Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo di Avvento

 

1a Domenica

(2 dicembre 2012)

 

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Ger 33,14-16;  Sal 24;  1Ts 3,12-4,2;  Lc 21,25-28,34-36

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Il tempo dell’Avvento è celebrato nelle sue tre dimensioni attorno alla figura di Gesù: a) l’evento della nascita di Gesù nella storia; b) il suo ritorno glorioso alla fine della storia; c) l’oggi della storia vissuto nel Signore che nasce e cresce nei cuori. Il colore viola dei paramenti liturgici richiama la fatica storica della rivelazione dello splendore del Cristo in e tra di noi, in attesa della letizia del Natale con la consuetudine di farci doni perché ci è stato fatto il Dono per eccellenza: Dio si è fatto uno di noi, la terra può vivere come il cielo. Proprio come diciamo nel Padre nostro: sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra, cioè perché la nostra terra diventi tutta cielo.

Il tema della vigilanza, tipico dell’Avvento, si innesta nella corrispondenza tra l’antifona di ingresso: “Mio Dio in te confido” e il versetto 14 del salmo responsoriale: “Il Signore si confida con chi lo teme”, versetto che il testo ebraico proclama in modo ancora più eloquente: “Il segreto (l’intimità) del Signore è per chi lo teme”. Il segreto del Signore è quello rivelato dal profeta Geremia, mentre si trovava in prigione e riceve la rivelazione: “Invocami e io ti risponderò… perdonerò tutte le iniquità… verranno giorni nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto”. E il salmo, come interpretando i bisogni del cuore dell’uomo e la difficoltà di incontrare il Signore che viene, continua a sottolineare: “Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri”. Come a dire: le vie del Signore che chiediamo di conoscere sono la verità del suo amore, che in Gesù si è reso toccabile. Non c’è evento nella nostra vita che possa cancellarlo o soffocarlo o far desistere il Signore dal suo amore. Temere lui vuol dire non impedire al cuore di vivere di quel suo desiderio di amore per noi. Non è proprio agevole né per nulla scontato accettare che i sentieri di Dio nei nostri confronti siano amore e fedeltà. Ma il Signore Gesù, nato nella nostra storia, è lì a proclamarlo, a ricordarcelo, a far risplendere il suo amore perché ci conquisti e ci acquieti, ciascuno e tutti insieme.

La vigilanza serve a questo: a tenerci desti all’amore del Signore. E l’uomo è colui che alza il capo per essere capace di vedere le promesse di Dio, di vederle compiersi nel suo cuore. Per tutto l’avvento risuonerà l’esortazione: ‘vegliate e pregate’, come a dire: abbiate un occhio acuto e un cuore ardente. Non si tratta solo di un esercizio di intelligenza (vegliate!) ma di un processo di confidenza (pregate!). Un antico saluto degli indiani Hopi suona: sta’ attento a che la tua testa resti aperta verso l’alto! Tenere aperta la testa verso l’alto significa allora superare la paura, perché il Dio che siamo chiamati a conoscere è un Dio di amore per noi. Attende solo – anche Dio attende! – di incontrare cuori aperti alla sua promessa, fiduciosi di vedere il bene che la sua promessa ci rivela.

L’esortazione alla vigilanza allude all’attesa del cuore, mentre l’invito alla preghiera allude alla possibilità del compimento delle promesse di Dio. Attesa e promessa che sono ben espresse dalle parole di Gesù riportate in Giovanni: “Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui … Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,21.23). Costituisce il godimento dell’ultima promessa di Gesù: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). E che il prefazio della liturgia di Avvento interpreta: “Ora che egli viene incontro a noi in ogni uomo e in ogni tempo, perché lo accogliamo nella fede e testimoniamo nell’amore la beata speranza del suo regno”.

Il compimento di quelle promesse si sperimenta in ciò che Paolo esorta a vivere scrivendo ai Tessalonicesi: “Fratelli, il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi, per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi”. La lettera è il più antico documento letterario del Nuovo Testamento, scritta da Paolo verso l’anno 51, appena una ventina d’anni dopo la morte e risurrezione di Gesù. La generosità degli inizi con la partecipazione entusiasta alla carità di Dio rivelata in Gesù che tutti coinvolge trasformando la vita si riflette nella fede nell’imminenza del ritorno di Gesù.

Gesù invita a vegliare e a pregare nell’imminenza della sua passione. Se ricorda gli eventi della fine è per convogliare i desideri dell’anima su colui che tutti riconosceranno come giudice giusto perché pieno di amore per noi. Ogni evento può essere aperto a tale riconoscimento: vegliamo e preghiamo perché i nostri sguardi trovino sempre gli occhi compassionevoli di Chi ha preferito noi a se stesso e ci insegna a vivere del suo stesso amore.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Solennità e feste

 

Immacolata Concezione

(8 dicembre 2012)

 

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Gn 3,9-15.20;  Sal 97;  Ef 1,3-6.11-12;  Lc 1,26-38

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Rallegrati, piena di grazia” è il saluto dell’angelo Gabriele a Maria. La festa di oggi fa presagire quanto siano insondabili i confini di questa sua pienezza di grazia: unica tra tutte le creature non è toccata da ombra di peccato, fin dal suo concepimento, fin dal suo primo istante di esistenza. Dire che non ha ombra di peccato non è che la modalità per negativo di dire quanto sia coperta dall’ombra dello Spirito Santo: “Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra …”.

La liturgia oggi non fa che proclamare l’insondabile e straordinaria volontà di benevolenza di Dio per gli uomini, in tutto lo splendore d’amore che comporta, che,  per dirla con l’espressione di Paolo agli Efesini, esprime tutto ‘il disegno d’amore della sua volontà’ per noi. Se leggiamo la festa di oggi sulla falsariga dell’inno di Paolo, nel capitolo primo della sua lettera agli Efesini, potremo comprendere più adeguatamente sia l’inno del magnificat pronunciato dalla Vergine che la ragione della profezia rivoltale di essere ‘la benedetta tra tutte le donne’. Dice Paolo: “In lui siamo stati fatti anche eredi, essendo stati predestinati - secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà – a essere lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo”. Vediamo in lei la prima che ha sperato in Cristo e che perciò è stata fatta a lode della sua gloria, vale a dire adatta a rivelare la sua gloria, adeguata a portare la sua gloria. E se la gloria non è che lo splendore del suo amore per gli uomini, allora è lei colei che più di tutti l’ha fatto risplendere con il portare in grembo, partorire, custodire, condividere il mistero di quel Gesù, suo Figlio, dato per noi, a rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini. La pienezza di grazia della Vergine è in funzione di quella rivelazione, che costituisce la ragione per cui lei è chiamata a dare carne a colui nel quale riposa il sommo beneplacito, la totale compiacenza di Dio, come sarà dichiarato espressamente nel momento del battesimo e della trasfigurazione del Signore Gesù. È lei che può esprimere in tutta la sua profondità ed esultanza quell’amore di benevolenza di Dio che salva l’uomo, di cui tutti siamo chiamati a fare esperienza: “Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo …”.  Ci può essere per l’uomo motivo più autentico di benedizione di questo ‘riconoscimento’ dell’amore di Dio per noi, in Cristo, che ha presieduto alla stessa origine del mondo e che ha avuto nella Vergine Immacolata il suo segno tangibile?

Riflettendo sul passo del racconto del peccato narrato dal libro della Genesi si può osservare come le varie creature si pongano nei confronti di Dio. Quando Dio chiede ad Adamo se abbia trasgredito il suo comando, lui risponde addossando la colpa ad Eva. Quando Dio si rivolge ad Eva, lei risponde addossando la colpa al serpente. Ma quando Dio è davanti al serpente, il serpente tace. Adamo ed Eva rispondono a Dio, pur giustificandosi, perché hanno nostalgia di Dio. Il serpente sembra non avere alcuna nostalgia: non semplicemente ha peccato, ma non è proprio d’accordo sul fatto che Dio conceda i suoi favori agli uomini e resta quindi avversario di Dio. È avversario di Dio chi è geloso dei beni che Lui riversa sulle sue creature e perciò resta astioso, astio di cui facciamo le spese noi continuamente. Chi è capace di far risplendere i doni di Dio solo godendo dell’immenso amore di Dio per gli uomini è pieno di grazia. E da tale pienezza di grazia non può non derivare il Salvatore, che è la rivelazione dell’infinito amore di Dio per gli uomini. Credo voglia dire anche questo la pienezza di grazia della Vergine, dalla quale nasce Gesù, il Salvatore. Ed è per questo che la tradizione saluta la Vergine come la gioia dell’universo.

Lei proclama: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. Come a dire: Dio solo sia benedetto, si realizzi la sua promessa, si manifesti in me, finalmente e compiutamente, il suo Bene all’umanità! Proclamandosi serva del Signore esprime il suo desiderio della dimora di Dio in mezzo agli uomini, di cui tutto il suo essere è testimonianza e intercessione per l’umanità intera. Ma esprime anche la preghiera di ogni credente, di ogni discepolo del Signore: avvenga per me secondo quello che hai stabilito fin dall’eternità, si compia in me quello che dalla fondazione del mondo hai promesso all’umanità, si veda realizzato in me quel Regno che nel tuo Figlio hai fatto venire.

La Vergine Immacolata è anche chiamata Signora nostra. Un passo di un’omelia di Gregorio Palamas ne spiega la portata: “ ... signora non solo in quanto libera dalla servitù e partecipe della divina signoria, ma anche perché fonte e radice della libertà del genere umano, soprattutto dopo il parto, ineffabile e beato” (Omelia 14). Così, se l’uomo vuole accedere al regno della libertà, non ha che da guardare a questa sua sorella, al suo mistero, alla sua storia, alle sue emozioni, ai suoi dolori, al suo amore perché in lei ritrova tutto il mistero dell’amore di Dio per l’uomo. E non si può vivere l’amore senza libertà. Nella sua grandezza non cessa di essere sorella nostra, come nella nostra miseria noi non cessiamo di essere oggetto dell’amore di Dio. Il suo avere il Signore con lei è motivo di fiducia per noi di trovarlo, di essere accompagnati a lui, di stare in sua compagnia. Il Signore è con te diventa, nella nostra preghiera: ‘tu, che hai il Signore, supplicalo perché sia anche con noi, ora e sempre!’.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo di Avvento

 

2a Domenica

(9 dicembre 2012)

 

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Bar 5,1-9;  Sal 125;  Fil 1,4-6,8-11;  Lc 3,1-6

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La chiesa introduce la testimonianza di un profeta d’eccezione per predisporci ad accogliere la venuta di Gesù: Giovanni Battista. È definito come la ‘Voce che grida nel deserto’, voce per una Parola che ancora deve mostrarsi, ma dalla quale è già conquistato e di cui diventerà testimone.

Il brano del vangelo di Luca, in questo inizio del capitolo terzo, si espande in continue e misteriose allusioni. La persona di Gesù è compresa in rapporto a Giovanni Battista e Giovanni Battista è compreso in rapporto al popolo di Israele che attende la manifestazione del proprio Dio secondo la sua promessa, ma le coordinate storiche degli avvenimenti sono situate entro la cornice della storia pagana, a indicare la centralità dell’evento per la storia umana. Siamo nell’anno 28/29 d.C. Vengono nominate le autorità che derivano il loro potere dal beneplacito di Roma: anzitutto Tiberio, poi Ponzio Pilato (governatore/prefetto della Giudea tra il 26 e il 36 d.C.), Erode Antipa (che governa tra il 4 a.C. e il 39 d.C.), Filippo (al potere tra il 4 a.C. e il 34 d.C.) e Caifa, sommo sacerdote, che svolge il suo incarico tra il 18 e il 36, dopo che Anna, suo suocero, era stato deposto nell’anno 15. Le coordinate di senso, però, sono definite in rapporto alla storia sacra d’Israele con allusioni, dirette e indirette, alle Scritture. Il Battista è definito con un riferimento diretto al profeta Isaia 40,1-5 e con un’allusione alla vocazione di Geremia 1,1 e alla promessa di Dio in Osea 2,16-22. A questi brani la liturgia aggiunge il testo di Baruch, essenziale a cogliere il grido del Battista.

La voce del Battista risuona forte: “Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!”. Eppure, la colletta fa pregare così: “O Dio grande nell’amore, che chiami gli umili alla luce gloriosa del tuo regno, raddrizza nei nostri cuori i tuoi sentieri …”. Identica cosa dice il profeta Baruc: “Poiché Dio ha deciso di spianare ogni alta montagna e le rupi perenni, di colmare le valli livellando il terreno, perché Israele proceda sicuro sotto la gloria di Dio”.

Se è Dio che raddrizza i sentieri, come si concilia questo agire di Dio con l’invito del Battista? Due sono i movimenti che si intersecano: l’azione di Dio e l’azione dell’uomo. L’azione di Dio riguarda l’invio del Figlio all’umanità, Figlio che riunisce i figli di Dio dispersi, che diventa segno glorioso dell’amore di Dio per gli uomini. A questa azione di Dio, che riassume il suo desiderio di stare con gli uomini e di renderli partecipi finalmente dell’amore suo di cui è ricolmo il Figlio, corrisponde l’azione dell’uomo che consiste proprio nell’aprirgli le porte, nell’accoglierlo, nel cogliere il segno che lui rappresenta. Sarà il Figlio, accolto, ricevuto in casa (pensiamo agli incontri avuti da Gesù con i vari discepoli e personaggi nei vangeli!), che ‘raddrizza i sentieri di Dio in noi’, nel senso che nel Signore Gesù e con il Signore Gesù l’uomo ritrova la sua vocazione divina e la possibilità di compierla in pienezza, per cui torna ad essere capace di compiere i comandamenti, che costituiscono i sentieri di Dio per noi.

E quando il Battista applica all’uomo l’esortazione di raddrizzare i sentieri di Dio non fa che scuoterlo dai suoi sogni e dalle sue illusioni perché apra il suo cuore a quel Figlio che sta per venire, che è venuto a portare e a far vivere la vita di Dio. E aggiungendo: “ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!”, non fa che sottolineare l’estensione del progetto di Dio per l’umanità. Come non si tratta di una salvezza che riguardi me più degli altri, così non si tratta di una salvezza che riguarda me senza gli altri. È la via di Dio per l’uomo, che diventa la via dell’uomo per Dio: lasciare libero il sentiero tra uomo e uomo è il segno più inequivocabile della rimozione di ostacoli nel sentiero tra uomo e Dio. Amare il prossimo torna a gloria di Dio perché è segno dell’esperienza dell’ incontro con Dio, segno dell’accoglienza gioiosa e solidale con l’umanità di quel Figlio, mandato a riunire i figli di Dio dispersi.

L’invito alla conversione è dunque l’invito a vedere la venuta di Dio che viene incontro al suo popolo, è l’apertura di cuore a riconoscerlo nella sua offerta di alleanza, nella sua proclamazione di amore. Il Battista chiama la gente alla conversione nel deserto per imparare a percepire la nuova opportunità di salvezza che viene da Dio, mentre Gesù, che di quella salvezza è l’attore e il portatore, andrà lui dalla gente per farla gustare e rinnovare così i cuori tanto che ‘ogni creatura potrà vedere la salvezza’, cioè vedere in Lui quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini (= vedere la gloria) e disporre tutti a vivere lo stesso mistero di amore perché Dio sia celebrato ovunque. Sarà uno degli esiti della gioia del Natale.

L’allusione alla voce che grida nel deserto riprende il testo di Osea: “Perciò, ecco, io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore … Là mi risponderà come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese d'Egitto … Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nell' amore e nella benevolenza, ti farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore” (Os 2,16.17.21-22), dove il brano, reso pudicamente in italiano, ha un connotato molto più realistico: ti sedurrò, parlerò sul tuo cuore, con espressioni tipiche dell’intimità delle relazioni tra l’uomo e la donna; risponderà, nel senso della risposta della sposa che si dona a suo marito. Allora, portare nel deserto da parte di Dio allude, sì, allo spogliamento (= penitenza) dei beni e delle cose nei quali ci si è illusi di trovare felicità, ma soprattutto allude a una nuova storia di amore che Dio è pronto a intessere col suo popolo su basi nuove, con una nuova alleanza, perché finalmente il cuore possa godere la vita in modo soddisfacente. Quando il Battista comincia a gridare nel deserto, nella sua voce c’è l’eco di questo desiderio di Dio di venire dal suo popolo, un’eco che non rimbomba più da lontano ma si fa sempre più vicino, fino a tramutarsi nel suono diretto della Parola d’amore che appare in mezzo al suo popolo quando Gesù si manifesterà.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo di Avvento

 

3a Domenica

(16 dicembre 2012)

 

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Sof 3,14-18a;  Is 12,2-6;  Fil 4,4-7;  Lc 3,10-18

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 Rallegrati, figlia di Sion, grida di gioia, Israele; esulta e acclama con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme! Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico”; “Siate sempre lieti  nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino!”. Così la liturgia, oggi, accoglie i fedeli: li chiama alla gioia, insistentemente. Con quali ragioni?

Riferire la gioia a Dio comporta due significati: Dio è pieno di gioia per noi (= noi siamo la sua gioia) e Dio è fonte di gioia per noi (= Dio è la nostra gioia). La colletta fa pregare: “O Dio, fonte della vita e della gioia, rinnovaci con la potenza del tuo Spirito, perché corriamo sulla via dei tuoi comandamenti, e portiamo a tutti gli uomini il lieto annunzio del Salvatore”.  La potenza dello Spirito è collegata al mistero della letizia che ci rinnova facendoci ‘correre’, non semplicemente ‘camminare’, sulla via dei comandamenti. Se il cuore non percepisce mai come Dio non si dia pace finché noi vediamo quanto è contento di poter stare con noi, come potremo fare esperienza che i suoi comandamenti sono la gioia del nostro cuore? Il profeta Sofonia lo dice chiaramente: è Dio ad esultare di gioia per noi. La cosa è tanto singolare che la nostra psicologia interiore sembra non riuscire a produrre una sensazione del genere. Eppure, la percezione della gioia di Dio per noi è la radice della nostra dignità.

Essa è appunto il frutto della conversione, vale a dire della impossibilità di negare che Dio viene a noi con gioia, non si stanca di venire a noi con gioia, gioia che è frutto del suo amore per noi che conquista il nostro cuore. Quando il Battista riconosce in Gesù l’Inviato di Dio lo riconosce appunto come riflesso della gioia che quell’incontro gli procura. Fin dal grembo materno Giovanni ha esultato di gioia alla presenza di Gesù. Da adulto, ormai al termine del suo cammino, di sé dice: “Ma l’amico dello sposo, che è presente e lo ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo” (Gv 3,29). Così, quando Luca vuol descrivere la premura di Dio per gli uomini, non ha di meglio che narrare la parabola del figlio ritrovato, della pecorella e della dramma ritrovate (Lc 15) dove la rivelazione del cuore di Dio si fa evidente proprio attraverso la sua gioia per noi. Ciò vuol dire ancora che la nostra gioia non può derivare dalla nostra innocenza, perché davanti a Dio suonerebbe solo come una pretesa di giustizia, mentre deriva dal suo amore per noi.

Il brano del vangelo odierno termina con l’annotazione: “Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo”. Evangelizzare comporta l’aprire il cuore alla gioia di una presenza, per la ragione che Paolo dice ai Filippesi: “Il Signore è vicino”. È una gioia che si tradurrà in un tratto di dolcezza verso tutti e tutto, tanto da gustare una pace che sovrasta ogni afflizione e ogni contrasto. Il Battista esorta a fare frutti degni della conversione e i frutti degni della conversione sono quelli accompagnati dalla gioia di una Presenza amica. Ogni bene non lambito dalla gioia non è ancora un frutto degno della conversione. La conversione non vuol semplicemente dire fare azioni buone a differenza di prima che si facevano azioni cattive; comporta accedere al fuoco del cuore che dà ragione di quel fare ‘diverso’, che dà senso all’impegno del bene e che abilita a godere il dono di Dio.

La liturgia mostra il motivo della gioia nella proclamazione che il Signore è in mezzo a noi come un salvatore potente, dove potente significa ‘capace di dare letizia’ e salvatore ‘pieno della gioia che arriva anche a noi’, capaci finalmente di condividerla. Giovanni chiama Gesù ‘colui che è più forte di me’ e mette in relazione quella forza allo Spirito Santo nel quale Gesù battezzerà. Come riporterà Luca più avanti, cap. 11, v. 22, il definire Gesù ‘il più forte’ significa riconoscergli la dignità di Messia. E la forza del Messia sta nel fatto che fa vedere Dio presente, che fa vedere il Regno che si compie. Ma il Regno che si compie è proprio l’amore di Dio che si fa condiviso, apertamente e fraternamente condiviso con tutti gli uomini, nello Spirito, cioè nella letizia che non viene più tolta. E la letizia che non viene più tolta (si pensi alla ‘perfetta letizia’ di s. Francesco di Assisi) è proprio quella che custodisce la gioia di Dio per noi perché il suo amore ormai risplende senza farsi più turbare o distrarre da altro. È la letizia come segno del Regno che viene, come l’opera di Dio che si fa manifesta. I nostri peccati annegano in questa gioia di Dio per noi.

Insieme allo Spirito Santo viene nominato il fuoco. È l’altra faccia della medaglia: condividere la gioia di Dio per l’uomo comporta evidentemente il bruciare tutto quello che a quella gioia si oppone o che quella gioia contraddice. E poi scopriamo che ciò che contraddice alla gioia di Dio è la chiusura nei confronti dell’umanità, prima di tutto del nostro Dio, poi nostra e di tutti i suoi figli, per cui l’indicazione delle varie opere che il Battista indica come segno dell’incipiente conversione si muove nella prospettiva di una dinamica di solidarietà con gli uomini. Essere solidali in umanità significa ricreare quell’ambiente umano che fa concludere a s. Benedetto la sua famosa Regola con queste parole che si applicano alla vita comune di tutti i credenti in Cristo: “… c’è anche uno zelo buono, che allontana dai vizi e avvicina a Dio e all’eterna vita. Questo è lo zelo che i monaci devono coltivare con il più ardente amore. Essi dunque, si prevengano nello stimarsi a vicenda (Rom 12,10); sopportino con instancabile pazienza le loro infermità fisiche e morali; facciano a gara nell’obbedirsi a vicenda; nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma quello degli altri; amino con cuore casto tutti i fratelli; temano Dio con trasporto d’amore; vogliano bene al loro abate dimostrandogli una carità umile e sincera; nulla assolutamente antepongano al Cristo; ed egli ci conduca tutti insieme alla vita eterna”.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo di Avvento

 

4a Domenica

(23 dicembre 2012)

 

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Mic 5,1-4a;  Sal 79;  Eb 10,5-10;  Lc 1,39-45

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Siamo ormai prossimi alla festa del Natale e tutta la liturgia oggi è un invocare il compimento del ‘volere’ la nostra salvezza da parte di Dio. Non è l’uomo a muovere Dio, ma è il volere salvatore di Dio che investe l’uomo. Il salmo 79 riassume bene gli aneliti dei cuori: “Risveglia la tua potenza e vieni a salvarci ... Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna”. Quel ‘volere’ si rivela in un volto di cui godremo finalmente la vista. Quel Giusto, quel Salvatore, di cui si invoca la discesa contemporaneamente dall’alto e dalla terra, è colui che di sé dice entrando in questo mondo: “Ecco, io vengo per fare la tua volontà” (Eb 10,7). La sua non è una dichiarazione puntuale, che avviene cioè in un determinato momento sottintendendo che prima non pensava in questi termini, ma è una dichiarazione eterna, frutto del colloquio eterno tra il Padre e il Figlio nell’amore che li lega tra loro e al mondo. L’apparire finalmente di Gesù nella storia umana non riguarda semplicemente la cronaca storica, ma concerne la dimensione eterna della storia umana. Lui ne è il fulcro, ne è la radice ed insieme il frutto.

Con il cantare nel salmo responsoriale: “Risveglia la tua potenza e vieni a salvarci” (Sal 79,3), invochiamo di essere toccati dalla compassione di Dio per noi, la cui potenza si esprime nella capacità di dare letizia al nostro cuore, conquistandolo alla sua pace. E se per cogliere la portata della salvezza operata da Gesù, la lettera agli Ebrei gli mette in bocca le parole del salmo 40: “Ecco, io vengo a fare la tua volontà”, vuol dire che la volontà del Padre è che il Figlio mostri la grandezza del suo amore per i suoi figli e li riunisca dalla dispersione in cui erano piombati. In quella volontà noi siamo santificati, vale a dire siamo abilitati a vivere nella comunione del Padre nel suo stesso volere di bene per tutti, perché tutti sono invitati alla mensa del suo amore.

Si invoca la sua discesa dall’alto: Dio si avvicina all’uomo, non l’uomo a Dio; Dio si fa figlio dell’uomo, non l’uomo Figlio di Dio. Ma si invoca pure dal basso, dalla terra: Dio non sopraggiunge come un meteorite, come importato da fuori, benché dall’alto; Dio, nel suo agire, sempre accondiscende all’uomo e quando si avvicina all’uomo lo fa in modalità umana, da dentro quella storia che ha messo in moto per condividere con l’uomo il suo Bene. Invocare la sua discesa dalla terra è proclamare la santità dell’umanità della Vergine che Dio stesso si è preparato perché finalmente si compia quel ‘volere’ che ha costituito il desiderio di Dio dall’eternità: Dio e l’uomo in uno, tutto Dio per l’uomo e tutto l’uomo per Dio.

A quel ‘volere’ si appella la Vergine con le sue parole all’angelo: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola” (Lc 1,38), come proclama il canto al vangelo. Il volere di benevolenza di Dio per l’uomo, che si era espresso nel volere di intimità del Figlio con il Padre per essere il testimone del suo amore per gli uomini tra gli uomini, si rispecchia nel volere di obbedienza della Vergine che sta unita al suo Dio. Si rivela qui la santità dell’umanità della Vergine che diventa lo spazio di realizzazione del desiderio di Dio per gli uomini, ritrovando in ciò tutta la sua dignità di creatura e tutto lo splendore nel quale era stata concepita fin dall’inizio. E non per nulla l’elogio di Elisabetta si appunta proprio su questo: “beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”. Parafrasando potremmo aggiungere: beata colei che ha fatto esperienza così forte e totale dell’amore di benevolenza di Dio per l’umanità da non ricercare altro nel suo vivere se non che quell’amore di benevolenza avesse tempo e modo di riversarsi su tutto e su tutti, su di lei come sul mondo. È da tale consapevolezza che sgorgano le parole del magnificat e il canto di esultanza della creatura che vede lo spazio di vita ormai  totalmente occupato da quell’amore. Anche nella preghiera del Padre nostro, quando invochiamo: ‘sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra’, per prima cosa chiediamo di fare esperienza di quell’amore di benevolenza da parte di Dio, amore nel quale siamo stati concepiti e voluti e che costituisce tutto il nostro splendore, sebbene l’esperienza non sia mai scontata.

Se si accoglie il Verbo di Dio, se ne accoglie anche la dinamica di amore che l’ha spinto a venire a noi, dinamica che investe il mondo e che costituisce il suo splendore. Ecco perché in quell’ “avvenga per me secondo la tua parola” c’è anche l’impeto di carità che muove la Vergine ad andare da sua cugina Elisabetta. Le parole del magnificat alludono anche alla carità che ha investito il suo cuore e del cui splendore il suo agire è ormai testimone, segno della presenza fatta carne del Figlio di Dio. Di quell’amore Lui è il rivelatore per eccellenza perché conoscendo il Padre in verità sa che è amore per noi. Proprio questo è venuto a ‘far vedere’! E in questo sta la nostra salvezza e la nostra pace.

Nel salmo 79 il versetto che fa da ritornello responsoriale “Fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi”, viene ripetuto tre volte. Quel volto che risplende su di noi è il Messia cantato come ‘figlio dell’uomo che per te hai reso forte’. Forte da vincere ogni nemico e farci godere la pace, cioè ricondurci all’esperienza dell’amore di Dio così forte da non concepire la vita in altri termini se non nella logica di quell’amore. La pace non è evidentemente assenza di afflizioni, ma condivisione dell’amore, amore che esprime tutto il volere di Dio per l’uomo e da parte sua e da parte nostra.

È interessante osservare che l’espressione della lettera agli Ebrei: “entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato… Allora ho detto: Ecco, io vengo - poiché di me sta scritto nel rotolo del libro - per fare, o Dio, la tua volontà” riprende la versione greca del salmo 40, ma l’ebraico porta: “gli orecchi mi hai aperto”, ad indicare la disponibilità totale al volere di Dio. Ma se Gesù prende un corpo, lo prende non solo per compiere il volere di salvezza di Dio per l’uomo, ma anche per mettersi in condizioni di compiere quella salvezza in termini di splendore di amore e di nient’altro. Non c’è ombra di ‘potenza’ nell’amore che Gesù manifesta nascendo come un bambino, vivendo da uomo e morendo sulla croce; eppure, non c’è potenza più forte di quell’amore che non si fa vincere da nulla. È l’amore che ‘magnifica’ il Signore davanti all’uomo e l’uomo davanti a Dio.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo di Natale

 

Natale del Signore

(25 dicembre 2012)

 

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Messa della notte: Is 9,1-6;  Sal 95;  Tt 2,11-14;  Lc 2,1-14

Messa dell’aurora: Is 62,11-12;  Sal 96;  Tt 3,4-7;  Lc 2,15-20

Messa del giorno:  Is 52,7-10;  Sal 97;  Eb 1,1-6;  Gv 1,1-18

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La liturgia natalizia, con i suoi tre formulari della messa nella notte, all’aurora e di giorno, illustra il mistero della nascita di Gesù a Betlemme nella luce di tre sguardi: lo sguardo del profeta, lo sguardo del discepolo e lo sguardo dei testimoni oculari.

Anzitutto lo sguardo del profeta, quello di Isaia. Il suo sguardo potente si affissa sulla promessa di Dio e sulla visione di consolazione per il popolo. Se la promessa riguarda un bambino che deve nascere: “un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio”, l’immagine di fondo dei brani è invece un’immagine nuziale, che possiamo riassumere nell’espressione: “Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia Gioia e la tua terra Sposata, perché il Signore troverà in te la sua delizia e la tua terra avrà uno sposo”. Dio è lo sposo che gioisce della sua sposa, la quale passa da una percezione di angosciosa solitudine, di abbandonata e sola, all’emozione di essere svelata a se stessa in una dolcezza di riposo che la fa sentire abitata, mio compiacimento e sposata (forse, meglio: abitata in dolcezza). La percezione di quella nuova realtà, di cui è indegna, ma di cui gode nell’intimo, grata e consegnata, costituisce il contenuto del nome nuovo con la quale è chiamata. È la situazione dell’umanità dopo la nascita di quel Bambino che è nato per svelare quanto è grande l’amore di Dio per l’uomo e come l’uomo possa accogliere e vivere questo amore in tutta umanità.

Poi c’è lo sguardo del discepolo, di Paolo, che nella sua lettera a Tito riassume la rivelazione del natale di Gesù con le espressioni: “è apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini”, “quando apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini”. Con la nascita di Gesù, con il Figlio di Dio fatto uomo, questa ‘apparizione’ è diventata visibile, toccabile. Potremmo intendere: proprio la vita umana di Gesù rivela la bellezza di Dio; proprio la pratica di umanità conforme alla volontà di Dio, in Gesù, racconta la salvezza e il progetto di Dio su tutta l’umanità.

Infine c’è lo sguardo dei testimoni oculari: la Vergine, gli angeli, i pastori. Gesù nasce povero, in condizioni disagiate e senza riconoscimenti, nonostante la potenza delle immagini messianiche che lo preannunciavano. La Vergine, sua madre, però, non gli ha fatto mancare la grazia dell’umanità, quell’umanità che poi lui, da grande, svelerà in tutta la sua portata divina nel suo passaggio pasquale. Gli angeli svelano tutta la preferenza di Dio per l’umanità e la loro gioia deriva dalla condivisione di questo segreto della creazione con il loro Dio. I pastori rappresentano l’umanità che non possiede titoli di gloria o di merito. Sentiamo l’emozione dei loro cuori, che passa ai loro piedi e riempie i loro occhi: quando ritornano ai loro greggi a riprendere la vita di sempre hanno la sensazione che la vita non può essere come quella di prima. Lo intuiamo dalla gioia della condivisione con altri di quanto hanno sperimentato.

A dire il vero, la liturgia propone nella messa del giorno un altro sguardo, quello dell’apostolo Giovanni, che guarda alla storia da dentro una profondità inattingibile, la stessa vita divina intratrinitaria. La particolarità però è che quella vita a noi appare nell’umanità di quel Bambino, perché la luce del Natale rimanda alla Pasqua, come un poema natalizio di s. Efrem canta: “Gloria al Nascosto che non potrebbe essere intravisto con l’intelligenza, ma che si è reso palpabile nella sua bontà tramite la sua umanità! La natura che non fu mai toccata, per le mani fu legata e appesa, per i piedi fu fissata e crocifissa: come a lui è piaciuto, ha preso corpo perché lo si potesse prendere”. Proprio a questo, con tutta la potenza di rivelazione che comporta quanto all’amore di Dio per l’uomo, vanno riferite le parole dell’apostolo Giovanni: “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia”. È la luce di tale splendore, fonte della nostra dignità, che rifulge nel Natale. La luce, la gioia, la pace che caratterizzano il clima della festività natalizia, tanto da indurre pressoché tutti a riversarle nelle case, nelle strade, nelle città, hanno a che fare proprio con quel Figlio, nato bambino, che vuol condividere all’uomo il segreto di Dio.

Sempre s. Efrem canta: “Sia benedetto Colui che ha fatto del nostro corpo una tenda per la sua Invisibilità! Sia benedetto Colui che nella nostra lingua ha tradotto i suoi segreti!”.

Cosa hanno visto i pastori e tutti i discepoli? Qualcosa che ha a che fare con l’apertura di un orizzonte e la possibilità di una esperienza fino ad allora impraticabili: “Dio, nessuno l’ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato”. Quell’orizzonte e quell’esperienza costituiscono il dono natalizio della pace. Se l’amore che ha originato quel dono è intravisto, allora si possono risanare le ferite della storia, si è abilitati a costruire un altro tipo di storia, si è raggiunti così nel profondo da non volere altro per sé e per tutti. È l’esperienza che farà dire all’apostolo: se Dio ci ha dato il suo Figlio unigenito, come non ci darà anche tutti gli altri beni? Come a dire: in lui potremo trovare tutti i beni ai quali anela il nostro cuore. È il perenne annuncio profetico dei credenti in Cristo al mondo.

Buon Natale a tutti!

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo di Natale

 

Santa Famiglia

(30 dicembre 2012)

 

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1Sam 1,20-22.24-28;  Sal 83;  1Gv 3,1-2.21-24;  Lc 2,41-52

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Celebrare la festa della santa famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, è un altro modo di sottolineare la verità e la veridicità dell’incarnazione del Figlio di Dio. Per porre la sua tenda tra di noi, Dio ha assunto la storia di una determinata genealogia (Gesù è ascritto alla discendenza davidica), carica delle promesse divine ma intessuta anche di peccato e di miserie umane e ha assunto pure la struttura che ha consentito a quella storia di svolgersi, cioè la famiglia. L’uomo che viene al mondo senza ritrovarsi in una famiglia che l’accoglie porta i segni dello strappo subito perché non garantito nel suo diritto a vivere e a crescere. Anche per Gesù, che è nato da una Vergine, è stato essenziale il contesto famigliare per crescere e scoprire il senso della sua vita. E tutto questo ha attinenza non solo con il bisogno dell’uomo, ma con il mistero di Dio. Voglio dire che il fatto che Gesù abbia avuto una famiglia non significa solo che Dio abbia voluto assumere la realtà umana della famiglia, ma ancor più che la famiglia nella sua realtà umana parla di Dio. Con tutti i misteri che comporta.

Nel racconto del ritrovamento al tempio di Gesù da parte dei suoi genitori ne abbiamo un indizio rivelatore. Al padre e alla madre che lo cercavano angosciati Gesù non teme di rispondere: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. Altre volte nel vangelo Gesù risponderà con questo tono a sua madre. Quando gli dicono che lo cercano sua madre e i suoi fratelli, egli dichiara: “Mia madre e miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 8,21). Oppure, a Cana, durante il banchetto di nozze, a sua madre che lo sollecitava ad intervenire risponde: “Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora” (Gv 2,4). Gesù rimanda continuamente, da dentro gli affetti familiari, ad una dimensione ancor più profonda che costituisce la radice stessa di quegli affetti e la garanzia più sicura. Rimanda cioè a quel ‘Padre’, di cui ogni affetto parla, al quale ogni affetto rimanda e nel quale ogni affetto trova la sua radice più appropriata ed il termine verso il quale ogni affetto anela.

Gli orizzonti sono mantenuti larghi, è un continuo andare oltre la cronaca e la materialità degli eventi, dentro la necessità e la difficoltà di un superamento continuo di quello che si pensava ovvio. Tutti i genitori conoscono questa ambivalenza nella crescita dei figli: fanno tutto per i figli e la loro gioia sta in questo, ma sanno che i figli sono chiamati a realizzare un loro progetto, spesso senza poterlo condividere, almeno all’inizio. Ma corrisponde al progetto di Dio sia la premura dei genitori che la libertà dei figli e se entrambi, genitori e figli, sono consapevoli di questa unità di progetto in Dio, tutti e due trovano la loro gioia, misteriosamente. Diventa così essenziale, per i genitori e per i figli, la consapevolezza della verità di questo rimando. La comprensione non è immediata, ma è assicurata. Della Vergine si annota nei vangeli: “Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”. Non comprendere subito il piano di Dio non significa non accoglierlo. Trattenere perciò eventi e parole, misteriose, che vengono da Dio, significa accogliere in cuore il suo piano in attesa di comprenderne il senso. E questo vale soprattutto negli affetti, negli affetti familiari in particolare, quando la forza del legame farebbe valere il legame tra madre e figlio, a volte in senso perfino ricattatorio e  non invece con Colui che di quel legame è la Sorgente ed il Criterio di verità. Se un legame non sta aperto ad un progetto superiore rischia di soffocare.

