia (1457-1504).

Nello stesso periodo si assiste a una particolare trasformazio­ne: gruppi di piccole comunità di esicasti arrivano a formare ve­ri e propri paesi esicasti che raggruppano varie decine di singole abitazioni. Pur continuando a vivere ciascuno per proprio con­to, questi esicasti si sottoponevano all’obbedienza spirituale di padri anziani riconosciuti da tutti e ogni notte si radunavano per la preghiera nella chiesa di legno costruita al centro del loro “paese”. Nella stessa chiesa, le domeniche e le feste, veniva ce­lebrata la Divina Liturgia e ciascuno aveva la possibilità di co­municarsi.

Nel successivo secolo XVI la fondazione di nuovi monasteri assume uno sviluppo senza precedenti: Arges, Rîsca, Agapia, Su­cevita, Secu, Slatina, Dealu, Bisericani, per non citare che i più famosi. Le decine e decine di monasteri sorti sul luogo di esica­steri non fa diminuire tuttavia il numero totale dei monaci esi­casti, anche perché prende origine un nuovo genere di esicaste­ri. I monaci delle grandi comunità che desideravano ritirarsi pe­riodicamente, soprattutto nei tempi di digiuno, come pure quelli che facevano la professione del “grande abito”[12] e che erano te­nuti a particolari forme di ascesi, incominciarono a fondare pic­coli esicasteri nelle vicinanze del monastero. Gli insediamenti erano dichiarati “inchinati”, cioè dipendevano totalmente dal monastero da cui proveniva il loro fondatore. Gli esicasteri di questo tipo aumenteranno con il tempo sempre di più e diven­teranno in pratica l’unica possibilità offerta ai monaci desidero­si di hesychía. Non mancano tuttavia, anche in questo secolo, esicasteri indipendenti. Fra questi i più famosi si devono a quattro discepoli di san Danilo “Sihastru”. Risale allo stesso periodo un uso particolare presso alcuni gruppi di monaci esicasti, mai pra­ticato in altre terre ortodosse. Costoro installavano una campa­na sulla cima del monte da loro abitato e si avvalevano del suo suono per chiamare alla preghiera notturna. La zona più ricca di nuovi insediamenti esicasti è quella dei monti di Buzau, sui quali poco più di un secolo dopo lo starets Basilio fonderà Poia­na Marului. Vigeva colà una particolare regola: ogni esicastero poteva avere fino a dodici monaci, ma appena veniva superato il numero era dichiarato monastero. Così, normalmente, la co­munità si divideva e si apriva un altro esicastero.

Nel secolo XVII, pur proseguendo nella tendenza di trasfor­mare gli esicasteri in monasteri., si assiste tuttavia all’aumento del numero totale di nuovi insediamenti esicasti. Ciò si spiega con il fatto che ogni monastero tende a costruire uno, due o più esicasteri per i propri monaci. Allo scopo di trovare un ritmo di vita più tranquillo che i grandi monasteri non potevano offri­re, i monaci si addentravano di tanto in tanto nelle vicine fore­ste. Si costruivano delle celle e ben presto attorno a queste pren­deva inizio l’esicastero. La zona che conosce il più alto numero di nuove fondazioni è sempre quella di Buzau. Con i suoi cin­quanta insediamenti esicasti la regione sub-carpatica di Buzau-­Vrancea costituiva uno dei più fiorenti centri di vita esicasta che permetterà la nascita e lo sviluppo del movimento di rinnova­mento spirituale del secolo successivo avviato a Poiana Marului dallo starets Basilio[13].

Il sorprendente moltiplicarsi di tanti esicasteri segnalava tut­tavia un’incipiente crisi nella vita comunitaria dei grandi mona­steri. I monaci si allontanavano dalle loro comunità per fuggire le preoccupazioni materiali ed economiche che inevitabilmente procuravano le grandi proprietà fondiarie che si venivano a co­stituire attorno ai monasteri.

La crisi si fa sentire più pesantemente nel secolo XVIII. Sem­pre indicativo l’alto numero di nuovi esicasteri fondati: in Mol­davia, ad esempio, sono ottantatré contro solo quattro mona­steri; in Valacchia, novantatré contro quattordici monasteri. I grandi monasteri incontravano sempre maggiore difficoltà nel­l’amministrazione dei terreni e delle dipendenze e nel contem­po si trovavano aggravati dalla politica del nuovo regime fana­riota che perseguiva il disegno di “inchinare” i monasteri all’e­stero. Se pensiamo poi alle numerose guerre e devastazioni che in quello stesso periodo la terra romena dovette subire, possia­mo immaginare come si andasse verso un esaurimento morale e materiale.

Dall’epoca paisiana ai tempi moderni

L’inizio dell’azione di rinnovamento prende le mosse con lo starets Basilio di Poiana Marului (+ 1767) e continua, su scala allargata, con il suo discepolo e amico Paisij Velickovskij (1722-1794). Con il XVIII secolo i territori dei principati ro­meni diventano il centro dell’ortodossia dove viva permane la tradizione patristica orientale, a differenza degli altri paesi nei quali la cultura della fede ortodossa ha le ali tarpate per la poli­tica antiecclesiastica degli zar o per la dominazione turca. Il fe­nomeno di osmosi tra i territori romeni e le terre russe, ucraine in particolare, assume proporzioni considerevoli. Con il molti­plicarsi in Russia delle misure restrittive nei confronti del mo­nachesimo nella linea di una politica di controllo dei beni eccle­siastici e a causa di una politica di uniatismo perseguita dai po­lacchi in Ucraina, si determinò un flusso di emigrazione monastica russo-ucraina verso i territori romeni, dove i prìncipi si distin­guevano nello zelo per il sostegno alla chiesa e al monachesimo. Quando il giovane Paisij, alla ricerca della tradizione viva dei padri, emigra dall’Ucraina, sua terra natale, nei paesi romeni, è già stato preceduto da tutta una generazione di suoi compa­trioti, i quali, nel clima di elevata cultura ortodossa dell’ambiente romeno, hanno potuto portare a maturazione i germi di geniali­tà e spiritualità loro propri. Le skite visitate da Paisij, vale a di­re Dalhauti, Traisteni e Cîrnul, sono tutte sotto l’influenza del­lo starets Basilio di Poiana Marului, anch’egli emigrato dall’U­craina e diventato ormai un punto di riferimento per tutti. Nelle comunità che a lui si richiamavano, alla pratica esicasta era uni­to lo studio dei padri, i cui testi lo scriptorium di Poiana Maru­lui, la skite fondata da Basilio nel 1733, si incaricava di ricopia­re e di diffondere tanto in lingua slavonica che romena. Fatto unico nella storia dell’esicasmo romeno, Basilio aveva fondato una sorta di confederazione di oltre dieci esicasteri legati a Poiana Marului. Non è all’Athos, dove pure risiede per diciassette an­ni, dal 1746 al 1763, che Paisij Velickovskij respira la tradizio­ne esicasta. L’Athos costituisce solo il riferimento ideale e il “de­posito” degli scritti patristici che si premurerà di scandagliare con zelo infaticabile. Il modello di vita, l’esempio vivente della tradizione esicasta, Paisij lo scopre e lo farà rifiorire su larga scala nei principati romeni nei suoi monasteri di Dragomirna, Secu e Neamt, in Moldavia, dando vita a tutto quel poderoso movi­mento spirituale che gli storici denomineranno “paisianesimo”.

