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Sesto ciclo

Anno liturgico C (2018-2019)

Tempo di Quaresima

IV Domenica

(31 marzo 2019)

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Gs 5,9-12;  Sal 33;  2Cor 5,17-21;  Lc 15,1-3.11-32

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L’antifona di ingresso della liturgia, parafrasando un passo del profeta Isaia, esprime a meraviglia l’esito della parabola per il cuore dell’uomo: “Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa tutti voi che l’amate. Sfavillate con essa di gioia tutti voi che per essa eravate in lutto. Così sarete allattati e vi sazierete al seno delle sue consolazioni; succhierete e vi delizierete al petto della sua gloria” (Is 66,10-11). L’immagine è di un bambino ingordo che succhia al seno della mamma e se ne sazia beato. È l’immagine dell’uomo peccatore che, pentito, torna al suo Dio e ne scopre la tenerezza, quella che la parabola vuole proprio mettere in evidenza. Non è però un’immagine usuale per la fantasia religiosa dell’uomo. L’uomo preferisce distinguersi dai suoi simili, peccatori come lui, esibendo una parvenza di giustizia, senza tener conto dei sentimenti di Dio. Ed è proprio questo che rende la sua ‘giustizia’ non gradita perché non solidale con i sentimenti di Dio.

La parabola raccontata da Gesù va accolta nel contesto che l’ha generata (“I farisei e gli scribi mormoravano: Costui riceve i peccatori e mangia con loro”, Lc 15,2): l’uomo preferisce nascondersi nella sua pretesa di giustizia. Ciò che la parabola smaschera è l’immagine gretta di Dio e la mortificazione della vita sottesa alla pretesa devozione.

È chiaro che la comunione con il padre resta il segreto della felicità dei due figli. Il punto è esattamente questo: riuscire a stare solidali con il padre, con la sua premura e la sua angoscia per poter godere della sua gioia. Ed è lo stesso Gesù a rivelare a quale livello di intimità si situa il segreto della felicità nella comunione con il Padre: “Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie” (Gv 17,10), come esattamente il padre della parabola dice al figlio maggiore.

La gioia traboccherà quando il cuore potrà dire di Dio: “Chi avrò per me in cielo? Con te non desidero nulla sulla terra” (Sal 72/73,25-26). Allora i due figli saranno nella pace e godranno la fraternità. Nel testo ebraico del salmo: “Chi altri avrò per me in cielo? Fuori di te nulla bramo sulla terra. Se vengono meno la mia carne e il mio cuore, rupe del mio cuore e mia porzione è Dio per sempre”. Come dice un’antica orazione salmica: “Per noi il bene è aderire a te, Signore, ma tu accresci in noi il desiderio del bene, così che la speranza che ci unisce a te non vacilli per nessuna indecisione della fede ma perseveri nella saldezza della carità”.

A tutto questo si riferisce il pentimento del figlio minore, che si risolve nel tornare dal padre, senza affogare in sentimenti di indegnità e disperazione: “ritornò in sé e disse …. Si alzò e tornò da suo padre”. Tornare non significa riprendere la situazione prima del peccato, come se si trattasse di una questione tra me e me, ridando forza eventualmente agli ideali abbandonati. In termini psicologici, il nostro super-io non alimenta mai la vita del cuore. Significa tornare all’amore benevolente di Dio, che ha temuto per la nostra incolumità e ha premura che noi stiamo bene. Tutti i segni di premura del padre verso il figlio che è tornato (il vestito, l’anello, i sandali) alludono alla benevolenza del suo amore che non aspetta altro se non di riversarsi. Il pentimento ha a che fare con il ritrovare le energie del cuore per vivere la vita nella gioia. È ciò a cui allude la prima lettura con la circoncisione dei figli di Israele nati dopo l’uscita dall’Egitto, nella lunga traversata del deserto prima di arrivare alla terra promessa, spiegata da Giosuè: “Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto” (Gs 5,9).