Forse non è inutile sottolineare che la prima e l’ultima parola di Gesù nel vangelo di Luca è una evocazione del Padre. Nel tempio, quando è ritrovato dai suoi genitori: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”; sulla croce, prima di morire: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46); oppure, prima dell’ascensione: “Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso” (Lc 24,49). Gesù fa vedere come in tutto ciò che vive, in tutto ciò che possiamo vivere noi, quello che è essenziale è scoprire e far valere la radice di vita, di senso, di sentimenti, che è il Padre dei cieli, Colui dal quale ogni bene riceviamo e verso il quale porta ogni bene vissuto. Senza questo ‘sconfinamento’, da dentro i legami degli affetti, l’uomo si insacca su se stesso e non trova più slancio e passione per un progetto grande di vita. In altre parole, non ritrova più lo Spirito donato da Gesù. Lo dice assai bene la seconda lettura tratta dalla prima lettera di s. Giovanni: “Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato”. In altri termini, osservare i comandamenti risulta possibile in forza dello Spirito che ci fa una cosa sola con Gesù, nel quale abita la pienezza della divinità. E lo Spirito è Colui che continuamente tiene aperti gli orizzonti verso il Padre, tanto in Gesù quanto in noi perché il desiderio di comunione di Dio con gli uomini si compia finalmente. Così è stato per la santa famiglia di Nazareth, così è stato per Gesù e così è per noi tutti. E solo così gli uomini possono vivere i loro affetti senza sottrarre loro quel vigore e quello slancio che li apre ad aneliti sempre più profondi e veritieri, dentro un’umanità così larga di orizzonti da sentire tutti della stessa famiglia.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo di Natale

 

Maria ss. Madre di Dio

(1 gennaio 2013)

 

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Nm 6,22-27;  Sal 66;  Gal 4,4-7;  Lc 2,16-21

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Nel calendario liturgico, l’ottavo giorno dopo il Natale del Signore fu consacrato a onorare la Vergine Maria, Madre di Dio. A partire dal 1969, l’antica festività di “Maria Santissima Madre di Dio” venne ripristinata in tutta la sua solennità il 1° gennaio, con la chiesa che continua a sottolineare la verità e la veridicità dell’incarnazione del Figlio di Dio, Salvatore, ricordando, da una parte, la gloria della madre nella sua divina maternità, ‘madre del Cristo e di tutta la chiesa’, come recita la preghiera dopo la comunione espressamente voluta da papa Paolo VI e, dall’altra, il rito della circoncisione e dell’imposizione del nome al bambino nell’ottavo giorno. Consacrando poi la giornata all’intercessione per la pace, la chiesa annunzia al mondo che in Cristo è fatta pace tra cielo e terra e che la pace tra gli uomini ne è come il riverbero, lo splendore di benedizione.

Con lei, la Vergine Madre, che ha dato alla luce il Salvatore, si è compiuta in tutta la sua estensione l’antica benedizione di Israele: “Ti benedica il Signore e ti custodiscsa…”. Come devono risplendere gli occhi di Dio guardando questa sua umile ancella! Dante, nell’ultimo canto del Paradiso, dopo aver innalzato una lode sublime alla Regina del cielo, di lei dice: “Gli occhi da Dio diletti e venerati …”. Chi ha provato l’estasi di uno sguardo amoroso sa a quale intimità si allude, quale ‘benedizione’ si riceve e quale gioia ciò procura. Il mistero grande è il fatto che anche Dio è rapito dallo splendore dello sguardo della Vergine tanto è puro e sconfinato, specchio limpidissimo dell’amore di Dio per lei e per tutta l’umanità. Sì, perché la bellezza della Vergine è in funzione della bellezza, resa visibile, del Figlio Unigenito, nostro Salvatore, il cui amore per noi lo renderà disposto a perdere ogni ‘bellezza d’uomo’ per ridare a noi quella bellezza che attira il suo sguardo. In questo sguardo di Dio su di lei si concentra tutto il senso della sua intercessione allo scopo di ottenerci la suprema benedizione che si risolve nel voler vedere Dio, vedere il volto di Dio che risplende su di noi.

‘Il nome di Dio è ormai posto su di noi’: non c’è più motivo di paura e se la paura non fa più presa sui cuori, allora vengono meno anche la violenza e l’ingiustizia che di quella paura sono gli strumenti di offesa per autodifesa. Quel nome di Dio, pur nel suo mistero, ha un volto, risponde a un nome che è stato scelto umanamente, anche se dietro suggerimento angelico, che definisce il figlio della Vergine Maria, Gesù. Quel ‘Gesù’, che ora adoriamo bambino nella stalla di Betlemme  – questa è la bella notizia per il mondo intero! – è ormai la benedizione e la protezione di Dio per gli uomini, è il volto di Dio che risplende benevolo e misericordioso, è il sigillo della pace di Dio sugli uomini, come la solenne preghiera di benedizione israelita profetizzava: “Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace”. Ora possiamo vedere che il Signore ha effettivamente benedetto, ha rivolto il suo volto e ci ha concesso la sua pace. È un bambino ‘nato da donna’, a sottolineare che è veramente figlio, contemporaneamente suo e del Padre, motivo per cui coloro che come tale lo riconosceranno, a loro volta saranno chiamati figli di Dio. Ma chi sono coloro che sono chiamati figli di Dio? Coloro che lo Spirito Santo guida, coloro che lo Spirito Santo governa, coloro che in forza di quello Spirito saranno operatori di pace (‘beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio’). Nella lettera ai Galati s. Paolo scrive: “…Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio il quale grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio”. Operare la pace da figli, non da schiavi! Non schiavi di nessuno e di nessuna ideologia, non schiavi per comodo o per paura, non schiavi di beni, esteriori o interiori, che non procedano da quell’unico Bene, che è Cristo stesso, pace di Dio, il cui godimento sorpassa ogni intelligenza e custodisce cuori e pensieri (cfr. Fil 4,7). Anche la pace si può cercare da schiavi. Favorirà violenze ancora più terribili, non custodendo la dignità di nessuno. La pace che viene da Dio non tollera mascheramenti o ambiguità, perché porterà tutti a riconoscere la stessa dignità condivisa che deriva dall’unico Padre, l’unico che è Giusto perché Misericordioso. Il Figlio, Gesù, che fa risplendere il suo volto tra gli uomini, ha fatto vedere come sia possibile declinare la pace di Dio nella storia degli uomini. Coloro che vogliono vivere e gustare la sua eredità non hanno che da seguirlo e, a loro volta, far risplendere il suo volto tra gli uomini: è il dono più bello che possono regalare ai loro fratelli, come la Vergine che, dandoci il Verbo di Dio, ha fatto il regalo più bello all’umanità. Così la preghiera non può che essere quella della colletta: “ Padre buono che in Maria, vergine e madre, benedetta fra tutte le donne, hai stabilito la dimora del tuo Verbo fatto uomo tra noi, donaci il tuo Spirito, perché tutta la nostra vita nel segno della tua benedizione si renda disponibile ad accogliere il tuo dono”, cioè la pace del tuo Cristo e nulla resti fuori.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo di Natale

 

Epifania del Signore

(6 gennaio 2013)

 

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Is 60,1-6;  Sal 71;  Ef 3,2-3a.5-6;  Mt 2,1-12

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Epifania vuol dire manifestazione. La Chiesa oggi festeggia il mistero della triplice manifestazione del Figlio di Dio fatto uomo per la nostra salvezza: la sua manifestazione alle genti; l'inizio della sua vita pubblica con il battesimo al fiume Giordano quando Giovanni Battista lo rivela al popolo d'Israele; il miracolo delle nozze di Cana quando Gesù compie il suo primo miracolo. Delle tre manifestazioni, soprattutto la prima costituisce il tema della liturgia odierna.

Come tutti i racconti sulla nascita e sull'infanzia di Gesù, ciò che viene riferito va letto in contrappunto ai racconti della sua passione-morte-risurrezione. Nella narrazione dei Magi che arrivano a Gerusalemme in cerca del re dei Giudei è presentato il conflitto che opporrà alle autorità ufficiali il vero re e salvatore del suo popolo. Colui che le guide della nazione si rifiutano di ricevere è adorato dalle nazioni; Colui che doveva essere noto a coloro che conoscevano le Scritture perché di lui le Scritture parlano viene rivelato a coloro ai quali, non potendo le Scritture parlare, parlano gli astri, messaggeri di Dio. Ogni cosa può agire da messaggero di Dio, se il nostro cuore sa guardare in alto. E tutto alla fine conduce a lui, il Salvatore, Colui che rivelerà definitivamente e in tutta pienezza, anche per il nostro cuore, quaggiù o di là, l’infinito amore del Padre per gli uomini, Colui che compirà in tutta la loro estensione i nostri desideri di vita, di santità, di comunione.

L’antifona di ingresso della messa si richiama al libro del profeta Malachia, l’ultimo libro dell’Antico Testamento: “È venuto il Signore nostro re: nelle sue mani è il regno, la potenza e la gloria”. Un bambino è proclamato ‘sovrano, potente e glorioso’! La proclamazione comporta qualcosa di radicalmente nuovo per gli occhi umani o, se vogliamo, comporta la visione di una realtà con occhi radicalmente nuovi. Stessa novità che sta dietro la proclamazione nei vangeli di Gesù come re (soltanto durante la sua passione Gesù accetta il titolo di re) e particolarmente come re della gloria (titolo che fornisce, da una parte, la ragione della condanna sul patibolo della croce e, dall’altra, per la visione di fede dei credenti, la ragione dell’amore di Dio per l’uomo che proprio sulla croce risplende). È in ragione di quella novità che la manifestazione di Gesù può conquistare le genti e può convincere Israele. Quando la colletta fa pregare: “O Dio, che in questo giorno, con la guida della stella, hai rivelato alle genti il tuo unico Figlio, conduci benigno anche noi, che ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la grandezza della tua gloria”, guida i credenti alla percezione di quella novità e li predispone a cogliere e a vivere dello splendore di quell’amore, che costituisce ormai la ragione di senso del vivere nella storia.

La visione dei popoli che si ritrovano a Gerusalemme, ripresa anche dal salmo 71 e celebrata dal salmo 87, mostra come ormai non esiste più motivo di distinzione tra gli uomini perché la loro dignità deriva da un’unica radice. La dignità degli uomini parla dell’amore di Dio che si è rivelato in quel Figlio di Dio fatto uomo e che nella liturgia odierna è adorato da tutte le genti. Quando Paolo ricorda agli Efesini che il mistero manifestato ora agli uomini è il fatto che i Gentili sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità di Israele, rivela che davanti a Dio sussiste un’unica famiglia umana, destinataria e portatrice allo stesso tempo del Suo amore. Se il Signore, come dice il salmo 71, interviene a favore del povero e del debole, categorie che attraversano la diversità dei popoli e si riferiscono all’umanità di tutti, significa che chi calpesta il povero e il debole ferisce la propria dignità umana e non rispetta l’immagine di quel Figlio che si è confuso con l’umanità di tutti. Davanti a quel Figlio, bambino, adorato dalle genti, dice il salmo, eco del pensiero di Dio: chiunque tu sia, da qualunque paese provenga, qualsiasi sia stata la tua storia, a qualsiasi cultura appartenga, sappi che qui sei nato, di qui trai vita e qui conducono i tuoi desideri perché qui si compiono i miei progetti: nel mio Figlio!

I magi sono la figura della manifestazione di Dio alle genti (con l’oro riconoscono la regalità misteriosa di quel ‘bambino nato per noi’, con l’incenso riconoscono la sua divinità, con la mirra la sua umanità pronta a soffrire la passione per la nostra salvezza). Il loro far ritorno a casa per altra strada allude al fatto che chi si apre all’adorazione di Dio riscopre la casa propria in altro modo, con altro sguardo, sotto altri orizzonti. Questo mi induce a due osservazioni: 1) se il Messia è promesso alle genti, di che cosa siamo noi credenti debitori al mondo? Siamo debitori proprio della conoscenza del Signore. E questo debito pende sulla nostra testa: ecco la responsabilità della testimonianza dei credenti di fronte al mondo; 2) se il Messia è promesso alle genti, vuol dire che fin tanto che tutte le genti non l’hanno conosciuto, la nostra stessa conoscenza del Messia è manchevole, resta limitata. Come in un amore: fin tanto che non ho trovato qualcuno che voglia bene a me, io non potrò scoprire quello che sono in verità, quello che porto e di cui sono capace. Così è con Dio. Fin tanto che tutti non l’hanno conosciuto, Dio non ha ancora avuto modo di manifestarsi in tutta la sua ricchezza. Attendere questa manifestazione, nel cuore di tutti, rende umili e adoranti e risponde al comandamento dell’amore verso tutti, anche verso i nemici, finché la gloria di Dio si manifesti compiutamente.

Quanto al mistero della trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana (cfr. Gv 2,1-10), simbolo delle nozze del Signore Gesù con l’umanità nostra, anche questo ha a che vedere con la manifestazione della gloria di Dio nella nostra vita. Potremmo chiederci: quando siamo acqua e quando siamo vino? Passare dall’essere acqua al diventare vino significa passare dalla volontà di osservanza del comandamento al gusto del frutto che il comandamento comporta. La promessa nascosta in ogni parola di Dio è questa: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Come a dire: ogni comandamento ha un’ispirazione; senza cogliere tale ispirazione non potremo mai gustare la promessa che è nascosta dentro ogni comandamento, la promessa della conoscenza cordiale del Signore, la promessa del gusto della sua compagnia. Come in un rapporto d’amore. Non basta fare delle cose, neanche farle per l’altro; se non si coglie l’ispirazione che muove il cuore ad agire, se non si coglie l’effetto che il nostro agire ha sul cuore dell’altro, se non ci viene rimandata la gioia dell’altro che coglie il movimento del nostro cuore, si resta acqua. Il vino invece, dice la Scrittura, rallegra il cuore dell’uomo. E nel gustare quel vino, il cuore si apre alla conoscenza della gloria del Signore: proprio quello che i magi hanno sperimentato, che gli apostoli hanno testimoniato, di cui i credenti in Cristo sono debitori al mondo.

Nel Cristo divinità e umanità sono inscindibilmente unite, Dio finalmente risplende nell’uomo e l’uomo risplende del suo Dio. E se tutto diventerà più svelato con la morte e risurrezione di Gesù, già però se ne può intravedere il mistero fin dalla sua nascita dalla Vergine Maria, almeno per coloro che gli si avvicinano con stupore e sanno vedere nelle parole e negli eventi che lo riguardano gli indizi della sua gloria.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo di Natale

 

Battesimo del Signore

(13 gennaio 2013)

 

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Is 40,1-5.9-11;  Sal 103;  Tt 2,11-14; 3,4-7;  Lc 3,15-16.21-22

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Con la festa del battesimo di Gesù si chiude il ciclo natalizio. L’Avvento si era aperto con l’invocazione del profeta: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 63,19). I cieli si sono effettivamente squarciati lasciando ‘piovere il Giusto’, come oggi  la scena del Battesimo di Gesù fa intravedere: “il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento»”. I cieli che si aprono non preludono ad una visione del mondo celeste, ma alla discesa sulla terra dei beni divini, beni che dovevano caratterizzare il popolo di Dio dell’era messianica, dei quali il principale è proprio lo Spirito Santo, effuso su tutti, attraverso quel Figlio che lo possiede in pienezza.

Il simbolismo della colomba sembra alludere al carattere escatologico della visione che indica in Gesù il Messia e il punto di partenza della comunità messianica. Ricorda la colomba del Cantico dei Cantici, sposa di Yahvé e Giovanni Battista potrà poi esclamare: “Lo sposo è colui al quale appartiene la sposa; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è piena. Lui deve crescere; io, invece, diminuire” (Gv 3,29). Se nel racconto di Luca sembra che Gesù solo veda in visione la colomba, in quello di Giovanni anche il Battista vede lo Spirito discendere su Gesù sotto forma di colomba e comprende che Gesù aveva la missione di far apparire la colomba, cioè il nuovo popolo di Dio animato dallo Spirito Santo.

Il primo gesto di Gesù, nel dare inizio alla sua missione, è quello di stare solidale con i peccatori. Lui, l’Innocente, l’Agnello che toglie i peccati del mondo, è in fila con i peccatori per ricevere il battesimo di penitenza di Giovanni. Non ha bisogno del battesimo, eppure viene a farsi battezzare. Perché? Viene per celebrare il suo sposalizio: nella sua umanità oramai è lavata tutta l’umanità, che può stare unita a lui e godere, come lui, di quello Spirito che come colomba si posa sul suo capo, capo del suo corpo che siamo noi. Nessuno può ancora vedere lo Spirito però; solo Gesù, uscendo dalle acque, lo può vedere perché ne è ripieno ed anche Giovanni, che con quel battesimo dato a Gesù finisce la sua opera di battezzatore per lasciare posto a lui, al suo nuovo battesimo nello Spirito. La cosa si farà evidente a Pentecoste allorquando lo Spirito verrà effuso come lingue di fuoco sugli apostoli.

La chiesa prega che il Signore, come ha squarciato i cieli, si degni squarciare i nostri cuori perché anche a noi appaia, finalmente, in tutta la sua bellezza, il volto del Figlio di Dio, testimone supremo dell’amore di Dio per gli uomini. E come dice Paolo a Tito “… nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo”, noi aspettiamo la manifestazione del Signore al nostro cuore in ogni circostanza della nostra vita, in ogni azione e non soltanto alla fine della vita. Come se pregassimo: “fa’ che possiamo vedere il volto del tuo Figlio, fa’ che il nostro cuore sia rapito dalla sua bellezza, apri il nostro cuore alle sue parole perché venga rivelato al nostro cuore il tuo amore e possiamo venire risanati, facci fare l’esperienza viva del tuo perdono perché possiamo vivere un corpo solo e un’anima sola con tutti, nel suo Spirito, ormai popolo nuovo”.

Tu sei il Figlio mio, l’amato”. Nelle Scritture si parla del figlio, l’amato, a proposito di Isacco, figlio di Abramo (Gen 22,2), quando Dio gli chiede la sua vita e nella parabola dei vignaioli assassini (Mc 12,6) quando il padrone della vigna pensa di mandare loro il figlio, che poi mettono a morte. Quell’aggettivo l’amato, se rivela la radicalità della fede di Abramo, rivela a maggior ragione la radicalità dell’amore di Dio per l’umanità.

L’aggiunta: “in te ho posto il mio compiacimento”, si può tradurre: ‘in te il mio Amore è perfetto’. In te, però, non è più solo rivolto al Figlio nella sua divinità, ma nella sua umanità: l’amore di Dio e dell’uomo si corrispondono ormai perfettamente. Oppure, si può anche tradurre: ‘in te la mia volontà si compie, perfetta’. E la volontà di Dio non è che l’amore per l’uomo e nella vita e nella persona di Gesù questo amore risplende nella sua radicalità e totalità. Se noi stiamo in lui, allora anche in noi la volontà del Padre si compirà perché anche in noi il suo amore risplenderà. É ciò che comporta l’essere nati dallo Spirito, il vivere mossi e guidati dallo Spirito di cui Gesù è ricolmo e che ci ha effuso con la sua morte e risurrezione. Proprio come s. Francesco di Assisi proclamerà della nostra vita in Cristo: “ciò che devono desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”.

La figura di Gesù, nel racconto del battesimo, è definita da tre termini: figlio/servo/agnello. Il compiacimento del Padre si risolve nel fatto che Gesù viene a fare la sua volontà, vale a dire fa riferimento all’obbedienza del servo che accetta fino in fondo il compito affidatogli, ma allude anche all’intimità ed alla libertà del figlio che condivide intensamente con il Padre la sua passione d’amore per gli uomini. Per noi accogliere i due riferimenti contemporaneamente è proprio difficile! Per noi la volontà di Dio non suona subito come una volontà di Bene, come un Bene che vuole condividere con noi, come una gioia di Bene che riposa i cuori e di Dio e degli uomini. Ma se riconosciamo lo splendore dell’amore di Dio che rifulge dal volto di quel figlio/servo/agnello, potremo anche noi, come lui e in lui, cogliere e compiere il volere di bene di Dio in favore degli uomini e godere della sua gioia che consiste nell’unire ‘i figli di Dio dispersi’. Quando il cuore dell’uomo non si lascia guidare da alcun’altra ragione nel suo agire, saprà che la fraternità con gli uomini è il supremo desiderio di Dio e il luogo di manifestazione del suo splendore. Così si compiono i misteri di Dio, così l’uomo torna alle radici della sua gioia, nel suo Dio. Cose misteriose, certo, ma veritiere e fondanti il senso stesso del nostro vivere e del nostro desiderare.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo Ordinario

 

2a Domenica

(20 gennaio 2013)

 

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Is 62,1-5;  Sal 95;  1Cor 12,4-11;  Gv 2,1-12

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Il brano evangelico di oggi termina con l’annotazione: “Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”. Se ci rifacciamo a Gv 1,14: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità”, ci possiamo domandare: che cosa hanno visto i discepoli, a Cana, di questa gloria? Quando Giovanni usa il termine segno, non intende riferirsi al miracolo come se si trattasse di vedere la potenza straordinaria di Gesù in atto; allude a un’altra cosa, a qualcosa che sia in relazione con la gloria.

Possiamo afferrare meglio la rivelazione di Cana se incastoniamo l’episodio nella narrazione di Giovanni. Gli eventi che intercorrono dal riconoscimento di Gesù da parte di Giovanni Battista al Giordano fino alle nozze di Cana sono racchiusi nello spazio di una settimana, la settimana della nuova creazione, in riferimento alla settimana della creazione narrata dalla Genesi. L’episodio di Cana segue il riconoscimento di Gesù da parte di Natanaele, il quale segue quello da parte di Andrea e Giovanni, i quali seguono quello di Giovanni Battista. Per cogliere la portata del miracolo di Cana, bisogna percepire la densità di quel ‘andarono e videro’ di Andrea e Giovanni, i quali svelando a Pietro tutta l’emozione che li abitava riferiscono la loro scoperta in questi termini: ‘abbiamo trovato il Messia’. E ancora, bisogna intuire la sorpresa di Natanaele, che risiedeva proprio a Cana, quando Gesù gli si rivolge con quelle parole: ‘vedrai cose più grandi di queste!’. Tutti i segni che Gesù compie sono collocati nella scia di questo vedere cose più grandi fino alla rivelazione suprema, con la morte e risurrezione di Gesù, allorquando le cose più grandi sono ormai le cose ultime, definitive, supreme, a partire dalle quali tutto prende senso e splendore. La sua gloria finalmente è svelata in tutto il suo splendore, la gloria del suo amore per gli uomini.

I segni sono dunque in relazione con la gloria dentro un movimento di rivelazione di cose sempre più grandi fino alla rivelazione suprema, la morte/risurrezione di Gesù. I segni sono allora gesti simbolici che hanno la funzione di indicare che in Gesù si realizza l’evento escatologico (“In verità, in verità io vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo”, compiendo il sogno di Giacobbe di Gen 28,17); invitano tutti gli uomini a percepire la filiazione divina di Gesù, come dirà Giovanni alla fine del suo vangelo riferendosi ai segni che ha descritto nella sua narrazione: “Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome”. Il mistero di Gesù allude al mistero della Trinità, la quale si rivela nel suo amore agli uomini tramite Gesù e nel dono dello Spirito Santo che ci rende atti a vivere di e dentro quell’amore.

A Cana Gesù viene invitato alle nozze, simbolo dell’antica alleanza. Ma manca il vino, quello che solo il Messia avrebbe portato, il vino simbolo dell’amore e della gioia, compimento delle promesse di Dio al suo popolo. Se ne accorge sua madre, che appartiene all’antica alleanza, ma la cui fedeltà a Dio la rende capace di vedere in Gesù il Messia, per cui si rivolge fiduciosa ai servi: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”. Gesù, che fa riempire d’acqua le giare e fa attingere e portare in tavola, realizza il passaggio dall’antica alla nuova alleanza con il dono del vino che simboleggia l’esperienza diretta e personale, nella gioia e nell’amore, della relazione tra Dio e l’uomo: “Perché la legge fu data per mezzo di Mosé, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1,17). Non per nulla, l’episodio che segue alle nozze di Cana è la purificazione del Tempio a Gerusalemme da parte di Gesù che scaccia venditori e cambiamonete. Quello che la legge prometteva, Gesù lo rende possibile in sovrabbondanza; quello a cui anelava il cuore dell’uomo ora diventa vivibile, gustosamente esperibile: l’uomo vive finalmente la pace con il suo Dio, in un amore ritrovato e condivisibile. E questo si vedrà proprio nella sua ora quando dalla croce risplenderà il suo amore infinito, amore che con il dono dello Spirito Santo diventa radice di vita e di azione nel suo discepolo e segno di Dio per il mondo intero.

Il miracolo di Cana con la trasformazione dell’acqua in vino, mentre allude al passaggio dalla Legge alla Grazia, allude anche al mistero dell’intelligenza delle Scritture. Tutte le Scritture parlano di lui (‘Voi scrutate le Scritture pensando di avere in esse la vita eterna: sono proprio esse che danno testimonianza di me’, Gv 5,39): tutte le parole alludono alla Parola fatta carne. E quando si incomincia a intravedere questa tensione profonda che percorre tutta la Scrittura, allora si passa dal bere l’acqua al gustare il vino. Così come nel compiere i comandamenti di Dio: un conto è praticarli materialmente, un conto è praticarli cogliendo l’ispirazione e la rivelazione di vita che comportano.

L’immagine di fondo è quella delle nozze, a illustrare il mistero della comunione di Dio con l’uomo. Le nozze alludono al compimento dei desideri del cuore ormai abitati dal desiderio di Dio che ci è venuto incontro, che ci ha guadagnati al suo amore e che ci ha conquistati al suo splendore.

Quest’ultimo aspetto è ben delineato nel brano di Isaia che descrive Dio come lo Sposo che gioisce della sua sposa, la quale passa da una percezione di angosciosa solitudine, di abbandonata, all’emozione di essere svelata a se stessa in una dolcezza di riposo perché sposata (forse, meglio: ‘abitata in dolcezza’). La percezione di quella nuova realtà, di cui è indegna, ma di cui gode nell’intimo, grata e consegnata, costituisce il contenuto del nome nuovo con la quale è chiamata.

Così possiamo pregare con la chiesa: “… la santa chiesa sperimenti la forza trasformante del suo amore e pregusti nella speranza la gioia delle nozze eterne” allorquando tutti ci relazioneremo come figli di Dio nell’esperienza assoluta e sovrana dell’amore di Dio per noi.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo Ordinario

 

3a Domenica

(27 gennaio 2013)

 

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Ne 8,2-4.5-6.8-10;  Sal 18;  1Cor 12,12-30;  Lc 1,1-4; 4,14-21

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Nel racconto di Luca la predicazione a Nazaret assume il valore di avvenimento emblematico, collocato all’inizio dell’attività apostolica di Gesù, subito dopo il battesimo e le tentazioni nel deserto, come se l’evangelista volesse riassumere in una immagine premonitrice il senso del messaggio messianico di Gesù.

L’inizio del brano evangelico comporta un particolare assolutamente significativo. Il testo dice che Gesù ritorna in Galilea con la potenza dello Spirito, mentre in precedenza aveva riportato che Gesù, dopo il battesimo al Giordano, pieno di Spirito, era stato spinto nel deserto per essere tentato da diavolo. Avendo vinto il maligno, cioè avendo accettato di condursi, come Messia, secondo i segreti di Dio e non del diavolo, Gesù inizia la sua missione. E quando si presenta nella sinagoga a Nazaret riferisce a se stesso il passo di Isaia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me … Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”. Gesù si presenta come l’Inviato, capace di dare compimento alle promesse di Dio, come riporta il canto al vangelo: “Il Signore mi ha mandato ... ”. Quello che forse non cogliamo più della manifestazione di questa autocoscienza di Gesù è il suo carattere dinamico. L’invio non rimanda semplicemente all’opera per la quale è mandato, ma all’intimità che vive con il Padre nel mostrare, con le parole e l’agire, il suo grande amore agli uomini.

La profezia messianica di Isaia 61, che parla di poveri, di prigionieri/oppressi, di ciechi, allude alle deficienze del nostro vivere che Gesù è venuto a redimere: a) la nostra vita è mancante, soffre di limiti; b) viviamo sotto l’oppressione di una schiavitù imposta o procurata, subita o provocata; c) camminiamo all’oscuro, non distinguiamo bene nulla. Gesù si presenta, dalla parte di Dio, capace di rinnovare la letizia, di offrire la libertà e di suggerire un senso. Sono le coordinate di un vivere felicemente la propria vocazione umana, in comunione con Dio. La felicità, come la vita stessa di Gesù mostrerà, è dire bene Dio con la premura della cura dell’uomo fino a dare la nostra vita perché la vita dell’altro cresca. Ma come vivere questa felicità senza la rivelazione del volto di Dio che si fa conoscere come cura per l’uomo? Per questo Origene annota come sia da invidiarsi l’assemblea che tutta intera, alla lettura della parola di Dio, tiene gli sguardi fissi su Gesù!

Tutti i frutti dello Spirito “amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22) sono espressione della cura per l’uomo e chi più li possiede, più si prende cura. E più ci si prende cura, più il volto di Dio è rivelato nella sua verità e la letizia riempie il cuore dell’uomo, secondo l’invito di Neemia al popolo dopo la lettura della Legge: “Non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza”. Gli ebrei erano appena ritornati dall’esilio di Babilonia, avevano ricominciato a costruire il tempio e le mura di Gerusalemme, ma la vita si prospettava piena di insidie sia sociali che religiose. Il popolo viene ricompattato con la proclamazione del libro della legge, la lettura del quale suscita un’emozione grandissima. Il popolo piange, si rattrista, si accorge di quanto sia stato infedele al suo Dio. Come era successo al re Giosia: “Udite le parole del libro della legge, il re si stracciò le vesti” (2Re 22,11); come succederà alla gente che aveva ascoltato il discorso di Pietro a Pentecoste: “all’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore” (At 2,37). Ma Esdra e Neemia invitano alla gioia, sia perché quello era un giorno di festa e nella festa è prescritto di stare lieti insieme alla mensa invitando anche i poveri sia perché la parola di Dio proclamata, spiegata, vissuta e condivisa nella sua potenza di letizia rende solidali gli uomini, non avendo più nulla da rivendicare in senso egoistico.

La gioia, dono messianico per eccellenza, cela un’energia potente, diventa la forza che il salmo 18 descrive se leggiamo le espressioni in significato intensivo: la legge del Signore è perfetta, cioè rende integri e perciò rinfranca l’anima; la testimonianza del Signore è stabile, cioè rende veritieri e ti fa partecipe della sapienza dall’alto; i precetti del Signore sono retti, cioè rendono integri e gioiosi; il comando del Signore è limpido, cioè rende l’uomo luminoso, dallo sguardo pulito e bello. Potremmo anche interpretare sinteticamente: la giustizia del Signore, il contenuto cioè della parola di Dio, è quella di portare gioia al cuore e questa gioia è quella che consente al nostro cuore di vivere secondo la sua giustizia, cioè di manifestare la sua presenza con il prenderci cura di ognuno fino a dare la vita perché l’altro possa averla abbondante. Solo il Messia poteva rivelare che consisteva in questo la manifestazione del Signore e che in questo risiedeva e il compimento del desiderio dell’uomo e la felicità di Dio, quello che san Paolo descrive come la realtà dell’essere un corpo solo in Cristo. Non c’è nulla di più affascinante di tale mistero e nello stesso tempo nulla di più salutarmente rischioso nella vita degli uomini.

L’esito della predicazione di Gesù a Nazaret sarà però drammatico e questo sarà il tema delle letture di domenica prossima.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo Ordinario

 

4a Domenica

(3 febbraio 2013)

 

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Ger 1,4-5.17-19;  Sal 70;  1Cor 12,31-13,13;  Lc 4,21-30

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Il brano evangelico di oggi ripresenta la stessa scena di domenica scorsa: la predicazione di Gesù a Nazaret. Possiamo così continuare la riflessione sul valore emblematico di quell’evento. Se viene fatto conoscere il rifiuto di Gesù da parte dei suoi concittadini, la sottolineatura si deve al valore profetico di quel rifiuto, che l’evangelista Giovanni descriverà come “Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto” (Gv 1,11). Oltre ad alludere alla passione di Gesù, allorquando il rifiuto comporterà la sua messa a morte, allude anche all’universalità di quella morte che toglierà il muro di separazione tra Israele e Gentili, aprendo Israele ai Gentili, pena l’esclusione del dono di grazia.

La scena è racchiusa da due identici sentimenti dal valore diametralmente opposto. Si apre con la meraviglia, sospettosa, che si tramuta poi in ostilità da parte degli ascoltatori presenti nella sinagoga e si chiude con la meraviglia, dispiaciuta, di Gesù che si vede costretto a fuggire (il passo parallelo di Marco conclude: “E si meravigliava della loro incredulità”, Mc 6,6). Una meraviglia, quella di Gesù, che non si tramuta in ostilità con la sua fuga, bensì  in tenacia e immaginazione per creare nuove occasioni, fino alla fine, perché i cuori finalmente si aprano all’amore del Padre testimoniato da lui e dalla sua attività in tutto il paese.

L’agire di Gesù tende a ristabilire in tutti, vicini e lontani, ebrei e pagani, la possibilità di tornare a dar credito alla promessa di Dio. Quella grazia è accessibile solo ai piccoli, come sottolinea il canto al vangelo: “Benedetto sei tu, Padre, Signore del cielo e della terra, perché ai piccoli hai rivelato i misteri del regno dei cieli” (Mt 11,25). I piccoli sono coloro che, ai propri pensieri, preferiscono quelli di Dio.  Così, voler mantenere la distanza delle differenze tra ebrei e pagani, tra giusti e empi, tra puri e impuri, ecc. (gli ascoltatori della sinagoga si sentono offesi quando Gesù ricorda loro che Dio non ha disdegnato i pagani – la vedova di Zarepta di Sidone e Naaman il siro – come se questa preferenza comportasse l’accusa ai suoi figli) significa stravolgere il piano divino della creazione e restare impassibili davanti all’amore di Dio che tutti ingloba nel suo amore salvatore, che non si piega al ricatto del figlio maggiore come non si ritrae dalla vergogna del figlio minore per riunirli entrambi nella gioia del Regno. La terribile lotta che l’uomo è chiamato a sostenere è quella contro il sospetto che la differenza non contenga la ricchezza della promessa di Dio, ma sia un attentato alla sua identità. La ragione di tale sospetto, che insidia ogni relazione, deriva non dalla paura dell’uomo, ma dalla paura di Dio al cui amore e alla cui promessa di vita non si dà credito. Questa mi sembra la ragione profonda della difficoltà a credere, a prestare fede alla testimonianza di Gesù come a Colui che davvero ci rivela il volto del Padre. Purtroppo troppe cose nella vita quotidiana e dentro noi stessi non fanno che confermare quel sospetto, che preferiamo rimuovere piuttosto che curare, per cui ci appare più pio difendere il nome di Dio nascondendoci nella giustizia di qualche pratica religiosa che ci dà il senso di vantare dei meriti piuttosto che fidarsi dell’amore di Dio che si traduce in prossimità per tutti gli uomini a gloria del suo nome, seguendo Gesù nella sua rivelazione del Padre.

Un ulteriore motivo di riflessione è dato dalla corrispondenza tra le letture di oggi. Il profeta Geremia, tormentatissimo, che ha dovuto subire l’ostilità del suo paese e del suo popolo fino alla fine, richiama la vicenda dell’altro profeta, Gesù, anche lui non accettato, ma fedele esecutore e contemporaneamente rivelatore dell’amore del Padre. Il dramma del rifiuto davanti al profeta non sottolinea la grandezza del profeta, ma la tenacia del disegno di Dio che comunque si rivela nel suo desiderio di prossimità con l’uomo. Il dramma del rifiuto perdura finché si giunge alla rivelazione del punto di incandescenza dell’amore di Dio nel profeta tanto da fargli divorare l’ingiustizia e far trionfare l’amore. Ma se questo avviene nel profeta, vuol dire che può avvenire in ogni fedele, in ogni credente. Così l’esperienza del profeta diventa emblematica, ripetibile da ogni credente, come lo sottolinea il salmo 70 che ognuno, nel crogiolo della sua esperienza, può proclamare: “In te mi rifugio, Signore … Sii per me rupe di difesa … Sei tu, Signore, la mia speranza … Dirò le meraviglie del Signore”, cioè le meraviglie di quell’amore che non è venuto meno davanti all’ingiustizia ed è rimasto fisso nel suo scopo perché finalmente su tutti risplenda il volto del Signore. Così per l’esperienza di Gesù, che fornisce il contenuto divino-umano dell’esperienza di ogni credente. Quando Paolo dirà: “non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20), “avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti, sull’esempio di Cristo Gesù” (Rom 15,5) o Giovanni : “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23), non faranno che alludere a quella esperienza di Gesù che diventa la stessa esperienza del discepolo.

Nella preghiera dopo la comunione diciamo: “O Dio, che ci hai nutriti alla tua mensa, fa’ che per la forza di questo sacramento, sorgente inesauribile di salvezza, la vera fede si estenda sino ai confini della terra”. Preghiamo per diventare partecipi della potenza di quell’amore che ci è fatto conoscere in Gesù e di cui tesse l’elogio s. Paolo nel suo inno alla carità. Non c’è conoscenza che tenga, non c’è fede che conti, non c’è generosità che salva: solo la carità esprime lo splendore che deriva dalla fede in Gesù. Quando Paolo dichiara che senza la carità non sono nulla, non dice semplicemente che io non conto nulla davanti a Dio senza la carità, ma che tutte le cose eccelse, senza la carità, non hanno alcun valore presso Dio. E se non l’hanno presso Dio, vuol dire che non possono costituire strumenti di comunione tra gli uomini. E senza vivere la comunione con gli uomini non si può sperare di godere la comunione con Dio, che è Padre. Ogni vanto umano qui cessa. Ogni giustificazione umana qui tace. Ogni differenza che non si traduca in fantasia di prossimità ci condanna al sospetto, alla negazione di Dio, alla lacerazione dell’illusione e della prevaricazione. La sapienza evangelica è radicale, ma consona al cuore dell’uomo, se si accoglie la buona novella del profeta di Nazaret.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo Ordinario

 

5a Domenica

(10 febbraio 2013)

 

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Is 6,1-2,3-8;  Sal 137;  1Cor 15,1-11;  Lc 5,1-11

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La pesca miracolosa è funzionale al racconto della vocazione dei discepoli. Solo Luca, a differenza di Marco e Matteo, riferisce della pesca miracolosa. Ritroviamo quel racconto anche nel vangelo di Giovanni, al cap. 21, quando Gesù, risorto, si manifesta agli apostoli. Si tratta di due episodi diversi o della diversa interpretazione di uno stesso episodio? Nella prospettiva degli evangelisti la domanda è del tutto secondaria. La domanda principale è la seguente: cosa ha comportato per i discepoli la manifestazione di Gesù? O, ancora più precisamente: cosa ha comportato per i discepoli la decisione di Gesù di manifestarsi a loro? Perché di questo essenzialmente si tratta: Gesù si manifesta e succede qualcosa. Sia agli inizi della vita pubblica di Gesù sia dopo la risurrezione l’evento è della stessa natura.

Un’esperienza comune collega le tre letture odierne, l’esperienza della propria indegnità davanti a Dio e contemporaneamente l’esperienza della gratuità dell’incontro con Lui. Il profeta Isaia vede il Signore e trema. Come a dire: non è possibile continuare a vivere la vita di prima, rimanere nell’ingiustizia, mantenere un cuore impuro e menzognero, quando ti appare il Signore della gloria e risplende davanti a te la sua santità. Il Signore non convive con la nostra iniquità  ma cerca i nostri cuori, cerca di mostrarsi ai nostri cuori. Vedere Lui comporta così vedere la nostra iniquità nell’attimo stesso che viene bruciata dal suo amore. E se davanti a Lui vale l’esperienza della gratuità del suo amore, davanti al prossimo vale la memoria della nostra iniquità per non rinnegare di nuovo la potenza della sua misericordia che vale per me come per tutti.