L’ideale di vita monastica, aperta a monaci di ogni nazionali­tà come romeni, ucraini, russi, bulgari, serbi e greci, era fonda­to su quattro pilastri: vita cenobitica, studio delle Scritture e dei padri, pratica della preghiera di Gesù e manifestazione quo­tidiana dei pensieri al proprio padre spirituale (starcestvo). È in­teressante notare come la riscoperta della Scrittura e dei padri andasse di pari passo con la ripresa della preghiera di Gesù. Averle poste a fondamento della vita cenobitica è l’essenza del grande rinnovamento portato da Paisij. La pratica della preghiera di Gesù sembrava fino ad allora appannaggio esclusivo degli eremitaggi e dei monaci eremiti; Paisij la inserisce invece nel contesto di un grande cenobio (i monasteri di Secu e Neamt, di cui era su­periore, contavano assieme un migliaio di fratelli!). Istituisce con­temporaneamente una vera e propria scuola di traduttori dei te­sti patristici. Collaziona manoscritti, rivede le antiche versioni e ne prepara di nuove, che poi commenta davanti alla comunità per l’istruzione dei fratelli. Quando viene a sapere della pubbli­cazione della Filocalia greca, edita a Venezia nel 1782, si affret­ta a richiederne una copia, ma si tratta di autori sui quali lui aveva già lungamente lavorato insieme ai suoi discepoli per pre­parare traduzioni in romeno e slavonico, anche se a livello di manoscritti. È sintomatico, ad esempio, costatare come, pochi anni dopo l’installazione a Dragomirna, la comunità di lingua romena poteva già disporre fin dal 1769 di una voluminosa Fi­localia, una miscellanea sulla preghiera del cuore, predisposta dal noto copista Rafail. Essa comprendeva testi di Simeone il Nuovo Teologo, Gregorio il Sinaita, Niceforo il Monaco, passi di Evagrio, Doroteo, Simeone di Tessalonica, Nilo, Cassiano, Basilio Magno e le ormai famose Introduzioni dello starets Basi­lio di Poiana Marului agli scritti di Gregorio il Sinaita e di Filo­teo il Sinaita, nonché l’opera di Nil Sorskij[14]. Di tutto il lavo­ro letterario promosso dall’ormai famoso starets Paisij, l’opera passata alla storia, per l’enorme influsso esercitato, è la sua tra­duzione slavonica della Filocalia greca, il Dobrotoljubie, stam­pato a Mosca nel 1793. L’edizione trova larghissima circolazio­ne, in ogni ambiente. Grazie ad essa e all’opera propagatrice dei suoi discepoli l’eredità paisiana ha influenzato largamente, sia pure con accentuazioni diverse, tanto la Russia che la Romania. Gli aspetti peculiari di tale eredità sono rappresentati dall’ordi­namento cenobitico della vita monastica, dalla ripresa dello spi­rito esicasta con la pratica della preghiera di Gesù e la sua intro­duzione nel tessuto stesso del grande cenobio, dallo studio bi­blico e patristico insieme alla preoccupazione di tradurre nelle rispettive lingue i testi filocalici.

Se Paisij è stato l’animatore, il polo catalizzatore di tutto un movimento che dopo la sua morte perdurerà lungamente e con profonda incidenza nella vita culturale e religiosa romena e rus­sa, va ascritto alle autorità ecclesiastiche e civili romene l’accor­tezza di avergli offerto le strutture più adatte al fine di sfrutta­re al meglio la carica culturale e spirituale di cui era portatrice la sua opera. Nella lettera con la quale il principe Costantino Moruzi ordinava a Paisij di trasferirsi a Neamt si dice espressa­mente: “Questo monastero è stato concesso alla vostra comuni­tà non soltanto per la vostra fondazione, ma anche perché di­venti il modello per gli altri monasteri, secondo il vostro ordi­namento di vita”[15].

In Romania lo spirito paisiano trionfa nella stessa organizza­zione della chiesa. Personalità ecclesiastiche di prim’ordine im­bevute di quello spirito, quali Beniamino Costachi, metropolita di Moldavia e Gregorio Dascalul, tonsurato monaco dallo stes­so Paisij, suo biografo e futuro metropolita di Valacchia, pro­mossero ed estesero oltre la cerchia dei monasteri il rinnovamento scaturito dall’opera di Paisij tanto sul piano spirituale che cul­turale. Riorganizzano i monasteri, creano scuole, si impegnano a fondo in una vasta azione di promozione di traduzioni e stam­pa di libri (è opera di Beniamino Costachi l’installazione a Neamt della stamperia con la volontà di diffondere i lavori di traduzio­ne della comunità di Paisij), rivivificano le strutture ecclesiasti­che duramente provate dalle guerre e dall’occupazione zarista del 1808-1812 e successivamente dai moti rivoluzionari del 1821. Rifiorisce il monachesimo di tipo cenobitico sotto l’influenza del modello paisiano, a differenza dei secoli precedenti dove preva­leva il riferimento all’esicastero. Particolarmente attivo l’influsso paisiano nei monasteri e skite di Agapia, Varatec, Bisericani, Rîsca, Vovidenia, Pocrov, Tarcau, in Moldavia, tanto che ver­so la metà del 1800 quasi tutti i monasteri seguono la Regola di Paisij.

In Valacchia la sua opera è continuata da un suo grande di­scepolo, lo starets Giorgio, originario della Transilvania. Di pas­saggio a Bucarest per l’Athos dopo aver lasciato Neamt nel 1781, lo starets Giorgio accoglie l’invito del metropolita Gregorio II di costituire una comunità monastica sul tipo di quella paisiana e sceglie di stabilirsi in una skite ormai abbandonata alle porte di Bucarest, Cernica, presto trasformata in un grande cenobio. Nel 1794 gli viene affidata anche la guida del vicino grande mo­nastero di Caldarusani. Nel suo Testamento, una specie di rego­la di vita per le comunità che a lui si richiamano, rivendica al suo maestro Paisij tre carismi specifici: il dono della preghiera del cuore; il dono di guidare una moltitudine di fratelli; il dono, assai raro, di tenere insieme i fratelli di varie nazionalità[16]. Lo starets Giorgio non ritiene di poterseli attribuire e quindi invi­ta i fratelli della sua comunità a dedicarsi alla preghiera di Ge­sù, ma non in modo esclusivo, almeno fin tanto che non ci si sia purificati da tutte le passioni; limita a centotré il numero dei fratelli della comunità (numero che dopo di lui verrà superato ampiamente); considera la possibilità che i monaci romeni, rus­si e greci vivano separatamente, senza per questo diminuire nell’amore reciproco (ma intanto che lui è vivo la comunità resta unita). L’accento tende a spostarsi sullo sforzo ascetico e sulla vita attiva; la linfa, comunque, deriva dallo stesso spirito pai­siano, sebbene, nella letteratura romena, la tendenza di Cerni­ca sia normalmente indicata in senso specifico: “la spiritualità cernicana”. L’esponente più celebre di tale spiritualità sarà san Callinico, monaco a Cernica per quarantatré anni e poi vescovo di Rîmnic. Con la preghiera e l’ascesi, unisce l’amore per la sua comunità, che sotto la sua guida arriva fino a trecentocinquanta fratelli, con la preoccupazione per i poveri e l’attività pastorale. A lui dobbiamo la costruzione del monastero di Frasinei dove, sul modello athonita, introduce regole di vita severe (ricordia­mo che, ancora oggi, Frasinei è l’unico monastero romeno dove resta interdetto l’accesso alle donne, come nei monasteri atho­niti). Il noto teologo romeno, padre Dumitru Staniloae, defini­sce la spiritualità di san Callinico una “spiritualità integrale”[17]. Vi si trovano riunite: ascesi, opere di carità, attività pastorali, in un clima di intensa comunione con Dio. Liberandosi dalle pas­sioni con l’ascesi, si possono coltivare le virtù della dolcezza, dell’umiltà e dell’amore che fanno superare l’egoismo, dedican­dosi alle varie attività senza che venga minimamente impedita una fervente vita di comunione con Dio.