Se s. Paolo proclama che il ministero della chiesa è la riconciliazione, come riporta la seconda lettura, vuol dire che l’esperienza fondamentale dell’uomo è l’accoglienza del perdono di Dio, in Cristo, esperienza così fondante della nuova umanità a noi donata in Cristo, che tutta la vita umana assume la tensione di estendere a tutto e a tutti il perdono ricevuto, nella condivisione comune. E se, come si legge nella stessa lettera: “Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione”, 2Cor 5,18), Dio affida all’uomo il ministero della riconciliazione, vuol dire che ritiene l’uomo suo compagno. “Siamo infatti collaboratori di Dio” (1Cor 3,9). Con la rivelazione di Gesù, che svela, mentre compie, questo supremo desiderio di Dio, possiamo scorgere all’opera nel mondo le segrete intenzioni di Dio nei confronti delle sue creature, come la stessa parabola di Gesù rivela. Parlare di redenzione, di salvezza, di grazia, significa alludere a questa opera di riconciliazione in atto nella storia, come dice Gesù: “Il Padre mio agisce anche ora e anch’io agisco” (Gv 5,17). Opera appunto la riconciliazione in Gesù, nostra pace (“Egli infatti è la nostra pace“, Ef 2,14). Noi tutti siamo chiamati a concorrere alla realizzazione di questa ‘opera’. In questo senso dobbiamo imparare a giudicare ogni cosa in base alla convergenza verso questo supremo scopo divino. Così si fa esperienza di essere solidali con i sentimenti di Dio, perché in questo consiste la letizia dell’uomo, la cui porta di accesso è il pentimento, come per il figlio che rientra in se stesso e pensa a suo padre decidendo di ritornare a casa, nonostante la sua vergogna.

Nel particolare della festa che il padre allestisce si scorge un’allusione misteriosa. È la festa della grande cena per gli invitati che non vogliono venire (Lc 14,15-24), la festa del banchetto di nozze che il re vuole per il figlio (Mt 22,1-14). Ma soprattutto è la festa in cui si uccide il vitello grasso. Come non pensare al ‘sacrificio’ del figlio amato, inviato dal padre a riscuotere i frutti della vigna (Lc 20,9-19)? Così, il far festa non richiama semplicemente alla gioia, ma alla gioia dell’amore di Dio che vuole radunare i suoi figli e non teme di vedere il figlio ‘sacrificato’ perché l’amore deve rivelarsi in tutta la sua immensità. La gioia ha a che vedere con l’esperienza di quell’amore sconfinato che solo permette di attraversare il male senza restarne vittime e che in Gesù ha il suo testimone per eccellenza.

Ho notato che nella parabola il padre non parla mai direttamente ai figli, come questi non parlano mai direttamente tra loro. Sono i figli a parlare direttamente al padre. Del padre la parabola descrive il suo agire benevolo e pieno di premure e tenerezze, soprattutto con il figlio ritornato a casa. Solo alla fine il padre si rivolge al figlio maggiore ricordandogli che è necessario far festa, in ciò rivelando tutto il suo intimo sentire. Se i due figli sono l’immagine del popolo d’Israele e del popolo dei pagani, allora il rivolgersi al figlio maggiore allude alla rivelazione di Dio a Israele, che Gesù richiama e che mostra compiuta nella sua premura per i pubblicani e i peccatori. Tutti e due sono chiamati alla mensa dell’amore di Dio, che fonda la loro fraternità, nell’unico Padre di tutti.

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I TESTI DELLE LETTURE (dal “Messale Romano”):

[I testi delle letture sono protetti dal © Libreria Editrice Vaticana e ne è vietata la riproduzione, anche parziale e con qualsiasi mezzo]

Prima Lettura  Gs 5,9-12

Dal libro di Giosuè

In quei giorni, il Signore disse a Giosuè: «Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto».

Gli Israeliti rimasero accampati a Gàlgala e celebrarono la Pasqua al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico.

Il giorno dopo la Pasqua mangiarono i prodotti della terra, àzzimi e frumento abbrustolito in quello stesso giorno.

E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna; quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan. 

Salmo Responsoriale  Dal Salmo 33

Gustate e vedete com’è buono il Signore.

 

Benedirò il Signore in ogni tempo,

sulla mia bocca sempre la sua lode.

Io mi glorio nel Signore:

i poveri ascoltino e si rallegrino.

Magnificate con me il Signore,

esaltiamo insieme il suo nome.

Ho cercato il Signore: mi ha risposto

e da ogni mia paura mi ha liberato.

Guardate a lui e sarete raggianti,

i vostri volti non dovranno arrossire.

Questo povero grida e il Signore lo ascolta,

lo salva da tutte le sue angosce.

Seconda Lettura  2 Cor 5,17-21

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi

Fratelli, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.

Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione.

In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio.

Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio.

 

Vangelo  Lc 15,1-3.11-32

Dal vangelo secondo Luca

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».

Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.

Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.

Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».