È la stessa esperienza dell’apostolo Paolo, che si sente l’infimo degli apostoli, anzi, neppur degno di essere chiamato apostolo, perché non può dimenticare che ha perseguitato la chiesa di Dio, ma proprio in questa memoria risalta la gratuità e la potenza della grazia che l’ha raggiunto e di cui non ha motivo alcuno per esaltarsi.

Vale la stessa cosa anche per Pietro che davanti al miracolo della pesca miracolosa non può che esclamare: “Signore, allontànati da me perché sono un peccatore”. E fino alla fine, come risalta dal racconto dei vangeli che non tacciono mai le sue manchevolezze, Pietro non teme di far memoria dei suoi peccati e delle sue debolezze e di presentarsi a tutti nella luce di questa memoria perché risalti la gratuità del dono di Dio. Il contenuto di quel sono peccatore, nel cuore di Pietro, si cristallizzerà attorno al suo rinnegamento, che Gesù, dopo la sua risurrezione, evoca dolcemente al suo apostolo quando gli chiede per la terza volta se lo ama. Al gesto di gettarsi alle ginocchia di Gesù e di stringerle, mentre dice di non essere degno di stare alla sua presenza, corrisponde il sussurro di Pietro, addolorato: “Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene” (Gv 21,17).

Dalla gratuità del dono di Dio, che costituisce il luogo della nuova coscienza di sé, scaturisce l’urgenza della missione, l’impegno cioè della testimonianza in nome di Dio in mezzo ai propri fratelli. Il profeta Isaia, dopo essere stato purificato dal carbone ardente, intuisce il desiderio di Dio, lo scopo stesso di quella purificazione ottenuta e risponde pronto: “Eccomi, manda me!”. La missione del profeta non si presenta esaltante davanti al popolo perché il popolo non vorrà prestare fede alla parola del profeta, ma risulterà esaltante agli occhi di Dio per l’obbedienza e l’intimità che il profeta vive, cosa che alla fine convincerà anche il popolo a dare obbedienza a Dio. Lo stesso vale per Paolo: annunciare il vangelo non è un diritto, ma un dovere per Paolo, costi quel che costi e la forza per portare tutta quella fatica gli deriva dalla gratuità dell’amore di Dio di cui condivide la dinamica con tutto il suo essere. Così per Pietro: proprio mentre riconosce la sua indegnità è chiamato ad essere pescatore di uomini. Gli ci vorranno anni di sequela, di debolezze e di generosità, di simbiosi con la vita con Gesù, di conoscenza del suo mistero, per accogliere tutte le conseguenze di quella chiamata, per sapere fino a quale punto la sua vita sarebbe stata totalmente stravolta.

La tensione interiore della missione, allora, è direttamente proporzionale all’intensità della visione di Dio, che comporta la confessione del proprio peccato. Questo, perché l’azione dell’uomo risulti pulita e non si appropri la gloria di Dio. È per questo che il segnale della fedeltà all’opera di Dio, tra gli uomini, non sarà costituito dal fatto che i cuori si convertono, ma dal fatto che un uomo non si allontana dalla carità anche quando viene oltraggiato e messo a morte. La missione comporta la condivisione di un compito di intimità col proprio Signore finché la sua gloria risplenda e si manifesti.

La tradizione ha applicato al mistero dell’eucarestia l’esperienza del carbone ardente poggiato sulle labbra del profeta. Perché, ricevendo il corpo del Signore, non ne veniamo bruciati? Non è forse la stessa immagine che vale per l’amore? L’amore brucia; brucia tutto ciò che lo ostacola, tutto ciò che lo impedisce, tutto ciò che non lo indebolisce. Se non brucia, è perché si tratta di un amore pallido, più sognato che vissuto, più immaginato che reale. Se l’eucaristia non brucia è perché non abbiamo incontrato nessuno, non abbiamo sentito, non abbiamo corrisposto all’amore di nessuno. Ma se è così, quale potenza ravvisare nella nostra missione, nella nostra testimonianza in mezzo ai nostri fratelli che di quell’amore solo è l’espressione?

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo di Quaresima

 

1a Domenica

(17 febbraio 2013)

 

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Dt 26,4-10;  Sal 90;  Rm 10.8-13;  Lc 4,1-13

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Per cogliere il dramma dell’evento delle tentazioni di Gesù nel deserto, possiamo farci questa domanda: quale potere comporta la verità dell’essere Figlio di Dio? Il diavolo riconosce a Gesù questa verità. Ne può però comprendere la reale portata? In effetti, le tentazioni seguono l’esperienza di una pienezza, quella del battesimo, con la manifestazione dello Spirito che riposa su Gesù, come se lo zelo per il Signore che muove Gesù nel suo compito messianico potesse risultare equivoco.

Il perno dell’equivoco tra Gesù e il diavolo è proprio il potere. L’offerta del diavolo è un’offerta di potere: conquistare gli uomini, ma assoggettandoli; servirsi di Dio piuttosto che servire Dio; conquistarli facendoli strabiliare. Il diavolo riconosce che Gesù è Figlio di Dio. “Se tu sei Figlio di Dio” significa: dato che tu sei Figlio di Dio, allora puoi … hai il potere di .... Quando gli offre la gloria del mondo, è consapevole che Gesù è inviato al mondo, ma il diavolo non conosce i segreti di Dio né desidera averne parte, per cui tratta Gesù da par suo ed è disposto a passare in sordina davanti al mondo, per bearsi del fatto che chi conquista il mondo riconosca che lo deve alla sua nefasta liberalità.

La quaresima era iniziata, il mercoledì delle ceneri, con l’invito di Dio ai suoi figli: “Ritornate a me con tutto il cuore”. Ritornate, cioè, a vivere la vostra vita in alleanza con me, accogliendola nella Provvidenza mia per voi perché il vostro cuore viva e conosca l’amore che l’ha voluto.

Le risposte di Gesù frantumano l’illusione con la quale il diavolo irretisce per impedirci di essere liberi e veritieri. Gesù si fida di Dio e non dei suoi poteri, come maliziosamente il diavolo gli riconosce. Dio si adora per nessun altro motivo che per lui stesso, non in vista di qualcos’altro. Evidentemente, come fa supporre il diavolo, chi cerca potere e gloria non adora Dio. La fiducia in Dio è proclamata senza bisogno alcuno di certificazione di nessun genere. Non ha bisogno di dimostrare nulla a nessuno, se stesso compreso, chi si fida del suo Dio. La testimonianza suprema di questa fiducia di Gesù risalterà nella sua passione quando tutti dovranno sapere come lui ama il Padre e come sia grande l’amore del Padre per gli uomini.

Proviamo a considerare la tentazione dalla parte del diavolo. Quale sarebbe l’esito per noi se acconsentissimo? Ci ritroveremmo condannati a queste illusioni: all’oppressione dell’esibizione del nostro potere, che in realtà ci allontana dalla vita, perché rende tutto il resto insignificante; all’ipertrofia di se stessi a tal punto da servirci persino di Dio pur di riempire la scena; alla tirannia della gloria effimera di questo mondo. In realtà la posta in gioco della vita sta in questa corrispondenza: scegliere Dio stando dalla parte degli uomini e scegliere gli uomini stando dalla parte di Dio. Quando questa corrispondenza si spezza – lo scopo del diavolo è proprio quello di pervertirla – allora l’uomo diventa schiavo, perché idolatra.

Se consideriamo la tentazione dalla parte di Dio che la consente, vediamo come sia in gioco la verità della promessa di Dio al nostro cuore: ci è promessa la vita, ma non secondo il proprio piacere; ci è promessa la gloria, ma non per i propri interessi; ci è promesso  il soccorso, ma dentro una provvidenza che impariamo ad accogliere.

Essere figli non comporta titolo alcuno di pretesa; significa solo condividere con Dio il suo amore per gli uomini. Quando con la colletta preghiamo: “O Dio, nostro Padre … concedi a noi tuoi fedeli di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e di testimoniarlo con una degna condotta di vita”, è come domandassimo: concedici di entrare in quella intimità di sentire e volere del tuo Figlio con il tuo amore per noi da trovarvi le radici del nostro vivere.

E se leggiamo le tentazioni nell’insieme della rivelazione evangelica, possiamo commentare la prima risposta di Gesù con l’altra sua affermazione: “Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua [= di Dio] giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6,33). Ogni bisogno, nobile o ignobile che sia, che non attinga la sua verità da dentro quella misura suprema del regno di Dio e della misericordia salvatrice di Dio, risulterà distruttivo. Non esiste un idolo liberatore o salvatore. La seconda tentazione può essere accostata alla dichiarazione di Gesù: “E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?”. Le azioni che non procedono dall’adorazione di Dio sono vincolate alla gloria del mondo, il cui detentore è il maligno. Con azioni del genere non si svilupperà nel cuore né la gratitudine né la libertà. E l’uomo resterà irretito nell’illusione. Le parole di satana nella terza tentazione sono rivelate in tutta la loro portata nel momento cruciale della vita di Gesù allorché, appeso in croce, si sente apostrofare: “Ha salvato altri e non può salvare se stesso! È il re d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui. Ha confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: ‘Sono Figlio di Dio’!” (Mt 27, 42-43). Vi sono racchiuse in sintesi tutte e tre le tentazioni. Nella logica del maligno, di cui gli uomini fanno le spese nella loro vita, veramente Gesù non può salvare se stesso (non si sfama con un miracolo), non viene liberato dalla morte (adora davvero Dio solo), non può dimostrare nulla (non si butta dal pinnacolo). Eppure, proprio quel non salvare se stesso, non essere liberato dalla morte, non voler dimostrare nulla, comporterà la rivelazione del vero amore di Dio che riempie la sua vita e che riverbererà sul cuore degli uomini che non vorranno più illudersi.

La cosa strana è che noi, pur rifiutando l’azione del male, non riusciamo a vincere la sua seduzione perché non rinunciamo alla visione mondana sottostante, alla visione del maligno, vale a dire: immaginiamo che Dio debba servire ai nostri scopi o interessi. La vittoria di Gesù sul maligno dice altro, dice che stare dalla parte di Dio significa servire l’uomo nella verità del suo amore per lui.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo di Quaresima

 

2a Domenica

(24 febbraio 2013)

 

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Gn 15,5-12.17-18;  Sal 26;  Fil 3,17-4,1;  Lc 9,28b-36

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La liturgia inizia con la rivelazione del desiderio più profondo dei cuori: “Di te dice il mio cuore: ‘Cercate il suo volto’; il tuo volto, Signore, io cerco”, cantato dal salmo 26 e ora reso nella nuova versione: “Il mio cuore ripete il tuo invito: Cercate il mio volto!”. È il versetto che orienta la comprensione dell’evento della trasfigurazione alla quale tutto il salmo 26, il salmo responsoriale, rimanda, perché, come dice Paolo nella sua lettera ai Filippesi: “La nostra cittadinanza è nei cieli”. È la cittadinanza alla quale rimanda la gloria della trasfigurazione, intravista dai discepoli, impauriti e rapiti nello stesso tempo, per la quale la chiesa con la colletta fa supplicare per diventarne partecipi: “purifica gli occhi del nostro spirito perché possiamo godere la visione della tua gloria”. Gloria che splende sul volto di colui sul quale è proclamato: “Questi è il mio Figlio, l’amato: ascoltatelo!”, come ripete il canto al vangelo. Viene delineato l’intero arco del percorso del discepolo di Gesù: ascoltarlo con desiderio, conoscerne il mistero e vederne la gloria. Tutto il cammino quaresimale è teso a questo obiettivo.

A quale condizione possiamo essere ammessi alla visione? Solo chi dal fondo del cuore, nonostante le sue resistenze e confusioni, dice con il salmista: “Di te dice il mio cuore: Cercate il suo volto” potrà intuire l’esperienza dei tre discepoli sul monte della trasfigurazione. Qualcosa della bellezza di quel Volto ha ferito allora i cuori dei discepoli, come del resto ogni nostro cuore aspetta di esserne ferito. Intervengono gli occhi, ma sono guidati dagli orecchi: la contemplazione del Signore avviene nello spazio creato nel cuore dalla voce misteriosa di cui gli occhi ne vedono i contorni di bellezza. Già al battesimo era stata udita la voce dal cielo, che proclamava Gesù come il Figlio prediletto, ma ora, per i discepoli, viene aggiunto: “ascoltatelo!”. I discepoli ancora non possono sapere fin dove li porterà l'ascoltare il loro Maestro e ancora non possono conoscere tutta la profondità di quell'espressione: “il mio Figlio, l’Amato”, come poi si rivelerà alle loro coscienze e ai loro occhi con la passione-morte-risurrezione di Gesù e con la testimonianza della loro vita, resa capace di portare quello stesso amore di Dio, visto in Gesù e da lui partecipato, in se stessi e per tutti gli uomini. Anzi, tutta la scena della trasfigurazione sembra abbia lo scopo, nella narrazione evangelica, di segnare i cuori dei discepoli in vista della prova della croce. Così non può che seguire la consegna del silenzio, perché l'evento divino, ancora misterioso al loro cuore, non si trasformi in un motivo di vanto o di confusione.

Il racconto della trasfigurazione segue la confessione di Pietro a Cesarea e il primo annuncio della passione da parte di Gesù ai discepoli increduli. Soltanto Luca però annota che Gesù aveva preso i discepoli con sé per passare la notte in preghiera sul monte, descrivendoli in preda all’oppressione del sonno e soltanto lui svela il contenuto del colloquio tra Gesù e i due uomini apparsi nella gloria con lui, Mosè ed Elia. Il tutto, evidentemente, allude alla scena futura del giardino degli ulivi nella notte del tradimento di Gesù. I discepoli sembrano accorgersi dell’evento della trasfigurazione all’ultimo momento, allorquando, svegliandosi, vedono Gesù, Mosè ed Elia in colloquio mentre si stanno congedando. Quasi nello stesso tempo li sorprende la nube e sentono la voce: “Questi è il mio Figlio, l’amato: ascoltatelo!”, voce che costituisce il punto di fuga della visione.

La proclamazione della voce misteriosa, già sentita al battesimo di Gesù nel Giordano, è costruita sul salmo 2,7: “Egli mi ha detto: Tu sei mio figlio” e su Isaia 42,1: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui”. Lo conferma il redattore della seconda lettera di Pietro: “Infatti, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli infatti ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: «Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento». Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte” (2Pt 1,16-18).

L’annotazione della preghiera sul monte allude alla rivelazione che sta per compiersi. Di per sé, però, la rivelazione non riguarda la visione della gloria, ma il senso misterioso di quella gloria. In un attimo folgorante, i discepoli vedono, sì, la gloria di Gesù, ma senza rendersi ben conto. La rivelazione della gloria ha a che fare invece con il segreto di Dio per l’uomo, che costituisce il colloquio tra Gesù e i due personaggi: “e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme”, ma che Pietro e i suoi compagni non sanno ancora reggere. Pietro, che non aveva potuto accettare una settimana prima l’umiliazione e la sofferenza del suo Maestro, ora davanti al Signore trasfigurato, non sa quel che dice. Se l’evento della Pasqua del Signore sta al centro del mondo, del senso del mondo, come possono i discepoli comprendere che fin dalla creazione del mondo il colloquio tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo verte sull’immolazione dell’agnello, figura dell’amore che Dio riversa sul mondo e di cui la gloria della trasfigurazione è l’allusione misteriosa? Sanno solo che quel Figlio, l’Eletto, è degno di Dio, custodisce il segreto di Dio per l’uomo e attendono di conoscerlo per davvero imparando ad ascoltarlo, ad ascoltarlo per seguirlo e a seguirlo per ascoltarlo finché si manifesti finalmente al cuore. Il senso della paura che prende i discepoli è appunto il segno del desiderio e del rischio insieme che caratterizza l’avventura dell’uomo toccato dalla presenza di Dio.

Eppure, nel riconoscere Mosè ed Elia in colloquio con Gesù, intuiscono che tutte le Scritture, di cui Mosè ed Elia costituiscono l’espressione riconosciuta, tendono a quella rivelazione, che tutte le Scritture si compiranno in quell’evento. Non solo, ma presentare il colloquio che avviene nella gloria significa collocare quell’evento nella dimensione divina, nella quale si radica la storia degli uomini.

L’esperienza misteriosa dei discepoli è la stessa che vive Abramo, con una fede così radicale nella promessa di Dio che si compie, nonostante l’evidenza umana contraria, da permettere anche a noi di fidarci dell’alleanza di Dio che in Gesù si rivela in tutta la sua profondità ed estensione. Così, se domandiamo, come nella colletta, di vedere la sua gloria, in realtà non facciamo che domandare a Dio di credere alla sua promessa, di fare esperienza del suo amore a tal punto da esserne tutti riverberati perché la gloria di Dio è l’amore che risplende dal trono della croce e la gloria dell’uomo è vivere di quello splendore.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo di Quaresima

 

3a Domenica

(3 marzo 2013)

 

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Es 3,1-8a.13-15;  Sal 102;  1 Cor 10,1-6.10-12;  Lc 13,1-9

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Nel vangelo risuona forte oggi il grido di Gesù: convertitevi! Risuona però in un contesto per noi non immediatamente ricevibile. Per il nostro cuore non valgono semplicemente l’impegno e l’urgenza della conversione se non si trova coinvolto nello scenario interiore che essa comporta, se non vibra all’emozione che la produce. Invece di riferire subito a noi l’impegno della conversione, potessimo sentire, dalla parte di Dio, come possa scaturire dal cuore la conversione, allora la liturgia di oggi parlerebbe in verità al nostro cuore.

Nel capitolo 12 del vangelo di Luca Gesù aveva invitato i discepoli a fuggire l’ipocrisia, a confidare in Dio, a cercare il suo regno e a stare vigilanti indicandone, con un’immagine potente, la ragione di fondo. Nel v. 37 Gesù rivela che sarà lui stesso che si metterà a servire i suoi discepoli quando li trovasse vigilanti. Perché il nostro cuore non coglie quasi mai questo servizio suo, questo suo accudire a noi, questa sua premura nei nostri confronti? L’urgenza e l’impegno della conversione derivano dalla percezione di questo suo servirci.

Quando la gente cerca di ottenere da Gesù la conferma di un senso plausibile alle crudeltà della storia (vedi l’esempio dei Galilei uccisi da Pilato e degli altri periti in un incidente di vita quotidiana), riceve una risposta paradossale. È assurdo pensare che, se io sono risparmiato dal dolore, significa che ho Dio dalla mia parte! L’uomo non ha alcun potere su Dio e quindi è perfettamente inutile che cerchi di avere Dio dalla sua parte. Dio è già dalla sua parte, ma in un modo che non è scontato vedere e vivere. L’esempio di Gesù è lì a evidenziarlo. Lui è l’Inviato di Dio, Lui è la rivelazione dell’amore di Dio. Da come accogliamo Lui, accogliamo la vita. Gesù è tutto teso a quel gridare: convertitevi! Senza la conversione all’alleanza di Dio, di cui Lui costituisce il sigillo, periremo tutti nel senso di non poter saziare il desiderio del nostro cuore e di venire lasciati in balia delle nostre ossessioni, rendendoci la vita impossibile gli uni contro gli altri.

La spiegazione della parabola assume così il significato di introdurci al mistero della conversione. Sarà possibile convertirci sulla base del buon volere del contadino (=Gesù) che lavora la terra perché la pianta (=discepoli) fruttifichi per il Padre. Quel buon volere corrisponde ai sentimenti di compassione e di amore che Dio svela a Mosè dal roveto ardente, come la prima lettura annuncia. È interessante osservare che il brano dell’Esodo è introdotto dalla risposta di Dio al grido di lamento del suo popolo sotto la schiavitù riassunta nell’espressione: “Dio guardò la condizione degli Israeliti, Dio se ne diede pensiero”, espressione che nella versione della LXX suona: “Dio si fece conoscere da loro” e nel testo ebraico: “Dio guardò e conobbe”. Gli antichi commentatori ebrei spiegano: Dio previde che il suo popolo l’avrebbe rigettato, ma lo volle liberare per amore del suo nome; Dio vide la ribellione del suo popolo, ma anche che il suo popolo avrebbe proclamato: “Dio è il mio Dio” (Es 15,2) e “Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto” (Es 24,7) allorquando il popolo professò l’impegno incondizionato di obbedienza al suo Dio prima ancora di udire i comandamenti che avrebbe ricevuto.

Il grido di Gesù: convertitevi! sale dalla profondità del mistero di Dio rivelato a Mosè nel roveto ardente, che il salmo responsoriale, il salmo 102, modula in mille sfumature. Dio confessa a Mosè: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto … conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo …”. In quel conosco le sue sofferenze si rivela tutta la partecipazione dell’amore di Dio per le sue creature, tutta l’accondiscendenza che lo muove nei confronti dell’uomo. Gli antichi commentatori spiegano così i sentimenti di Dio: ‘io pure soffro come soffrono loro … le loro pene mi riguardano; vedo anche le pene che non dicono, ma che opprimono i loro cuori…’. E quando Mosè chiede a nome di chi dovrà presentarsi, Dio risponde: “Io sono colui che sono! … il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi”. Il Nome di Dio esprime ciò che l’uomo di Lui può sperimentare quando lo invoca, quando, avendolo invocato, ne coglie la vicinanza e la sua potenza di liberazione e di favore. L’espressione, misteriosa nella sua disarmante semplicità ‘Io sono colui che sono’ può voler dire allora: ‘Io sono colui che sarò’; ‘Io sono là con voi come voi vedrete’; ‘io sono colui che tu vedrai quando invocandomi io ci sarò’; ‘chi io sia voi lo saprete da quello che farò per voi’. Il nome di Dio non rinvia semplicemente all’essere di Dio, ma al suo essere per noi. Tanto che Dio è sempre Dio di: Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, Dio di Israele, Dio di Gesù Cristo, Dio di ciascuno di noi… Così il popolo fa parte del nome di Dio, come Dio, El, fa parte del nome del popolo, Isra-El. Nostro o mio e unico in rapporto a Dio stanno sempre insieme. Tale è l’alleanza di Dio con l’uomo. Tanto che, secondo la bellissima espressione di Origene,  in questa alleanza che si rivela nel Nome di Dio è sottesa tutta la dinamica della nostra crescita spirituale: “Magari venisse concessa anche a me l’eredità di Abramo, Isacco, Giacobbe e divenisse mio il mio Dio allo stesso modo che è diventato Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, in Cristo Gesù, Signore nostro”.

Se il salmo 102 lo mettiamo in bocca allo stesso Mosè, quante sfumature di senso si potrebbero cogliere! Lui può comprendere quello che Gesù dice di sé nelle parole di benedizione dei credenti che lo riconoscono come l’Inviato: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”. La nostra lode al Signore è l’eco di quella benedizione: “Benedici il Signore, anima mia, quanto è in me benedica il suo santo nome”. Quando proclamiamo: “Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue malattie… Buono e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore”, noi intendiamo esprimere la scoperta del Nome di Dio rivelato a Mosè sul Sinai. E ancora: quello che proclamiamo con il salmo 102 corrisponde alla preghiera dopo la comunione: “O Dio, che ci nutri in questa vita con il pane del cielo, pegno della tua gloria”, vale a dire: quando ci attrai alla comunione con te e con i fratelli e noi gustiamo il tuo perdono nella capacità di condividerlo con tutti, allora scopriamo la dolcezza del tuo Nome, allora portiamo frutti degni di conversione e tutta la nostra vita risplende di un’altra luce. Proprio alla scoperta del Nome di Dio che si rivela in Gesù ci rimanda l’invito evangelico: “Convertitevi!”.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo di Quaresima

 

4a Domenica

(10 marzo 2013)

 

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Gs 5,91.10-12;  Sal 33;  2 Cor 5,17-21;  Lc 15,1-3.11-32

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Il mistero che s. Paolo proclama essere il contenuto stesso della rivelazione (“Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione”) la parabola del vangelo lo narra splendidamente.

Gesù risponde alle lamentele, che diventano perfino accuse, dei farisei di fronte al suo agire: “I farisei e gli scribi mormoravano: Costui riceve i peccatori e mangia con loro” (Lc 15,2). Non si davano pena dei sentimenti di Dio come rivela il profeta Isaia: “Sion ha detto: "Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato". Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai” (Is 49, 14-15) Non si ricordavano più il rimprovero che Dio aveva rivolto al profeta Giona per la sua irritazione a causa della pianta di ricino seccata (cfr Gio 4,10-11).

Più che denominare la parabola ‘del figlio prodigo’, dovremmo parlare di parabola ‘del padre misericordioso’ o ‘del figlio ritrovato’. L’accento non è posto sul o sui figli, ma sul padre. La parabola è costruita su tre personaggi: i due figli, il minore e il maggiore ed il padre. I personaggi si caratterizzano tanto per i silenzi che per le parole proferite. Possiamo notare subito che non esiste dialogo diretto tra i due figli, ma solo tra i figli e il padre. Questa parabola, come le due precedenti della pecora e della moneta ritrovate, finiscono sull’invito a condividere la gioia del ritrovamento.

Le parabole, prima che di noi, parlano di Dio, di Dio in rapporto a noi. Siamo a metà del cammino quaresimale e la chiesa si interroga: come Dio agisce con i peccatori? Possono i peccatori trovare salvezza? O, più direttamente: ha diritto alla gioia l’uomo peccatore? In cosa consiste il segreto della gioia? Oppure ancora: come si riconosce la vera devozione?

La risposta a questi interrogativi si potrebbe riassumere così: nel partecipare ai sentimenti di Dio; nel prendere parte alla gioia di Dio che vuole i suoi figli con lui. Ogni altro motivo del proprio agire risulterebbe alla fine discriminatorio tra fratelli e quindi non gradito a Dio. Non per nulla i due figli non si parlano mai direttamente, in quanto il loro rapporto o deriva dalla condivisione dei sentimenti del padre e sarà vicendevolmente benevolo oppure è corroso dalla gelosia tra loro e rivelerà l’incomprensione dei sentimenti del padre.

La parabola è viva e rimane aperta. Possiamo farci allora due domande. La prima: se la comunione con il padre resta il segreto della felicità dei due figli, come si collocano rispetto ad essa? Il figlio minore l’ha disprezzata e l’ha rotta; il figlio maggiore, che sembra averla mantenuta, non l’ha però mai goduta e quindi in fondo anche lui la disprezza. Tutti e due falliscono la loro felicità. Il padre tuttavia accoglie entrambi, segue premuroso entrambi: come corre incontro al figlio minore che torna pentito, così esce per convincere il figlio maggiore a partecipare alla sua festa. La seconda: cosa sarebbe successo se il figlio minore, ritornato pentito, si fosse stizzito per l’atteggiamento del fratello maggiore che non poteva accettare quel trattamento di riguardo del padre a suo favore? Se avesse preteso comprensione anche dal fratello maggiore, non sarebbe stato sincero nel suo pentimento verso il padre. E se il figlio maggiore si fosse sentito solidale con il padre nella sua gioia, avrebbe potuto rivendicare qualcosa per sé? Evidentemente non si è mai trovato, insieme al padre, durante tutto il tempo dell’assenza del fratello, a dire: ‘speriamo non gli capiti qualcosa di irreparabile …”. Il punto è esattamente questo allora: stare solidali con il padre, con la sua premura e la sua angoscia per poter godere della sua gioia.

In questa prospettiva, tutte le annotazioni a proposito dei sentimenti del padre sono particolarmente preziose perché rivelano la natura dell’amore di Dio per i suoi figli. Voglio rimarcare solo due particolari. Del padre si dice che, vedendo da lontano il figlio che tornava, ‘ebbe compassione’, vale a dire: si lasciò commuovere fin nelle viscere. Quel movimento del cuore è così intenso che non lascia respiro al figlio, nel senso che tutto quello che il figlio aveva da dire nella sua vergogna non ha più bisogno di essere ascoltato perché il suo cuore l’ha già accolto e ristabilito nella sua dignità, di nuovo erede di tutti i beni. Dietro tutte le parole della Scrittura sta quello stesso movimento di compassione di Dio per l’uomo; dietro le parole e l’agire di Gesù sta quello stesso movimento, come spesso si annota nei vangeli (cfr Mt 14,14; 18,27; Mc 1,41; 6,34; 8,2; Lc 7,13; 15,20). La stranezza sta nel fatto che l’uomo può cogliere gli effetti di quel movimento di compassione per lui proprio quando gli brucia la vergogna di essersi perso. La conversione inizia con la coscienza di aver disprezzato la sua dignità di figlio e di non meritarsi più nulla, senza però chiudersi in se stesso. L’amore che si riceve non è dovuto, ma ‘sorprendente’.

Del padre si dice ancora che vuole fare festa, che chiama alla festa ed esce per invitare anche il figlio maggiore alla festa. Quella festa è però misteriosa. É la festa della grande cena per gli invitati che non vogliono venire (Lc 14,15-24), la festa del banchetto di nozze che il re vuole per il figlio (Mt 22,1-14). Ma soprattutto è la festa in cui si uccide il vitello grasso. Come non pensare al ‘sacrificio’ del figlio amato, inviato dal padre a riscuotere i frutti della vigna (Lc 20,9-19)? Così, il far festa non richiama semplicemente alla gioia, ma alla gioia dell’amore di Dio che vuole radunare i suoi figli e non teme di vedere il figlio ‘sacrificato’ perché l’amore deve rivelarsi in tutta la sua immensità. La gioia ha a che vedere con l’esperienza di quell’amore sconfinato che solo permette di attraversare il male senza restarne vittime e che in Gesù ha il suo testimone per eccellenza.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo di Quaresima

 

5a Domenica

(17 marzo 2013)

 

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Is 43,16-21;  Sal 125;  Fil 3,8-14;  Gv 8,1-11

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Con quale sincerità e intensità sarebbero risuonate sulla bocca di quella donna spiata, scoperta, strattonata, minacciata, giudicata e poi lasciata sola perché potesse essere perdonata da Gesù, le parole del salmo: “È stato grande il Signore nell’agire con noi, siamo stati colmati di gioia” (Sal 125,3, secondo le antiche versioni greca e latina)! È da dentro questa gioia inattesa, confusa, che si apre per il cuore uno spazio di intimità tutto nuovo, secondo quella novità di cui parla il profeta Isaia: “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?... Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi” (Is 43,19.21). È lo spazio di una ritrovata dignità, che si percepisce dal tono dolce con cui ci viene rivolta la parola in quella intimità di benevolenza con cui veniamo accolti e che ci guarisce dal di dentro: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”.

Il canto al vangelo “Ritornate a me con tutto il cuore, perché io sono misericordioso e pietoso” introduce splendidamente al racconto evangelico dell’adultera. L’espressione è del profeta Gioele 2,12-13, ma riprende la rivelazione del nome di Dio a Mosè sul Sinai raccontata in Es 34. Mosè aveva chiesto di vedere la gloria di Dio dopo il peccato del vitello d’oro, contro il quale aveva spezzato le tavole che il Signore stesso aveva tagliato e scritto. La rivelazione del nome di Dio ‘misericordioso e pietoso’ avviene nella tempesta di sentimenti scatenata dal peccato del popolo che Dio avrebbe voluto distruggere, ma per il quale Mosè intercede trovando grazia agli occhi di Dio. Dio è Dio perché è misericordioso e pietoso, ricco nell’amore, esperienza che l’uomo realizza a fronte del suo peccato drammaticamente riconosciuto. Quando Mosè ridiscende con le nuove tavole di pietra, si tratta ormai delle tavole tagliate e scritte dallo stesso Mosè con le dieci parole rivelate. Tra il comandamento e il cuore c’è ormai una specie di distanza, essendo il comandamento avvertito come imposto, distanza che con la nuova alleanza ad opera di Gesù si sarebbe dissolta.

Nell’antica colletta preghiamo: “Vieni in nostro aiuto, Padre misericordioso, perché possiamo vivere e agire sempre in quella carità, che spinse il tuo Figlio a dare la vita per noi”. All’inizio (forse è meglio dire: lungo il percorso della nostra vita), ancora confusi per il nostro peccato, non riusciamo a sentire l’amore che ci viene donato, non siamo ancora in grado di rispondere a quell’amore con il cambiamento dei nostri comportamenti. Ma la percezione della dignità ritrovata costituisce il punto di partenza nuovo. Tutto ciò che di male abbiamo commesso, se lo mettiamo davanti al Signore Gesù, resta scritto sulla polvere. Soltanto però il male riconosciuto, quello che non viene taciuto o giustificato, resta scritto sulla polvere! Quello che non è riconosciuto, che si mantiene nascosto, che si annida nelle rivendicazioni irose o latenti, resta in cuore e impedisce la scoperta della benevolenza di Dio. Tutti gli accusatori della donna se ne devono andare perché, effettivamente, non sono così stupidi da immaginare di essere senza peccato. Ma essi non hanno potuto fare esperienza della benevolenza di Dio.

Gesù ridà senso al dramma del peccato. Il peccato non è una semplice trasgressione della legge né una questione personale di inclinazioni o scelte. La posta in gioco è assai più alta, ma senza l’esperienza della benevolenza perdonante del Signore non si esce dal tranello che i farisei avevano preparato a Gesù: se si pronuncia per l’assoluzione, va contro la legge; se approva la condanna, va contro l’immagine di Dio che va predicando, con la conseguenza che allora è un falso nuovo profeta, non è degno di credito. Con il peccato non è in gioco semplicemente la nostra vera o supposta rettitudine, bensì la nostra fiducia nella promessa di Dio per noi. Se l’uomo viene condannato per il suo peccato, gli si impedisce di credere alla promessa di Dio per lui; e lo stesso avviene se il peccato è banalizzato. Il peccato, riconosciuto da dentro una relazione col proprio Dio, diventa la porta della grazia.

La logica interiore di questa esperienza è ben descritta da Paolo, nella lettera ai Filippesi: “ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. ... So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro ...”. Non puoi non tendere a ciò da cui è venuto per te il senso della tua dignità. Non puoi più stare riverso sul tuo passato, ormai abbandonato alla polvere: non puoi che guardare al futuro di Dio che viene a te nella condivisione del suo progetto di bene e di salvezza per gli uomini.

L’inganno che può ancora nascondersi nelle pieghe dell’anima resta ormai quello di ‘dimenticare’ il proprio peccato e perdere così la solidarietà con i nostri fratelli peccatori. Il segno di tale dimenticanza è ravvisabile nel momento in cui mi difendo dai miei fratelli, rivendico qualcosa a Dio contro i miei fratelli. Ciò significa che la benevolenza di Dio è diventata per me un diritto e quindi ha perso tutta la profondità dell’intimità con cui mi era stata rivolta. Non per nulla s. Cipriano ricorda, nel suo commento al Padre Nostro, che all’invocazione ‘rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’, la prima cosa che domandiamo non è la generosità per essere capaci di perdonare, ma la coscienza di essere peccatori, bisognosi noi di misericordia. Sentendoci peccatori, non abbiamo titoli per avanzare diritti e possiamo sperimentare in tutta la sua dolcezza il perdono di Dio.

Come invoca la colletta: “ … perdona ogni nostra colpa e fa’ che rifiorisca nel nostro cuore il canto della gratitudine e della gioia”, il segno dell’esperienza della benevolenza di Dio è dato dalla gratitudine e dalla gioia che costituiscono l’humus interiore del cuore che si conosce peccatore perdonato, perdonato davanti a Dio, peccatore davanti al prossimo. E allora si realizza quello che l’antica colletta domandava: “ … possiamo vivere e agire sempre in quella carità, che spinse il tuo Figlio a dare la vita per noi”.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo di Quaresima

 

DOMENICA DELLE PALME E DELLA

PASSIONE DEL SIGNORE

(24 marzo 2013)

 

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Lc 19,28-40 //  Is 50,4-7;  Sal 21;  Fil 2,6-11;  Lc 22,14-23.56

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Con la liturgia delle palme si dà inizio alle celebrazioni della Settimana Santa. Un sentimento di esultanza, di euforia quasi, introduce agli avvenimenti pasquali: Gesù entra trionfalmente in Gerusalemme acclamato da ali festanti di discepoli. Presto l’euforia cederà il passo alla paura, al tradimento. E quando tutto sembrerà ormai definitivamente cancellato nel silenzio della morte, risuonerà ancora un grido di gioia la domenica di Pasqua, ma questa volta senza nessuna euforia, come strappato a forza, trasfigurante nella sua assoluta imprevedibilità. Sarà il grido, non che vince la morte, ma che l’attraversa, che l’assume, che la libera dai suoi confini mondani aprendola allo splendore del mistero di Dio.

Tutti i vangeli riportano il solenne ingresso di Gesù in Gerusalemme, nell’ottica del compimento della profezia di Zaccaria, unico testo messianico dove il Messia è umile: “Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina” (Zc 9,9). L’accentuazione di Luca cade sulla ‘regalità’ di Gesù, con le allusioni alla consacrazione di Salomone (cfr 1Re 1,33-40) e alla proclamazione di Ieu re di Israele con lo stendere da parte dei grandi i mantelli per terra (cfr 2Re 9,13), regalità che la liturgia latina sottolinea con la solenne processione.

È assolutamente significativo che Gesù accolga il riconoscimento del suo essere re soltanto a partire da questo ingresso in Gerusalemme che introduce la sua passione. Nel racconto di Luca Gesù aveva puntato diritto a Gerusalemme nel corso del suo ministero. Quando sta per entrarvi, i discepoli lo acclamano festosi pensando evidentemente altra cosa rispetto a quello che ha in mente lui, pur sottolineando comunque la Benedizione che rappresenta per loro tutti da parte di Dio. La liturgia, prima segue i pensieri dei discepoli con la solenne processione e, subito dopo, quelli di Gesù - quei pensieri che i discepoli non potevano ancora leggere - facendo intravedere i pensieri di Dio sul suo Figlio venuto a rivelare l’amore del Padre per gli uomini. Gesù si proclamerà re davanti a Pilato quando ormai nessuna ambiguità impedirà la comprensione di quel titolo e verrà proclamato re dalla croce con il titolo che compare sugli antichi crocifissi: ‘re della gloria’.

È curioso osservare che l’esultanza dei discepoli richiama l’esultanza degli angeli a Betlemme: la proclamazione della pace, dono di Dio all’umanità, là annunciata, qui si delinea in tutta la sua drammaticità, senza che alcuno ancora se ne renda conto, eccetto Gesù. Forse, la sua risposta ai farisei, sorpresi e intimoriti per le possibili conseguenze di fronte all’occupante romano: “Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre”, allude al ‘giudizio’ della storia nella tragedia della prossima distruzione di Gerusalemme. Gesù si rivolge alla città, piange su di essa, la richiama a riconoscere la visita del suo Dio. Già altre volte Gerusalemme era stata richiamata dai profeti a leggere gli avvenimenti tragici nell’ottica della storia con il suo Dio.

La liturgia si fa carico di mostrarci tale drammaticità, subito dopo la solenne processione, con la colletta: “Dio onnipotente ed eterno, che hai dato come modello agli uomini il Cristo tuo Figlio, nostro Salvatore, fatto uomo e umiliato fino alla morte di croce …”. Non c’è più ombra dell’esultanza di prima. Viene letto il terzo canto del Servo del Signore del profeta Isaia: “Ho presentato il mio dorso ai flagellatori ... non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi”. Si canta il salmo 21: “hanno scavato [forato] le mie mani e i miei piedi... Si dividono le mie vesti”. S. Paolo canta la figura di Gesù nella sua passione d’amore per gli uomini: “… svuotò se stesso assumendo una condizione di servo ... umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”. E viene proclamato solennemente il racconto della passione di Gesù.