Le condizioni storiche e sociali, già all’inizio del secolo XIX, vanno rapidamente mutando. Con l’abrogazione degli editti an­tireligiosi di Caterina II i discepoli slavi di Paisij tendono a scia­mare da Neamt per ritornare in patria. Saranno loro i veri arte­fici della promettente rinascita spirituale russa nel secolo XIX, facendo rifiorire eremi e monasteri e creando nuovi centri. Al­cuni divennero veri poli d’attrazione per tutta la Russia, come il monastero di Optina, dove a un fervido lavoro intellettuale di traduzione dal greco in russo dei testi patristici si univa una profonda ricerca spirituale di vita in Dio. Sarà anzi il nuovo cen­tro “paisiano”, se così si può chiamare. In Romania, invece, verso la metà del 1800 si vanno preparando tempi difficili. Con l’atto di unione dei principati di Moldavia e Valacchia nel 1859, l’an­no di nascita della moderna Romania, nella nuova concezione laicista dello stato, la vita della chiesa ortodossa fu turbata dalle ingerenze del potere politico, che peraltro emanò riforme posi­tive tanto attese, come nel campo dell’istruzione pubblica, nel­la giurisdizione dei monasteri con la soppressione dell’uso della “inchinarea”, l’uso cioè di devolvere i proventi dei vari mona­steri “inchinati” ad altri centri monastici, per lo più situati sull’Athos o nei luoghi santi di Palestina. Nel 1863 lo stato secola­rizzava i beni monastici; nel 1864 regolamentava l’ingresso nei monasteri permettendo di accogliere solo quei candidati che aves­sero compiuto gli studi teologici, e ciò in vista di promuovere persone preparate alle dignità gerarchiche oppure, negli altri casi, imponendo rigidi limiti di età (sessant’anni per gli uomini, cin­quanta per le donne). Tali misure portarono a una stagnazione per la vita monastica di una chiesa che nel 1865 si era dichiara­ta autonoma e nel 1885 aveva ottenuto da Costantinopoli il ri­conoscimento di autocefalia. Fu raggiunto un certo equilibrio dopo che il paese recuperò una qualche stabilità politica, vale a dire dopo la prima guerra mondiale.

Nel periodo tra le due guerre si impone un clima nuovo. Da una parte riprende vigore la tradizione monastica con l’attività di grandi figure come Ioanichie Moroi e Nicodemo Mandita, dal­l’altra, nella cerchia degli intellettuali dell’epoca, grazie a una riflessione sui fondamenti dell’ortodossia, sul problema delle re­lazioni tra chiesa e cultura e sulla questione dell’identità rome­na, si assiste a una riscoperta della spiritualità esicasta e della preghiera di Gesù. La rivista Gândirea (“Il pensiero”) di Buca­rest e la Rivista Teologica di Sibiu diffondono l’eco di un con­fronto culturale e spirituale tra professori universitari, filosofi, teologi, scrittori e poeti sul significato dell’eredità e della visio­ne dell’ortodossia. In seno a questo movimento gioca un ruolo di primo piano il giovane teologo Dumitru Staniloae il quale, nell’indagare i fondamenti dogmatici della spiritualità, avvia gli studi su Gregorio Palamas, il grande difensore dell’esicasmo atho­nita e della preghiera di Gesù nel XIV secolo. Lo studio poi dei padri e il contatto con l’ambiente monastico, che stava vivendo un momento di rinnovamento della vita esicasta, portano padre Staniloae a ripensare la dogmatica unendo nella sua riflessione teologica dogma ed esperienza spirituale. Al monastero Antim, a Bucarest, si forma il cenacolo del “Roveto ardente”, centrato sulla spiritualità esicasta e sulla preghiera di Gesù, in stretto dia­logo con il mondo degli intellettuali. Rinasce l’interesse per la Filocalia e si avverte l’esigenza improrogabile di ritradurla in ro­meno perché tutti possano usufruire dei tesori della tradizione ortodossa. Si accinge all’opera lo stesso padre Staniloae e negli anni 1947-1948 vengono stampati i primi quattro volumi. Ol­tre ad allargare notevolmente la mole dei testi da inserire nella raccolta, padre Staniloae inserisce introduzioni e commenti con l’intento di mostrare tutta l’attualità della visione dei padri. Sulla base del loro pensiero, in questi commenti, che costituiscono una nota assolutamente originale della Filocalia romena rispetto alle altre versioni, tenta un confronto con il mondo moderno. Nella stessa linea di spiritualità esicasta e filocalica si iscrive il suo Corso di teologia ascetica e mistica, preparato negli anni cinquanta e solo recentemente pubblicato[18].

Dal patriarca Giustiniano ai nostri giorni

Con l’avvento al potere del nuovo regime sotto la guida del partito comunista nel 1948 ha inizio una nuova, drammatica fa­se nella vita della storia della chiesa romena. Con la “Legge per il regime generale dei culti” del 4 agosto 1948 vengono formal­mente sanciti i princìpi della libertà di coscienza e di religione, ma “sotto il controllo dello stato”, al quale appunto spetta l’e­sclusiva di legiferare per regolamentare il tipo di organizzazio­ne e di funzionamento della religione nel nuovo stato socialista. L’esperienza ha in effetti dimostrato che le leggi dello stato pos­sono essere usate non solo per restringere la libertà delle chiese ma anche per minare, e in qualche caso particolare per distrug­gere, la loro vita istituzionale. La chiesa cattolica, di rito latino, fu quella che subì maggiormente le conseguenze del nuovo orien­tamento politico: sciolto ogni tipo di organizzazione, soppressi tutti gli ordini e congregazioni religiose, incamerati i beni dallo stato. La chiesa cattolica uniate, di rito bizantino, fu soppressa e incorporata alla chiesa ortodossa, nonostante la protesta di qual­che personalità ortodossa e il rifiuto da parte di un certo nume­ro di presbiteri ortodossi di occupare le chiese cattoliche, rifiu­to che pagarono con la prigione. Per quanto riguarda la chiesa ortodossa, molto vicina alla popolazione e da questa profonda­mente amata, il governo adottò una politica di controllo più che di distruzione. La chiesa ortodossa, non nuova a questo genere di bufere lungo la sua storia, accolse duttilmente la politica di ostilità nei suoi confronti e si adeguò ai nuovi orientamenti in­terni ed esteri del governo in cambio della libertà di celebrare la liturgia, di formare i suoi presbiteri e di mantenere un certo lavoro pastorale nelle parrocchie.