Proprio su questo Gesù la chiesa invita a fissare gli sguardi, in tutta la potenza della sua rivelazione quanto all’amore di Dio per gli uomini. Quanto sono preziosi gli uomini per lui! Quanto può essere rivoluzionata la vita se vissuta dentro e a partire dal suo amore! Quando la colletta ci propone l’immagine di Gesù umiliato non è per suggerirci un modello di umanità sofferente. Gesù resta modello perché, per realizzare la nostra vocazione all’umanità, non possiamo non rifarci a lui che di questa umanità ha svelato tutta la bellezza nel suo stare fedele in comunione con Dio, dalla parte degli uomini ed in comunione con gli uomini, dalla parte di Dio. E la sua bellezza traspare proprio nel momento in cui, sfigurato dal dolore e calpestato, non rinnega l’alleanza di Dio ed apre, per lui e per tutti, la promessa di una vita inattaccabile dalla morte. Ed è la sua bellezza a generare speranza, quella di cui il mondo oggi, come sempre, ha tremendamente ed urgentemente bisogno.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo di Pasqua

 

Pasqua di Risurrezione del Signore

(31 marzo 2013)

 

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At 10, 34a. 37-43; Sal 117; Col 3, 1-4; Gv 20, 1-9

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Aveva introdotto le celebrazioni del triduo sacro la messa del crisma, che sottolinea l’unità della chiesa attorno al suo vescovo che consacra il sacro crisma con cui i candidati al battesimo e alla cresima verranno unti, per essere testimoni nel mondo dello splendore del nome di Cristo.

La cena del Signore del giovedì santo, incastonando l’istituzione dell’eucaristia e del sacerdozio con il sacramento del servizio attraverso il rito della lavanda dei piedi, ha celebrato il mistero della comunione con Dio e tra gli uomini, scopo supremo dell’agire del cuore, profumo della conoscenza del Cristo. La proclamazione della passione del Signore e l’adorazione della croce il venerdì santo hanno rivelato l’intimità e la tenacia dell’amore di Gesù per gli uomini, colte nel mistero della sua obbedienza fino alla morte di croce. Con la conseguenza: se il Figlio di Dio non ha preferito nulla a noi, come possiamo noi preferire qualcosa a Lui?

Il sabato santo trascorre nel silenzio liturgico in attesa della solenne veglia pasquale che annuncia la restituzione ai discepoli del loro Signore, il Vivente, con i segni indelebili nel corpo della sua passione salvatrice. Il senso specifico di tutte le letture della grande veglia pasquale mi sembra quello di collocare e leggere la nostra storia personale dentro la grande storia d’amore di Dio per i suoi figli di cui sentiamo narrare le gesta, storia che in Gesù, annunciato dai profeti, si fa esperibile per noi. Tutta la veglia pasquale è imperniata sulla ‘luce’, la luce del Signore risorto che arriva ad accendere i nostri cuori. Abbiamo così bisogno di una luce calda, amica, tenera, per vedere la vita e le sue angosce! La liturgia tende proprio a infondere nei cuori la sovrabbondanza della luce amica, calda, del Signore Gesù che è il Dono di Dio per la nostra umanità.

Se viva è stata la compassione per l’Uomo dei dolori, prorompente sarà la gioia per la notizia della risurrezione del Signore. È una notizia certa, ma non evidente. È una notizia vera, ma non apodittica. Quella notizia ha bisogno di tempo per apparire in tutta la sua potenza, per convincere i nostri cuori e scoprir loro la sorgente di gioia inesauribile che costituisce. Ha bisogno di spazi per espandersi, ha bisogno di condivisione per rafforzarsi, ha bisogno di testimonianze per risplendere. Sono i tempi della chiesa, gli spazi dell’umanità, la condivisione e le testimonianze dei credenti, perché i nostri cuori finalmente si convincano a vedere e a riconoscere il Signore Gesù in tutta la sua bellezza, morto e risorto per noi.

Così esulta la chiesa nell’inno pasquale: “Irradia sulla tua Chiesa la gioia pasquale, o Signore, unisci alla tua vittoria i rinati nel battesimo”. La gioia, quella vera, stabile, agognata, non può che essere pasquale; non solo nel senso che ci deriva dall’evento della Pasqua del Signore, che rende nota al cuore dell’uomo la motivazione inconfutabile della possibilità ritrovata di essere nella gioia, ma anche nel senso che la gioia è strettamente correlata al dramma, alla fatica, alla fedeltà di un amore che svela il mistero stesso della vita e che si esprime nel suo rivelare la potenza d’intimità con il Padre, autore della vita. Gioia che per noi si risolve nel dolce perdono che Gesù ci riversa: “Tu, o Cristo, sei il nostro dolce perdono. Fa’ che di Te in ogni istante io mi sappia rivestire e non abbia potere su di me la miseria con cui mi vedo e mi sento. Con le tue ferite risanami, che io respiri e viva del tuo sguardo verso il Padre. Nelle tue piaghe nascondimi, che il sentimento della mia malinconia non si erga a obiezione della tua grandezza. Lasciami entrare nel tuo cuore, che io mi avvolga della sua benevolenza e mi faccia rinascere, finiti i terrori della notte, al mattino della tua presenza”.

Accenno solo a un particolare del brano evangelico che viene proclamato nella messa del giorno di Pasqua. Giovanni parla della pietra tolta via dal sepolcro per sottolineare, in questo Giorno della Risurrezione, che viene tolto l’ultimo impedimento alla vista, alla visione, come poi il brano dirà a proposito del discepolo entrato nel sepolcro. L’episodio dei due discepoli che corrono al sepolcro lo conferma in una tensione crescente per giungere, alla fine, alle straordinarie parole: “Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette”. È come una richiesta che viene sussurrata al cuore dei possibili lettori del vangelo, la richiesta di avanzare nella conoscenza del mistero, di salire fino all’intelligenza della risurrezione che viene svelata poco a poco: “Vide e credette”. La tensione del racconto punta qui. Un invito per noi alla gioia della sua conoscenza perché profumi la nostra vita e ne manifesti lo splendore. Possiamo tutti essere custoditi e accompagnati dalla tenacia dell’amore del Signore per noi, che, come ha promesso: “ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.

Il Signore è risorto! È davvero risorto!

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo di Pasqua

 

II Domenica

(7 aprile 2013)

 

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At 5, 12-16;  Sal 117;  Ap 1, 9-11.12-13.17.19;  Gv 20, 19-31

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Se entriamo nella liturgia di oggi con l’attestazione dell’identità del Risorto secondo le parole di Giovanni nell’Apocalisse, tutto si carica di risonanze straordinarie. Il Figlio d’uomo che compare in visione a Giovanni si presenta con queste parole: “Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi”. Parole che la colletta riprende: “O Padre, che nel giorno del Signore raduni il tuo popolo per celebrare colui che è il Primo e l’Ultimo, il Vivente che ha sconfitto la morte, donaci la forza del tuo Spirito, perché, spezzati i vincoli del male, ti rendiamo il libero servizio della nostra obbedienza e del nostro amore, per regnare con Cristo nella gloria”.

Quelle parole non attestano semplicemente la verità personale del Risorto, ma la dinamica di rivelazione dell’amore di Dio ai suoi figli che Gesù ha mostrato in tutto il suo splendore. Se quelle parole le mettiamo in bocca a Gesù che vediamo parlare e agire nei racconti evangelici, allora la sfumatura di significato risulta: io, che sono il Primo, mi sono fatto ultimo, servo di tutti e perciò sono pieno della vita di Dio, che è amore per voi. Così voi, se vi fate servi di tutti, sarete innestati in colui che è Primo e godrete della vita che a lui appartiene. Chiedere la forza del suo Spirito è chiedere di essere innestati nella potenza di questa rivelazione. Quando il Risorto afferma che lui ha le chiavi della morte significa che con lui la morte non agisce più, morte intesa nel senso di mortificazione dell’amore che è vita di Dio per noi. Qui si ricollegano le parole evangeliche della vite e dei tralci, del rimanere in lui, dell’osservare la sua parola per essere custoditi nell’amore, ecc. E qui ricollego anche l’attestazione del profeta Isaia a proposito di Dio: “Io, il Signore, sono il primo e io stesso sono con gli ultimi” (Is 41,4).

Se la liturgia pasquale proclama insistentemente: “eterna è la sua misericordia”, ciò significa non soltanto che Dio sarà eternamente fedele alla sua misericordia, che la sua misericordia durerà per sempre, ma soprattutto che, essendo la sua misericordia dall’eternità, si trova alle origini del nostro mondo, ne racchiude il senso e il mistero fino alla fine, finché il mondo sussisterà. Quella verità ha a che vedere con l’attestazione che lui è il Primo e si è fatto ultimo per dare la vita. E’ il servizio di Dio all’umanità, che Gesù mostra nel suo splendore e che noi uomini stentiamo così tanto a riconoscere. E quando Gesù si presenta a Tommaso con l’indicare le sue cicatrici vuole mostrargli quella verità e Tommaso, al di là della sua ostentata incredulità, si situa in quella verità con la sua sussurrata e potentissima confessione di fede: mio Signore e mio Dio! E’ l’unica volta nei vangeli che Gesù è chiamato direttamente Dio.

Il racconto dell’apparizione a Tommaso fa accedere alla nostra condizione di non vedenti chiamati a credere per vedere. Tommaso non è un pavido, un insicuro. Le altre due volte che il vangelo di Giovanni parla di Tommaso ce lo presenta come un uomo generoso, pronto ad andare a morire con Gesù. Il suo dubbio procede da un cuore che ha preso molto sul serio la vicenda di Gesù. Quando Gesù, ricomparendo, gli dice di mettere la mano nel costato e nelle cicatrici, non ha bisogno di ricredersi o di scusarsi: è tutto teso a quel Signore che ha sempre voluto seguire e che ora riconosce per davvero "mio Signore e mio Dio", la più solenne professione di fede del vangelo di Giovanni e, nello stesso tempo, la più intima delle professioni. In quel mio, c'è tutto l'anelito del suo cuore, la sua appassionata esperienza di lui; in quel Signore e Dio, c'è tutta la rivelazione di Gesù al suo cuore, l’intelligenza di tutte le Scritture.

La sua esclamazione ricalca quella di Maria Maddalena: “Hanno portato via il mio Signore” (Gv 20,13) e quella di Gesù: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, al Dio mio e Dio vostro” (20,17). Non solo, ma in essa si avverte la risposta alla domanda che nell’ultima cena l’apostolo Giuda aveva rivolto a Gesù: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?” (Gv 14,22). Gesù si rende presente a coloro che lo amano, non si manifesta al mondo: questo è il mistero da accogliere. In effetti, Tommaso riceve la rivelazione del Signore risorto dentro la comunità degli apostoli, divenuta il luogo della sua manifestazione nel mondo a partire dall’amore che gli apostoli esprimono al loro Signore e tra di loro, come segno della vita nuova ricevuta con il dono dello Spirito. È caratteristico che la conoscenza del Signore, ormai, non si riferisca più alla modalità con cui i discepoli hanno conosciuto Gesù nella sua storia terrena, ma si riferisca all’esperienza della sua presenza tra loro come Messia crocifisso (con le cicatrici sul corpo), nella pace che rassicura e accompagna nelle difficoltà dell’impegno nel mondo. La sua presenza è esperita a partire dalla comunità dei credenti, che diventano testimoni e nello stesso tempo donatori al mondo della possibilità della visione del Signore.

Gesù aveva promesso nell’ultima cena: “Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi” (Gv 14,19-20). E quando rimprovera Tommaso gli dice: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”. Eppure, tutti i credenti sono chiamati a vedere il loro Signore. La visione, però, deriva ormai dallo sperimentare la vita che egli comunica, vita che diventa nostra praticando il suo comandamento e accogliendo il suo amore. Qui si innesta la missione di cui ci fa portatori il Signore: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. La pace che dà il Signore è quella per la quale gli apostoli sono inviati nel mondo, per la quale viene loro dato lo Spirito Santo in modo che l’innocenza ottenuta da Dio e con Dio confermi la fraternità degli uomini, segno dello splendore della presenza di Dio ormai riconosciuto.

Una domanda risuona insistente nella liturgia bizantina di oggi a proposito dell'audacia di Tommaso: come poté toccare e non restare bruciato? “O straordinario prodigio! Il fieno ha toccato il fuoco ed è rimasto indenne. Tommaso ha infatti messo la mano nel costato igneo di Gesù Cristo Dio e non è stato bruciato da questo contatto…”; “Chi impedì che la mano del discepolo si fondesse quando l’accostò al fianco infuocato del Signore? Chi le diede l’ardire e la forza di tastare ossa fiammeggianti? Fu il costato stesso che egli toccò. Se quel costato non avesse trasmesso il potere a una destra di fango, come avrebbe potuto toccare il segno dei patimenti che avevano scosso le regioni superiori e inferiori?”. La liturgia drammatizza un evento per mostrarcene il mistero. Da parte di Tommaso non si tratta di un semplice ‘riconoscimento’, come da parte nostra non si tratta di un semplice riconoscere vera la risurrezione di Gesù. Siamo coinvolti in modo molto più profondo e misterioso.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo di Pasqua

 

III Domenica

(14 aprile 2013)

 

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At 5, 27b-32. 40b-41;  Sal 29;  Ap 5, 11-14;  Gv 21, 1-19

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Il brano di vangelo di oggi chiude il vangelo di Giovanni. Sembra quasi un’appendice, che racchiude però un alto valore simbolico, soprattutto se incentriamo l’attenzione sull’apostolo Pietro. Nel vangelo di Giovanni, il primo incontro di Gesù con Pietro viene narrato in 1,42 quando Gesù gli dice: “Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato «Cefa» – che significa Pietro”. Nel corso della narrazione evangelica viene sempre denominato Simon Pietro o Pietro. Solo alla fine, di nuovo, Gesù lo chiama: “Simone, figlio di Giovanni ...” per tre volte. Perché? Sembra che Pietro, con tutto l’amore che porta al suo Maestro, abbia ancora bisogno di qualcosa di essenziale, di decisivo, per realizzare quello che il nome, Pietro, impostogli da Gesù, significa per lui e per la comunità dei suoi fratelli.

Gesù lo chiama con il vecchio nome rammentandogli l’amore che gli ha sempre protestato senza però essere stato capace di viverlo fino in fondo. Nell’ultima cena aveva protestato: “Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!” (13,37) e poi, nella stessa notte, l’aveva rinnegato tre volte. Ma Giovanni non dice nulla del suo pentimento, come gli altri evangelisti hanno annotato: “E, uscito fuori, pianse amaramente” (Lc 22,62). Sembra che Pietro conservi ancora qualcosa dell’antico discepolo del Battista, almeno nella sua visione messianica su Gesù, il Messia che avrebbe stabilito il regno di Dio, come d’altronde fa fede la sua prontezza nel difendere Gesù con la spada nell’orto degli ulivi e nella volontà di seguirlo fin dentro il cortile del sommo sacerdote. Pietro ha sempre preteso giocare un ruolo di primo piano per la sua generosità nella sequela del Maestro – cosa che Gesù e gli altri compagni gli riconoscono. Quando vuole uscire a pescare, e gli altri compagni lo seguono, lavora invano. Invece, quando si presenta Gesù sulla spiaggia e gli dice di gettare le reti alla destra della barca, la pesca è oltremodo sovrabbondante. Ma lui non capirà se non dopo il colloquio con Gesù: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”. Era chiaro a tutti che Pietro amava il Signore più di tutti per la sua impetuosità, ma ora Pietro non lo può più riconoscere perché era stato l’unico a rinnegarlo. E quando, la terza volta, Gesù gli dice: “Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?” Pietro non può che restare addolorato perché evidentemente si rendeva conto della sua posizione e, finalmente conquistato alla nuova modalità di sequela che Gesù esigeva, risponde affidandosi: “Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene”.

Solo ora la sua sequela diventa quella voluta da Gesù. Qui avviene la trasformazione definitiva di Pietro. In effetti, per l’apostolo, non si tratta semplicemente di dare la vita per Gesù – cosa che può avvenire anche dentro una visione delle cose mondana o ideologica! - ma di darla condividendo i suoi segreti, il suo sentire, la sua modalità di azione nel mondo perché tutti abbiano la vita. Potremmo anche interpretare: “Signore, non sono degno del tuo amore, e del mio non posso fare gran conto, ma tu conosci il mio cuore, tu sai che ti vuole bene”. Quando un uomo professa il suo amore come balbettando, appena sussurrando, vuol dire che il suo amore va oltre ogni forma di orgoglio o di pretesa e sarà immune dal tarlo del predominio, sotto qualsiasi forma si cerchi: in quell’amore c’è tutto il suo cuore perché si fida totalmente dell’accoglienza dell’altro. E non ha da esibire altro di sé. E quando l’amore è di tal fatta, allora può assumere il compito pastorale in nome del Signore: “Pasci le mie pecore”. A tutti verrà inviato, di tutti si prenderà cura, e di gran cuore, perché tutti e ciascuno appartengono a quel Signore, il cui amore l’ha conquistato e l’amore per il quale costituisce il vero obiettivo del suo interessamento per tutti perché tutti lo riconoscano e trovino riposo. Gesù può predirgli tranquillamente il suo martirio: l’intimità goduta, finalmente, non sarà più insidiata, così come è avvenuto per Gesù.

Allora avverrà, nelle afflizioni o nelle persecuzioni, come riporta la prima lettura, di essere “lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù”, con l’allusione al fatto che la letizia nella persecuzione rivela la dignità ottenuta dall’anima, dignità che si esprime nel suo splendore quando gli altri la calpestano e non viene meno. E non è un fatto personale, ma ecclesiale. Vale a dire: non è in gioco la virtù di una persona, ma la fede, una fede condivisa dentro uno stesso progetto di vita e di missione evangelica per il mondo. L’obbedienza è così dovuta a Dio prima che agli uomini e comporta appunto la condivisione del segreto di Dio per gli uomini nell’amore che ha mosso Gesù e che perdura nei suoi discepoli. Nel brano evangelico il pasto comune dopo la pesca miracolosa comporta due ‘offertori’ di sapore eucaristico: c’è il pesce preparato prima da Gesù e il pesce portato dai discepoli. Vi si può ravvisare il dono di Gesù ai suoi e il dono degli uni agli altri nell’amore che risponde a quello di Gesù.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo di Pasqua

 

IV Domenica

(21 aprile 2013)

 

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At 13, 14. 43-52;  Sal 99;  Ap 7, 9. 14-17;  Gv 10, 27-30

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Le ultime domeniche del tempo pasquale sono tutte incentrate sulla comunità dei discepoli unita attorno al suo Signore, testimone del suo amore, pervasa dalla gioia dello Spirito Santo, in missione apostolica nel mondo fino alla fine dei tempi. La liturgia di oggi ruota attorno all’immagine del gregge e del suo pastore, tema del cap. 10 di Giovanni, insistendo sul fatto che la comunità è unita saldamente al suo pastore, che non può essere dispersa, che possiede ormai la vita dal suo Signore, per cui vive.

Gli ascoltatori sono divisi nei riguardi di Gesù: è vero, le sue parole suonano piuttosto strane, ma sono proferite da uno che ha guarito un cieco dalla nascita (cap. 9) e che è capace di ridare la vita a un morto (cap. 11, a Lazzaro). Cosa pensare di lui? Quale mistero divino sta svelando?

Gli uomini sono sempre in ricerca e si accorgono della stranezza di Gesù. Non potrebbe parlare più chiaramente?, pensa il gruppo dei Giudei che lo attornia. Ma appena Gesù risponde, l’incertezza si trasforma in avversione e rifiuto. È vicino il dramma finale. Il punto centrale può essere espresso in questi termini: voi non mi potete capire perché non volete essere dalla mia parte; voi vi appellate a Dio per respingermi, ma è proprio lui che mi ha inviato a voi e se non accogliete me non potete nemmeno capire quanto è grande il suo amore per voi. Invece, chi mi ascolta, è perché mi appartiene, conosce in verità la grandezza dell’amore di Dio e nessuno potrà privarlo di questa certezza, nessuno potrà dividerlo da me. Come nessuno ha potuto rapire Gesù dalle mani del Padre, nonostante tutto congiurasse contro questa fedeltà del Figlio al Padre suo, soprattutto nel dramma della passione e della morte in croce, così nessuno potrà rapire i discepoli di Gesù dalle sue mani, per quanto si scateni la violenza degli avversari. Non si fa parte del gregge per pregi o meriti, ma per accoglienza. Tanto che Gesù non dice: “Le mie pecore ascoltano la mia parola”, ma “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”. Si ascolta la voce, prima ancora di quello che questa voce proferisce, quando si è accolta l’intimità amichevole di una persona e il cuore, a partire dal dono di quell’intimità, si dispone ad accogliere anche quello che la voce dice (=mi seguono).

In effetti, l’unico impedimento risulta essere quello di giudicarsi non degni della vita eterna, come dicono Paolo e Barnaba ai convenuti in sinagoga ad Antiochia: “… poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna ...” (At 13), come se la vita eterna scaturisse da qualche nostro merito o pregio. Il dramma dell’uomo consiste proprio in un giudizio cattivo su di sé, che nasconde un cattivo giudizio su Dio: non ci si ritiene degni dei misteri di Dio! Quando l’uomo non accoglie umilmente questa dignità si fa violenza e la eserciterà su tutti: sarà preda del tormento della morte. E il mondo è prostrato dagli effetti di questo tormento. I discepoli invece sono “pieni di gioia e di Spirito Santo” perché partecipano all’opera dello Spirito Santo che è l’edificazione di un’umanità con un cuor solo e un’anima sola. La partecipazione al mistero stesso della vita di Dio e in Dio non dipende minimamente da quello che fa il mondo o da quello che ci fa il mondo.

Quando cantiamo con il salmo responsoriale: “noi siamo suo popolo, gregge che egli guida”, non vogliamo dire che siamo semplicemente quelli che lui guida individualmente, ma che siamo coloro che hanno in lui una stessa vita e fanno risplendere la fraternità nel mondo come espressione della rivelazione del Padre ai loro cuori. Riconoscere, con il salmo: “egli ci ha fatti” significa proclamare tutta la dignità dell’uomo di cui il gregge del Signore, che noi siamo, ha la responsabilità, in questo mondo, di far risplendere nella sua bellezza. Dignità, che è riservata a tutti e che tutti condivideranno nel regno dei cieli, ma che qui, nel mondo, i discepoli del Signore custodiscono per sé e difendono in tutti. La dignità dell’uomo non è basata sull’uomo, ma chi ne ha conosciuto per esperienza di fede il segreto, in Gesù, è chiamato a custodirla per tutti finché a tutti venga svelata.

In questa luce le parole di Gesù risuonano in tutta la loro densità. Gesù è amato dal Padre perché dà la sua vita per le pecore (Gv 10,17) e questo comporta il suo dare la vita eterna (10,28), vale a dire la vita come espressione di un amore che non cede davanti a nulla e che diventa la radice di vita di coloro che da lui l’accolgono. Se aggiunge che nessuno strapperà le pecore a lui affidate vuol dire che per quanto si scateni il male contro di loro, all’interno e all’esterno, non verrà meno la percezione di quello che Gesù dirà nell’ultima cena: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Anche per noi, uniti a Gesù, varrà quello che lui dice di sé a conferma delle sue parole: “Io e il Padre siamo una cosa sola”, perché: “le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”. Da intendere secondo questi tre passaggi:

1) ‘le mie pecore ascoltano la mia voce’: non semplicemente ascoltano quello che dice, ma riconoscono che quello che dice viene da Dio. Sentono che la sua parola e la sua vita confermano tutte le parole della Scrittura e ne svelano il mistero;

2) ‘io le conosco’: vedendo l’intimità tra lui e il Padre, le pecore si sentono conosciute, cioè amate e cercate da lui. Il movimento di amore di Dio per l’uomo riguarda tutti e perciò dire ‘io le conosco’ comporta la sfumatura di senso: io conosco tutti, ma di quella conoscenza che fa godere l’intimità con lui sono capaci solo le pecore che si lasciano raggiungere, portare in spalla, come la parabola della pecorella perduta dirà. Ne consegue che chi non accetta questo, si trova come escluso dalla sua conoscenza e proprio perché escluso non può sentirsi amato;

3) ‘esse mi seguono’: solo lui può mostrare il segreto di Dio in tutta la sua estensione e bellezza. In gioco è sempre la disponibilità alla fede e la fede si gioca nell’accogliere il mistero di accondiscendenza di Dio, per l’uomo, in Gesù, rivelatore del Volto del Padre.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo di Pasqua

 

V Domenica

(28 aprile 2013)

 

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At 14, 21-27;  Sal 144;  Ap 21, 1-5;  Gv 13, 31-33. 34-35

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Tutta la liturgia di oggi ruota attorno all’aggettivo nuovo. L’ingresso segnala il canto nuovo, la colletta il fatto che Dio, nel suo Figlio, rinnova gli uomini e le cose, l’Apocalisse rivela: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”, il canto al vangelo e il vangelo: “Vi do un comandamento nuovo”, l’antifona dopo la comunione parla di vita nuova.

Ora, più si coglie la novità che Gesù vive nella sua umanità nel rapporto con il Padre e con noi, più noi potremo vivere di quella novità nella nostra umanità. Gesù abbina il comandamento dell’amore alla menzione della sua gloria. Perché? Il capitolo 13 di Giovanni è il capitolo della lavanda dei piedi nell’ultima cena. Gesù ha lavato i piedi anche a Giuda e tutti hanno sentito la spiegazione di Gesù: “Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (Gv 13,15). Gesù ha chiara la percezione dell’imminente tradimento e sa quel che fa, a differenza dei discepoli che non comprendono, ma che comprenderanno in seguito. Solo quando Giuda se ne è andato e Gesù vede tutto quello che gli accadrà può aggiungere: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri”. Come a dire: l’amore di cui vi faccio comando comprende la disponibilità a lavarvi i piedi gli uni gli altri, senza distinzioni di sorta tra buoni o cattivi. In gioco è la rivelazione del segreto di Dio che mi è stato affidato e di cui vi rendo partecipi: la gloria del Suo amore deve risplendere in tutta la sua bellezza.

La novità del comandamento dell’amore è posta tra la gloria che rifulge in Gesù nel suo farsi dono agli uomini da parte di Dio e il segno che rivela al mondo l’appartenenza dei discepoli al loro Signore. Se si contempla il crocifisso come il re della gloria non si può non cogliere quella gloria come lo splendore dell’amore che si è riversato sugli uomini e che farà dire agli apostoli: “dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni”. Sono le tribolazioni come fatica di fedeltà all’amore, come pazienza dell’amore che non viene meno nelle avversità e nelle afflizioni, come vestito di umiltà che segnala la forza dell’intimità con quel Signore che si è conosciuto e che ci ha conquistati. Di fronte al mondo, invece, quella gloria diventa segno di appartenenza, segno rivelatore e segno attirante: rivelazione di un’esperienza forte di fede nel Cristo, capace di farci vivere e di far desiderare ad altri di vivere secondo quella novità di amore che rinnova alle radici la nostra umanità. Accogliere Gesù significa anche accogliere che in noi si esprima la dinamica di rivelazione che lo caratterizza: mostrare quanto è grande l’amore del Padre per i suoi figli e riunire i figli di Dio dispersi.

È singolare che Gesù non faccia mai comando ai discepoli di amare lui, mentre il comando di amare Dio e amare il prossimo è diretto. Quando allude all’amore per lui, lo suggerisce attraverso le espressioni: ‘se mi amate, osserverete i miei comandamenti’; ‘rimanete nel mio amore’. Verso di lui invece il comando diretto è: ‘credete in me’. Perché? Qui si può comprendere il nocciolo dell’amore di cui Gesù ci fa comando. L’amore vicendevole non rivela la generosità dei cuori, ma l’esperienza dell’incontro con Gesù; l’amore vicendevole parla di Dio che ha toccato il cuore dell’uomo e non dell’uomo che è diventato buono e perciò è in rapporto diretto all’esperienza della fede, quella fede di cui Gesù ci fa comando nei suoi confronti.

Così, se potessi illustrare con mie parole la novità del comandamento dell’amore annunciata da Gesù, direi che la si può cogliere in rapporto a tre cose. Anzitutto, accogliere il comandamento in rapporto alla radice che lo origina. L’amore di Gesù deriva dalla intimità della vita, del volere e dei sentimenti con il Padre. Quell’amore di cui ci fa comando deriva dalla partecipazione a quella stessa intimità. Il suo sigillo sta nel fatto di lavare i piedi ai discepoli per renderli partecipi del suo segreto con il Padre, segreto che a nessuno è dato di cogliere se non a coloro che credono nel Figlio. Circondarsi la vita con l’asciugatoio è l’immagine dell’umiltà come vestito della divinità, mistero di quell’accondiscendenza di Dio che raggiunge l’uomo nel suo cuore più segreto, là dove l’uomo può imparare la lingua stessa di Dio. In secondo luogo è in rapporto alla potenza che lo sottende, la potenza cioè dello Spirito Santo che da Gesù ci verrà effuso sulla croce. Quell’amore non è che l’accoglimento dell’azione dello Spirito Santo nei nostri cuori, esito di tutto l’impegno ad agire bene che ad altro non conduce se non a poter essere degni dei misteri di Dio. Perché l’opera specifica dello Spirito Santo è la costruzione della fraternità, come stupendamente dice la terza preghiera del canone eucaristico: “e a noi, che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito”. Ed infine è in rapporto alla dinamica che lo anima e che lo muove verso un unico punto di convergenza, contemporaneamente termine e scopo della storia stessa: che il regno di Dio si sveli in tutta la sua bellezza e in tutto il suo splendore, per tutti i cuori, per tutto il mondo, per tutti i tempi, regno che altro non è se non la condivisione dell’amore di Dio, in Cristo, fino a che sia partecipato a tutti.

Il proclamare da parte di Dio: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”, allude al suo amore per noi che si è manifestato nella debolezza e che ora rifulge in tutto il suo splendore potente, tanto da far dire a Isacco Siro: “L’amore di Dio non è qualcosa che si diffonde senza che se ne abbia coscienza o senza che ce se ne renda conto, perché non può sgorgare a partire dalla sola conoscenza delle Scritture, come nessuno può amare Dio facendo sforzi per farlo… E non è nemmeno possibile amare Dio a partire dalla Legge o dai comandamenti, che pur tuttavia lui stesso ha dato e non senza rapporto con l’amore, poiché la Legge produce il timore e non l’amore… E fin tanto che uno non abbia conosciuto la grandezza di Dio in un’esperienza personale, non potrà avvicinarsi a quel glorioso sapore dell’amore. Chi non ha bevuto il vino, non diventa ubriaco a forza di parlare sul vino e chi non è stato giudicato degno di ricevere in sé la conoscenza della grandezza di Dio, non può diventare ebbro del suo amore”.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo di Pasqua

 

VI Domenica

(5 maggio 2013)

 

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At 15, 1-2. 22-29;  Sal 66;  Ap 21, 10-14. 22-23;  Gv 14, 23-29

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L’espressione con cui inizia la proclamazione del vangelo di oggi: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” riprende due altre espressioni del discorso di Gesù nell’ultima cena. La situazione è quella di chi sarà presto sottratto ai suoi discepoli e li rincuora promettendo loro l’invio del Paraclito, colui che assicurerà nel cuore dei discepoli l’amore al loro Maestro e l’osservanza dei suoi comandamenti. Solo in quell’amore e nella misura di quell’amore Gesù si manifesterà: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv 14,21).

Ma il Messia non avrebbe dovuto apparire al mondo come il realizzatore del regno di Dio premiando i pii e distruggendo gli empi? Questa era l’immagine che gli apostoli si facevano del regno. Lo esprime chiaramente, intuendo la verità, Giuda, non l’Iscariota: “Come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?” (Gv 14,22). Gesù risponde all’ansia di rivelazione che gli uomini hanno. Tra poco lui subirà la passione, morirà e verrà sepolto, ma apparirà, risorto, ai suoi discepoli. Saranno loro a testimoniare al mondo la sua presenza, la presenza di colui che ha vinto la morte. Ma perché la manifestazione del Risorto non sarà evidente a tutti? Perché l’opera di Dio non sconvolgerà nessuno nel senso di farlo restare attonito e come obbligato a credere? Perché la sua è una parola di amore e chi non accoglie quell’amore non può capire la sua parola. La sua parola cela la potenza di amore del Padre per gli uomini e soltanto quando gli uomini si decideranno ad ascoltarla (come un bambino ascolta la sua mamma facendo quello che gli dice) la parola rilascerà la potenza che essa racchiude, potenza che costituisce la radice della comunione con tutti perché a tutti quella parola è diretta. La responsabilità dei discepoli nel mondo sarà appunto quella di favorire in tutti l’esperienza della verità di quella parola che così si svela nella sua potenza di salvezza per tutti.

La parola di Gesù ha sempre a che fare con il Padre, che è Creatore. Ciò significa che entrare nella parola di Gesù significa entrare nel mistero della creazione, dell’essere creature, scoprendo l’amore del Padre che vi è all’origine, dentro e al di là di tutte le ferite della storia. La dinamica di questa rivelazione non riguarda il passato, come se si trattasse di risalire indietro nella storia per comprendere il mondo, ma concerne il futuro nel senso che si guarda a cosa avverrà per comprendere e accogliere ciò che è e ciò che è stato. Il Risorto presiederà a questa rivelazione e i discepoli ne porteranno la responsabilità di fronte al mondo.

La sottolineatura nelle parole di Gesù, però, è data dal fatto che accogliendo la sua parola si partecipa ad una intimità di vita; meglio, si condivide l’intimità di vita che corre tra il Padre e il Figlio nello Spirito, che proprio da Gesù ci è stato effuso e che proprio di Gesù ci fa vedere la verità di testimone dell’amore del Padre per gli uomini. Così la crescita spirituale sottende sempre un radicamento nell’intimità di un rapporto che permette ai cuori di schiudersi, di percepirsi nell’amore, di vedere le cose in verità. In effetti, quando Gesù dice ‘mi manifesterò’, in realtà vuol dire, non solo che lo riconosceremo, ma che tutto parlerà di lui, tutto splenderà per lui e quindi che la vita svelerà il suo segreto.

La condizione di possibilità perché ciò avvenga è svelata alla fine del brano, che nella versione CEI suona: “Non parlerò più a lungo con voi, perché viene il principe del mondo; contro di me non può nulla, ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così io agisco” (Gv 14,30-31). L’espressione ‘contro di me non può nulla’, tradotta più letteralmente sarebbe: ‘in me non ha nulla’. Siccome in Gesù c’è solo l’amore del Padre, il demonio non ha alcun diritto su di lui nel senso che può rovesciargli addosso tutto il male che vuole, ma senza poterlo deviare dal suo scopo, senza potergli sottrarre quell’amore; al contrario, suo malgrado, farà risplendere davanti a tutti quell’amore affascinando i cuori. Questa espressione è costruita allo stesso modo dell’altra che la richiama: ‘chi ha i miei comandamenti’ (v. 21), che noi traduciamo: ‘chi accoglie i miei comandamenti’. Quando un cuore è conquistato all’amore di Gesù, non facendo valere altro che i suoi comandamenti, dato che in essi ha scoperto le radici del vivere bello, ne conoscerà la potenza di vita e il demonio nulla potrà contro quell’amore.

Quando al battesimo e alla trasfigurazione la voce dal cielo aveva proclamato su Gesù: “Questi è il Figlio mio, l’amato”, il significato non è semplicemente da riferire a Gesù ma anche a tutti noi in lui, vale a dire: tutti noi, credendo a quel Figlio, l’Inviato del Padre e accogliendo la sua parola per metterla in pratica, entreremo nella benedizione di quell’amore di predilezione nel quale il Padre vuole inglobare tutti. La rivelazione di Dio è sempre per noi perché non c’è rivelazione se non parla dell’amore di Dio per l’uomo. E se nel Padre nostro chiediamo: ‘sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra’, non chiediamo prima di tutto di poter stare fedeli alla sua volontà, ma più direttamente di poter sperimentare la sua volontà di amore per noi nella nostra vita, tanto da godere della comunione con lui al di sopra di tutto. Questo ci otterrà l’azione dello Spirito Santo, che ci farà memoria viva del Signore Gesù in questo mondo.

Collegando poi la colletta alla prima lettura comprendiamo che la liberazione pasquale, che celebriamo nell’eucaristia per testimoniarla nella vita, è caratterizzata dalla letizia. Ma la letizia è per la comunione. Una letizia che non si traduca in ansia di comunione non risponde alla liberazione pasquale. La prima lettura mostra quella letizia in ansia di comunione alle prese con gli imprevisti della storia. I credenti provenienti dalla tradizione mosaica, pur accogliendo la fede in Gesù, temono di mancare alla santità di Dio non obbligando anche i fratelli provenienti dal paganesimo alle stesse leggi. La decisione apostolica ribadisce la fede di tutti: oramai c’è un unico popolo di salvati, circoncisi e incirconcisi e l’invito ai pagani sembra soltanto quello di non essere fonte di disagio per i fratelli circoncisi trovandosi alla stessa mensa. La liberazione è per la gioia e la gioia è per la comunione: questa è la dinamica pasquale.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo di Pasqua

 

Ascensione del Signore

(12 maggio 2013)

 

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At 1,1-11;  Sal 46;  Eb 9,24-28; 10,19-23;  Lc 24,46-53

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Gesù non ascende a un luogo. Gli angeli non sarebbero venuti a ricordare: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?”. Se si fosse trattato semplicemente della sparizione dalla loro vista, non sarebbe stato ragionevole annotare: “poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia”. Spiega Agostino: “Disparve agli occhi mortali perché noi ritornassimo al cuore e trovassimo il Cristo”. In effetti i discepoli hanno visto il fenomeno fisico dell’ascendere al cielo di Gesù ma ne hanno anche intravisto la portata mistica. Il che significa che lo sparire di Gesù dalla vista dei loro occhi permetteva di coglierlo presente nei loro cuori, come lui stesso aveva promesso: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”, versetto con il quale si chiude il vangelo di Matteo.

Il brano del vangelo di Luca proclamato oggi è introdotto dalla frase: “Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture”. Aprire le Scritture al cuore e aprire il cuore alle Scritture è far entrare nel regno di Dio, argomento tipico del sostare del Risorto con i suoi discepoli prima di ascendere al cielo. Solo quando il Risorto è riconosciuto sulla base delle Scritture ormai aperte, si può aprire lo spazio della missione e della testimonianza, perché quell’esperienza è offerta a tutti.