La figura di spicco di quegli anni è stata senza dubbio quella del patriarca Giustiniano (1948-1977). Con la sua attività rifor­matrice nei vari settori della vita ecclesiastica riuscì ad assicura­re alla sua chiesa una certa qual libertà di azione, pur negli stretti ambiti definiti dal nuovo governo. L’orientamento di fondo che lo guidava è quello che lui stesso definiva come “apostolato so­ciale”, nozione elaborata già dai movimenti di rinnovamento so­ciale negli anni 30-40 a Craiova e Buzau: la chiesa è un’istitu­zione popolare che gioca nella vita della nazione un ruolo com­plementare al fattore politico. Convinto della dimensione sociale della fede cristiana, trovò uno spazio specifico all’azione della chiesa, fatto che certuni hanno giudicato come un cedimento all’ideologia del momento, nel sollecitare l’impegno dei fedeli e delle parrocchie alla costruzione della nuova cosiddetta socie­tà socialista.

La riforma più vistosa riguarda la vita monastica. Con il “Re­golamento per l’organizzazione della vita monastica”, approva­to nel 1953 e rielaborato nel 1959, viene ristrutturata la vita religiosa nei monasteri insieme al loro funzionamento ammini­strativo e disciplinare. Monaci e monache sono invitati a impa­rare un mestiere e il monastero è organizzato perché vi siano concrete possibilità di esercitarlo. Molti monasteri sono registrati come cooperative, mentre parecchie comunità femminili sono dotate di impianti di tessitura e lavorazione dei tappeti oppure prestano servizio in attigue case di riposo o in incombenze del genere. Tutti i monaci e le monache impegnati nel loro mona­stero in un lavoro produttivo o di servizio amministrativo e tu­ristico (guide, responsabili di musei, direzione, ecc.) ricevono uno stipendio da parte dello stato, come del resto i titolari di parrocchie e il corpo accademico degli istituti ecclesiastici di in­segnamento (due istituti teologici universitari, a Bucarest e Si­biu; sei seminari teologici, a Buzau, Bucarest, Cluj, Craiova, Cur­tea de Arges, Neamt). Quando si tratta di chiese o di complessi monastici di interesse storico o artistico, il che significa per la maggior parte dei monasteri, lo stato stanzia aiuti sostanziali per il restauro e la conservazione degli edifici. L’accettazione di nuove vocazioni monastiche resta però strettamente subordinata all’im­piego in compiti “riconosciuti” dallo stato, per cui risulta piut­tosto difficile per i giovani entrare in monastero. Appena l’ini­ziativa di qualche monaco si fa troppo vistosa nel campo mate­riale o spirituale, subito converge contro di lui e il suo monastero qualche misura restrittiva da parte delle pubbliche autorità. In­tere comunità sono state così disperse per paura che si costituis­sero come punto di forza della chiesa.

Gli anni 1958-1963 sono i più difficili: la pressione della po­litica ateistica e antiecclesiastica sovietica si impone anche in Ro­mania, soprattutto contro i monasteri che allora erano fiorenti e in espansione. Dei circa duecento monasteri attivi nel 1956, più della metà furono chiusi. Della popolazione monastica che allora contava circa settemila membri, più di duemila furono co­stretti a lasciare i rispettivi monasteri, senza contare lo stuolo di quelli imprigionati. Furono chiusi anche tre seminari mona­stici, impedendo così la formazione dei giovani monaci. L’amni­stia generale del 1964 e la correzione di rotta del presidente Ceau­sescu nel 1968 per quanto riguarda i rapporti con la chiesa in­ducono il governo ad atteggiamenti più morbidi. Si vuole recuperare, in una visione patriottico-nazionale, l’apprezzamento per il contributo della chiesa ortodossa alla costruzione di una Romania più prospera. Con gli anni, specie a partire dal 1977, l’anno del tremendo terremoto che ha scosso la popolazione di Bucarest, la quale è tornata ad affollare le chiese, il governo sem­bra aumentare la pressione contro la chiesa intensificando la pro­paganda ateistico-materialista nelle scuole e nelle università, stroncando sul nascere qualsiasi forma di protesta contro i prov­vedimenti governativi e facendo valere in tutto il suo potere il “dipartimento dei culti” che controlla l’insieme della vita reli­giosa nel paese. Senza l’approvazione di questo organismo nes­sun parroco o pastore può essere nominato, corne nessun’altra iniziativa di natura ecclesiastica può essere intrapresa. Con i suoi ispettori a tempo pieno in ogni provincia e distretto, esercita una specie di supervisione su ogni attività, anche se in verità non si tratta di vera e propria ingerenza nei problemi ecclesia­stici tanto più che spesso i vari funzionari si mostrano alquan­to tolleranti. Tuttavia l’azione di controllo è efficace e può sempre essere usata con rigore per piegare ai voleri della politica ufficiale.

Nel 1977 al patriarca Giustiniano succede il metropolita di Iasi, Giustino Moisescu. Rispetto al predecessore, anche per le mutate condizioni sostituisce al concetto di “apostolato socia­le” quello della fedeltà della chiesa al suo popolo, da cui non è mai stata tradita. Alla sua azione si deve l’immenso lavoro di restauro e rivitalizzazione dei grandi monasteri storici della Mol­davia e della Bucovina, il coinvolgimento più diretto e senza ri­serve della chiesa romena nel movimento ecumenico e nelle re­lazioni fra le chiese tanto a livello europeo che internazionale[19].

Dal 1986 a guidare la chiesa romena è il patriarca Teoctist Arapasu. La sua azione pastorale non modifica la situazione ere­ditata. Subito dopo il rovesciamento di Ceausescu, il patriarca riconosce la pusillanimità della gerarchia ortodossa nei confron­ti del passato regime e arriva fino a presentare le proprie dimis­sioni al Santo Sinodo, che però lo riconferma nella carica. La nuova situazione è tuttora fluida e non priva di ambiguità, ma alcuni segni lasciano sperare che – nella chiesa come nella socie­tà civile – le forze sane della nazione prevalgano per il bene di tutti­.

Anche se la libertà di cui godeva la chiesa era vincolata agli stretti spazi definiti dalle leggi dello stato, la situazione religio­sa in Romania si presentava certamente privilegiata rispetto a quella dei paesi socialisti confinanti. Il fatto è che la dimensio­ne religiosa struttura la vita quotidiana della gente e la stessa cultura nazionale. Le chiese sono sempre stracolme di fedeli nelle celebrazioni festive e non restano deserte nemmeno nei giorni feriali. Entrare in chiesa per venerare un’icona, accendere una candela, sostarvi un attimo per riposarsi o per riflettere, per una buona parte dei romeni, specie nei villaggi, non sono semplici “atti religiosi”; fanno parte della vita. La chiesa è percepita co­me una seconda casa, un luogo che la gente sente proprio. Le feste patronali o le celebrazioni delle festività liturgiche nei grandi monasteri attirano migliaia di pellegrini, anche dalle città. I mo­nasteri continuano così a giocare un ruolo importante nella vita del popolo romeno: non esistono stime ufficiali ma si calcola che, tra grandi e piccoli, siano circa centoventi, con una popolazione monastica di circa un migliaio di monaci e di millecinquecento monache su un totale di diciotto milioni di ortodossi. La grande speranza è che da questo patrimonio di energie spirituali possa rifiorire l’anima di un popolo in modo da reinfondere nel tessu­to umano e civile dell’intera nazione la linfa necessaria per rico­struirne l’identità.