Il che significa che Gesù, nel suo mistero di morte e risurrezione, non si può manifestare assolutamente; i cuori non lo potrebbero riconoscere. Sono le Scritture che descrivono e introducono al suo mistero. E significa ancora che senza la Chiesa, la quale custodisce le Scritture e ne interpreta i misteri con l’intelligenza del Risorto, Gesù non può essere colto e accolto nella sua reale identità. Con la testimonianza e la missione dei discepoli, riprese dal canto al vangelo: “Andate e fate discepoli tutti i popoli”, non si vuol dire: indottrinate tutti con la verità che conoscete. Piuttosto: fate risplendere la bellezza di Gesù perché i cuori lo desiderino e lo conoscano e diventino anch’essi suoi discepoli e si lascino conquistare dalla sua verità. Lo splendore poi deriva dal fatto che l’agire e il sentire dei discepoli pescano nell’esperienza della promessa che Lui è con loro sempre. La percezione di questa reale possibilità per il cuore è valsa ai discepoli la grande gioia dopo la sparizione di Gesù alla loro vista.

In effetti, l’aspetto singolare di quell’avvenimento è costituito dall’esperienza di una gioia speciale, abbinata alla promessa dello Spirito Santo che di lì a poco gli apostoli avrebbero ricevuto. Con l’ascensione si inaugura lo spazio di testimonianza della chiesa nel mondo, testimonianza che può essere vissuta nella forza dall’alto (= battezzati in Spirito Santo). Leggendo insieme i passi del vangelo di Luca e degli Atti, due particolari saltano agli occhi.

Primo particolare. La forza dello Spirito agisce nel nostro cuore rispetto a tre contesti ben precisi e interdipendenti: il riconoscimento della realtà e dell’identità del Risorto, lo stesso che ha patito per noi; l’intelligenza delle Scritture di cui il Risorto mostra il compimento; la missione nel mondo. Quando i discepoli di Emmaus si comunicano la sensazione interiore che li aveva accompagnati nel colloquio con il pellegrino dicono: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava [in greco, letteralmente: ci apriva] le Scritture?”. Così l’evento dell’ascensione al cielo di Gesù acquista tutto il suo senso. Il cielo non è il cielo fisico, ma il luogo dove lui abita nella sua santità. E dove può essere percepita la santità se non nel vivere fraterno? Così, la predicazione alle genti non riguarda semplicemente l’annuncio di ciò che Dio ha operato per gli uomini, ma comprende anche il mostrare da parte dei discepoli che tale annuncio si è tradotto per loro in splendore di vita. Il vangelo di Luca termina con l’immagine di Gesù benedicente. Se gli occhi non vedranno più la mano benedicente, sentiranno però nel cuore la potenza di quella benedizione perenne che lui costituisce, sigillo ultimativo della volontà di bene di Dio per l’uomo. Volontà, nella quale si radica tutta la dignità dell’uomo e il suo impegno di responsabilità di fronte al mondo.

Secondo particolare. Gli apostoli hanno come la sensazione che forse è arrivato finalmente il momento della ricostituzione del regno di Israele, il momento cioè dell’immissione nella storia della potenza di Dio che tutto trasforma nel suo regno e non lascia più posto a null’altro. Gesù però risponde loro che la cosa non li deve riguardare. A loro basta sapere che ‘riceverete la forza dallo Spirito Santo … e di me sarete testimoni…’. Ora dunque è il tempo della testimonianza, il tempo cioè della conoscenza del Figlio dell’uomo, il tempo della fraternità ricostituita nella potenza dall’alto, nella potenza dello Spirito Santo. Essere allora testimoni del Signore Gesù nel mondo vuol dire partecipare alla testimonianza dello stesso Signore che ha fatto risplendere nel mondo il volto di Dio nel suo amore per gli uomini; vuol dire godere di quella gioia, pace e libertà che il mondo desidera ma non conosce e di cui invece il Risorto fa dono ai suoi senza che nessuno possa rapirle dai loro cuori. Per questo, anche se gli apostoli non vedono più con i loro occhi il loro amato Signore, non possono che essere pieni di gioia, perché in lui e con lui continuano la rivelazione dell’alleanza di Dio con gli uomini.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo di Pasqua

 

Pentecoste

(19 maggio 2013)

 

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At 2, 1-11;  Sal 103;  Rm 8, 8-17;  Gv 14, 15-16. 23-26

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Nella settimana che precede la festa, la chiesa aveva fatto pregare: “Venga su di noi, o Padre, la potenza dello Spirito Santo perché aderiamo pienamente alla tua volontà per testimoniarla con amore di figli” (colletta lunedì) e “Venga, o Padre, il tuo Spirito e ci trasformi interiormente con i suoi doni; crei in noi un cuore nuovo perché possiamo piacere a te e cooperare alla tua volontà” (colletta giovedì). I brani evangelici erano tratti dal c. 17 di Giovanni che riporta la solenne preghiera di Gesù al Padre finalizzata a che i discepoli “abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia” (Gv 17,13). La volontà del Padre è la salvezza degli uomini che vuole uniti alla mensa del suo amore, mentre l’invio dello Spirito Santo ha lo scopo di illuminare e sostenere i cuori dei discepoli nell’esperienza della conoscenza di Gesù secondo la sua promessa: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20), fonte di gioia nel dramma della storia.

Quando Paolo proclama che “l’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito” (Rm 5,5) si deve intendere: è lo Spirito che ci dà la conoscenza del Signore Gesù, testimone dell’amore del Padre per i suoi figli e ci attira, insieme a Gesù, in quella stessa testimonianza di fronte al mondo. Si tratta di rivelazione per il cuore, non di semplice conoscenza. È un dono accolto, una scoperta inaspettata, una gioia immeritata.

Lo Spirito, ottenutoci dalla passione gloriosa di Gesù, svelerà al nostro cuore il colloquio eterno tra il Padre e il Figlio a proposito della salvezza dell’uomo, il colloquio tra il Padre e il Figlio che vive la sua umanità nell’amore per gli uomini. Tutto questo ‘colloquio’ lo Spirito ha udito e ce ne renderà partecipi. Così conosceremo la verità, vale a dire la grandezza dell’amore di Dio per l’uomo, che in Gesù si è fatto evidente, a noi accessibile, per la fede in lui. Ci farà gustare la promessa di Gesù: “Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15).

Delle due immagini caratteristiche della Pentecoste, le lingue che compaiono sul capo degli apostoli e il fuoco di cui si prega “Vieni, santo Spirito, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore”, il fuoco esprime appunto la cifra di quel colloquio, la condivisione di un segreto capace di far ardere il cuore. Collegare l’invio dello Spirito alla volontà di Dio significa far percepire che quella volontà è essenzialmente una volontà di bene per l’uomo, significa ridare al cuore dell’uomo la percezione della verità del fuoco dell’amore di Dio che a lui arriva tramite Gesù. Se tale è la percezione del cuore, allora il cuore non potrà che vivere nell’onda di quell’amore e estenderlo a tutti, fino ai confini della terra. Qui si collega la responsabilità della testimonianza, che non sarà più vissuta tanto come impegno o dovere ma come sovrabbondanza: lo Spirito riempirà di Gesù i cuori fino a che tutta la sua verità risplenda e conquisti, me come tutti. La testimonianza è in funzione di uno splendore, non di un impegno!

La comparsa delle lingue a Pentecoste proclama: l’opera di Dio unisce tutti gli uomini. E l’opera di Dio è la verità del suo amore per gli uomini che in Gesù si è fatto visibile e accessibile. Il miracolo che a Pentecoste acquista una rilevanza fisica tanto che ognuno sente proclamare l’opera di Dio nella sua lingua nativa (= ogni lingua, ogni uomo, nella sua diversità, è chiamato a proclamare la stessa ed unica cosa), è lo stesso miracolo che è operato nei cuori dallo Spirito quando li convince a muoversi nella carità, aprendo la diversità alla comunione e facendo esperienza che così viene proclamato l’amore di Dio che riempie i cuori. Riconoscere, assecondare, favorire tale dinamica, significa aver ricevuto e agire nella potenza dello Spirito Santo.

L’aspetto singolare per i credenti è dato dal fatto che l’impegno della testimonianza, di cui è fatto loro comando, consiste proprio in questa lingua di comunione. La ‘verità tutta intera’ che lo Spirito farà conoscere è prima di tutto la verità dello splendore dell’amore di Dio per gli uomini che in Gesù rifulge, ragione per la quale l’unione dei discepoli con il Cristo precede e fonda la carità che sono chiamati a usarsi vicendevolmente. Anzi, quella carità sarà segnale per il mondo perché testimonia la potenza della presenza del Signore nel mondo.

È caratteristico che la settima beatitudine suoni: ‘beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio’ (Mt 5,9), da comprendere insieme all’altra espressione: ‘tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio’ (Rm 8,14). Lo Spirito agisce nei discepoli di Gesù nel senso di renderli come lui, il Figlio di Dio, la cui testimonianza si risolve nel mostrare quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini. E come per il Figlio la fonte della sua testimonianza sta nella comunione di vita con il Padre, così nei discepoli la potenza della loro azione deriva dalla intimità di comunione con il Figlio che non si stanca di trascinarli a cercare gli uomini perché godano anch’essi dell’amore del Padre. In questo i discepoli imparano a parlare la lingua della comunione, la lingua dello Spirito.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Solennità e feste

 

Ss. Trinità

(26 maggio 2013)

 

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Pro 8, 22-31;  Sal 8;  Rm 5, 1-5;  Gv 16, 12-15

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L’antifona di ingresso definisce bene la prospettiva nella quale accostare il mistero della Trinità: “Sia benedetto Dio Padre, e l’unigenito Figlio di Dio, e lo Spirito Santo: perché grande è il suo amore per noi”. Se possiamo accedere al mistero di Dio è perché Dio si è rivelato come ‘amore per noi’. È però il Padre che è indicato come amore, di cui il Figlio è rivelatore e testimone e della cui vita d’amore lo Spirito è donatore. Gesù, che pur rappresenta per noi l’espressione stessa dell’amore (“li amò sino alla fine”, Gv 13,1), non si definisce mai come amore, termine che invece è riservato al Padre, come la preghiera stessa della Chiesa sottolinea: “Ti glorifichi, o Dio, la tua Chiesa, contemplando il mistero della tua sapienza con la quale hai creato e ordinato il mondo; tu che nel Figlio ci hai riconciliati e nello Spirito ci hai santificati, fa’ che nella pazienza e nella speranza possiamo giungere alla piena conoscenza di te che sei amore, verità e vita”, dove amore fa riferimento al Padre, verità al Figlio, vita allo Spirito Santo.

Se lo Spirito è detto 'Consolatore, Spirito di verità', lo è in rapporto alla verità che è Gesù, cioè farà vedere il vero volto di Dio nella persona di Gesù, rivelatore del Padre, pieno di amore per gli uomini. Non per nulla Gesù emise lo Spirito dalla croce rivelando quanto è grande l’amore di Dio per l’uomo e abilitando l’uomo a vivere del suo stesso Spirito. Lo splendore di quell’amore manifestato da Gesù diventa così, per la potenza del suo Spirito, radice di vita in coloro che ne accolgono la testimonianza. Come dice Giovanni nel prologo del suo vangelo: “A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1,12-13). E quando Gesù dice che lo Spirito guiderà alla verità tutta intera non allude tanto alla comprensione dei vari aspetti del mistero di Dio ma piuttosto al fatto che quella verità di rivelazione del vero volto di Dio, di cui Lui è il Testimone, risplenda in tutto il suo splendore, che quella verità conquisti i cuori interamente, che quella verità convinca i cuori della grandezza dell’amore di Dio, che l’esperienza di quell’amore ci sveli i suoi segreti.

Segreti, che attingono all’origine stessa della creazione, di cui costituiscono il fondamento e lo scopo, come la lettura del capitolo 8 del libro dei Proverbi suggerisce. Un’espressione è particolarmente suggestiva: “… io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo”. Il Padre trovava delizia nel Figlio, la Sapienza (possiamo rammentare le espressioni evangeliche al battesimo e alla trasfigurazione di Gesù: ‘questi è il Figlio mio, l’amato’) e il Figlio trovava delizia nei figli dell’uomo. Come a dire che il colloquio eterno tra il Padre e il Figlio verte sulla salvezza dell’uomo, per il quale il mondo è creato, colloquio che lo Spirito svelerà al nostro cuore rendendocene partecipi (anche a questo allude la promessa di Gesù: lo Spirito vi guiderà alla verità tutta intera…). E la partecipazione avverrà stando sottomessi a tutti nel nome di Cristo, che rivela l’amore di Dio, perché la sottomissione ha a che fare con la delizia della Sapienza che presiede alla creazione per amore dell’uomo.

Se è Gesù che rivela compiutamente il desiderio di comunione con gli uomini da parte di Dio e compie il desiderio di comunione con Dio da parte degli uomini, allora ne deriva che la fonte della nostra dignità procede proprio dal fatto che Dio ha reso l’uomo degno dei suoi misteri. Il salmo 8 proclama: “Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi?”. In cosa consiste la cura di Dio per l’uomo? Nel passo parallelo del salmo 144, v. 3, le antiche versioni greca e latina riportano: ‘Signore, che cos’è l’uomo, perché ti sia a lui fatto conoscere?’ (Domine, quid est homo, quoniam innotuisti ei?). La tradizione ha colto bene in cosa consiste la cura di Dio per l’uomo: Dio l’ha elevato alla sua conoscenza. Lo ricorda l’antifona alla comunione: “Voi siete figli di Dio: egli ha mandato nei vostri cuori lo Spirito del Figlio suo, che grida: ‘Abbà, Padre’ ”. Non viene detto in generale: siamo tutti figli di Dio. Lo si proclama in senso ‘speciale’, secondo il significato del vangelo di Giovanni: A quanti però l' hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio. Allude all’essere trovati in Cristo; allude a coloro che sono stati resi partecipi della delizia della Sapienza. E se tutti gli uomini sono figli di Dio lo sono in quanto tutti sono chiamati alla stessa esperienza, tutti sono destinatari della stessa offerta, tutti portano la ‘vocazione all’umanità’ secondo quel Figlio di Dio, che riceve tutte le compiacenze del Padre perché in Lui tutti siano riuniti nella stessa delizia.

Quando la preghiera iniziale definisce Dio come ‘amore, verità e vita’, allude certamente al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, di cui preghiamo di avere piena conoscenza, nella pazienza e nella speranza. Ma tutto procede dalla verità del Figlio che, dandoci il Suo Spirito, che è vita (cioè ci comunica quell’amore che non è più rapibile da niente e da nessuno), ci fa conoscere l’amore del Padre. Da parte nostra tutto procede dall’accoglienza del Figlio, perché il Padre che desideriamo conoscere è il Suo Padre, e lo possiamo conoscere nel Suo Spirito. In tal senso la ‘verità tutta intera’ di cui parla Gesù riferendosi allo Spirito non riguarda tanto la verità nei suoi vari enunciati, ma la verità come comunione con Cristo. Di quanta ‘pazienza’ e di quale ‘speranza’ necessita allora l’uomo per realizzare radicalmente e totalmente nella sua vita quella comunione con Cristo! Ma è a partire da quella comunione che la rivelazione del Padre, del Figlio e dello Spirito costituirà la delizia del nostro cuore.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Solennità e feste

 

Ss. Corpo e Sangue di Cristo

(2 giugno 2013)

 

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Gn 14, 18-20;  Sal 109;  1 Cor 11, 23-26;  Lc 9, 11-17

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L’origine di questa festa, propria dell’Occidente latino, va messa in rapporto con il possente risveglio della devozione eucaristica che dal secolo XII in poi si sviluppò, accentuando particolarmente la presenza reale di Cristo nel sacramento e quindi la sua adorazione. Furono le visioni di Giuliana di Cornillon, monaca agostiniana di Liegi, ad avere un influsso decisivo nell’introduzione della festività, che per la prima volta si celebrò nella diocesi di Liegi nel 1247. Urbano IV, già arcidiacono di Liegi e confessore di Giuliana, la prescrisse per tutta la Chiesa nel 1264. Il simbolo eucaristico più comune che vediamo sui paramenti sacri, tovaglie d’altare, ostie, il cosiddetto trigramma del nome di Gesù, IHS, si impone invece con la predicazione di s. Bernardino da Siena (1380-1444). Poco distante dal nostro monastero, in una località denominata ‘San Bernardino’, campeggia ancora sul muro esterno di un cascinale quel simbolo eucaristico: il trigramma in un sole raggiante di dodici raggi, con la croce ricavata sulla lettera H, segno evidente dei frutti della predicazione del grande frate francescano senese. Il trigramma sta per ‘Iesus Hominum Salvator’ (Gesù Salvatore degli uomini), ma anche per le prime tre lettere del nome di Gesù in greco.

Non è possibile cogliere il senso del mistero dell'Eucarestia senza riuscire a percepire profondamente nel cuore l'eco delle parole di Gesù: “Quanto ho desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima di patire!” (antif. ora terza). È il desiderio di Dio che va percepito. Come sempre, in un legame d'amore, ciò che più conta è il desiderio dell'altro per me. Il desiderio di Dio copre tutto lo spazio del mistero, l'attraversa e ne segna la dinamica nella quale entrare a far parte. Nell'inno ai vespri si canta: "Frumento di Cristo noi siamo .... In pane trasformaci, o Padre, per il sacramento di pace: un Pane, uno Spirito, un Corpo, la Chiesa una-santa, o Signore". E Francesco d'Assisi, nel suo commento al Padre Nostro, annuncia: "Il nostro pane quotidiano, il tuo Figlio diletto, il Signore nostro Gesù Cristo, dà a noi oggi: in memoria, comprensione e reverenza dell'amore che egli ebbe per noi e di tutto quello che per noi disse, fece e patì".

La colletta della festa di oggi esprime assai bene il timbro eucaristico di tutta l’esperienza cristiana: “Dio, Padre buono, che ci raduni in festosa assemblea per celebrare il sacramento pasquale del Corpo e Sangue del tuo Figlio, donaci il tuo Spirito, perché nella partecipazione al sommo bene di tutta la Chiesa, la nostra vita diventi un continuo rendimento di grazie, espressione perfetta della lode che sale a te da tutto il creato”. Il mistero dell’eucaristia, dal punto di vista della chiesa che la celebra, si colloca al centro della sua azione e della sua tensione, della sua origine come del suo destino. Più la nostra vita diventa un continuo rendimento di grazie, perché trova il suo senso nella comunione con Dio e con tutti, del cui splendore l’eucaristia è la celebrazione stessa, più il desiderio di vita che ci abita e ci muove trova il suo fondamento e la sua realizzazione nella tensione al convito eterno, di cui l’eucaristia è l’anticipazione.

L’eucaristia ci implica nella dinamica stessa del Signore Gesù. Poco prima della sua passione, nel racconto di Giovanni, Gesù è definito come colui che ha il compito di ‘riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi’ (Gv 11,52), mentre di se stesso dice: ‘viene il principe del mondo; contro di me non può nulla, ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre’ (Gv 14,30-31). Ma perché il demonio non ha alcun potere su di lui, se proprio contro di lui esercita tutto il suo potere? Il demonio non ha potere su Gesù perché in lui non trova nulla che leda o impedisca l’unità dei figli di Dio dispersi. È questa la volontà del Padre e Gesù si muove secondo questa volontà: riunire i figli di Dio dispersi, mostrando quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini che li vuole commensali alla mensa del suo amore, di cui l’eucaristia è il sacramento per eccellenza.

Nel Corpo e nel Sangue del Cristo, dato per noi, tutte le cose acquistano il sapore di segni di un’alleanza con Dio, di cui non esiste una migliore, per cui è inutile sognarne altre di nuove: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue…”. All’uomo non resta che far memoria, evidentemente non nel senso di ricordare, ma di entrarne a far parte, di condividerne la potenza, di celebrarla nella vita, così come recita la colletta. Due aspetti mi sembrano importanti: 1) Se l’alleanza nuova ci è offerta, vuol dire che dipende dall’iniziativa di Dio e non dal merito nostro. Questo acquieta l’ansia del cuore che teme sempre di non essere raggiunto, per la sua indegnità, dall’amore al quale anela e di cui avverte acutamente il bisogno; 2) L’alleanza nel Corpo e nel Sangue di Cristo, è un ‘memoriale perenne’: non c’è altro evento così significativo nella storia delle persone e del mondo da desiderarne il compimento, in cui far risiedere tutte le tensioni del cuore per aver riposo e pienezza. Il problema, caso mai, è portare la nostra coscienza a percepire questa realtà, a sentirla, a viverne la potenza: è tutto il cammino di crescita nella fede sia come singoli che come comunità.

Se ci accostiamo ora al racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci, segno dei tempi messianici (siamo nel deserto, luogo di incontro con Dio; è imbandita la mensa del Signore, dove il cibo offerto da Dio assume il sapore più gradito al palato di ciascuno; la sovrabbondanza è tale da avanzarne dodici ceste, perché a tutte le nazioni è destinato quel pane), possiamo cogliere il ruolo della chiesa, della fraternità, nel ruolo degli apostoli: “Voi stessi date loro da mangiare … e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla”. La Tradizione ha visto in questa distribuzione ad opera dei discepoli il ruolo dei ministri nella chiesa invitati a spiegare le Scritture come pane spezzato per nutrire l’intelligenza dei fedeli. Ma la cosa può essere allargata. Ci può essere intelligenza della Parola di vita solo in questo vicendevole servirsi comandato dal Signore Gesù. È la dimensione della fraternità che diventa il luogo dell’intelligenza della fede. E ciò che si partecipa nella condivisione, come ciò che si impara del mistero, è sempre la stessa cosa: un entrare nella comunione con il Figlio di Dio dato per noi, un renderci con il Cristo espressione di lode di tutto il creato senza più divisioni. In realtà è proprio questo l’aspetto più significativo del mistero dell’Eucaristia: l’Eucaristia fa l’unità, rende corpo unico, rende un cuor solo e un’anima sola. L’Amen che il fedele risponde al ‘Corpo di Cristo’ detto dal sacerdote al momento della comunione ha proprio questo significato: sì, credo di far parte di quel Corpo e mi impegno a vivere in modo che quel Corpo non sia mai diviso, in modo da non separarmi mai da quel Corpo, in modo da non impedire a nessuno di vedere la bellezza di quel Corpo, in modo da favorire in ogni modo la fraternità in Cristo, perché a Dio sia riconosciuta la sua gloria.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Solennità e feste

 

Ss. Cuore di Gesù

(7 giugno 2013)

 

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Ez 34, 11-16;  Sal 22;  Rm 5, 5-11;  Lc 15, 3-7

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I testi della liturgia di oggi parlano della ‘immensa carità’ del Cuore di Gesù, alludendo evidentemente al ‘cuore trafitto’ che il prefazio (‘dalla ferita del fianco effuse sangue e acqua’) e l’antifona alla comunione (‘un soldato trafisse il costato con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua’) esaltano. I brani delle letture invece illustrano l’amore divino secondo l’immagine del pastore, un pastore che raccoglie le sue pecore, che le conduce in ottime pasture, che le fa riposare, che cura quella malata, che non trascura quella forte, e soprattutto che riconduce in spalla la pecora smarrita. Un bellissimo commento di s. Ambrogio spiega: “Rallegriamoci, dunque, perché quella pecora, che in Adamo era andata perduta, in Cristo è sollevata in alto. Le spalle di Cristo sono le braccia della Croce. Là ho deposto i miei peccati, sul capo di quel nobile patibolo ho trovato riposo… Egli è dunque un pastore ben provvisto, perché tutti noi siamo la centesima parte della sua proprietà. Ma Egli possiede le greggi innumerevoli degli Angeli, possiede quelle degli Arcangeli, delle Dominazioni, delle Potestà, dei Troni e di tutti gli altri che ha lasciato al sicuro sui monti. E poiché sono creature spirituali, non a torto gioiscono per la redenzione degli uomini”.

Il mistero della parabola riguarda non semplicemente l'amore di Dio, ma l'esperienza che fa il nostro cuore dell'amore di Dio. Con le sue parabole Gesù vuol rispondere alle mormorazioni del cuore dell'uomo che non è più capace di onorare i suoi fratelli perché non sa più riconoscere il mistero di Dio, non riesce più a percepire il cuore di Dio. Per noi, in effetti, si tratta solo di 'riconoscere' e 'credere' a questo amore di Dio che viene a cercarci, ad usarci premura, a fare dono di Sé a noi, a perdonarci, noi, la sua gioia! Ma il nostro cuore, irretito nelle illusioni del peccato, è più aspro di quello di Dio; crede di salvare una specie di nobiltà teorica condannandosi, rinchiudendosi in una condanna sfiduciata. Non è che manchino nella vita motivi di sfiducia, ma la vita dell’uomo si gioca proprio nella fiducia a Qualcuno che è riconosciuto come Colui che ‘si perde’ per noi e ci ridà dignità. È vero che Dio può far nascere altri figli perfino dalle pietre, ma è ancora più vero che, per quanto indegni e ribelli, i figli che Dio preferisce sono quelli in carne ed ossa, quelli che siamo, che rimprovera ma di cui continua ad avere premura. Gesù, morto e risorto per noi, è il sigillo ultimativo di quella Volontà e il suo ‘Cuore trafitto’ è l’emblema più suggestivo di quella Volontà di Bene per noi.

L’antifona d’ingresso cantava: “Di generazione in generazione durano i pensieri del suo Cuore, per salvare dalla morte i suoi figli e nutrirli in tempo di fame”, eco del salmo 32 là dove proclama: “Il Signore annulla i disegni delle nazioni, rende vani i progetti dei popoli. Ma il piano del Signore sussiste per sempre, i pensieri del suo cuore per tutte le generazioni”. Il piano del Signore è la determinazione all’amore per l’uomo senza lasciarsi vincere dalla sua diffidenza e dalla sua cattiveria. Il Cuore di Gesù svela questo ‘piano’ e lo rende noto a tutti i cuori, perché è da sempre, ancor prima della fondazione del mondo, anzi, motivo della stessa fondazione del mondo, perché è perenne, definitivo, sempre nuovo, perché risponde al desiderio e alla gioia di Dio e perché risponde al desiderio e al riposo dell’uomo.

La cosa straordinaria è che Dio fonda la sua giustizia nel condividere la sua gioia. “Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7). Ora, tutti i nostri pensieri di autocondanna, di paura, di disprezzo di noi e degli altri, feriscono l'amore di Dio perché gli rendono impossibile la gioia. Ogni autocondanna è una incomprensione di Dio. Ogni condanna, di sé e degli altri, è un'incomprensione profonda del cuore di Dio: come non sapere quello che gli procura gioia? Il buon ladrone che non pretende la misericordia, ma riconosce in pace la sua pena di fronte al Giusto crocifisso e chiede, per grazia, un posto nel regno, è un esempio eloquente della misteriosa convergenza in Dio di giustizia e di misericordia, gioia Sua e gioia della creatura.

Del resto, chi sono i giusti? Nell'interpretazione spirituale dei Padri i novantanove giusti lasciati sui monti sono gli angeli. Ma sono anche coloro che, come gli angeli, adorano e lodano e gioiscono con Dio. Sono cioè coloro che gioiscono con Dio quando un peccatore ritorna, quando un uomo si pente. Di qui il criterio di discernimento della bontà, che ci rende 'sim-patici' di Dio, vale a dire degli stessi sentimenti di Dio: un cuore è buono quando gioisce del bene del fratello. Gioire della virtù di un fratello più che per la propria è segno di un cuore puro, ormai conquistato dalla bontà di Dio. Gioire per un altro rende intimi di Dio. E se l'uomo è invitato a riconoscere come agisce Dio, come 'sente' Dio, è perché è chiamato ad imitarlo. E l'imitazione consiste nell'impegnare la propria carità fino alla gioia, senza pretenderla comunque per sé. Non che la cosa risulti ovvia, ma se il nostro cuore si è sentito trafitto guardando al Cuore trafitto dalla lancia del soldato, allora qualcosa dei segreti di Dio si comunica a noi e proprio questo rende capaci di vivere nello splendore di quella rivelazione.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo Ordinario

 

X  Domenica

(9 giugno 2013)

 

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1Re 17,17-24;  Sal 29;  Gal 1,11-19;  Lc 7,11-17

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Il brano di vangelo di oggi con il miracolo del richiamo alla vita del ragazzo morto, per la compassione che Gesù prova verso sua madre, vedova, va letto con la conseguenza che ne deriva rispetto alla fede in lui. In effetti, subito dopo Luca narra della risposta di Gesù ai due discepoli inviati da Giovanni Battista: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”. È la domanda di una vita. Di Giovanni Battista, anzitutto. Tutta la sua vita era consistita nel predisporre la via a un Altro: ‘bisogna che lui cresca e io diminuisca’. Accoglierne il mistero non significa però saperne in anticipo l'esito. Significa, più semplicemente ma più sinceramente, stare disposto ad accogliere comunque tutta l'esperienza umana e spirituale che quel mistero comporta nel suo dispiegamento. Così Giovanni, in carcere, alla fine della vita, riformula la stessa domanda con un risvolto angosciante: mi sono forse illuso? È lui quel Tu che tutti attendono e che io sono stato chiamato a svelare al mondo?

Coloro che assistono al miracolo per la vedova di Nain proclamano pieni di stupore: “Un grande profeta è sorto tra noi “ e “Dio ha visitato il suo popolo”, richiamandosi evidentemente al profeta Elia, di cui la prima lettura di oggi riporta un identico miracolo. Ma Gesù non è semplicemente un grande profeta e quel miracolo è soltanto allusivo di quella ‘potenza’ di salvezza che si compirà con la sua morte e risurrezione. Il miracolo è inserito nella compassione che Gesù vive, compassione a cui spesso il racconto evangelico rimanda come segno della grandezza dell’amore del Padre per tutti i suoi figli, di cui Gesù è il Testimone per eccellenza. La compassione di Gesù rimanda al desiderio che lavora il suo cuore in vista dello svelamento del segreto di Dio nel suo amore per gli uomini (cfr Lc 12,50; 22,15) che apparirà in tutto il suo splendore nella sua morte e risurrezione. I cuori, per aprirsi all’accoglimento del segreto di Dio per loro, sono invitati sentire quella compassione di Gesù per loro, per la loro umanità, per la loro storia. Compassione che, a sua volta, sarà provata dai cuori quando guarderanno a Colui che hanno trafitto. L’incontro dei due sentimenti di compassione genera il processo della salvezza.

Gesù chiude la sua risposta agli inviati del Battista con l’affermazione: ‘beato è colui che non trova in me motivo di scandalo’, che costituisce la firma apposta da Gesù in calce alla vita ed alla persona del Battista. Il volto di Dio lo vedono coloro che non si scandalizzano della sua piccolezza quando, ormai sfigurato sulla croce, allorché nemmeno d'uomo aveva più l'aspetto, accolgono tutto il mistero di Dio nel suo amore agli uomini, vedono cioè la sua scelta di essere Dio per gli uomini, non di sembrarlo soltanto.

La domanda di Giovanni Battista non è che l’eco dell'angoscia di Gesù al Getsemani e al Calvario dove la sua piccolezza raggiunge la punta massima, ma dove si rivela in tutto il suo splendore la grandezza di Dio. E la domanda del Battista, come quella che resta nascosta nel cuore di coloro che assistono al miracolo di Gesù, è anche la nostra domanda di credenti che sempre ci troviamo confrontati, lungo il percorso della nostra vita, con il mistero della scoperta del vero Volto di Dio. L'esito dell'incontro con Dio non è mai scontato. L’esperienza che siamo invitati continuamente a fare va sempre al di là di quello che ci immaginiamo o ci aspettiamo: in gioco è l'incontro con il Dio Vivente e non con un simulacro di Dio che risulterebbe soltanto la proiezione delle nostre pretese. Ma tutto questo esige l'entrata nella piccolezza di Dio a cui risponde, specularmente, la piccolezza dell’uomo che trova vita, se la perde, che vive se è capace di morire, che si ritrova libero se rinnega se stesso, ecc., al seguito ‘del più piccolo nel Regno dei Cieli’, cioè Gesù.

Il movimento interiore del Battista esprime la traiettoria dello stesso movimento che caratterizza il nostro cuore. Anche noi siamo nella sua condizione e, come lui, per vivere fino in fondo la nostra vocazione all'umanità, abbiamo bisogno di affidarci all'Inviato di Dio e di imparare a modellare le nostre attese sul compimento effettivo delle opere di Dio che in Gesù si manifestano.

Quando Paolo, nella sua lettera ai Galati, si richiama alla potenza di rivelazione del vangelo che ha cambiato la sua vita  vuole come invitarci ad attendere la manifestazione del Salvatore al nostro cuore finché essa diventi radice di letizia. Solo allora non scambieremo più le nostre opere con la pretesa di giustizia o la nostra scienza con la rivendicazione di potere e sapremo rapportarci a tutti nella condivisione di quella letizia che fa conoscere a tutti l'amore salvatore di Dio. L’inizio dell’accoglimento dell’amore salvatore di Dio è dato dallo stupore e dal timore che la gente prova nel vedere le azioni di Gesù, nel notare i suoi sentimenti. E questo sarebbe uno degli esiti della lettura del racconto evangelico per i nostri cuori.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo Ordinario

 

XI  Domenica

(16 giugno 2013)

 

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2 Sam 12,7-10.13;  Sal 31;  Gal 2,16.19-21;  Lc 7,36-8,3

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Ma la Sapienza è stata riconosciuta giusta da tutti i suoi figli” (Lc 7,35) così l’evangelista introduce il racconto dell’incontro singolare e toccante della peccatrice con Gesù, il quale si era appena descritto come “un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori”. Lei fa parte del numero di quei figli che danno lode alla sapienza riconoscendo i segreti di Dio.

Due sono gli episodi narrati nei vangeli a proposito di una unzione di Gesù da parte di una donna. Uno, riportato da Luca, nella casa di un fariseo, per mano di una donna peccatrice che piange sui piedi di Gesù e li asciuga con i suoi capelli e li cosparge di olio profumato insieme ai suoi baci. L’altro, a Betania, poco prima della passione: Matteo e Marco riferendo di una donna che versa sul capo di Gesù un olio profumato in casa di Simone il lebbroso;  Giovanni, invece, riferendo di Maria, sorella di Lazzaro, che unge con nardo genuino i piedi di Gesù, suscitando la reazione dei discepoli che gridano allo spreco.

Le accentuazioni del racconto di Luca sono assolutamente particolari. Anzitutto il contesto. Gesù accetta benevolmente l’invito a pranzo da un fariseo che mostra buoni sentimenti verso di lui. Il fariseo non sa bene con chi veramente ha a che fare e Gesù lo istruisce sul mistero del regno dei cieli attraverso la sua parabola e il suo comportamento. Il centro della scena in effetti non è dato dalle espressioni di amore della donna, pur così tenerissime e espresse come se il mondo attorno non esistesse nemmeno tanto era rapito il suo cuore, ma dal comportamento di Gesù che accoglie quelle manifestazioni, le sa leggere svelandone il dinamismo segreto e cercando di aprire il cuore all’amico fariseo. Il centro è dato dalla grazia dell’amore ricevuto, dall’amore di Gesù che ha toccato e sanato il cuore della donna peccatrice, secondo la verità proclamata dalle parole del canto al vangelo: “Dio ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10). È la scoperta di una vita! Lei ne ha fatto esperienza viva e tutti i suoi gesti, semplici e splendidi, rivelano proprio quell’esperienza e a questa Gesù richiama il fariseo. Il dramma dell’uomo è dato dal fatto che si può nascondere all’amore del Signore sotto il manto della propria millantata giustizia.

Quando Gesù racconta la sua parabola per illustrare al fariseo l’agire di Dio, è come se ricordasse che l’uomo non può dare in cambio a Dio qualcosa per saldare il suo debito. Non può dare nulla, ma il suo amore sì. E l’amore è più grande tanto più grande è la coscienza del proprio debito, perché Dio condona proprio tutto il debito. Tra l’altro, l’episodio sembra rispondere all’accusa verso Gesù che è ‘un beone e un mangione, un amico di pubblicani e di peccatori’. Sì, si tratta di quel ‘beone e mangione’ ma che conosce i segreti di Dio, che attende i cuori al varco e che svela a tutti la misericordia perdonante di Dio, perché questa è la sua gloria: vedere l’uomo riconciliato con Lui, convinto dal suo amore. L’esperienza appare sicuramente desiderabile, ma non è affatto scontata, tanto è vero che i pensieri del cuore degli uomini sembrano muoversi in altre direzioni. Tutto il racconto del vangelo mostra la difficoltà per gli uomini di accogliere la via di Dio. Ma non esiste un’altra via di Dio; la via è proprio Gesù, perché svela in verità il volto di Dio, dandoci la Sua vita, che è tutta la nostra vita.

Solo l’episodio raccontato da Luca riporta il particolare delle lacrime e s. Ambrogio suggerisce: “Proprio per questo, forse, Cristo, non ha lavato i propri piedi, affinché noi glieli laviamo con le lacrime. Lacrime benedette, che non soltanto possono lavare la nostra colpa, ma anche bagnare i piedi del Verbo celeste, affinché i suoi passi abbondino dentro di noi”. Le lacrime non parlano soltanto della vergogna del nostro peccato, ma del desiderio di Dio che ha toccato il nostro cuore; parlano della bellezza del nostro cuore che è fatto per Dio e per rispondere al suo amore. Quando il mondo scompare, quando anche l’io non è più ingombrante, allora il cuore sta solo con il suo Signore e sa che può star lì perché il Signore si è fatto solidale con la nostra umanità peccatrice. Ed è per questo che quando ritorna alla vita quotidiana, un cuore siffatto non custodisce semplicemente in sé la grazia dell’incontro, ma si fa memoria vivente di quell’amore misericordioso per il mondo.

La frase finale pronunciata da Gesù : “La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!” si carica allora di un significato potente. La fede ha a che fare con l’esperienza dell’essere perdonati, del vedere la propria verità di peccatore, senza accampare ragioni di sorta, davanti a un Dio che ti circonda della sua benevolenza, che non aspetta altro che di tirarti a sé. Tutto il mondo circostante (pensieri, giudizi, eventi, persone) non ha più alcuna presa sul cuore. Il perdono ricevuto non semplicemente acquieta ma ridà dignità nuova per vivere nella grazia di quel perdono.