Caratteristiche della spiritualità romena

In questi ultimi decenni si sono moltiplicate le ricerche in am­biente romeno per tentare di definire la specificità romena nel­lo sviluppo della spiritualità cristiana[20]. Rispetto alla grande tra­dizione ortodossa, quella romena non conosce figure o tenden­ze creative, impulsi originali che abbiano dato vita a correnti e tradizioni particolari.

Latino e romano per origine e lingua, il popolo romeno si tro­vò a essere cristianizzato dall’occidente, ma organizzò le forme della vita ecclesiastica sul modello del mondo bizantino e slavo, dal quale dipendeva culturalmente. Questa sua particolare espe­rienza storica gli consentì di esprimere il suo genio creativo nel­la feconda opera di sintesi tra i due mondi, sintesi che lo con­traddistingue in tutte le espressioni della sua vita artistica e re­ligiosa. Si pensi, ad esempio, alle chiese dei monasteri della Moldavia-Bucovina dei secoli XV e XVI come Voronet, Humor, Arbore, Moldovita, Sucevita, con le pareti esterne splendida­mente affrescate, dove i vari elementi di provenienza gotica, ser­ba, bizantina, sono fusi in perfetta unità di stile secondo i cano­ni di una visione estetica tipicamente moldava. Tanto l’edificio quanto l’iconografia pittorica, che vi si adatta armoniosamente, con rappresentazioni di scene illustranti l’inno acatisto e l’asse­dio di Costantinopoli, l’albero genealogico di Iesse, il Giudizio finale e la Deisis, sono concepiti in perfetto accordo con l’am­biente circostante. Il paesaggio caratteristico della Moldavia, tutto un susseguirsi di monti e colline ricoperte fittamente di boschi e foreste inframezzate da minuscole radure semipianeggianti e radiose, solcato da numerosi corsi d’acqua, sembra essersi rive­lato nella storia l’ambiente ideale per gli insediamenti monasti­ci, favoriti anche dal temperamento mite della gente. Nel rag­gio di poche decine di chilometri, in una zona che i romeni, con una punta di orgoglio, sogliono chiamare il loro “piccolo Monte Athos”, sono concentrati i grandi monasteri: Neamt, Secu, Si­hastria, Bistrita, Varatec, Agapia, per tacete i centri minori nel folto della foresta carpatica come Tarcau o Sihla, vere oasi di silenzio e di pace.

L’impressione che si ricava visitando questi luoghi è un senso di pacatezza e di dolcezza che pervade uomini e cose. È un tim­bro inconfondibile dei monasteri romeni, che si ritrova anche, all’Athos, nella comunità romena del Prodromou. Sembra che preghiera e vita pratica, ricerca della solitudine e stretto contat­to con i fedeli siano fusi in armonia. Ciò vale anche nei grandi monasteri femminili, come Agapia e Varatec, che contano cia­scuno circa trecento monache, veri e propri villaggi monastici dove le monache vivono per lo più, in quattro o cinque, in sin­gole casette. Il vedere le monache accudire ai vari lavori o con­versare tranquillamente con qualche visitatore di passaggio op­pure, nella penombra della chiesa, in piedi davanti a un grosso salterio da coro o, ancora, sedute a riposare sulla veranda fiori­ta della loro casupola, comunica immediatamente il senso di na­turalezza della loro vita religiosa. Forse l’insistenza con cui le grandi figure carismatiche del monachesimo romeno fanno con­sistere l’essenziale della professione monastica nell’avere un cuore dolce e compassionevole per gli uomini rivela la vera ragione di quel senso di armonia e pacatezza così connaturali all’ambiente religioso romeno. L’architettura stessa dei monasteri lo riflette, frutto di una particolare visione spirituale profondamente radi­cata nella tradizione culturale della popolazione contadina della Moldavia. La stessa maestosità e imponenza del monastero di Neamt, il più celebre della Romania, sfumano davanti all’im­pressione di armonia che si ricava dal complesso.

Se è vero che nella storia dei vari popoli si costatano fasi al­terne di splendori e decadenze, di creatività e stagnazione, ciò nondimeno permane nel tempo una certa quale loro identità che ne configura l’anima spirituale. È significativo il fatto che i mo­nasteri più noti e caratteristici della Romania siano quelli sorti in Moldavia, a cavallo tra il XV e il XVI secolo, quando l’arte moldava ha trovato la sua sintesi più originale, precedendo la Valacchia che ne ha poi subìto in parte l’influenza. Una serie di circostanze favorevoli concomitanti spiega il fenomeno: uno stato florido economicamente e ancora indipendente politicamen­te (la Valacchia aveva dovuto cedere alla pressione dei turchi fin dal 1417); lunghi regni, come quello di Stefano il Grande (1457-1504), il paladino della difesa del paese e della fede, che assicuravano l’integrazione tra le attività artistico-culturali e una concezione unitaria dello stato e della società; una classe nobi­liare ricca e intraprendente insieme a una popolazione contadi­na libera ancora numerosa; ambienti cittadini in piena ascesa con lo sviluppo delle arti e delle tecniche. Ma i valori culturali di riferimento non potevano che essere religiosi nella società feu­dale romena, tra l’altro confrontata con una struttura sociale isla­mica dove l’elemento religioso giocava un ruolo centrale. L’i­deale ascetico costituiva l’ideale supremo di una società che traeva dalle basi religiose e morali su cui era fondata le premesse della sua strutturazione politica. È Stefano il Grande a inaugurare nel concreto il legame tra cultura e politica, arte e sviluppo civile, in un clima fervente di fede. Sui luoghi delle sue battaglie, in ringraziamento delle sue vittorie, costruiva chiese e monasteri, a perpetua memoria per il popolo. Le pitture murali esterne del­le chiese della Moldavia-Bucovina, con tutta quella teoria di an­geli e santi, costituiscono un’immensa preghiera corale in difesa del proprio paese contro l’espansione ottomana, dove uomini e cose, terra e popolo, storia e nazione sono percepiti nel loro si­gnificato soltanto a partire dalla fede ortodossa. I temi di quelle pitture, in particolare la rappresentazione dell’inno acatisto e della Scala di Giovanni Climaco, sono temi di ispirazione esica­sta, ispirazione che dominava nel complesso tutta la società del tempo. Per valutare fino a che punto la linfa di questa ispirazio­ne esicasta lambiva persone e società, chiesa e istituzioni, è sufficiente prendere in mano il “primo grande libro della cultura romena”, per usare l’espressione del pensatore romeno contem­poraneo Constantin Noica, vale a dire le Istruzioni di Neagoe Ba­sarab al figlio Teodosio.