La donna non proferisce parola alcuna; non ne ha bisogno. È tutta nei suoi gesti. Il suo cuore gode della beatitudine descritta dal salmo responsoriale: “Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato. Beato l’uomo a cui Dio non imputa il delitto e nel cui spirito non è inganno”. Gregorio Magno annota che quella donna non poteva avere alcuna vergogna esteriore tanto era assorta nella sua vergogna interiore. Il fariseo non interviene per allontanarla perché non infastidisca l’ospite, in quanto si è reso conto dell’accondiscendenza silenziosa e mite di Gesù verso di lei. Lei non vede nessun altro se non Gesù; anzi, vede solo i suoi piedi, si è rannicchiata ai suoi piedi, piange e asciuga e bacia e unge di profumo i suoi piedi. In quei gesti passa tutta la sua anima; non ha bisogno di alcuna parola, di alcun sguardo: sente il cuore di Gesù come lui sente il suo. La scena è così potente che s. Ambrogio può interpretarla come immagine della Chiesa che risponde all’amore del Cristo. Nell’offerta del suo amore la Chiesa è peccatrice non perché ‘semper reformanda’, ma perché, come Cristo assume l’aspetto del peccatore, così la Chiesa prende la figura della peccatrice: è la Chiesa che ama in quella donna; è la Chiesa che ama in Paolo, che ama in Pietro, che ama nei suoi santi.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo Ordinario

 

XII  Domenica

(23 giugno 2013)

 

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Zc 12,10-11; 13,1;  Sal 62;  Gal 3,26-29;  Lc 9,18-24

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Il mistero della persona di Gesù non viene mai meno. Nonostante tutte le sue spiegazioni e nonostante la confessione, pur sincera, degli apostoli, quel mistero permane, come permane ancora per noi sia nel suo fascino sia nella sua insondabilità. Gesù si avvicina gradualmente al cuore dei suoi apostoli. Prima chiede: “Le folle, chi dicono che io sia?” e poi: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Matteo colloca l’episodio a Cesarea di Filippo, Marco nel viaggio di Gesù a Gerusalemme, Luca è il solo ad annotare: “…mentre Gesù si trovava in un luogo appartato a pregare e i discepoli erano con lui…”. Come a sottolineare: è da dentro la preghiera che scaturiscono domanda e risposta, perché le domande e le risposte vere non sono curiosità intellettuali ma riguardano la verità di cui ha bisogno il cuore per vivere e solo nella preghiera il cuore può lambire quella verità. Per Gesù, le domande nascono dalla volontà di fedeltà al Padre e nascono nella preghiera perché qui si esprime tutto il contenuto di intimità che quella volontà di fedeltà comporta. Così è per i discepoli, con la differenza che per loro, che non conoscono ancora quella intimità con il Padre, c’è bisogno prima di vedere come prega Gesù, di restare affascinati dalla intensità della sua preghiera, per desiderare a loro volta la stessa cosa. E anche per loro, la risposta scaturisce da quel contesto di preghiera partecipato: tu sei “il Cristo di Dio”, come a dire: tu sei Colui che viene da Dio, che ci sveli il volto di Dio, tu sei il Messia. Ma Gesù sa fin troppo bene che dietro allo slancio del cuore, non c’è ancora tutta la loro mente, non ci sono ancora tutte le loro energie interiori perché i misteri di Dio hanno bisogno di tempo per conquistare l’uomo, che non si rassegna mai a perdere le sue ‘idee’ di Dio.

La liturgia accompagna la rivelazione da parte di Gesù della sua passione con il brano di Zaccaria: “Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a me, colui che hanno trafitto”, che Giovanni sfrutterà nel suo racconto (Gv 19,37). Il misterioso ‘trafitto’ della visione profetica richiama Gesù che annuncia ai suoi apostoli quello che gli accadrà a Gerusalemme. Nel racconto parallelo di Matteo, Pietro rifiuta questa rivelazione e viene aspramente rimproverato da Gesù: “Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”. Pietro ha voluto mettersi davanti a Gesù, ma Dio, secondo la testimonianza di Es 33,20-23, si può vedere solo di spalle. Il che significa: solo accettando di camminare per dove Dio indica lo si potrà vedere in verità. E ancora: solo disponendoci a praticare la sua parola si può scoprire la verità della promessa di vita che la sua parola comporta. Solo stando dietro il Maestro si potrà scoprire il Volto di Dio in verità nel suo amore per gli uomini.

Quando Gesù, subito dopo, invita i discepoli a rinnegare se stessi, prendere la croce e seguirlo, non fa che estendere a tutti il rimprovero rivolto a Pietro. Potremmo intendere le cose così. Pietro, nel rimproverare Gesù, aveva probabilmente temuto per sé. Se Gesù, il Messia, avesse dovuto subire tutti quei tormenti, certamente sarebbe svanito il prestigio dell’essere ‘compagno’ del Messia. E allora che ne sarebbe stato di lui? Il ‘rinnegare se stessi’ vale in rapporto al mistero di Dio che in Gesù si fa prossimo agli uomini per la potenza del suo amore tanto da far scaturire la vita proprio là dove gli uomini mai la cercherebbero. Se gli uomini pensano in prospettiva mondana come potranno vedere i segreti di Dio? La rinuncia a ogni prospettiva mondana è la condizione per accogliere il mistero di Gesù che sulla croce rivela lo splendore dell’amore, motivo di ogni rinuncia a qualsiasi cosa che non sia collegabile o derivante da quell’amore. D’altronde qui risiede tutta la dignità della vita. Il portare la croce non si riferisce primariamente alla fatica del vivere, ma alla condizione perché la fatica del vivere risulti fruttuosa: la rinuncia ad ogni prospettiva mondana ci apre alla rivelazione dell’amore di Dio nella nostra vita, amore che possiamo cogliere in tutto il suo splendore proprio nella croce di Gesù. Seguire Gesù significa essere partecipi di questa rivelazione fino a viverla nel concreto della propria vita per dare spazio alla stessa dinamica di amore.

Un esempio dell’immensità di orizzonte e quindi della sfida che comporta per l’uomo la verità che viene da Dio ci è riportato dal brano della lettera ai Galati: “Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”. Quale sfida per l’uomo! Eppure quella verità fa parte dei segreti di Dio svelati all’uomo da Gesù. Nell’accogliere quei segreti sperimentiamo l’intensità e la profondità di quell’amicizia con l’uomo che Gesù ci ha offerto da parte di Dio. Tra il desiderio del cuore e l’accoglimento del mistero di Gesù si pone con tutto il suo peso la sfida di Dio che spesso si presenta debole, disprezzato, capace di mettersi nelle mani degli uomini per essere vilipeso e condannato. I comandamenti del Signore, rispetto alla sapienza del mondo che pervade la nostra carne, non hanno spesso quella stessa risonanza, quella per la quale non ci sentiamo attirati, ma come impauriti, respinti?

I discepoli accettano con gioia Gesù, ma faticheranno molto ad accettare la sua passione e morte. Accettare la realtà di Dio non è così agevole per l’uomo, perché l’uomo non ha mai abbandonato la ‘pretesa di bene’ dimenticando che il bene è tale solo se rivela Dio. Così il mistero di Gesù si riflette nel mistero della vita del discepolo di Gesù. Ma se il discepolo, oltre allo slancio del cuore, avrà la pazienza di misurare le sue ‘idee’ fino ad accantonarle pur di accogliere la verità che viene da Gesù, a dispetto di ogni altra aspettativa, allora incomincerà a godere di quella ‘amicizia’ che lo mette a parte dei segreti di Dio. E una volta che si sente custodito in quella offerta di amicizia, non basterà il mondo intero a dissuaderlo, pur sapendo che sarà proprio la ‘debolezza’ di Dio a custodirlo e non la sua forza.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo Ordinario

 

XIII  Domenica

(30 giugno 2013)

 

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1 Re 19, 16.19-21;  Sal 15;  Gal 5,1.13-18;  Lc 9,51-62

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Dal momento che suoneranno dure le parole di Gesù ai nostri orecchi, il canto al vangelo le introduce con il riferimento ai sentimenti del giovane Samuele e dell’apostolo Pietro: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta: tu hai parole di vita eterna” (1Sam 3,9; Gv 6,68). Se già ci sono sembrate perentorie le condizioni di discepolato per Eliseo rispetto al profeta Elia, con Gesù esse si faranno ancora più esigenti.

Con il brano evangelico di oggi inizia la lunga sezione della salita di Gesù a Gerusalemme (9,51-19,28). Nella descrizione di Luca il momento è così rivelativo del mistero della persona di Gesù che la narrazione assume toni solenni e del tutto speciali anche nel linguaggio. Noi leggiamo: “Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. ... non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme”. Letteralmente invece suona: “Mentre si compivano i giorni della sua assunzione (termine che può indicare sia la morte che l’ascensione di Gesù), indurì il suo volto per incamminarsi verso Gerusalemme e mandò davanti al suo volto degli angeli … non vollero riceverlo, perché il suo volto stava seguendo il cammino verso Gerusalemme”.

Per Gesù è arrivato il momento di salire a Gerusalemme per dare compimento alla sua missione. Aveva già preannunciato ai discepoli la sua passione; li aveva come consolati con l’evento della trasfigurazione, sapendo che non avrebbero retto allo scandalo della sua condanna; aveva cercato di istruirli sui misteri di Dio che con lui si compivano. Ora è venuto il momento di portare a compimento il disegno di Dio, come non sopportasse più alcuna dilazione. La decisione di Gesù, sottolineata con l’espressione tipica del profeta Isaia ‘rendere la faccia dura come pietra’ (Is 50,7), mostra sia la realizzazione della parola del profeta che la fedeltà di Gesù al volere del Padre, che così, con quel che avverrà a Gerusalemme, ha voluto svelare tutto il suo amore agli uomini.

Da dentro quella fedeltà vanno compresi sia il rimprovero a Giacomo e Giovanni sia le condizioni esigite da Gesù per seguirlo. La fedeltà di Gesù è la fedeltà a un amore che non si lascia mai distogliere dal suo obiettivo perché è il segreto di Dio che deve essere rivelato agli uomini: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito” (Gv 3,16). Gesù compie la fedeltà dei profeti, che non potevano ancora conoscere in tutta la sua consistenza quel segreto e rimprovera i discepoli che volevano imitare il profeta Elia (cfr. 2Re 1,10-12). E quando esige dai discepoli certe condizioni per seguirlo, non fa che trasmettere loro il principio della sua stessa fedeltà, che si fa urgenza di annunciare il regno di Dio ormai giunto, cioè urgenza di svelare il suo segreto, il segreto stesso di Dio (perché in questo consiste la missione degli apostoli!). Di fronte alla scoperta di tale segreto, non c’è bene o valore umano che possa prevalere.

La condizione prima è accettare il modello di Gesù che si definisce come Figlio dell’uomo che non ha dove posare il capo. Mi piace riportare il commento di s. Chiara di Assisi: “Cristo non ha dove posare il capo e quando lo reclinò sul suo petto, fu per rendere l’ultimo respiro” (FF 2864). Come a dire: chi cerca il suo riposo altrove, non segue Cristo; chi cerca il suo riposo prima di dare la sua anima, non segue Cristo; chi cerca il suo riposo nel vivere di quell’annuncio del segreto di Dio è beato, perché partecipa alla stessa fedeltà di Gesù. L’unico luogo di riposo del capo di Cristo è il volere del Padre e il volere del Padre è l’amore sconfinato agli uomini. Dello splendore che deriva da quell’amore manifestato da Gesù parla l’urgenza che attraversa il brano di oggi.

Così, l’espressione del salmo: “Il mio Signore sei tu, solo in te è il mio bene  va letta come dichiarazione di un amore: posso avere tante cose, ma se non ho te, che vale la vita? L’antica versione latina cantava: ‘bonum mihi non est sine te’. Nessun presunto bene è bene per me senza di te! Nessun bene è tale se non contribuisce a manifestare quel segreto di Dio, il suo amore agli uomini. Se l’amore è esigente, lo è in proporzione della potenza e della qualità di vita che dischiude, nella fedeltà di un agire che non si lascia più distogliere dal perseguirlo sempre e comunque perché tutti ne godano e finalmente ci si possa riposare.

Quando Gesù, in un crescendo di espressioni perentorie che illustrano le condizioni per seguirlo, afferma: “Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio” rivela una grande verità per il cuore dell’uomo. L’uomo, è vero, non è degno del Regno, ma adatto, sì. Il che significa che la misura del cuore dell’uomo è proprio il Regno. Il dramma dell’uomo consiste proprio in un giudizio cattivo su di sé, che nasconde un cattivo giudizio su Dio: non ci si ritiene adatti ai misteri di Dio (At 13,46)! E quando l’uomo non accoglie umilmente questa verità si fa violenza e la eserciterà su tutti; sarà in preda del tormento della morte e il mondo è prostrato dagli effetti di tale tormento.

Per questo Paolo nella seconda lettura parla di ‘libertà liberata’. È la libertà frutto dell’amore, che non teme di sottomettersi ai fratelli pur di non essere distolti dalla partecipazione al segreto di Dio. La colletta ci fa pregare: “O Dio, che ci chiami a celebrare i tuoi santi misteri, sostieni la nostra libertà con la forza e la dolcezza del tuo amore, perché non venga meno la nostra fedeltà a Cristo nel generoso servizio dei fratelli”, dove ‘servizio’ non sta semplicemente per azioni buone ma per atteggiamento del cuore, del cuore di un uomo che ‘ha indurito il suo volto’ per non mancare lo scopo della sua vita.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo Ordinario

 

XIV  Domenica

(7 luglio 2013)

 

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Is 66, 10-14;  Sal 65;  Gal 6, 14-18;  Lc 10, 1-12. 17-20

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Il profeta Isaia aveva annunciato la prosperità di Gerusalemme, descrivendo l’invasione di consolazione che l’avrebbe sommersa. Parlava della consolazione che annuncia il canto al vangelo: “La pace di Cristo regni nei vostri cuori; la parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza” (Col 3,15.16) e che la missione dei 72 discepoli preannunciava essere l’eredità di tutte le genti. Il numero di 70 o 72 si riferisce appunto al numero delle nazioni secondo la tradizione ebraica di Gn 10 (70 per il testo ebraico, 72 per il testo greco).

Tre sono i passaggi significativi del brano: prima Gesù istruisce i discepoli, poi accoglie la loro gioia a missione compiuta e alla fine (purtroppo questo terzo passaggio manca nella proclamazione liturgica) svela la ragione profonda e della missione e della gioia con la sua preghiera di lode al Padre.

Il brano inizia con l’annotazione: ‘dopo questi fatti’, con l’allusione alle condizioni della sequela di Gesù presentate prima. Chi sono quei settantadue discepoli che il Signore invia davanti a sé nel suo cammino verso Gerusalemme? Sono coloro che, avendo incontrato Gesù, al pari di lui, non fanno riposare il loro capo se non nel volere di Dio che cerca la salvezza degli uomini; sono coloro il cui riposo consiste nella pace che portano nel nome del Signore.

Gesù li invia due a due. Come possono annunciare la pace del Regno se non la fanno vedere come compiuta nella loro relazione fraterna? Come possono invitare a condividere insieme a loro la pace del Signore che si fa nostro prossimo se quella pace non è diventata radice di benevolenza tra loro, segno dello splendore di Dio in mezzo a loro?

Gesù li invita a pregare perché Dio non si stanchi di far grazia di sé attraverso coloro che hanno trovato nella pace del vangelo il riposo del loro cuore. Il fatto di far pregare allude ad una rivelazione. Vuol dire che nell’annuncio del vangelo è Dio stesso che si approssima all’uomo e questo è il mistero che, se ha conquistato il cuore degli annunciatori, conquisterà anche quello degli ascoltatori. Se questo è vero, vuol dire che Dio ritiene l’uomo suo compagno ("Siamo infatti collaboratori di Dio", 1Cor 3,9). È una cosa straordinaria! Con la rivelazione di Gesù, che svela, mentre compie, il supremo desiderio di Dio di stare dalla parte degli uomini, possiamo scorgere all'opera nel mondo le segrete intenzioni di Dio nei confronti delle sue creature. Parlare di annuncio evangelico, di redenzione, di salvezza, di grazia, significa alludere a questa opera di riconciliazione in atto nella storia, come dice Gesù: «Il Padre mio opera sempre e anch'io opero» (Gv 5,17). Opera appunto la riconciliazione in Gesù, nostra pace ("Egli infatti è la nostra pace", Ef 2,14). I discepoli di Gesù sono chiamati a concorrere alla realizzazione di questa opera. In questo senso dobbiamo imparare a giudicare ogni cosa in base alla convergenza verso questo supremo scopo divino. Tra l’altro, imparare a diventare coscienti di questa realtà significa passare dal livello psicologico a quello spirituale, diventare compagni di Dio.

Li invia come agnelli in mezzo ai lupi. Come dicesse: non cercate di imitare i lupi, perché avverrà come per il Figlio dell’Uomo, l’Agnello di Dio, che ha rivelato lo splendore dell’amore di Dio per gli uomini. Stare agnelli comporta la rivelazione di quel mistero d’amore. Ma non temete: la debolezza di Dio è più forte della forza degli uomini!

A missione compiuta, i discepoli tornano pieni di gioia. La letizia è il segnale della partecipazione all’opera di Dio di cui Gesù ci fa corresponsabili. Una prima ragione di gioia sta nella caduta di satana dal cielo. Il che significa: il demonio non ha più un potere superiore all’uomo. Cessa la sudditanza, anche se inizia la lotta, che si può vincere nel nome di colui che l’ha ormai detronizzato con l’annuncio evangelico: “è vicino a voi il regno di Dio”. La forza del nemico sta nell’intimorire, ma a chi non gli presta orecchio non fa alcun danno. Gesù però conferma la loro gioia sulla base del fatto che “i vostri nomi sono scritti nei cieli”. Come a dire: non rallegratevi di aver potuto fare cose straordinarie, impensate e impensabili fino ad ora, ma rallegratevi di godere del segreto di Dio, di stare solidali con il suo sentire di benevolenza verso gli uomini. L’annuncio si gioca infatti sulla potenza del contagio della letizia di cui fanno esperienza i discepoli e di cui Gesù svela la vera ragione: i vostri nomi sono scritti nei cieli, avete parte al ‘far grazia di sé all’uomo da parte di Dio’, partecipate al suo amore per gli uomini.

I discepoli impareranno l’estensione e la natura di quella letizia nel seguire il loro Maestro che sta andando a Gerusalemme dove subirà la passione. Lo ricorda s. Paolo nella seconda lettura di oggi quando proclama: “Fratelli, quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). Come a dire: rispetto a quell’amore, rivelato dall’alto e colto nel seguire il Signore Gesù, non c’è nulla nel mondo che meriti la preferenza e non c’è nulla in me che può trovare adeguato compimento a partire dal mondo. La letizia evangelica è una letizia esigente.

Ma la vera radice di quella letizia è rivelata da Gesù quando firma la gioia dei discepoli con la sua esultanza: “Ti rendo lode, o Padre ... perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza” (Lc 10,21). È all’intimità di quella rivelazione che il discepolo attinge per fondare le ragioni di un vivere che si strutturano come radici di umanità nuova. E la sua forza sta tutta nella fiducia delle parole di Gesù: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno” (Lc 12,32)! Non è conquista nostra, non attiva meccanismi di rivendicazioni o esibizioni, non comporta grandezze umane che dividono; solo una gratitudine immensa, uno stare solidali con i sentimenti di benevolenza di Dio per tutta l’umanità.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo Ordinario

 

XV  Domenica

(14 luglio 2013)

 

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Dt 30, 10-14;  Sal 18;  Col 1, 15-20;  Lc 10, 25-37

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L’incontro dello scriba con Gesù è presentato nei tre sinottici con queste rispettive domande: “qual è il grande comandamento?” (Mt 22,34-40); “qual è il primo di tutti i comandamenti” (Mc 12,28-34); “Cosa devo fare per ereditare la vita eterna?” (Lc). Noi potremmo riformulare le loro domande pressappoco così: qual è il comandamento che dà vita mentre si eseguono tutti gli altri? Chi devo amare?

In questo modo risalta meglio la posta in gioco e la risposta di Gesù con la parabola del buon samaritano acquista tutta un’altra risonanza. La conclusione della parabola restituisce in effetti allo scriba l’ottica giusta, quella di Dio: non si tratta di sapere chi sia o non sia il prossimo meritevole del mio amore, ma di agire da prossimo con chiunque, anche con i nemici o gli avversari. “Va’, e anche tu fa’ così”, come il buon samaritano che si è mosso a compassione vedendo un uomo ferito sulla strada.

Il mistero della parabola però va oltre, perché le parabole parlano di Dio e non semplicemente dell’uomo. Il buon samaritano è Gesù, che ha lasciato le 99 pecore (gli angeli) al sicuro ed è venuto a cercare la pecora (l’uomo) perduta. Così, l’agire in compassione fa ereditare la vita eterna perché assimila a Dio, rende simili al Cristo. È la solidarietà con i sentimenti di Dio che la parabola proclama, solidarietà per la quale l’uomo davvero è attirato dall’amore di Dio che è chiamato a far risplendere. Facendosi prossimo di chiunque il discepolo di Gesù annuncia che Dio è Padre e ama tutti i suoi figli.

È il mistero di ogni parola di Dio che il brano del Deuteronomio illustra così: “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. ... Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica”. Cosa significa che la parola del Signore, il suo comandamento, è vicino a noi? Almeno due cose: 1) non è qualcosa di complicato o assurdo o inarrivabile, ma accessibile a noi; 2) è adatto a noi, corrisponde al nostro cuore, nel senso che fa vivere il cuore, ne compie gli aneliti profondi. La difficoltà per noi deriva dal fatto che il comandamento non è evidente e la promessa di vita che racchiude si rivela solo a chi lo pratica, come dice sempre il brano appena citato: la parola del Signore ti è vicina perché tu la metta in pratica. Davanti alla parola dovremmo domandarci: qual è il mistero che nasconde, di cui diventare partecipi, mettendola in pratica? Vale a dire: il comandamento non rivela il suo segreto se non praticandolo. Non lo puoi praticare se non lo accogli da dentro un’alleanza col tuo Dio, ma non lo puoi comprendere se non praticandolo e così cogliere il gusto di quell’alleanza con Dio che si era prima appena percepita. L’amore di Israele per il suo Dio è un tema tipico del libro del Deuteronomio, assente negli altri libri del Pentateuco. Il brano di oggi chiude praticamente il libro del Deuteronomio e tutto il Pentateuco. Se il vangelo lo riprende è come se riprendesse in sintesi tutta la Legge mostrandone il compimento, come giustamente dimostra di conoscere lo scriba che interroga Gesù.

Ad avvalorare la percezione della verità della parabola la seconda lettura della lettera ai Colossesi ci ricorda che tutte le cose sono state create e tutte le cose sono state riconciliate ‘per mezzo di lui e in vista di lui’. Creazione e redenzione si corrispondono. Il che significa che la struttura intima del nostro cuore è misurata sui sentimenti di Dio che Gesù svela e ci consente di vivere stando uniti a lui. Se Dio in Gesù si è fatto nostro prossimo, possiamo anche noi in Gesù farci prossimo di chiunque in modo che l’amore di Dio per tutti splenda. Significa ancora conferire alla parola evangelica non tanto la natura di ideale ma quella di radice. In altri termini: se vogliamo conoscere cosa davvero vuole il nostro cuore in profondità non abbiamo che da riferirci a Gesù e alla parola di Gesù; se vogliamo realizzare i desideri profondi che portiamo, la dinamica da seguire per ottenere soddisfazione è quella mostrata dalla parola evangelica. Non sembra affatto scontato riconoscere la cosa, ma beato colui al quale è concesso vedere il mondo sotto questa angolatura.

Lo rivela anche il salmo 18 con il proclamare: “La legge del Signore è perfetta, rinfranca l’anima; la testimonianza del Signore è stabile, rende saggio il semplice. I precetti del Signore sono retti, fanno gioire il cuore; il comando del Signore è limpido, illumina gli occhi”. Come dicessimo: ho scoperto che la legge del Signore è perfetta perché rende noi perfetti rendendoci pieni di vigore; che è salda perché rende noi veri e saggi; che è retta perché ci fa giusti in letizia; che è limpida perché rende puro il cuore e gli occhi luminosi, ecc. La parola del Signore ristora l’anima, dà gusto all’intelligenza, gioia al cuore e luminosità agli occhi. Come a dire: è la parola del Signore, cioè la vita che deriva da lui, a costituire la fonte del ristoro (pace), del gusto (sapienza, senso), della gioia e della luminosità per i nostri cuori. E tutto questo si sperimenta accettando di condividere l’agire di Dio per gli uomini: farsi prossimo a tutti.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo Ordinario

 

XVI  Domenica

(21 luglio 2013)

 

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Gn 18, 1-10;  Sal 14;  Col 1, 24-28;  Lc 10, 38-42

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La lettura della Genesi ed il brano di Luca sono accomunati da un atteggiamento di fondo caratteristico: la sollecitudine. Abramo corre per onorare i suoi ospiti; Marta, presa dalla stessa sollecitudine, è tutta indaffarata nei molti servizi per un'ospitalità degna dell'illustre Ospite, mentre Maria, con lo stesso atteggiamento di sollecitudine anche se in modalità differente dalla sorella, è tutta presa dall'Ospite dal quale non stacca occhi e orecchi. Da dove scaturisce quella sollecitudine? Senza cogliere la radice di quella sollecitudine, difficilmente possiamo avvertire il mistero che questi testi illustrano.

Gesù intesse l’elogio di Maria per rimproverare Marta? Cosa significa: ‘non le sarà tolta’? Semplicemente, che Gesù l’avrebbe lasciata stare ai suoi piedi e non l’avrebbe comunque importunata invitandola ad aiutare la sorella nel servizio? Il vangelo non riporta semplici annotazioni di cronaca quotidiana.

Il fulcro dell’episodio sta appunto in quel non le sarà tolta. L’allusione è al desiderio profondo del cuore dell’uomo che è fatto per Dio. L’elogio di Gesù si riferisce ad un tempo in cui sarà Lui stesso a servire i suoi discepoli (cfr. Lc 12,37). Ciò che non verrà mai meno e di cui si potrà godere in assoluto, quello è la parte buona, l’unica cosa necessaria, quello di cui c’è bisogno. In primo piano c’è Dio che viene incontro all’uomo, Dio che ristora l’uomo. La figura di Abramo, nella tradizione ebraica, allude alla medesima verità. Abramo si era lamentato con Dio perché, appena circonciso, dolorante, non avrebbe potuto soddisfare il comandamento dell’ospitalità e allora Dio stesso decide di fargli visita. La figura di Maria ai piedi di Gesù apre alla stessa visione. Ma quella visione è percepibile se il cuore avverte la natura del suo ascoltare, tutto teso a godere la verità dell’amore del suo Dio che la nutre e la ristora. Così, la sua figura è figura di ogni discepolo, la figura di ogni lettore/ascoltatore della Parola di Dio.

Quando Gesù fa l’elogio di Maria, rivela la natura vera del servizio di Marta. In effetti, due sono gli aspetti dell'ospitalità: la sollecitudine nel servizio e l’intimità con l'ospite. Dei due, la parte migliore è l'intimità, nel senso che è l'intimità la forza e la finalità della sollecitudine, la quale serve a dare concretezza all'intimità. Tutto converge verso l'intimità. Ma la domanda vera per noi può essere: posso godere l'intimità senza esser preso dalla sollecitudine? Nel rapporto tra le due sorelle, che simboleggiano tutta la chiesa considerata unitariamente nelle sue molteplici manifestazioni di doni e carismi, Maria deve ringraziare Marta: può stare con il Signore senza che il Signore sia privato del dovuto onore; e Marta può ringraziare Maria: può onorare il suo Signore senza che il Signore sia lasciato solo.

In realtà la suddivisione dei ministeri non comporta lo spezzettamento dell'unica cosa necessaria, che resta sempre la medesima per tutti, in tutte le circostanze. Quando gli apostoli hanno scelto di dedicarsi al ministero della parola e di affidare ad altri il servizio delle mense, nel racconto degli Atti degli apostoli, non hanno scelto di fare Maria piuttosto di Marta. L'esempio testimoniale dell'unica cosa necessaria è dato da Stefano, incaricato del servizio delle mense, che aveva il cuore rapito nella visione del suo Signore. L’unica cosa necessaria non è l'opera migliore fra altre; è di altra natura: il possesso di quell'unica cosa necessaria rende fruttuosa ogni opera di servizio. Fruttuosa, vale a dire capace di far sbocciare l'opera eseguita in frutto di intimità. Come a dire, ancora, che il frutto dell'agire bene non è semplicemente la virtù, ma la visione: aprire gli occhi del cuore alla conoscenza del Signore, all'unione con il Signore che davvero ristora il nostro cuore. E se il cuore è ristorato, allora, nel suo servizio ai fratelli, lascerà intravedere 'quanto è buono il Signore', quanto è desiderabile il suo possesso. In realtà, il senso stesso della sollecitudine del servizio consiste nel permettere agli altri di desiderare l’intimità col Signore, che di quel servizio è motivo e scopo.

Quando di Abramo si descrive la sua sollecitudine per gli ospiti, quello che il testo vuol far vedere è l’accondiscendenza di Dio per il suo servo, capace di tener fede alle sue promesse e di garantire al suo servo la verità della sua conoscenza, per lui e per i suoi discendenti. Le antiche leggende ebraiche non fanno che sottolineare questo aspetto nella fantasia dei particolari del racconto. Abramo è visitato da Dio il terzo giorno dopo la sua circoncisione, segno dell’obbedienza al suo Dio, quando è ancora sofferente. Il caldo era insopportabile perché nessun viandante passasse a disturbare Abramo. Ma la cosa aveva reso Abramo molto triste perché se non capitava nessuno non avrebbe potuto esercitare alcuna ospitalità.  Dio stesso decide allora di fargli visita e non vuole che nemmeno si alzi per venirgli incontro perché era sofferente, dicendogli, anzi, che i suoi discendenti, già all’età di quattro o cinque anni, staranno seduti nelle scuole e nelle sinagoghe dove Lui dimorerà. Ma quando arrivano gli angeli in veste di uomini, Abramo supplica il Signore di permettergli di andare loro incontro per offrire ospitalità, preferendola alla compagnia stessa della Sua Presenza. Tutti particolari che rivelano l’estrema accondiscendenza di Dio, percepita come la benedizione perenne sul popolo che da Abramo prende discendenza. E l’invito a Sara di impastare tre sea di farina (circa mezzo quintale, con la quale si sarebbe potuto sfamare un centinaio di persone!) allude all’altra donna del vangelo che impasta tre misure di farina con un po’ di lievito, simbolo appunto di Abramo che per la sua fede ha fatto regnare Dio in questo mondo.

Quando con l’orazione sui doni preghiamo: “ … ciò che ognuno di noi presenta in tuo onore giovi alla salvezza di tutti” intendiamo: sono graditi a Dio solo i doni che procedono e favoriscono la Sua conoscenza in questo mondo, nel concreto della storia quotidiana, retta dalla provvidenza di Dio per noi.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo Ordinario

 

XVII  Domenica

(28 luglio 2013)

 

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Gn 18, 20-21. 23-32;  Sal 137;  Col 2, 12-14;  Lc 11, 1-13

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La liturgia ci introduce oggi al mistero della preghiera. Vedendo pregare Gesù, i discepoli devono aver colto qualcosa del mistero della sua preghiera, tanto da indurli a desiderare intensamente la stessa cosa per loro. Quando Gesù risponde apre come una finestra sul suo mondo interiore e contemporaneamente la apre sul nostro mondo interiore. E insegna la preghiera del Padre Nostro. Se Gesù insegna il Padre nostro, vuol dire che ciò che rendeva singolare la sua preghiera era l’intensità di intimità con quel Padre di cui custodiva i comandamenti, di cui annunciava la prossimità, di cui svelava il volto, di cui mostrava la verità nell’amore all’uomo e di cui suscitava la nostalgia in questo mondo.

La profondità di tale rivelazione è svelata dalla preghiera di intercessione di Abramo. Il brano è introdotto dal pensiero del Signore: “Devo io tenere nascosto ad Abramo quello che sto per fare, mentre Abramo dovrà diventare una nazione grande e potente e in lui si diranno benedette tutte le nazioni della terra?”, secondo la proclamazione del salmo: “Il Signore si confida con chi lo teme: gli fa conoscere la sua alleanza” (Sal 25,14), che nel testo ebraico suona: “Il segreto (o l’intimità) del Signore è per quanti lo temono”. Abramo, che si sente polvere e cenere, può parlare al suo Signore da dentro l’alleanza che gli è stata offerta e alla quale ha aperto il suo cuore in tutta fiducia.

Quando intercede per Sodoma è come osasse richiamare il Signore alla sua dignità di giustizia e di misericordia, come a lui si era rivelato. Abramo sapeva che non erano bastati otto giusti per salvare l’umanità dal diluvio (nell’arca si  salvano  Noè e quelli della sua famiglia, otto in tutto). Nella sua intercessione si ferma dunque a dieci: se ci fossero dieci giusti nella città, come potrà il Signore distruggerla, proprio per riguardo a quei dieci? Ma l’umanità non ha dieci giusti, ne ha uno solo: quel Figlio di Dio fatto uomo, l’unico Giusto. Sarà per riguardo a lui che Dio abbandona la sua giustizia per mostrare la sua misericordia. Ogni preghiera si fa forte presso Dio per la forza di quel Giusto che costringe Dio alla misericordia. Sarà quel Giusto a mostrare il volto di misericordia del Padre.

La tradizione ebraica è unanime nel riconoscere ad Abramo la condivisione dei sentimenti di Dio tanto che sembra che il servo custodisca il senso dell’alleanza in favore di tutti i popoli in modo più sollecito dell’Altissimo. E in questo piace all’Altissimo. Negli antichi racconti su Abramo si fa notare che quando un uomo prega con devozione può star sicuro che la sua preghiera sarà esaudita, perché è detto: “Il desiderio degli umili tu sempre ascolti, Signore, disponi il loro cuore, fai attento il tuo orecchio” (Sal 10,17). Nessuno ha pregato con tale fervore come Abramo: “Lontano da te agire in questo modo, il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lontano da te!”. Quando l’Altissimo vide come intercedeva perché non distruggesse il mondo, lo lodò: “Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è stata versata la grazia” (Sal 45,3).

Nella tradizione cristiana si sottolinea costantemente che ogni nostra richiesta a Dio, se non può essere ricondotta ad una domanda del Padre Nostro, non sarà esaudita. E tutte le richieste confluiscono in una sola, come la conclusione della spiegazione di Gesù mostra chiaramente: “ ... quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!”. Raramente abbiamo coscienza nella nostra preghiera che questa sia la domanda essenziale. Probabilmente, perché non abbiamo né coscienza dell’urgenza che ci agita dentro né della confidenza di cui ci è dato l’accesso.     

L’invadenza dell’amico importuno fa pensare alla mancanza di ritegno della donna cananea (cfr. Mt 15, 28), all’insistenza della vedova presso il giudice disonesto (cfr. Lc 18,1-8). E dire che Dio esaudisce prontamente le suppliche dei suoi eletti, quando la verità della storia è lì a provare il contrario, come tutti ne facciamo amaramente esperienza, significa riconoscere che solo la richiesta di Spirito Santo sarà esaudita. Vale a dire, sarà esaudito l'anelito del cuore che non si accontenta delle cose che provengono da Dio, ma che cerca proprio Dio, la confidenza con lui. Allora, per le cose di cui abbiamo bisogno, prima che di richiesta, si tratta di affidamento: abbiamo fiducia che Dio dispone ogni cosa per il nostro bene.  Non possiamo pregare se non da dentro quell’alleanza di benevolenza di cui ci ha fatto dono. Fare la volontà di Dio significa prima di tutto fidarsi del proprio Dio, dare credito al suo amore e cercare di stare con Lui, non di avere i suoi doni. Se la preghiera è questo, allora non c'è preghiera che non venga esaudita. Dio cerca adoratori e amici, non semplicemente 'consumatori', 'utenti', 'fruitori', 'clienti', termini che ben si addicono a quanti ricercano prima di tutto le cose.

L’insistenza di Gesù: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto” allude alla fatica della preghiera che si muove su due direttrici, quella della profondità e quella dell’intimità. In funzione della profondità lavora la pazienza. Pregare costa fatica.  Diversamente da quanto ci si immagina, la preghiera, per diventare spontanea e forte, deve prima essere tenace. Non è così facile pazientare con il proprio cuore, accettare i suoi tempi, accettare i tempi di Dio, in tutta pace. Non è così agevole entrare nel proprio cuore per poterlo offrire, tutto, a Dio. In funzione dell'intimità invece lavora la sincerità. Non siamo mai sinceri davanti a Dio (ancor meno davanti agli altri e spesso davanti a noi stessi). Dove non c'è sincerità non c'è intimità e dove manca intimità l'incontro è freddo e banale. La sincerità dà ali alla preghiera. Imparare ad essere sinceri, fino in fondo, senza barare, è la credenziale migliore alla porta del cielo. E la sincerità migliore è data da un’intercessione del genere: “O Signore del mondo. So che non ho virtù o meriti che ti autorizzino a mandarmi in paradiso dopo la mia morte. Ma se è tua volontà mandarmi all'inferno in mezzo agli empi, sai che non sono fatto per intendermela con loro. Quindi, ti prego di portare fuori dall'inferno tutti i malvagi prima di spedirmi laggiù”.

La drammaticità della logica della preghiera (ottieni se chiedi, non necessariamente ciò che chiedi) è la drammaticità di una relazione d’amore, espressa proprio dalla preghiera di quel Giusto di cui viene detto: “Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì” (Eb 5,7-8).

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo Ordinario

 

XVIII  Domenica

(4 agosto 2013)

 

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Qo 1, 2; 2, 21-23;  Sal 94;  Col 3,1-5. 9-11;  Lc 12,13-21

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La risposta di Gesù all’uomo che gli chiedeva di usare la sua autorità per ottenere giustizia in una questione di eredità svela l’intenzione nascosta di tante nostre domande: cercare giustizia presso Dio nel nostro interesse non è forse un diritto? Ma tale domanda è evangelica? In altri termini: il cuore può trovare davvero soddisfazione? È fin troppo evidente che non si può vivere bene senza giustizia, ma quale giustizia assicura il vivere bene?

La riflessione sapienziale della prima lettura, tratta dal libro del Qoelet, lo evidenzia molto bene: tutto è vanità. Vale a dire: è fatica vana cercare nei beni di questo mondo la felicità. Il salmo responsoriale fa ben intendere che l’illusione non deriva solo dalla inconsistenza dei beni ma anche dalla fugacità del tempo: “Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore” (Sal 89/90, 11). Potremmo spiegare: chi confida nelle cose si percepisce eterno e l’ansietà rispetto ai beni della vita, con l’affanno per il cuore che porta, rivela la coda di paglia di un uomo di poca fede. Anche Gesù lo rimarca chiaramente e la risposta a quell’ansietà che divora e prostra il mondo si trova nelle parole riportate poco dopo il brano di oggi: “Cercate piuttosto il suo regno e queste cose vi saranno date in aggiunta” (Lc 12,31). Gesù l’aveva apertamente dichiarato: “Voi valete più di molti passeri” (v. 7); “quanto più degli uccelli valete voi” (v. 24), che pure Dio nutre; “quanto più farà per voi, gente di poca fede” (v. 28), se Dio si premura di vestire così splendidamente l’erba nel campo! L’illusione deriva dallo spostare la confidenza da Dio alle cose, con l’aggravante che l’affanno per le cose impedisce la solidarietà con i fratelli.

È quanto si deduce dalla risposta di Gesù che fa riformulare le domande in modo più pertinente. Che tipo di giudizio Gesù formula? Il suo giudizio non riguarda questo mondo, ma il mondo futuro, che però si gioca in questo mondo, come illustra anche la seconda lettura. L’uomo cerca i beni di questo mondo per vivere bene, ma – ricorda Gesù – il vivere bene non dipende dai beni di questo mondo. La parabola dell’uomo ricco che aveva accumulato molti beni, nel suo significato più immediato, è chiara. Corrisponde al senso di molti altri passi evangelici: che giova all’uomo guadagnare il mondo se poi rovina se stesso o muore? (cfr Lc 9,25). Non si tratta però di scegliere tra la povertà evangelica e la ricchezza, ma tra la cupidigia e la solidarietà: “Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio”. Ecco la domanda meglio posta: come arricchire davanti a Dio? I beni di questo mondo, di cui abbiamo assoluto bisogno per vivere, portano vita se ci fanno arricchire presso Dio, ci rimandano cioè alla confidenza in Lui e alla solidarietà in umanità perché Lui sia benedetto come Padre di tutti.