Principe di Valacchia tra il 1512 e il 1521, Neagoe Basarab è passato alla storia come costruttore di chiese e monasteri, amico delle lettere, uomo di cultura. I due monumenti più prestigiosi che ha lasciato sono la chiesa del monastero di Curtea de Arges, paragonato dai contemporanei a Santa Sofia di Costantinopoli, e le sue Istruzioni, che l’hanno immortalato come principe filo­sofo. Da giovane aveva lungamente soggiornato nel monastero di Bistrita, centro di cultura monastica in Valacchia paragona­bile per importanza a quello di Neamt in Moldavia. Aveva avu­to come precettore e padre spirituale l’ex-patriarca di Costanti­nopoli Nifone, noto esicasta, diventato più tardi metropolita di Valacchia. Nelle sue Istruzioni, intessute di citazioni bibliche e patristiche fino agli autori più recenti nonché di racconti popo­lari, si fa interprete della più genuina spiritualità tradizionale ortodossa. Parla della vita di corte, dei doveri del sovrano, del­l’organizzazione dell’esercito, dell’accoglienza degli ambasciatori nella stessa ottica con cui presenta le sue esortazioni alla virtù tratteggiando il suo ideale di perfezione cristiana. La perfezio­ne, per lui, implica prima di tutto l’esercizio dei doveri umani ovunque l’uomo si trovi a vivere, qualsiasi ruolo svolga, dal prin­cipe all’ultimo contadino. Il valore della vita è concepito in termini di eternità, ma senza il disprezzo di questo mondo; anzi, la deificazione dell’uomo non è il superamento dell’umano, ma piuttosto il suo perfezionamento, la sua trasfigurazione. È l’uomo nel complesso della sua realtà spirituale-materiale, delle re­lazioni e responsabilità che esercita nella vita, che viene visto come soggetto religioso. È a questo uomo concreto che Neagoe indirizza il suo insegnamento sull’elemosina, sulla mitezza, sul perdono, sottolineando come la vita personale debba strutturarsi attorno all’esercizio di quelle virtù. Nella concezione di Neagoe prevale un senso di ottimismo, un senso di misura, un “umane­simo” che, se pur riflette il contemporaneo spirito umanistico europeo, proviene dalla sua visione di fede, rispondente all’in­dole della gente romena, aliena dagli eccessi, anche se dettati dallo zelo religioso. È la dimensione di una spiritualità che po­tremmo chiamare “cabasiliana”, aperta ugualmente ai monaci e ai laici, che Neagoe ha vissuto sforzandosi “non solamente di reggere il suo regno, ma anche di amare il Signore con tutta l’a­nima tramite le buone opere”[21]. Alcuni passi della sua opera, tratti dallo stupendo quinto discorso sul timore e l’amore di Dio, ne descrivono perfettamente la spiritualità:

Molti sovrani e prìncipi dicono che devono ben occuparsi dei loro regni e dei loro domini per cui non possono pregare, di­giunare, conservarsi puri né andare in chiesa, in quanto sono presi dagli affari di stato, devono trattare con ambasciatori e magistrati e hanno un’infinità di cose da sbrigare riguardo al governo. Avrebbero anche fatto elemosine a coloro che fos­sero venuti a domandare un po’ di carità nel nome del Signo­re, ma presi da tante occupazioni non possono usar loro com­passione e così molti poveracci e indigenti giacciono nudi e abbandonati in letamai. Questi, poi, con tutti i problemi e i fastidi che li opprimono, non potrebbero nemmeno venir da loro per ricevere l’elemosina ed essi, a loro volta, non hanno tempo per farla loro pervenire. Ma perché? Perché non ab­biamo amore per Dio e ci preoccupiamo di tante cose vane … Così noi tutti, fratelli, andiamo dicendo le stesse cose. Ma perché parliamo così? Perché non abbiamo amore per il Si­gnore nostro Gesù Cristo. Tanto il sovrano che il principe, il patriarca, il metropolita, l’igumeno, il padre confessore, il giudice, il ricco e il povero, in qualsiasi posizione ci trovia­mo, se non amiamo Dio, tutti ripetiamo il solito ritornello: dobbiamo ammassare molti beni perché non ce ne manchi quando verrà il momento del bisogno. Ma così non amiamo Dio con tutto il cuore, bensì amiamo i nostri averi e non ab­biamo amore per Cristo[22].

E poco più avanti:

Molti uomini proiettano mente e pensieri in molte direzioni: alcuni lodano la purità, altri il digiuno e la continenza, altri l’elemosina e l’umiltà, altri la pazienza e l’obbedienza. Natu­ralmente sappiamo anche noi che tutte queste cose sono buo­ne. Tuttavia tali virtù, tutte quante, da dove provengono? Dal Signore Gesù Cristo. In effetti, chi custodisce la mente pura – fondamento e intelaiatura di tutto il bene – non si preoc­cupa soltanto della purità e del digiuno, della preghiera, del­la continenza e dell’umiltà, né si disperde con la mente e i pensieri su molte cose, in svariati modi; piuttosto, abbando­na tutte queste cose ed eleva mente e pensieri verso l’alto ri­vestendosi dell’amore verso il Cristo come di un’armatura. Allora non si dà più gran pena come sovrano, principe, pa­triarca, governatore, igumeno, né si preoccupa di tutte le co­se terrene, per le quali noi tutti ci affanniamo, ma soltanto di amare il Signore con tutta l’anima. Lo stesso Signore no­stro Gesù Cristo, quando interroga il suo più grande disce­polo, il diletto apostolo Pietro, non lo interroga sulla preghiera, sul digiuno, sulla continenza, sull’umiltà, sulla pazienza, sul­la purità, sull’elemosina, ma gli dice soltanto: “Pietro, mi ami?”. E lui risponde dicendo: “Certo, Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo”. Cristo sapeva che se l’amava con tutto il cuore, tutte le virtù sarebbero scese su di lui, anche il di­giuno, la preghiera, la purità, l’obbedienza, la pazienza. Di conseguenza anche noi, se ameremo Dio con tutta l’anima, la misericordia di Cristo scenderà su di noi, come pure il di­giuno, la preghiera, la purità, la continenza, l’umiltà, l’ele­mosina, la pazienza, l’obbedienza. Tutte le virtù sono nelle sue mani. Non disperdiamo perciò i nostri pensieri in altre direzioni, eleviamoli piuttosto verso Dio, ricco di compassio­ne, da cui discende ogni misericordia, per regnare con lui nei secoli dei secoli. Amen[23].

La convinzione che regge tutto il suo orientamento è quanto mai rivelatrice: “Chi si farà compagno delle virtù divine, questi avrà vita ed esistenza imperitura, poiché la radice della bontà è la dolce intimità con Dio”[24]. Da questa dulceata dumnezeiasca Neagoe trae la ragione della propria spiritualità che marca in­confondibilmente la sensibilità dei romeni con la sua conseguenza più vistosa ed essenziale: l’apertura dell’uomo verso i suoi simi­li, nella coscienza dell’unità ontologica del genere umano a im­magine della Trinità. In Cristo tutti gli uomini sono “consustan­ziali”. Di qui l’accento sull’amore inteso in senso eminentemente attivo, vale a dire su un amore che si fa ricerca ed esercizio di misericordia, di dolcezza, di perdono, di premura per il prossi­mo, riflesso dell’amare Dio con tutta l’anima. In tal senso l’ispi­razione esicasta in Romania lievita tutto il campo delle respon­sabilità umane così come configura l’orientamento di fondo di tutto lo sviluppo della tradizione monastica.