Sembra che l’uomo non possa evitare questa contraddizione: i beni affascinano, ma non soddisfano; il regno di Dio è proclamato soddisfarci, ma non ci affascina più di tanto, almeno come noi ci immaginiamo o vorremmo! La profondità della portata delle parole di Gesù risalta più avanti, nel v. 32: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno”. Contrapposto ai beni sta il Regno. Noi siamo ancora nella condizione di percepire la natura dell’offerta di Gesù con il suo parlare della benevolenza del Padre che in lui ci fa gustare il suo Regno? Riusciamo ancora a sognare cosa possa comportare l’invito: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo” (Mt 25, 34)? In effetti, si tratta di una rivelazione singolare, che risalterà ancora di più quando leggeremo domenica prossima il seguito del nostro brano.

La rivelazione di Gesù procede per due passaggi: prima risponde alla folla, poi ai discepoli. Rispondendo alla folla indica come la discriminante per la giustizia in questo mondo risulti dal fatto di stare solidali con l’umanità. Alla domanda: come ci si arricchisce davanti a Dio, la Scrittura dà una risposta univoca: dando al povero (Pr 3,27; Is 58,7). La solidarietà con chi è nel bisogno rende la vita degna di essere vissuta. Allora chi è il ricco? È colui che assomiglia a Gesù: “egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo...” (Fil 2,6-7). Dietro l’ammonizione di Gesù, si nasconde anche questa rivelazione.

Gesù continua poi a spiegarsi con i discepoli e risponde alla domanda: qual è la radice della confidenza nella vita? Sta forse nei beni di questo mondo? No! Sta nell’alleanza con Dio, la cui fruizione permette quel vivere bene che il nostro cuore cerca, a volte troppo affannosamente, solo nei beni di questo mondo. Se prima si sottolineava che i beni vanno condivisi, adesso si sottolinea che il bene vero è l’accoglienza del desiderio di prossimità all’uomo da parte di Dio, che in Gesù si fa manifesta: al Padre è piaciuto dare a voi il regno. Tutte le parole di Gesù sono l’eco di questa rivelazione. Qui si radica quella confidenza capace di aprire la vita, capace di aprirci alla vita, attraversando l’usura del tempo e l’inconsistenza dei beni. Qui si radica l’opposto di quella cupidigia che scardina il cuore dell’uomo e che rende la vita una battaglia persa per la felicità. Cercare prima di tutto il Regno è volere prima di tutto la compagnia di Dio, voler godere la benevolenza di Dio nella nostra vita. Godere la benevolenza porta ad offrirla, a condividerla, a vivere i beni nell’ottica di una benevolenza condivisa. Il segreto? La possibilità di imparare a percepire, nelle parole della voce che dice: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno”, la tenerezza con cui quella voce risuona. Come a dire: il cuore dell’uomo cerca una pienezza che nessuna delle ragioni del mondo soddisfa. Le ragioni del mondo non riescono a dare ragione delle ragioni del cuore. Solo in quella voce quelle ragioni trovano quiete.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo Ordinario

 

XIX  Domenica

(11 agosto 2013)

 

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Sap 18,3.6-9;  Sal 32;  Eb 11,1-2.8-19;  Lc 12,32-48

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Il brano evangelico di oggi illustra il mistero della grandezza divina del servizio, rivelazione tipicamente evangelica: “Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli”. Ecco l’immagine di fondo che l’uomo non avrebbe potuto inventarsi e che riassume invece il senso della persona e dell’agire di Gesù: Dio si mette a servizio e in servizio degli uomini!

L’esortazione alla vigilanza, con le parabole che la illustrano, dice assai più di quello che saremmo portati a credere. I beni sono precari, e anche la vita è precaria. Stare vigili significa allora non perdere la coscienza di quella precarietà? Oppure, ancora, significa aspettare con timore l’arrivo del padrone, che comunque verrà e che dovrà ricompensare o castigare i suoi servi a seconda di come si sono comportati? Non c’è nulla di evangelico in questo tipo di vigilanza.

La vigilanza evangelica è in rapporto ad altro. Se al Padre è piaciuto darci il suo regno nel Figlio che lo rivela, allora tutto va giudicato in funzione di quella verità. E tanto più quella verità parla al cuore, tanto più il cuore vivrà di quella verità. Come a dire: tanto più il cuore vedrà la bellezza del Figlio di Dio, tanto più la vedrà nei figli degli uomini per cui si metterà a servirli. Le parabole alludono più direttamente al mistero della rivelazione del Figlio di Dio che si compie nella storia, alludono al Signore che viene a preparare tavola ai suoi, a condividere i suoi segreti quanto all’amore di Dio per l’uomo, motivo di beatitudine per il cuore dell’uomo. Si tratta di un’esperienza di fede che equivale a un vivere nell’orizzonte di una promessa che ha toccato il cuore. In primo luogo non sta la fatica del vegliare, ma la percezione della fedeltà di Dio alla sua alleanza. Non per nulla la liturgia comincia con l’antifona: “Sii fedele, Signore alla tua alleanza, non dimenticare mai la vita dei tuoi poveri. Sorgi, Signore, difendi la tua causa, non dimenticare le suppliche di coloro che t’invocano”. Si tratta di un vegliare in funzione della percezione del regno di Dio arrivato a noi, in funzione della sua promessa di prossimità all’uomo che si è compiuta e che continuamente si va compiendo. La forza dell’esortazione del vegliare sta tutta nel riportare il cuore a sentire l’alleanza di Dio, a vederla realizzata nel Signore Gesù che diventa il tesoro del cuore perché in lui si concentrano le promesse di Dio e i nostri aneliti. E prima ancora che tradursi in fatica di veglia perché il nostro cuore non si allontani dalla verità percepita, diventa ardore di veglia perché il Signore non dimentichi, perché non abbia timore delle nostre miserie, perché non ci abbandoni, perché si costringa alla fedeltà a quell’amore che ha così fortemente voluto per noi.

Il senso della parabola dell’attesa del padrone quando torna dalle nozze va cercato in quel tipo di vigilanza evangelica. L’immagine non ha nulla di usuale perché non esiste sulla terra padrone che si metta a servire coloro che sono al suo servizio. Non è possibile non pensare al gesto di Gesù di lavare i piedi ai discepoli nell’ultima cena, come non è possibile non riferirsi al versetto di Giovanni “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Quel gesto, quella volontà del Signore nei nostri confronti, è ben sottolineata dal versetto iniziale del brano di oggi: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di dare a voi il Regno”. E corrisponde, nella ricostruzione della vicenda del popolo di Israele che esce dall’Egitto, secondo il libro della Sapienza, all’annotazione: “Quella notte fu preannunciata ai nostri padri, perché avessero coraggio, sapendo bene a quali giuramenti avevano prestato fedeltà”.

La fede, che diventa  una colonna di fuoco, come guida di un viaggio sconosciuto’, nel viaggio cioè della nostra vita, sta tutta nella percezione di quel “al Padre vostro è piaciuto”. In quella volontà assoluta di benevolenza per l’uomo, volontà manifestata in Gesù, sta il segreto della vigilanza evangelica, come anche della fatica apostolica. Come potremo liberarci dagli affanni e dalle preoccupazioni per i beni di cui abbiamo bisogno per vivere, come potremo vivere in sicurezza una vita assolutamente precaria, come non doverci servire dei fratelli per colmare il vuoto della precarietà che ci attanaglia, se non abbiamo mai percepito quella volontà di benevolenza nei nostri confronti? L’insistenza delle Scritture e della Tradizione quanto al non dimenticate, state attenti, vegliate, trova qui la sua ragion d’essere.

In questa ottica anche un altro particolare del brano evangelico di oggi assume tutta la sua rilevanza. Sembra che le parabole sulla vigilanza si riferiscano a un tempo finale, allorquando il padrone arriverà e non ci saranno più scuse che tengano. In realtà non si tratta di un tempo (il tempo eterno dopo il tempo storico) ma di una dimensione (il tempo eterno che attraversa il tempo storico). Come a dire: il padrone che arriva è l’immagine della rivelazione che si compie quando la vita quotidiana si apre al mistero del regno dei cieli. Non si tratta di un vivere oggi in un certo modo quaggiù per meritarsi di andare domani lassù. Si tratta piuttosto di un’imminenza del Regno che si può rivelare in ogni punto della nostra vita. A questo tende il servizio del padrone riguardo ai suoi servi: lui si rivela al cuore nella sua volontà assoluta di benevolenza per noi, visione che cambia radicalmente l’orizzonte della nostra vita.

A ricordarci che non si tratta, però, di una beatitudine beata, ma angosciosa, lavorata, paziente, sta l’esempio di Abramo riportato nella seconda lettura. È vero che, se Abramo ha potuto vedere solo di lontano i beni promessi, noi possiamo dire di averli conseguiti, avendoli visti realizzati in Gesù. Ma per noi, come per lui, se la promessa è certa, l’attuazione è precaria. Professare che in Gesù le promesse si compiono non significa ancora che si compiono in verità in noi. Non per nulla le parabole sulla vigilanza parlano della responsabilità dell’agire dei discepoli, con l’insidia dell’illusione sempre alle porte, con l’insidia della durezza di cuore rispetto all’attesa del padrone e al trattamento dei fratelli. L’accento però, nell’esperienza evangelica, non è più posto sulla funzionalità dell’agire (faccio bene per avere una ricompensa) ma sulla qualità della vigilanza (sono così desideroso del mio padrone che mi preoccupo di tutti i suoi servi). È l’attesa di Qualcuno, di Qualcuno che si sveli al mio cuore che informa ormai la qualità dell’agire.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Solennità

 

Assunzione della Beata Vergine Maria

(15 agosto 2013)

 

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Ap 11,19a; 12,1-6a.10ab; Sal 44; 1 Cor 15,20-27a; Lc 1, 39-56

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In un inno anonimo del VII secolo, la prima esclamazione degli angeli nei riguardi della Vergine suona: “Ave, nutrimento della gioia degli uomini”, mentre gli antichi testi agiografici parlano della Vergine in rapporto ai fedeli come della Regina, della Madre del Signore, della loro sorella. La liturgia bizantina sottolinea il parallelo tra il parto verginale e l’assunzione gloriosa in questi termini: “Nel parto, hai conservato la verginità, con la tua dormizione non hai abbandonato il mondo, o Madre-di-Dio. Sei passata alla vita, tu che sei Madre della vita e con la tua intercessione riscatti dalla morte le anime nostre”.

La festa di oggi modula la devozione alla Vergine su due registri: la gioia come radice di speranza per l’umanità e la sua intercessione universale. Nella sua lettera ai Corinzi Paolo ricorda il dato della fede nella risurrezione. E tratteggia tutto il corso della storia fino alla fine del mondo nel senso di una rivelazione progressiva, anche se misteriosa e drammatica, della signoria di Cristo che prevarrà su tutto. Noi siamo nel tempo della sottomissione a Cristo di tutti i nemici di Dio, morte compresa. Il regno di Cristo coincide con la riduzione a nulla di ogni potere della morte. La cosa va vista nel suo succedersi temporale in ciascuno di noi oltre che nella storia. Tutta l'ascesi e la lotta interiore non sono altro che l'espressione di questo potere di Cristo che riduce a nulla il potere della morte che ci assilla e ci impasta. E man mano che questo potere di Cristo prevale, la vita sgorga fluente e incontenibile.

Ora, nella Vergine Maria, tutto questo non è più in fieri, non ha più spazi o dinamiche da conquistare. È compiuto. E siccome è compiuto, può essere consegnata a Dio Padre, fulgida di tutto lo splendore che la salvezza operata da Dio comporta. Il disegno di Dio in tutto il suo amore per l'uomo, dalla creazione alla glorificazione finale nel suo Regno, solo questa nostra sorella, la Vergine, l'ha potuto godere compiutamente. Oggi, festa dell'assunzione, ella lo sa e può dichiarare: ora so per esperienza tutto l'amore che Dio ha portato all'umanità, che ha portato a me perché sia vivibile da tutti e quindi posso glorificarlo compiutamente. E proprio perché la sua lode per Dio è piena, allora anche l'esultanza del suo cuore è piena e la sua intercessione potente. Quando i credenti guardano alla Vergine gloriosa, assunta in cielo, non possono non considerarla, come canta il prefazio: "primizia e immagine della Chiesa … un segno di consolazione e di sicura speranza". In lei possono magnificare l'amore di Dio per l'uomo, la grandezza della salvezza operata da Dio che anche in noi si dispiegherà a suo tempo, come in lei, che per noi intercede. E a lei rivolti, fiduciosi possiamo pregarla, come le antiche comunità cristiane: "Sotto la tua protezione troviamo rifugio, santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta".

Da dove deriva alla Vergine tutta la sua gloria? L’elogio alla madre da parte della donna che ascoltava affascinata Gesù: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!” è trasformato da Gesù nell’elogio ai discepoli: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!” (Lc 11,27-28). Gesù sembra spostare l'attenzione sui discepoli, ma in realtà definisce esattamente in che cosa consiste la beatitudine di sua madre. Come i Padri sottolineano spesso: prima di essere madre fisicamente di Gesù, Maria lo è spiritualmente, perché il suo cuore ascolta e osserva la Parola, l'ha sempre ascoltata e osservata. Se però colleghiamo il commento di Gesù all’espressione pronunciata da Elisabetta nel saluto alla Vergine: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”, ci viene svelato un altro aspetto fondamentale. Ascoltare e osservare la Parola non è semplicemente un mettere in pratica quello che Dio dice. È assai di più. Significa permettere alla promessa di Dio racchiusa nella sua parola di compiersi, di rivelarsi finalmente al cuore e al mondo. Significa acconsentire al desiderio di Dio di compiersi, significa fare in modo che il desiderio che Dio ha di incontrare l'uomo finalmente trovi compimento. Ora, da dove deriva la vita all'uomo se non da un incontro d'amore? Sia in senso fisico, un figlio, sia nel senso di procurare vitalità, gioia di vivere, visione di speranza, forza ed energia. Più questo consenso da parte dell'uomo è totale, più la vita che deriva da Dio è fluente e incontenibile. Vince la morte. Per sempre.

In quel “ha creduto” è indicata tutta la disponibilità della Vergine all’azione di Dio (“Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”) dove il proprio essere è vissuto come risposta al desiderio di Dio, come spazio di compimento all’agire di Dio. Nell’“adempimento” è adombrata la generazione del Verbo che in lei prende forma. Accogliere il Verbo nella propria umanità significa ritrovarsi nel mistero di Dio Trinità, che è amore comunicato; significa far risplendere l’amore di Dio nel mondo e compiere la propria umanità permettendole di far trasparire la divina Presenza. La grazia di questa 'maternità' spirituale è estesa a tutti i credenti: tutti possono ereditare la beatitudine che deriva dall'ascoltare e osservare la Parola. Nella dinamica dell’obbedienza della fede, l’ascolto della Parola equivale alla fin fine ad accogliere e generare in noi il Verbo, di cui risplendono tutte le parole della Scrittura.

Ora, la vera meraviglia di Dio per gli uomini è proprio il dono del Figlio, che di quell’umanità che ci costituisce svela i confini e le sorgenti divine. Chi, più della Vergine, ha goduto tutta la potenza di splendore di questo dono per l’umanità? Così l’intercessione della Vergine va nella direzione dell’invocazione della preghiera ‘sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra’, interpretata ‘si compia il tuo amore  finché la terra diventi tutta cielo’: nulla rimanga inaccessibile all’amore di Dio che si dispiega potente. Lei, la serva del Signore, terra come noi, ma totalmente disponibile all’agire di Dio, è diventata tutta cielo. Intercede perché anche la nostra umanità, in ciascuno e in tutti, si allarghi agli spazi e alle profondità della sua stessa umanità, nella comunione con il suo Dio.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo Ordinario

 

XX  Domenica

(18 agosto 2013)

 

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Ger 38,4-6.8-10;  Sal 39;  Eb 12,1-4;  Lc 12,49-57

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Il punto focale della liturgia di oggi è costituito dal v. 49 di Luca 12 :"Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!". La luce che si sprigiona da questa parola fa comprendere anche gli altri versetti sulla divisione che Gesù sarebbe venuto a portare e sui segni dei tempi che occorre saper decifrare.

Nei vangeli sono rari i momenti in cui Gesù apre il suo cuore mostrando il suo vissuto interiore. Questa sua frase fa vedere cosa vive dentro di Lui. È consumato da un fuoco interiore, dal fuoco di quello Spirito di cui era stato mostrato ricolmo al momento del battesimo nel Giordano e in forza del quale si era avviato risoluto a compiere fino in fondo la missione di rivelatore e testimone supremo dell'amore del Padre agli uomini. Lui sa che quel fuoco lo porterà ad un altro battesimo, quello della sua passione e morte e risurrezione, battesimo che otterrà a tutti noi il dono del suo stesso Spirito e che condurrà anche noi ad essere consumati dallo stesso fuoco. Questo fuoco che lo rode dentro è lo stesso che vuole partecipare a noi.

Nel libro del Deuteronomio 4,24 Dio era definito 'fuoco divorante' o, secondo un'altra traduzione 'fuoco divoratore'. La stessa definizione è ripresa dalla lettera agli Ebrei 12,29. Cosa significa?

Una prima spiegazione può essere data da queste parole di Gregorio Magno: "Dio è indicato come fuoco perché da Lui è erosa la ruggine dei peccati. Di questo fuoco la Verità dice: Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e che altro voglio se non che divampi? La terra indica infatti il cuore dei mondani che accumulando in sé senza sosta pensieri malvagi finiscono calpestati dagli spiriti maligni. Il Signore però manda il fuoco sulla terra quando accende col soffio dello Spirito santo il cuore di chi vive secondo la carne. La terra arde quando il cuore di chi vive così, gelido nelle sue voluttà perverse, abbandona le bramosie del secolo presente e divampa nell'amore a Dio" (Omelie sui vangeli, XXX, 5).

È suggestiva l'immagine del nostro cuore che diventa terra in quanto è calpestato dagli spiriti maligni. La terra calpestata non produce nulla. Il fuoco è come se 'soffiasse' questa terra, la rende di nuovo capace di vita, di accogliere e far fiorire i semi che la parola di Dio vi deporrà.

Ma c'è un'altra spiegazione che ci introduce più addentro nel mistero del fuoco che è il nostro Dio. Nel vangelo apocrifo di Tommaso si riporta una frase suggestiva che antichi Padri ed esegeti moderni pensano essere propria di Gesù: "Chi è vicino a me, è vicino al fuoco e chi è lontano da me, è lontano dal regno". La spiegazione è data da Origene. L'uomo che, dopo il battesimo, torna a peccare, per essere purificato, deve avvicinarsi a Gesù, il cui amore tormenta il cuore dell'uomo fino a sciogliere con l'ardore del suo fuoco tutto ciò che lo oppone a Lui e ai suoi fratelli. Ma se l'uomo, con il suo peccato, chiuso nella sua vergogna o, per meglio dire, nella sua presunzione, sta lontano da Gesù, allora per lui il Regno risulta inaccessibile e non troverà né libertà né vita.

Ma c'è ancora un'ulteriore spiegazione. Quando i due discepoli, in cammino verso Emmaus, incontrano Gesù risorto non dicono “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?” (Lc 24,32) ? Ed il profeta Geremia, sedotto dall'incontro con il suo Signore, non dice forse "Mi dicevo: “Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome! ”. Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo" (Ger 20,9)? Anche di questo tipo è il fuoco del nostro Dio. E questo ci aiuta a comprendere più a fondo il fatto che del fuoco di Dio si dice che è 'divorante', 'divoratore'. Dio è geloso, non sopporta di essere preso soltanto in parte, di essere preso in 'coabitazione' con altri. Il fuoco di Dio è divoratore delle divisioni del nostro cuore, divisioni che causano dispersione, duplicità, menzogna, chiusure e quant'altro c'è di cattivo nel cuore che gli impediscono di essere tutto unito e compatto, teso ad un unico desiderio, capace di essere solidale con il suo Dio e con i suoi fratelli, con ogni energia libera per essere impiegata a tale scopo. Il cuore si unifica col fuoco: questa è la verità. E soprattutto questa è la verità del nostro Dio. Lo sperimentiamo anche nella vita psicologica e affettiva: quanto più una passione è forte, più tende a compattare tutto il nostro cuore. Con la differenza che se il cuore si compatta per un desiderio che non sia rappresentativo della totalità e profondità delle nostre aspirazioni più vere, cadrà vittima di quel desiderio e risulterà coartato. Alla fine si sentirà disperso e vuoto.

Ma tutto questo esige un contraccolpo. Ed è quello che dice Gesù: "Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione" (v. 51). Se il fuoco di Dio distrugge le divisioni nel nostro cuore, allora vuol dire che il cuore non deve più temere le altre divisioni, sebbene dolorose e non volute. Non è possibile tenere insieme tutto. E il cuore deve sentire che, per restare compatto in ciò che ha di più essenziale, non può disperdere tale compattezza in ciò che risulta meno essenziale o addirittura occasionale. È un discorso duro e non per nulla Gesù parla anche di essere venuto a portare la spada, simbolo appunto delle divisioni. Ma è inevitabile. È la legge dell'amore, del fuoco che arde dentro. Solo l'esperienza ci farà capire fino in fondo che solo così viene salvaguardata la libertà e la gratuità dell'amore. Come a dire: la carità non equivale ad una buona intesa; è disposizione al martirio. Lo è stato per Gesù, lo sarà di noi. Ed è una legge di vita. Anzi, la divisione che sembrerà opporti agli altri non è che l'esplicitazione della disponibilità al sacrificio, per amore degli altri, ormai partecipi del mistero della carità divina, del fuoco divino. E anche ogni amore umano degno di questo nome resta attizzato da una scintilla di questo fuoco divino.

La stessa cosa vale per il riconoscimento dei segni dei tempi. Non si tratta tanto di discernere dove va la nostra storia, del resto imprevedibile, ma di scoprire la parte di storia sacra nella nostra storia personale. Discernere i segni dei tempi significa scoprire l'azione di Dio nella nostra storia. E se siamo lambiti da quel fuoco divino, come non discernere che ogni evento può essere vissuto come introduzione al Regno, come apertura del Regno?

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo Ordinario

 

XXI  Domenica

(25 agosto 2013)

 

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Is 66, 18-21;  Sal 116;  Eb 12, 5-7.11-13;  Lc 13, 22-30

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Il canto al vangelo fornisce la finestra di luce per cogliere la rivelazione del passo di Luca proclamato in questa liturgia: “Io sono la via, la verità e la vita, dice il Signore; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,6). Le parole di Gesù, che vanno a infrangere le nostre pie immaginazioni e a scuotere il nostro torpore spirituale, ci mettono a disagio: “Sforzatevi di entrare per la porta strettaVoi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia”, parole, queste ultime, che richiamano la finale della parabola dell’ultimo giudizio raccontata in Mt 25: “Via, lontano da me …”.

Chi sono gli operatori di ingiustizia? E perché vengono privati della comunione con il loro Signore? Gesù sta parlando del Regno che è venuto a portare, per il quale è venuto ad aprire l’accesso, mostrando la grandezza e l’immensità dell’amore del Padre per i suoi figli. E il Padre vuole che tutti i suoi figli siano convocati alla mensa del suo amore e che questo amore splenda e a tutti sia manifestato. Nel vangelo di Matteo l’invito a entrare per la porta stretta segue il Discorso della montagna con le beatitudini promesse a chi accoglie Gesù e il Regno che è venuto a manifestare (cfr Mt 7,13-14).

La volontà del Padre è misericordia per i suoi figli e Gesù mostra nella sua persona e nel suo agire la bellezza di questa misericordia che si fa salvezza dei peccatori. Chi si oppone a tale misericordia in nome di qualche altro pur nobile ideale si oppone alla volontà del Padre e non verrà riconosciuto. Il fare la volontà del Padre comporta l’accogliere questa sua misericordia che estendendosi a tutti esige che sia condivisa con tutti, pena l’esclusione dalla comunione con il Padre, che è Padre di tutti. Quando Gesù dice che lui è via, verità e vita possiamo intendere: non solo il suo insegnamento costituisce la via per arrivare al Padre, ma proprio Lui, la sua persona, è la via che mostra il Padre nella sua benevolenza per noi. Proprio perché lui mostra il volto del Padre in verità e ci introduce nella comunione con la vita sua, che è amore per noi. Un antico insegnamento dei rabbini proclama: “Sii audace come un leopardo, agile come un’aquila, veloce come un’antilope, forte come un leone per fare la volontà del Padre tuo che è nei cieli”, volontà che è misericordia per noi.

Siccome però il Regno non si impone, non è evidente, non è scontato (cfr Lc 17,21; Gv 14,22), soltanto i violenti se ne impadroniscono (cfr Mt 11,12), soltanto cioè coloro che alle preferenze di Dio non sostituiscono le proprie, ai pensieri di Dio non sostituiscono i propri, alla misericordia di Dio non oppongono la loro giustizia. E per questo Gesù dice: “Sforzatevi”. Acconsentite, cioè, alla forza dello Spirito, come fa pregare la colletta: “… concedi a noi la forza del tuo Spirito, perché unendoci al sacrificio del tuo Figlio, gustiamo il frutto della vera libertà [da noi stessi, dalla curvatura su noi stessi] e la gioia del tuo regno [nel cuore, che vede così compiersi i desideri profondi che cela]”. Lo sforzo ha sempre a che vedere con la passione di Gesù che ci ha mostrato lo splendore dell’amore del Padre per noi.

Ma per noi, fondamentalmente, la tensione interiore che ci è richiesta per trovare l’accesso al Regno, si appunta sullo stesso Signore Gesù. Lui è la porta stretta attraverso la quale dobbiamo passare. È detta stretta perché ha la preferenza di Dio e non nostra, perché esprime la sapienza che viene dall’alto che è contraria alla sapienza del mondo di cui siamo impastati, rivela il sentire di Dio che si oppone al sentire della nostra carne. Ma è una strettezza, come riporta anche il passo della lettera agli Ebrei: “È per la vostra correzione che soffrite”, che prelude al passaggio della vita, proprio come per un bambino il quale, per nascere, deve passare per la porta stretta. E non per nulla in Gesù si parla di nuova nascita perché soltanto a partire di lì scopriamo il nostro essere secondo quell’abbondanza di vita alla quale aneliamo sconfinatamente. La nascita al Regno è descritto qui da Gesù come un banchetto, per sottolineare il mistero della pienezza e dell’intimità dell’amore che hanno conquistato il cuore. L’immagine ha una valenza escatologica, non tanto però per indicare quello che avverrà alla fine dei tempi, ma per mostrare che quella ‘fine’ dei tempi è venuta a visitare il cuore e a far assaporare la densità dei misteri di Dio nella nostra storia.

Il luogo di passaggio è indicato anche dal profeta Isaia, sebbene velatamente, là dove dice: “con le loro opere e i loro propositi. Io verrò a radunare tutti le genti e tutte le lingue”, reso invece, secondo un’altra traduzione: “(Sarò) io, i loro atti e i loro pensieri …”, “Sono io che motiverò i loro atti e i loro pensieri …”, intendendo: quando Dio diventa la fonte di ogni nostro atto e di ogni nostro pensiero, saremo passati attraverso quella porta stretta che conduce al regno della vita. E la strettezza, almeno per il nostro uomo esteriore, è descritta sempre dal profeta: “Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi trema alla mia parola” (Is 66,2). Ma scegliere l’umiltà e il cuore contrito significa scegliere il Signore Gesù, che di sé dice: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,28-29).

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo Ordinario

 

XXII  Domenica

(1 settembre 2013)

 

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Sir 3,17-20.28-29;  Sal 67;  Eb 12, 18-19.22-24;  Lc 14, 1. 7-14

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Un invito a pranzo permette a Gesù di aprire orizzonti insospettati per i suoi ospiti. L’uditorio è particolare: sono tutte persone ragguardevoli, persone che - annota l’evangelista – lo stavano ad osservare. E a giudicare dall’intervento di uno di loro, lo stavano ad osservare a cuore aperto. Ciò che Gesù diceva ai suoi ospiti aveva indotto un commensale a sognare il banchetto messianico: “Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!”, provocando la parabola del banchetto disertato dagli invitati e offerto ai poveri, con la quale Gesù svela il mistero dell’agire di Dio. Purtroppo nella liturgia di oggi manca questo ultimo riferimento, che resta però essenziale per comprendere le parole dette prima: “Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto ... Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici ...” sulla base del principio: “chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”.

La questione potrebbe essere così posta: perché l’umiltà ottiene quello che la grandezza sogna? Rispetto all’agire dell’uomo, potremmo domandarci: chi cerca i primi posti, lo fa riguardo all’ospite che l’ha invitato o riguardo agli altri commensali? Evidentemente riguardo ai commensali. Ma così facendo non cerca più l’intimità col padrone di casa che l’ha invitato, motivo vero dell’onore di fronte ai commensali. Così, chi dà un pranzo ai suoi amici, ai suoi pari, non va oltre l’interesse di ricevere altrettanto e sempre nell’ordine di un riconoscimento, esibito e ricercato, di una qualche grandezza condivisa.

Agendo in tal modo non si coglie la posta in gioco della vita. L’umiltà non consiste nel farsi piccolo per essere riconosciuto poi (sarebbe una furbizia raffinata!), ma piuttosto nel vedere così grande l’invito alla vita da non sentirsene nemmeno degni. Non mi faccio piccolo ora per essere esaltato dopo, ma sono piccolo perché troppo grande è il dono ricevuto. Più mi sento piccolo, più vuol dire che colgo la grandezza di colui che mi invita. Quando la vita non è più giocata nel confronto, di nessun tipo, con gli altri o sugli altri, vuol dire che il cuore sta saldo nell’intimità con Colui che gliel’ha data, ne percepisce il mistero e si sente piccolo. A questa piccolezza è aperto il Regno. Di quella piccolezza sono beati coloro che siedono alla mensa di Dio.

La cosa è vera perché corrisponde all’agire di Dio. Dio è tanto grande (nella sua misericordia) che non ha bisogno di elevarsi al di sopra di nessuno, ma la sua grandezza si gioca nell’accondiscendenza verso tutti, nell’offrire a tutti la sua mensa senza che alcuno abbia titolo a qualcosa. Se Gesù esorta il suo ospite a invitare poveri, zoppi, storpi e ciechi è perché Dio fa lo stesso. ‘Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro’… La ragione risiede nella coscienza che davanti a Dio nessuno gode di qualche titolo particolare di rivendicazione, ma tutto dipende dal dono supremo suo, offerto a tutti. La beatitudine deriva proprio dal fatto di godere della sua offerta senza averne titolo e dal fatto di solidarizzare con tutti perché tutti raggiunti dalla stessa offerta.

Anche il brano del Siracide va letto nello stesso senso: “Quanto più sei grande, tanto più fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore. Molti sono gli uomini orgogliosi e superbi, ma ai miti Dio rivela i suoi segreti”. È il segreto di quella compiacenza di Dio per i poveri ed i peccatori che siamo, svelata da Gesù e presagita da quel commensale, perché davanti a Lui non vale distinzione di persona: vale solo il suo amore per noi, la sua misericordia. Se l’uomo si attarda ancora a considerare la distinzione delle persone, rivendicando per sé o esibendo davanti agli altri titoli particolari di dignità, non ha ancora conosciuto l’intimità dell’amore di Dio e può perfino rifiutare l’offerta di Dio. Chi non conosce l’intimità dell’amore di Dio non può ancora dirsi umile.

Lo stesso invito del Siracide: “Figlio, compi le tue opere con mitezza” va letto nello stesso senso. Agire con mitezza significa agire senza interessi o bisogni di confronti, senza esibire o dimostrare nulla, senza prevalere su nessuno, solidali e rispettosi. Ma ciò suppone un’intimità abitata, una piccolezza acquietata e dolce sul modello di Gesù proclamato dal canto al vangelo: “Prendete il mio giogo sopra di voi, dice il Signore, e imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Si allude ad una umanità toccata dalla grazia, accesa nelle sue prerogative di fondo dall’esperienza della grandezza dell’invito, che Dio in Gesù ci fa, di stare alla mensa del suo amore senza averne alcun titolo.

Così la preghiera pressante che scaturisce dalla liturgia di oggi non è quella di apprendere la virtù dell’umiltà, ma di imparare a percepire così intensamente la grandezza del mistero di Dio, che in Gesù si accompagna a noi, da disprezzare ogni altra nostra grandezza. La conseguenza strana, ma salutarmente evangelica, di tale atteggiamento è che meno ci si preoccupa della propria grandezza, più ci sta a cuore la grandezza di tutti. Perché questi è il giusto: colui che sta contento dei doni di Dio a tutti, colui che si rallegra della gioia di Dio per i poveri e i peccatori, ai quali appunto è stato inviato il Salvatore.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo Ordinario

 

XXIII  Domenica

(8 settembre 2013)

 

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Sap 9, 13-18;  Sal 89;  Fm 9b-10. 12-17;  Lc 14, 25-33

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Gesù affascina ma non inganna. Le parole del brano di oggi sono inequivocabili: “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo”. La liturgia, con la prima lettura e la proclamazione del salmo 89, ci fa chiedere la sapienza del cuore proprio perché non è così agevole coglierla e accoglierla: “Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?”.

Emerge allora la domanda: può l’uomo accogliere le parole di Gesù senza che la sapienza dall’alto abbia raggiunto il suo cuore? Perché la sapienza che viene dall’alto comporta proprio l’apertura del cuore al mistero di quel Figlio di Dio che rivela lo splendore dell’amore del Padre per gli uomini. Se il cuore non intravede quello splendore, tutto risulta sbarrato. Da notare che la sapienza, avendo presieduto alla stessa creazione, conosce i misteri delle creature perché conosce i pensieri di Dio. Così, quando Gesù annuncia la grazia del suo vangelo, non scavalca la natura, ma ne rivela il compimento. Gesù è la verità da parte di Dio (= rivela il vero volto di Dio) e da parte dell’uomo (= conosce il desiderio dell’uomo e ne assicura il compimento). Perché allora il suo parlare, come nel brano di oggi, suona tanto ostico alla nostra natura?

Qui si cela il dramma e la gloria dell’uomo: l’uomo desidera il bene, ma sembra non poter ritrovare in sé il criterio di discernimento del bene. Nessuno, che sia sano di mente, sosterrà che non siano buoni gli affetti familiari (tra l’altro, oggetto di comandamenti precisi!); ma chi può sostenere che gli affetti familiari siano sempre e comunque buoni? “Perché mi interroghi su ciò che è buono? Buono è uno solo” (Mt 19,17) ebbe a dire Gesù. Gli affetti naturali vanno giudicati in rapporto a quella vocazione all’umanità che è il destino della vita, ma la vocazione all’umanità è definita sullo splendore dell’amore di Dio per gli uomini, manifestato in Gesù. Così, quando Gesù parla di preferire l’essere suo discepolo agli affetti naturali, intende rivelare che la radice della vita è nell’amore di Dio che fa da criterio di discernimento a ogni altra cosa. La cosa non è scontata però per il cuore dell’uomo; comporta una specie di ‘morte a se stessi’ per vivere se stessi in modo pieno imparando a servire gli altri, non a servirsi degli altri. Portare la croce significa morire alla logica del mondo che ci fa ricercare noi stessi contro o sugli altri per accedere davvero alla dimensione della fede, diventata radice di vita in Gesù, che si traduce in comunione di sentimenti con Dio nel suo amore per gli uomini. La sapienza che viene dall’alto ci è necessaria continuamente per operare questo passaggio, perché conoscere i pensieri di Dio comporta sempre scoprire le radici della vita. E questo è il motivo per cui la scoperta della sapienza, del tesoro nascosto nel campo, comporta sempre un’intima letizia, letizia che ti abilita a vendere, a lasciare tutto il resto. Chi vive un amore profondo lo sa.

In effetti, il brano di oggi termina con l’affermazione: “Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. Delle tre caratteristiche che contraddistinguono il discepolo di Cristo, questa è la prima; le altre due sono: il discepolo perdona condividendo la gratuità dell’amore misericordioso di Dio e resta fedele nelle prove vivendo nella pazienza la pace sperimentata. Gli averi, beni e affetti, sono tutto ciò che sostenta la vita, però non più vissuti a partire da se stessi, ma nella più totale confidenza con Colui che ne è il Dispensatore. Sottrarre confidenza ai beni significa godere della confidenza nella vita. Non è immediata la costatazione, ma risulta vera: facendo confidenza sui beni, si perde confidenza con la vita; guadagnando confidenza con la vita, si godono i beni. La vita però è quella che Gesù rivela e promette al suo discepolo; è quella che lui stesso vive e comunica al suo discepolo; è quella che proviene dal vivere il compimento della vocazione all’umanità che in lui acquista tutto il suo splendore perché a Dio rimanda e da Dio prende vigore. La sapienza che domandiamo conduce là.

E se è vero che la sapienza fa capolino nel cuore quando ci accorgiamo che non siamo eterni e che passiamo presto, come dice il salmo, può però entrare nel cuore quando risuonano vere per noi le parole: “si manifesti ai tuoi servi la tua opera e il tuo splendore ai loro figli” (Sal 89,16), frase che acquista tutto il suo significato davanti a Gesù, riconosciuto come lo splendore dell’amore del Padre per gli uomini, la vera opera di Dio per noi. Tanto che lasceremo tutto per seguire Gesù nel senso di non voler rivendicare nessun bene che si collochi al di fuori o contro la comunione con lui. Sarebbe il senso delle due parabole dell’uomo che costruisce una torre e del re che non vuole essere sconfitto.

Alla visione della fede, nel mistero dell’obbedienza, si accorda la sapienza, come suggerisce s. Francesco di Assisi nella sua terza ammonizione: “Dice il Signore nel Vangelo: Chi non avrà rinunciato a tutto ciò che possiede non può essere mio discepolo (Lc 14,33); e: Chi vorrà salvare la sua anima, la perderà (Mt 16,25). Abbandona tutto quello che possiede e perde il suo corpo e la sua anima l’uomo che totalmente si affida all’obbedienza nelle mani del suo superiore, e qualunque cosa fa o dice e che egli stesso sa che non è contro la volontà di lui, purché sia bene quello che fa, è vera obbedienza”. Affidarsi all’obbedienza significa vivere della visione della fede, in quella compagnia di vita con Colui di cui abbiamo imparato a riconoscere l’amore salvatore e di cui finalmente ci fidiamo perdutamente.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo Ordinario

 

XXIV  Domenica

(15 settembre 2013)

 

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Es 32, 7-11. 13-14;  Sal 50;  1 Tm 1, 12-17;  Lc 15, 1-32

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È vero, come dirà Gesù, che Dio può far nascere figli perfino dalle pietre (cfr. Lc 3,8). Ma è ancora più vero che, per quanto indegni e ribelli, i figli che Dio preferisce sono quelli in carne ed ossa, quelli che siamo, che rimprovera ma di cui continua ad avere premura. La prima lettura ce lo dice a chiare lettere: Mosè intercede e Dio si lascia commuovere. Sembra paradossale che sia Mosè a ricordare a Dio i segreti del Suo cuore! Ebbene, Gesù, morto e risorto per noi, realizzando pienamente quella intercessione per noi, è il sigillo ultimativo di quella Volontà di bene di Dio.