A svelarci un altro tratto esemplare dell’anima romena è una breve composizione poetica che ha affascinato e tuttora affasci­na tanto il popolo quanto gli intellettuali, cantata dagli uni e indagata dagli altri con la stessa partecipata adesione al suo uni­verso simbolico. È una toccante ballata, intitolata Miorita (L’a­gnella), conosciuta per lo più nella veste letteraria datale dal poeta Vasile Alecsandri nel 1850 ma la cui composizione, dovuta al genio creativo popolare, si perde nei secoli. La trama è sempli­cissima: un’agnella avverte il proprio giovane pastore moldavo che i suoi due compagni valacchi lo vogliono uccidere. Invece di difendersi, il pastorello accetta il destino e detta le sue ulti­me volontà all’agnella, di essere cioè seppellito vicino al suo gregge con gli oggetti caratteristici del suo lavoro. La prega soprattut­to di tacere dell’assassinio e di dire invece che ha sposato la re­gina del mondo (la morte) in un quadro cosmico nuziale esaltante[25].

Le cosiddette “nozze mioritiche” costituiscono una sorta di orizzonte culturale per i romeni. Contrastanti le interpretazio­ni, spesso antagoniste, ma pur sempre significative del coinvol­gimento culturale-affettivo che tale semplice e bellissima com­posizione suscita. Vi si è voluto vedere la rappresentazione del­la rassegnazione e della passività di tutto un popolo, una specie di “amore per la morte” che caratterizzerebbe la spiritualità po­polare romena come sostenuto nel famoso Spatiul mioritic (Spazio mioritzco) di Lucian Blaga[26]; oppure, al contrario, la rappre­sentazione della vitalità del popolo e dell’amore per la vita e per il suo lavoro, riconoscendo nel tessuto della ballata arcaiche con­cezioni di una post-esistenza del pastore negli oggetti caratteri­stici della sua attività.

Senza entrare nel merito della validità o meno delle contrap­poste interpretazioni, si può dire certamente che con la Miorita si è introdotti in un cosmo trasfigurato, liturgico, dove si cele­brano dei “misteri”, dove la morte diventa un matrimonio di struttura e di proporzioni cosmiche. Non è in gioco un atteggia­mento passivo o rinunciatario. L’atteggiamento del pastore espri­me una decisione esistenziale più profonda: non ci si può difen­dere dal destino come ci si difende dai nemici. Non resta che imporre un nuovo significato alle conseguenze ineluttabili di un destino che sta per compiersi. E nemmeno si può parlare di fa­talismo, perché un fatalista non si crede neanche capace di mo­dificare il senso di ciò che gli è stato fissato dal destino. Così, il messaggio più profondo della ballata si deve vedere nella vo­lontà del pastore di mutare il senso del suo destino trasfiguran­do la sua morte in nozze mistiche. Il pastore non assomiglia ai nichilisti moderni che tentano di “demistificare” il senso del mon­do e della vita per giustificare l’assurdo con cui ci si scontra nel­la realtà. La sua risposta è agli antipodi: trasforma la terribile sorte che lo condanna a morte in un grandioso mistero sacra­mentale che gli permette di trionfare del suo destino. Mircea Eliade accosta giustamente la reazione del pastore a quella dei romeni e di altri popoli dell’Europa orientale davanti a ciò che ha chiamato “il terrore della storia”, davanti cioè alle invasioni e alle catastrofi storiche. In simili frangenti, alla disperazione non si può che opporre un’interpretazione religiosa, come del resto avevano già fatto gli antichi ebrei a contatto con i grandi imperi militari. Proprio la concezione di un cosmo riscattato dalla morte e dalla risurrezione del Salvatore e santificato dai passi di Cristo, della Vergine e dei santi, permetteva di ritrovare, non fosse che simbolicamente, un mondo carico delle virtù e bellezze di cui le invasioni con i loro terrori spogliavano il mondo storico. Ora, tale capacità di annullare le conseguenze apparentemente irrimediabili di un avvenimento tragico, rivestendole di valenze insospettate, dimostra la forza creativa del genio popo­lare. È la risposta più efficace al destino quando si rivela, come spesso è accaduto, ostile e tragico. Intellettuali e popolo ricono­scono in essa il loro modo di esistere nel mondo e di superare appunto i “terrori” della storia, anche recenti[27].

In questo sottofondo “ancestrale” dell’anima popolare sem­bra pescare anche la stessa esperienza monastica romena. La spi­ritualità romena si rivela in un certo “timbro”, in una certa “sen­sibilità” che pensiamo si possa far derivare proprio da quella ca­pacità di trasfigurazione che contraddistingue l’esperienza religiosa romena. Trasfigurazione non dice superamento, ma più semplicemente schiusura della realtà alla sua rivelazione. Quel senso di misura e di armonia, di pacatezza, di cui si è detto più sopra, trova qui la sua radice teologica più profonda che si inne­sta in una visione della natura e dell’uomo assolutamente posi­tiva, connaturale all’animo romeno. I monaci romeni amano mol­to la natura: i loro esicasteri e complessi monastici sorgono sempre in bei siti naturali, dove si trovano perfettamente incastonati. Essi hanno sempre cercato la solitudine dentro la natura, in una cornice naturale amena, dolce; la vita non ha mai comportato valenze eroiche o tragiche, come invece certe forme particolari di vita ascetica tra i greci e i russi suggeriscono. Per loro l’esi­stenza è dono dell’amore di Dio, è carica di senso, è buona e bella. È il peccato a corromperla, per cui i monaci cercano la solitudine per purificarsi dal peccato e ritornare alla purità e al­la gioia naturali, secondo l’originaria creazione divina. Cercare silenzio e pace significa voler ripristinare in sé quel silenzio e quella pace che aprono alla visione della bellezza e all’esercizio della comunione fra gli esseri, in un universo armonico e pacifi­cato. L’espressione preferita dai monaci per indicare una vita ritirata era ed è ancora “a merge la liniste” (“andare in un luogo tranquillo”), dove silenzio sta per capacità di ascoltare il canto degli uccelli, il fruscio degli alberi, il mormorio dell’acqua, ca­pacità cioè di aprirsi al canto della natura e alla visione della sua bellezza, umanità compresa. Soltanto un uomo pacificato e se­reno può aprirsi alla comunione con il prossimo e così scoprire, finalmente, il volto interiore dell’umanità e il senso del mondo.

[1] L’aneddoto è riportato da I.Balan, Paterik romeno, Bucarest 1980, p. 621 (in romeno). A raccontarlo è lo stesso fratello di padre Galaction, il famoso starets padre Cleopa Ilie dcl monastero di Sihastria.

[2] Cf. M.Eliade, De Zalmoxis à Gengis-Khan. Etudes comparatives sur les re­ligions et le folklore de la Dacie et de l’Europe Orientate, Paris 1970, p. 30. II famoso studioso romeno aggiunge anzi che il lupo appare ancora una terza volta nell’orizzonte mitico della storia dei daco-romani e dei loro discendenti. In effetti, i principati romeni vennero fondati dopo le grandi invasioni di Gengis-Khan e dei suoi successori. Anche il mito.genealogico dei gengiskha­nidi si rifà appunto al lupo.

[3] Voievod era l’appellativo riservato ai principi della Valacchia e della Mol­davia come titolo onorifico. Significa in generale “capo”, “comandante (dell’esercito)”, similmente al termine slavo da cui proviene voivoda, con il quale si designava altresì il governatore di una provincia.

[4] Cf. N.Dura, “Le terre romene e le nazioni cristiane dei Balcani nel pe­riodo della dominazione ottomana (sec. XIV-XIX)”, in Biserica ortodoxa ro­mâna 106, 5-6 (1988), pp. 102-117 (in romeno).

[5] È la conclusione di uno dei migliori storici romeni, l’accademico Radu Vulpe, citato dai padri Romul, Théophane et Irénée, “La Parole de Dieu en langue roumaine: la Bible de Bucarest (1688) et le Nouveau Testament d’Alba-Julia (1648)”, in Contacts 145 (1989), p. 46.

[6] Cf. D.Staniloae, “L’antichità e la spiritualità dei termini cristiani rome­ni in rapporto ai termini della lingua romena in generale”, Biserica ortodoxa româna 97, 3-4 (1979), p. 564 (in romeno).

[7] I.Balan., Centri di insediamento di vita esicasta romena, Bucarest 1982, p. 9 (in romeno).

[8] Ivi.

[9] Ivi, p. 16.

[10] Ivi, pp. 18-19.

[11] Nicodemo di Tismana (prima metà del sec. XIV – 1406), originario pro­babilmente del sud della Serbia, monaco e poi superiore di Chilandar sull’A­thos, fonda nel 1370 in Valacchia il monastero di Vodita. Sospinto più a nord dall’occupazione ungherese della regione del Banat di Severin, fonda il mona­stero di Tismana dove muore il 26 dicembre 1406. Importante la sua corri­spondenza con l’ultimo patriarca di Tîrnovo, Eutimio, e pregevole il suo Li­bro dei quattro vangeli, capolavoro di calligrafia, copiato tra il 1404 e il 1405 in lingua slavonica di redazione serba. Il santo Sinodo della chiesa ortodossa romena, nel 1955, ha esteso a tutta la Romania il culto del santo.

[12] L’ordinamento monastico bizantino, maschile e femminile, comprende tre gradi. I monaci sono chiamati con titoli di origine greca che richiamano il nome dell’abito che indossano: il rasoforo, cioè portatore del rason (mantello ecclesiastico chiamato anche rjasa, a maniche larghe, chiuso lateralmente co­me la tunica); il mikróschemos, cioè il monaco del “piccolo abito”, chiamato anche semplicemente monaco; il megalóschemos, il monaco del “grande abi­to”. Con una certa approssimazione, il primo grado corrisponde al nostro no­vizio; il secondo al monaco professo di osservanza ordinaria; il terzo è un mo­naco di stretta osservanza con particolari doveri di preghiera e di penitenza.

[13] La skite di Poiana Marului (letterelmente: “radura del melo”) si trova nel comune di Jitia, distretto di Vrancea, a circa 150 km a nord di Bucarest. Fu fondata dallo starets Basilio nel 1733, sulla cui figura si può vedere D.Rac­canello, La preghiera di Gesù negli scritti di Basilio di Poiana Marului, Alessan­dria 1986. Sulla storia e lo sviluppo dell’esicasmo in terre romene, cf. D.Sta­niloae, “Gli esicasti o gli eremiti e la preghiera di Gesù nella tradizione orto­dossa romena”, in La Filocalia, vol. VIII, Bucarest 1979, pp. 555-587 (in romeno).

[14] Cf. C.Zaharia, “La chiesa ortodossa romena in rapporto alle traduzioni patristiche filocaliche nelle lingue moderne”, in Benedictina 35 (1988), pp. 153-172. Sulla figura e sull’attività letteraria dello starets Paisij Velickovskij, cf. la nostra “Introduzione” in P.Velickovskij, Autobiografia di uno starets (“Scritti monastici”, 10), Abbazia di Praglia 1988.

[15] Il passo della lettera è citato nella biografia di Paisij redatta da Grigorie Dascalul, futuro metropolita di Valacchia, e pubblicata a Neamt nel 1817 sot­to il titolo: Succinta narrazione della vita del nostro beato padre Paisij (in romeno).

[16] Il Testamento dello starets Giorgio è pubblicato in Casian Cernicanul, Storie dei santi monasteri di Cernica e Caldarusani, Bucarest 1870, pp. 17-62 (in romeno). Una parziale traduzione francese si trova in R.Joanta, Rouma­nie. Tradition et culture hésychastes (“Spiritualité orientale”, 46), Abbaye de Bellefontaine 1987, pp. 207-212, 263-264. Cf. anche Ch.Gheorghescu, “Il beato starets Giorgio di Cernica”, in Santi romeni e difensori delle tradizioni avite, a cura del Patriarcato della chiesa ortodossa romena, Bucarest 1987, pp. 500-510 (in romeno).

[17] Su san Callinico cf. D.Steniloae, “Discorso sulla canonizzazione di s.Cal­linico”, in Biserica ortodoxa româna 73, 11-12 (1955), pp. 1158-1173. Cf. an­che I.Ionescu, “II santo vescovo Callinico di Cernica”, in Santi romeni e difen­sori delle tradizioni avite, op. cit., pp. 520-542.

[18] Il Corso è apparso come terzo volume della Teologia morale ortodossa, vol. III: Spiritualità ortodossa, Bucarest 1981 (in romeno).

[19] I dati presentati sono tratti per lo più dal documentato studio di T.Bee­son, Discretion and Valour. Religious Conditions in Russia and Eastern Europe, Philadelphia 1982, revised edition. Cf. anche I.Dumitriu-Snagov, “Romania”, in Dizionario degli istituti di perfezione, vol. VII, Roma 1983, coll. 1991-2009.

[20] Cf. A.Plamadeala, “Alcuni tratti specifici della spiritualità romena”, in Tradizione e libertà nella spiritualità ortodossa, Sibiu 1983, pp. 388-406 (in romeno).

[21] Come si legge in un’iscrizione votiva di Neagoe nella chiesa del mona­stero di Curtea de Arges. Su Neagoe Basarab, oltre alla sezione storico-letteraria aggiunta all’edizione romena delle sue Istruzioni (cf. sotto n. 22), cf. A.Plama­deala, “Neagoe Basarab, il principe della cultura romena”, in Maestri di pen­siero e di coscienza romena, Bucarest 1981, pp. 13-62 (in romeno), dove ana­lizza l’opera di Neagoe dal punto di vista teologico-spirituale.

[22] Le istruzioni di Neagoe Basarab al figlio Teodosio, Bucarest 1984, pp. 125-126 (in romeno). Anche se permangono discordanze di pareri tra gli stu­diosi, sembra oggi largamente condivisa la tesi dell’attribuzione dell’opera a Neagoe. Comunque il libro è stato redatto in slavonico negli ultimi anni della vita di Neagoe (1518-1521). Il manoscritto originale comportava più di tre­cento fogli, di cui soltanto un terzo si è conservato alla Biblioteca Nazionale di Sofia. Verso la metà del sec. XVI, la seconda parte delle Istruzioni è stata tradotta in greco da Manuele di Corinto e poco più tardi, nel sec. XVII, il testo integrale è stato tradotto in romeno. L’editio princeps della versione ro­mena, edita dalla tipografia del Collegio s.Saba, a Bucarest, risale al 1843.

[23] Istruzioni, op. cit., p. 129.

[24] Ivi, pp. 125 e 269.

[25] Il testo romeno con traduzione italiana di questa ballata si può leggere in A.Roman, Antologia della poesia romena. Dagli inizi fino ai nostri giorni, vol. I, Padova 1985, pp. 11-13.

[26] L.Blaga, Spazio mioritico, Bucarest 1936 (in romeno).

[27] Sono riflessioni ricavate dalla lettura di M.Eliade, “L’agnelle voyante”, in op. cit., pp. 218-246.