Le tre parabole, come la lettura dell’Esodo e il salmo 50, non si colgono nella loro portata di rivelazione senza percepirne la densità drammatica. Mosè intercede dopo il peccato del vitello d’oro, al colmo dell’angoscia e consapevole delle conseguenze della stoltezza del popolo che ha rotto l’alleanza col suo Dio. Il nome nuovo di Dio che sentirà proclamare nella visione sul Sinai sarà: ‘Dio misericordioso e pietoso …’ (Es 34,6; Sal 86,15). Dio è Misericordia senza limiti perché fedele al suo amore. Il peccato non resta impunito, ma sarà lui stesso che se ne assumerà il peso nelle sue conseguenze inchiodandolo alla croce e sacrificando se stesso. Il pastore che va in cerca della pecora perduta e se la mette sulle spalle tornando a casa allude al dramma della passione di quel Figlio dell’uomo che è angosciato finché il fuoco che è venuto a portare non si accenda e possa essere noto a tutti il segreto dell’amore di Dio per i suoi figli. Il salmo 50  collega la supplica del perdono (‘cancella il mio peccato’) proprio con la capacità di Dio di rinnovare (‘crea in me un cuore puro’) con la conseguenza che la misericordia di Dio verso di noi è una misericordia ‘giustificante’: non semplicemente ci viene perdonato il peccato, ma ci è attivata una nuova modalità di accesso alla vita, come partecipazione ai sentimenti di Dio per i suoi figli (‘siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso’, Lc 6,36). Sarà ormai la misericordia la rivelazione dell’umanità restituita al suo splendore.

Ciò che le parabole sottolineano, ragione convincente per il nostro cuore della fiducia che merita l’amore di Dio, è una cosa sola: la gioia di Dio nel suo essere misericordioso. Gesù non si cura degli angeli (le 99 pecore al sicuro, secondo l’interpretazione dei Padri) ma va in cerca dell’uomo peccatore e la sua gioia sta proprio nella compagnia dell’uomo che ha ritrovato tanto da condividerla con gli angeli. Il padre della parabola esprime la sua gioia nel veder il figlio prodigo ritornare al quale fa festa, nel desiderio di condividerla con il figlio maggiore. Il mistero a cui alludono queste parabole è l’eterno, solidale, amore di Dio per l’uomo, amore che non può non essere amore di misericordia perché l’uomo si è perso. Ricordo per inciso che la parabola della pecora perduta e ritrovata è l’annuncio evangelico della festa del SS. Cuore di Gesù.

Ne scaturisce una conseguenza ‘terribile’ per la nostra coscienza. Qual è la giustizia gradita davanti a Dio? Qual è il criterio della rettitudine? Il principio di rettitudine è la condivisione dei sentimenti di Dio, è la condivisione della sua letizia nell’amore agli uomini. Lo esprime anche la preghiera sulle offerte: “… ciò che ognuno offre in tuo onore giovi alla salvezza di tutti”, vale a dire: quello che di noi offriamo al Signore, se non si risolve nella manifestazione della misericordia di Dio che raggiunge il cuore dei nostri fratelli, non riuscirà gradito. ll nostro cuore, invece, irretito nelle illusioni del peccato, è più aspro di quello di Dio; crede di salvare una specie di nobiltà teorica condannandosi, rinchiudendosi in una condanna sfiduciata. Allora è il momento di ricordargli che Dio è più grande e se il cuore lo riconosce esce dalla sua solitudine, si umilia e ritrova speranza, perché può consegnarsi fiducioso a quell'amore di misericordia di cui le tre parabole di oggi illustrano il mistero.

È evidente che Gesù, con queste parabole, vuole rispondere alle critiche dei farisei sulla sua condotta perché accoglie pubblicani e peccatori. Vuole come rispondere alle mormorazioni del cuore dell'uomo che non è più capace di onorare i suoi fratelli perché non sa più riconoscere il mistero di Dio nel suo amore ai suoi figli. In effetti, con il racconto delle tre parabole, Gesù non cerca semplicemente di giustificare la condotta di Dio verso gli uomini, ma svela il mistero della sua Persona, lui che si definisce ‘mite e umile di cuore’ (Mt 11,29), via-verità-vita che mostra il Padre nella grandezza del suo amore per i suoi figli.

Sullo sfondo di questo mistero, quando il nostro cuore cede alle condanne e ai disprezzi, di sé e del prossimo, vale la supplica della preghiera dopo la comunione della messa di oggi: “La potenza di questo sacramento, o Padre, ci pervada corpo e anima, perché non prevalga in noi il nostro sentimento, ma l’azione del tuo santo Spirito”, allusione diretta al mistero dell’amore di Dio che ingloba il nostro cuore, alla fede nel suo amore che non si tiene lontano da noi peccatori, ma ci viene a cercare con immensa tenerezza fino a conquistarci. Per quanto il nostro cuore si ritrovi come schiacciato dai peccati e fatichi a ritrovare la sua dignità, l’amore di Dio, in Gesù, lo sopravanza, lo sovrasta e lo ingloba.

Ne conseguono alcune costatazioni. La prima. Dio preferisce la sua gioia alla sua giustizia.  Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7). Ora, tutti i nostri pensieri di autocondanna, di paura, di disprezzo di noi e degli altri, feriscono l'amore di Dio perché gli rendono impossibile la gioia. Ogni autocondanna è una incomprensione di Dio. Ogni condanna, di sé e degli altri, è un'incomprensione profonda del cuore di Dio: come non sapere quello che procura gioia a lui e al nostro cuore?

Seconda costatazione. Chi sono i giusti? Nell'interpretazione spirituale dei Padri i novantanove giusti lasciati sui monti sono gli angeli. Ma sono anche coloro che, come gli angeli, adorano e lodano e gioiscono con Dio. Sono cioè coloro che gioiscono con Dio quando un peccatore ritorna, quando un uomo si pente. Di qui il criterio di discernimento della bontà, che ci rende 'sim-patici' di Dio, vale a dire degli stessi sentimenti di Dio: un cuore è buono quando gioisce del bene del fratello. Gioire della virtù di un fratello più che per la propria è segno di un cuore puro, ormai conquistato dalla bontà di Dio. Gioire per un altro rende intimi di Dio.

Terza costatazione. Se l'uomo è invitato a riconoscere come agisce Dio, come 'sente' Dio, è perché è chiamato ad imitarlo dato che il suo cuore è strutturato sulla misura divina. E l'imitazione consiste nell'impegnare la propria carità fino alla gioia senza volere nulla per sé, senza voler distinguersi da nessuno in alcun modo, soprattutto nel pretendere la gioia per sé. Ora, che Dio si rallegri più per una vera conversione che per la sufficienza di tanti che pensano di non aver bisogno di conversione è ovvio. La cosa meravigliosa è che rinnova la sua gioia per un peccatore che si pente più che per i veri giusti ed i giusti si riconoscono tali perché fanno altrettanto.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo Ordinario

 

XXV  Domenica

(22 settembre 2013)

 

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Am 8, 4-7;  Sal 112;  1 Tm 2, 1-8;  Lc 16, 1-13

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Il brano di vangelo odierno, quello dell'amministratore disonesto, lodato dal padrone, sembra a prima vista comportare un messaggio ambiguo. Gesù inviterebbe alla disonestà? Evidentemente, la parabola, raccontata ai discepoli, più volte paragonati nel vangelo ad amministratori, punta ad altro. Ma a che cosa? Fermiamoci sulla lode del padrone: “Il padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza”. La lode verte sul fatto che è stato scaltro, accorto. Sicuramente non si trattava di un amministratore imbecille, se era stato capace di quel comportamento; piuttosto, era stato avido e l’avidità gli aveva fatto perdere il posto. Se paragoniamo questa parabola a quella del possidente straricco (Lc 12,16-21) ci accorgiamo subito della differenza tra i due: il primo è accorto, il secondo stolto. Per ambedue la domanda decisiva è la medesima: cosa fare?

La parola di Gesù illustra proprio quel ‘saper cosa fare’ in rapporto alla propria vita. In gioco è l’uso dei beni di questo mondo per ottenere vita piena. Il padrone della parabola è Dio che affida i suoi beni a noi come amministratori, ai quali a suo tempo chiederà conto. Se nessuno di noi è proprietario a titolo assoluto dei beni che usa temporaneamente, la prima conseguenza sarà quella di possederli senza che essi possiedano noi. L’avido, che consacra la sua vita ai beni, scava un fossato incolmabile tra lui e la felicità. Volendo però la felicità, l’accortezza consisterà allora nell’invertire la dinamica perversa che si era instaurata: invece di consacrare la vita ai beni, consacrerà i beni alla vita e ciò avverrà nella condivisione con tutti. In particolare, la scaltrezza si giocherà sul fatto che, non potendo rabbonire direttamente il padrone perché l'ammanco sarà risultato insolubile, si cercherà di carpire la sua lode con il condonare i debiti ai compagni. La parabola può essere letta come un’illustrazione della richiesta del Padre Nostro: ‘rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’. La scaltrezza della santità sta non nel fatto di rispondere davanti alle proprie mancanze con il tentativo, impossibile data l'ampiezza dell'ammanco, di saldare i propri debiti, bensì nel fatto di condonare i debiti altrui per trovare ancora il favore del padrone.

In particolare, l'apostolo è colui che froda il padrone nel suo diritto di giustizia invitando tutti ad entrare nel Regno. L'abilità dell'amministrare sta proprio nel favorire in ogni modo l'entrata nel Regno da parte del maggior numero. La misericordia è il calcolo più intelligente che possiamo fare per noi e per gli altri. Se tu servirai il tuo Signore onorando il tuo fratello, qualora tu dovessi mancare in qualcosa rispetto al tuo Signore, l'onore dato al tuo fratello richiamerà il favore del tuo Signore. Non solo, ma se il tuo fratello mancherà in qualcosa rispetto al suo Signore, l'onore che tu gli avrai portato funzionerà da intercessore per lui perché quell'onore è computato a merito. I meriti davanti a Dio sono energie di intercessione, pungoli all'amore di Dio a riversarsi su di noi.

A questo punto si aprono nuovi livelli di comprensione della parabola, ulteriormente spiegata dalle parole di Gesù sulla distinzione tra ‘vostra’ e ‘altrui’, tra ‘cose importanti’ e ‘cose di poco conto’. Si tratta di ottenere ciò che è nostro con ciò che non è nostro; di ottenere le cose importanti con le cose di poco conto. Tutto ciò che usiamo in questo mondo non è nostro, non ci appartiene; non solo, ma non ha nemmeno importanza seria rispetto a quello che davvero cerchiamo e dunque è calcolato come cosa di poco conto. Eppure, non abbiamo altra possibilità di arrivare a ciò che è nostro se non attraverso le cose non nostre, a patto che le usiamo senza esserne usati, che le condividiamo con tutti e che le godiamo insieme. E che cosa è nostro? Cirillo di Alessandria definisce nostro ‘la santa e mirabile bellezza che Dio forma nelle anime delle persone, rendendole simili a se stesso, in accordo con ciò che eravamo in origine’. Questa è la cosa importante, quella che ci definisce, quella che ci struttura. È nostro l’essere figli dell’Altissimo, è nostra quella somiglianza con il Signore Gesù, che lui è venuto a ristabilire.

I beni propri, grandi, veri, sono quelli che corrispondono ai desideri più profondi del cuore, sono quelli che riguardano l'essere, la pienezza di quella vita che ardentemente cerchiamo e che vediamo costantemente sfuggirci perché non ci fidiamo della promessa di Dio; i beni altrui, piccoli, iniqui, sono le cose materiali di cui abbiamo bisogno per vivere ma senza che costituiscano lo scopo stesso del vivere; sono quelli che riguardano i desideri nell'immediato che spesso sono così in contrasto con quelli profondi del cuore e che, se hanno il sopravvento, sono intaccati dall'ingiustizia; sono quelli che preferiamo contro le promesse di Dio.

Non per nulla il canto al vangelo introduce questa parabola con la citazione di 2Cor 8,9: “Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà”, da raccordare all’altro passo di Fil 2,5-8: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”. Condividere i beni con i poveri, stare solidali con l’umanità di tutti significa portare a compimento quella vocazione all’umanità che ci appartiene in proprio come figli dell’Altissimo, resi tali da quel Signore Gesù che ha scelto di stare solidale con gli uomini perché gli uomini potessero tornare a godere della comunione con Dio, il loro vero Bene. Ed è caratteristico che l’espressione di Paolo, riportata dal canto al vangelo, segua l’invito dell’apostolo ai Corinzi a partecipare alla colletta organizzata per la Chiesa di Gerusalemme, non solo perché si stabilisca una certa uguaglianza tra ricchi e poveri, ma soprattutto perché si renda visibile nei frutti della carità la riconciliazione, operata dal Signore Gesù, dell’umanità con Dio, simboleggiata dall’unità nell’unica famiglia di Dio di ebrei e pagani.

Un’ultima osservazione sull’espressione dell’amministratore disonesto lodato. Il suo dire: ‘so che cosa fare’ equivale all’affermazione di Giovanni: “E noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi. Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui” (1Gv 4,16). E si contrappone all’espressione che Gesù indirizza al Padre sulla croce a proposito dei suoi crocifissori: ‘non sanno quello che fanno’ (Lc 23,34).

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo Ordinario

 

XXVI  Domenica

(29 settembre 2013)

 

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Am 6, 1.4-7; Sal 145; 1 Tm 6, 11-16; Lc 16, 19-31

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A dispetto del contenuto ovvio sull’uso delle ricchezze, la parabola risponde a una duplice domanda di fondo:

 

1) possiamo conoscere il pensiero di Dio?

 

2) in rapporto a che cosa va giocata la vita?

 

Il giudizio di Dio che presenta le sorti rovesciate (di qui il ricco gaudente e il povero tribolato, di là il ricco tormentato e il povero consolato) intende proprio far conoscere il pensiero di Dio all’uomo perché questi si muova in conseguenza. La forza del racconto non sta nel deterrente di paura (si usano toni pacati e familiari) ma nello svelamento del segreto della vita di cui Dio è il custode e il dispensatore.

La tensione della narrazione mira a svelare l’illusione provocata dalle ricchezze. Se il bene cercato è la ricchezza, allora la dinamica dei cuori sarà questa: non mi fido di Dio (di qui la paura che assale); ho bisogno di accumulare per garantirmi un potere sul futuro e sugli uomini (di qui l’affanno); non posso condividere i beni con gli altri perché di loro o non ho alcuna considerazione, nemmeno li vedo o nutro disprezzo oppure ho paura (di qui l’egoismo). In realtà divento come quello che servo, cioè inconsistente e menzognero. Il salmo, riferendosi agli idoli costruiti dagli uomini, dice: “Sia come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida” (Sal 115,8). L’accusa al ricco della parabola non riguarda il fatto di essere ricco, ma di non vedere la realtà, di non accorgersi del povero, di vivere illuso.

Se invece la ricchezza produce il bene, allora la dinamica dei cuori diventa quest’altra: cerco la vita nella promessa di Dio (di qui la fiducia); non ho bisogno di accaparrare (vivo senza affanni); posso essere solidale con il prossimo (vivo nella carità). Il frutto sarà duplice: l’uomo sarà onorato e Dio sarà visto presente nel mondo. L’esortazione di s. Paolo a Timoteo “ti scongiuro di conservare senza macchia e irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo” può essere intesa: il comandamento dell’amore a Dio e al prossimo è il tesoro del nostro cuore da custodire al di sopra di tutto e senza alcun annacquamento, perché ai cuori sia rivelato il volto del Signore, prima al nostro e poi a quello di tutti.

Una condizione è richiesta. La trovo ben espressa in una colletta della messa nel rito ambrosiano: “... conferma in noi la grazia della tua libertà”. Vedere nei comandamenti la possibilità di sperimentare l’amore di Dio per noi e la fraternità con gli uomini comporta il dono di una grande libertà, quella che ci deriva dal Signore Gesù Cristo che rivelandoci il suo Volto dà anche a noi un volto in cui specchiarsi, riconoscersi e ritrovarsi. È la libertà che il cuore respira quando i suoi pensieri si accostano ai pensieri di Dio, quando i suoi pensieri si intessono con i pensieri di Dio e cade l’illusione di potenza, di sufficienza, di dominio per aprirci orizzonti nuovi e lucidità di visione e calore di rapporti.

Ma la punta più decisiva della parabola sta nel sottolineare che in gioco è la fede nel Salvatore che convince alla fraternità nella comunione col proprio Dio. In effetti la parabola non si conclude con un’ammonizione a proposito delle ricchezze, ma con l’invito a riconoscere il Figlio dell’uomo, il Salvatore: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”. È l’allusione misteriosa dell’intera parabola. Gesù risusciterà, ma di per sé nemmeno questo sarà convincente per coloro che non sanno vedere l’opera di Dio, l’azione di Dio. Così dar credito alla parola di Dio, alla promessa di Dio celata nella sua parola e compiuta nel Crocifisso-Risorto significa aprirsi al segreto della vita, che si gioca nella fraternità condivisa.

A modo di flash possiamo ancora sottolineare:

- Dio non si può vedere direttamente. A Lui ci si può aprire accogliendo la sua parola e avendo cura del povero. Non basta però condividere i propri beni; occorre anche aver premura del povero, perché è quella premura che rende preziosa e amabile la condivisione, che risulta così essere segno della fede in Dio, che vuole felici i suoi figli.

- nella parabola ci sono come dei punti nevralgici che ci aprono gli occhi. È sintomatico che il ricco non porti nessun nome, mentre il povero è chiamato Lazzaro, che significa Dio aiuta. Voler avere la vita dalla ricchezza comporta dimenticare Dio e misconoscere il fratello. Il ricco non è presentato come cattivo, ma più semplicemente e più drammaticamente come uno che nemmeno s’accorge del povero tanto vive nella sua illusione. A tale riguardo, la prima lettura del profeta Amos celebra l’intervento di Dio nella storia come il sopraggiungere del disincanto, come la cessazione dell’illusione. Quella classe nobile che sperperava allegramente i beni del popolo senza curarsi del suo bene verrà spazzata via: la potenza assira conquisterà Israele e tutti saranno ridotti in schiavitù.

- Lazzaro, nel paradiso, è descritto con l’immagine del banchetto messianico, nel posto d’onore, a fianco di Abramo. La scena corrisponde al banchetto dell’ultima Cena con Gesù e Giovanni al suo fianco che può reclinarsi sul suo petto.

- il particolare però assolutamente rivelativo è la descrizione del ricco negli inferi: ‘alzò gli occhi e vide’. Non aveva mai alzato gli occhi durante la sua vita e perciò non aveva mai visto nulla in verità. L’alzare gli occhi comporta l’accoglienza della salvezza da Dio e se l’uomo fa questo non può non accorgersi del suo fratello. Questo particolare esprime il movimento del cuore che prelude al riconoscimento della verità della vita. Ciò che viene indicato avvenire là negli inferi, nel giudizio della parabola, è proprio quello che siamo invitati ad assumere adesso nella nostra vita.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo Ordinario

 

XXVII  Domenica

(6 ottobre 2013)

 

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Ab 1,2-3; 2, 2-4;  Sal 94;  2 Tm 1,6-8.13-14;  Lc 17, 5-10

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Riportando la preghiera angosciosa della regina Ester prima di giocarsi la vita per salvare il suo popolo l’antifona di ingresso canta: “Tutte le cose sono in tuo potere, Signore, e nessuno può resistere al tuo volere”. Da intendere: Dio ha promesso di salvare, nessuno glielo impedirà, nessuno impedirà la fedeltà di Dio a se stesso e nessuno impedirà al cuore ‘fedele’ di ottenere quella salvezza.

Tutta la liturgia di oggi mira a svelare la struttura del cuore dell’uomo che si gioca nella fede. Come dice il profeta Abacuc: “Soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede”. La situazione del popolo di Israele, sotto la pressione dell’impero caldeo che, distrutta la potenza assira, si abbatte sul Medio Oriente, si era fatta drammatica. L’azione di Dio nella storia diventa incomprensibile tanto era messa alla prova la fede nella sua capacità di salvezza. Ma proprio allora le illusioni umane vengono meno e la fede in lui diventa più radicale e potente. L’espressione del profeta è ripresa più volte da s. Paolo nelle sue lettere (Rm 1,17; Gal 3,11; Eb 10,38) e risuona nelle parole degli apostoli che chiedono a Gesù: “Accresci in noi la fede!”.

La domanda degli apostoli però procede da un contesto preciso che i versetti precedenti illustrano bene: “Se il tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo; ma se si pentirà, perdonagli. E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo: ‘Sono pentito’, tu gli perdonerai”. La fede è domandata per vivere il compito divino del perdono, che è il modo umano di vivere l’amore, assecondando quel mistero di riconciliazione in atto nella storia secondo l’espressione della lettera agli Efesini: “perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato [= ha fatto grazia di sé] a voi in Cristo”. Se poi ci riferiamo al passo corrispondente di Matteo il compito ci appare ancora più immenso perché nemmeno si accenna al fatto che il fratello ci chieda scusa: “Se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?” E Gesù di risposta: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette” (cfr. Mt 18).

Così tanto, in modo così nuovo Gesù aveva insistito nella sua predicazione su questo comando divino: “tu gli perdonerai”! Il cuore dell'uomo sa e sente che non può riacquistare l'innocenza perduta se non nel perdono ricevuto e offerto, costantemente. Qui si radica l'esperienza di Dio: ognuno sente che non riuscirà credibile nell'offerta del suo amore se l'Amore del Signore non l’avrà raggiunto, se il Signore non gli riverserà in grembo quella tenerezza che non guarda a meriti o a diritti. Nel perdonare si gioca la sincerità dell'aver incontrato Dio e dell'esserci percepiti solidali con i nostri fratelli. La difficoltà risiede proprio nel fatto che non è così semplice ritenerci peccatori, assillati come siamo dalla paura di venire respinti e che non è così facile non aver più paura di Dio.

La risposta di Gesù non riguarda la quantità della fede, come se importasse poterne avere poca o tanta. Si basa sulla sua natura, sul fatto di averla vitale, viva, proprio come un seme che nasconde l'energia di trasformazione per arrivare ad essere albero. “Se aveste fede quanto un granello di senape” non vuol dire: 'basta che ne abbiate un pochino, grande come un granello di senape', ma piuttosto: 'basta che sia viva come un seme, che pur piccolissimo, poi diventa una grande pianta'. Come sottolinea il salmo responsoriale, il salmo 94, il primo dei salmi che nella tradizione ebraica si canta al ricevimento del sabato, al versetto 7: “Se ascoltaste oggi la sua voce!”. Allora potremmo godere del vero riposo del sabato e vivere la nostra storia, la nostra storia tormentata, nella confidenza della compagnia del nostro Dio. Ciò che ci è richiesto, non è il poco o il tanto, ma la schiettezza, la verità del cuore nella confidenza col suo Dio.

A tale schiettezza si attiene il servo. Quanto è facile cadere nella rivendicazione dei nostri diritti, di quel che è giusto, di quel che ci viene! La vita non si allea con chi avanza titoli di pretesa. Il Signore nemmeno, per quanto aspetti alle porte del nostro cuore in attesa che impariamo semplicemente a chiedere e non a esigere, semplicemente a dare e non a pretendere, semplicemente a fare e non ad aspettarci che ci venga fatto. E questo sarà possibile quando ci accorgeremo che Qualcuno ci ha trovati, è venuto a servirci; che non avremo mai titoli a sufficienza per farci ammirare, ma ci ritroveremo belli solo nella grazia di Chi ci ama; che essere servi, nell'esperienza evangelica, significa non aver più bisogno di dimostrare nulla, di esibire nulla, di imporci in nulla. Il vero servo è proprio Gesù, che nella confidenza più totale con il Padre, serve tutti per conquistare tutti a quella stessa confidenza.

Essere servi inutili significa essere semplicemente servi e nulla di più. Ma il nostro titolo di gloria e di onore sta proprio qui: non voler essere e avere altro che quello che l'amore del Signore ha voluto per noi. La rettitudine del servizio sta esattamente in questo accogliersi nei confronti del Padrone senza perdersi nei confronti con gli altri servi. È l’altra faccia dell’espressione: “il giusto vivrà per la sua fede” e vuol dire: chi non avanza pretese, confida davvero in Dio e non inciamperà nella vita perché non sarà in contesa con gli uomini. Quello che non deriva dalla confidenza in Dio viene dalla paura e se viene dalla paura è la rivendicazione che avanza, rivendicazione che stoppa il cammino della comunione con se stessi, con gli altri, con Dio, con le cose.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo Ordinario

 

XXVIII  Domenica

(13 ottobre 2013)

 

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2 Re 5, 14-17;  Sal 97;  2 Tm 2, 8-13;  Lc 17, 11-19

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Non è la prima volta che Luca narra della guarigione di lebbrosi (cfr Lc 5,12-14). In questa narrazione però il testo sembra come sorvolare sull’evento del miracolo di guarigione per insistere su altro. Lo rivela il colloquio di Gesù con il samaritano guarito, che è tornato a ringraziarlo e il contesto in cui il brano è collocato. Gesù è in viaggio verso Gerusalemme e l’annotazione di Luca mette in risalto il fatto che ciò che avviene deve essere compreso nell’ottica di quel viaggio, per lo scopo segreto di rivelazione del mistero di Dio che si compirà. Non solo, ma subito dopo il racconto dei dieci lebbrosi segue la domanda dei farisei sul regno di Dio: “Quando verrà il regno di Dio?”. Ciò che è in gioco nel brano dei dieci lebbrosi è appunto la questione del Regno di Dio che viene. Come non vederlo? Eppure, non sembra così facile vederlo.

In ottemperanza alla legge di Lev 13,46, i dieci lebbrosi si fermano a distanza e gridano al Signore il loro tormento, chiedendo di essere guariti. Il loro dramma non deriva solo dalla malattia che lacera le loro carni, ma anche dal fatto che venivano esclusi dalla comunità, non potevano accedere al tempio per il culto. La lebbra evoca direttamente il destino orribile del peccato che insidia la fraternità, irrigidisce i rapporti, contamina a tal punto il cuore da renderlo inaccessibile al cuore degli altri, separa e opprime, impedisce al volto di Dio di risplendere. La guarigione di un lebbroso da parte di Gesù allude sempre alla purificazione del cuore che torna così a far risplendere i rapporti di comunione e ridà accesso al mistero di Dio.

In dieci chiedono di essere guariti. Tutti sono sinceri e tutti e hanno fiducia in Gesù perché credono alla sua parola e si muovono per andare a presentarsi ai sacerdoti. Lungo il cammino si ritrovano guariti. La loro fiducia è stata premiata. Nove proseguono, uno solo torna indietro per ringraziare Gesù. È qui che il racconto rivela la sua vera portata. I nove che proseguono non si accorgono di quel che è avvenuto in verità. Non hanno sentito in loro la parola del profeta: “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43,19) o, per dirla con il v. 2 del salmo 97, non hanno compreso che “Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza”.

Dio non lesina i suoi doni, anche se gli uomini spesso interpretano questi doni come atti dovuti. Se Dio è Dio, perché non mi può dare questo o quest'altro? Quante accuse a Dio di fronte agli eventi della nostra vita! Ma simile atteggiamento si perde nel nulla, non produce nulla degno di menzione, non viene lodato da Dio. Perché? Perché tutto ciò che riceviamo e abbiamo, tutti i doni di Dio comportano un'intenzione segreta, un appello al nostro cuore da parte di Dio. Il rimprovero che Gesù fa ai nove lebbrosi rivela la sordità di fronte a questo appello, la cecità di fronte a questa intenzione segreta di Dio. L'uomo si confonde con il dono che ottiene e si richiude su di sé. È rimasto sordo, non ha visto di cosa si trattava realmente.

Quando invece prorompe la gratitudine, il cuore ha percepito l'appello, ha sentito l'intenzione segreta di Dio. E la lode si risolve in un nuovo livello di fede, che si concretizza in un nuovo incontro, incontro che non interesserà più soltanto un bisogno, ma tutto il proprio cuore; non più soltanto una cosa, ma tutta la propria vita. Difatti l'incontro fa accedere ad una nuova visione (Alzati: ha scoperto che Colui che l'ha guarito nel corpo, l'ha toccato nel cuore e lo rende capace di sentire le cose in modo diverso) e ad una nuova condotta (e va’: l'uomo diventa discepolo, tanto che la fede nel Salvatore gli sarà ormai cammino sicuro di umanità, di un'umanità aperta, solidale, trasfigurata).

Gesù, accogliendo il samaritano che torna a ringraziarlo, dice: “Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?”. ‘Rendere gloria’ è un’espressione semita per ‘dire la verità’. Spesso l’uomo dice cose vere, ma senza dire la verità. Oppure, in altri termini, diciamo di essere sinceri, ma spesso non siamo veri. Il fatto è che la sincerità ha a che fare con il dire quello che sentiamo, mentre la verità ha a che fare con quello che siamo. Ringraziare di un dono ricevuto non significa solo esprimere la propria riconoscenza ma prendere atto della benevolenza dell’altro che ci fa sussistere. Dire la verità implica sempre la responsabilità del nostro essere di fronte a Qualcuno. Questo è mancato ai nove che si sono dileguati, mentre è risultato così determinante per la conversione del samaritano.

La tua fede ti ha salvato” : è il tutto della vita vissuto a partire da un punto, il punto di quell'incontro con il Salvatore che irradierà tutta la vita perché sono state toccate le radici del cuore.

Potremmo alla fine domandarci: qual è dunque il criterio della vera devozione gradita a Dio? Il versetto di 1 Ts 5,18 del canto all'alleluia lo dice molto bene: “In ogni cosa rendete grazie: questa è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi”. Vale a dire: se rendete grazie in ogni cosa, allora siete attenti all'appello di Dio, all'invito del suo cuore, che è quello di farci fare esperienza della sua volontà di benevolenza nei nostri riguardi attraverso gli eventi della nostra vita, che così diventa storia sacra, storia dell'incontro dei nostri affetti, di noi e di Dio; benevolenza, che si è manifestata in Gesù, di cui siamo chiamati a vedere il Volto e nella cui compagnia siamo invitati a camminare. A dire il vero, al rendere grazie Paolo unisce l’essere sempre lieti e il pregare ininterrottamente. Le tre cose insieme segnalano che il cuore ha presagito la presenza del suo Salvatore, che l’ha riconosciuto e al quale volgerà tutto il suo desiderio. A sottolineare la fecondità dell’atteggiamento del saper rendere grazie, i padri del deserto ripetevano che il rendere grazie in tutto solleva da ogni altro obbligo. Potessimo rimanere sempre in quell’atteggiamento, eviteremmo ogni intrusione del male nel nostro cuore.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo Ordinario

 

XXIX  Domenica

(20 ottobre 2013)

 

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Es 17, 8-13a; Sal 120;  2 Tm 3, 14 - 4, 2;  Lc 18, 1-8

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La liturgia di oggi risponde a una delle contraddizioni più lancinanti della vita: se Dio è Dio, perché non interviene quando il male devasta il mondo? Il popolo di Israele, provato dalla sete nel deserto, aveva espresso la sua angoscia negli unici termini possibili per dei credenti: “Il Signore è in mezzo a noi sì o no?” ed era seguito il miracolo dell’acqua scaturita dalla roccia che Mosè aveva percossa con il bastone di Dio. Ma subito dopo il popolo corre un altro tremendo pericolo: l’attacco degli  Amaleciti. È il nemico che viene a cercarli; non semplicemente che trovano un nemico sulla loro strada. È la prima battaglia di Israele dopo l’uscita dall’Egitto. L’angoscia del popolo, questa volta, sembra sparire dietro alla figura di Mosè, ritto sul monte a pregare per la salvezza del popolo e a quella di Giosuè che è mandato a combattere. Il fatto però che Mosè salga sul monte significa che è visibile a tutti, ai combattenti e al popolo che attende angosciato l’esito della battaglia. Tutto il popolo prega con Mosè; tutto il popolo rinnova la sua fede nel Dio di Israele perché un’altra volta il loro Dio li salvi.

I testi salmici di questa liturgia alludono a una situazione drammatica. La vita dell’uomo non è drammatica semplicemente perché continuamente provata da afflizioni e ingiustizie, ma perché nelle afflizioni e nelle ingiustizie subite ci può essere preclusa la visione di Dio. Come a dire: l’aspetto più angoscioso per il cuore dell’uomo è la delusione nei confronti del suo Dio, la perdita di speranza e il tormento di un amore mancato. Il canto di ingresso (sal 16,6.8) descrive la fiducia in Dio ma nella costatazione che gli empi opprimono il giusto; il salmo responsoriale, il salmo 120, allude alla fiducia in Dio ma nel pericolo di un’invasione (‘alzare gli occhi verso i monti’ allude al possibile alleato assiro contro l’attacco egiziano, aiuto che però si tramuterà in schiavitù e allora il salmista invita a fidarsi di Dio).

Ecco allora il punto: come riconoscere il suo amore? Come fidarsi del suo amore in modo da attraversare le prove senza venir meno nella fede? Non per nulla Gesù parla della pronta risposta di Dio che fa giustizia ai suoi eletti mentre sta salendo a Gerusalemme incontro alla sua ingiusta condanna. La parabola che racconta nasce da due domande precedentemente poste:

1) il regno di Dio si può vedere?   

2) il Figlio dell'uomo sarà riconosciuto?

Se il regno di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, vuol dire che si dovrà imparare a percepirlo, a sentirlo. Se il Figlio dell’uomo “è necessario che soffra molto e venga ripudiato”,vale a dire: non si vedrà come ci si aspetta di vederlo, occorrerà imparare a riconoscerlo, a sentirne la presenza, a percepirne bellezza e potenza. Ma come? Con la perseveranza nella preghiera. Lo dice espressamente Luca nell'introdurre la sua parabola del giudice iniquo e della vedova che lo importuna fino ad ottenere giustizia: “Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi”. Il linguaggio è quello di Paolo e si possono citare numerosi passi paralleli: 2 Ts 1,11/ 3,13; Fil 1,4; Col 1,3; Gal 6,9; Ef 3,13.

I discepoli che subiscono persecuzioni per fedeltà a Cristo si chiedono: perché Dio tarda? Certo Dio farà giustizia, ma quando? Dio mi aiuterà contro il peccato, ma perché si deve fare così tanta fatica? Sarà possibile resistere fino alla fine? Ecco, la parabola risponde a queste domande angosciose.

La parabola della vedova che importuna il giudice disonesto richiama quella dell’amico importuno raccontata sempre da Lc 11,5-8. Da notare che quest’ultima è introdotta dall’insegnamento della preghiera del Padre nostro, allorquando i discepoli erano rimasti affascinati dal modo in cui Gesù pregava e gli avevano chiesto di insegnar anche a loro a pregare così. Se poi colleghiamo alla parabola della vedova che assilla il giudice il commento di Gesù a questa sua parabola dell’amico importuno: “Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!” (Lc 11,13), il senso che ne scaturisce è più profondo. Cosa significa per noi dire che Dio “farà loro giustizia prontamente”, quando registriamo con sofferenza come un dato di fatto che il Signore tarda, che non viene quando vorremmo noi? (cfr. 2Pt 3,9-11).

Dio esaudisce prontamente, senza fare aspettare, ogni richiesta di Spirito Santo, vale a dire l'anelito del cuore che non si accontenta delle cose che provengono da Dio, ma che cerca proprio Dio, l'incontro, l'intimità con lui. Quando un discepolo è afflitto dalla fatica di perseguire il bene, quando non riesce a sopportare un'ingiustizia, quando è tormentato da persecuzioni interiori ed esteriori, anche se Dio tarda a rendergli soddisfazione così come se lo immaginerebbe, subito Dio gli concede lo Spirito del suo Figlio perché il suo cuore non si allontani da lui comunque, perché non venga meno l'anelito alla sua compagnia, perché si rafforzi la sua fede, cioè la sua visione di lui. Come dice Gesù alla fine della parabola: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”. Senza quella costante perseveranza nella preghiera la fede non potrà durare. Sulla fiducia che Gesù stesso ha pregato per me perché venga custodito nel suo amore (cfr Gv 17,11). E sulla fiducia dell’esortazione di Paolo ai credenti: “Ma il Signore è fedele: egli vi confermerà e vi custodirà dal Maligno …” (cfr 2Ts 3,3-5) perché ci guiderà a che l’amore di Dio regni nei nostri cuori e a che stiamo sottomessi al Cristo per non essere mai mortificati nell’amore che ci ha fatto conoscere.

Perché dobbiamo pregare sempre? Perché il regno di Dio non lo vediamo e perché il Figlio non si manifesta secondo le nostre attese. La perseveranza costante nella preghiera è l'unica porta che ci fa accedere alla visione del Figlio ed al sentore del Regno. Senza dimenticare che un’antica tradizione ebraica rileva nelle braccia alzate di Mosè in preghiera sul monte la solenne benedizione sacerdotale di Nm 6,24-27, benedizione che misticamente fa sussistere il mondo.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo Ordinario

 

XXX  Domenica

(27 ottobre 2013)

 

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Sir 35, 15-17.20-22;  Sal 33;  2 Tm 4,6-8.16-18;  Lc 18, 9-14

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Con la parabola del fariseo e del pubblicano Gesù illustra un altro aspetto del mistero della preghiera. Nel tempo della storia, stando davanti a Dio, gli uomini non sono suddivisi tra giusti e peccatori, ma necessariamente soltanto tra quanti presumono di ritenersi giusti e quanti si ritengono peccatori.

Non si tratta evidentemente di disprezzare le pratiche buone, tanto più quelle inerenti al culto, che del resto procedono dai comandamenti di Dio, ma di svelare la condizione che rende quelle pratiche gradite a Dio e portatrici di frutto per il cuore dell’uomo.

Il brano del Siracide ci offre indicazioni preziose. Il passo tratta delle offerte al tempio e mette in guardia il credente dal presentare al Signore vittime ingiuste, sottolineando che “il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone (letteralmente: la gloria della persona non è nulla davanti a lui)”. Uno può offrire vittime ingiuste in tre modi: a) praticare il rito dell’offerta materialmente senza impegnare la propria vita convertendosi; b) portare una vittima sottratta al povero, frutto quindi di ingiustizia e oppressione; c) presentare una vittima difettosa. Il Signore, che è giudice, vede i cuori e non si lascia ingannare da nessuna gloria esteriore.

Quando il fariseo proclama la sua giustizia, non dice cose false, ma non è retto il suo cuore perché interpreta la sua giustizia come una gloria da esibire e Dio, per il quale la gloria delle persone non conta nulla, non può accogliere la sua offerta. Il fariseo offre una vittima difettosa.

Ma la ragione più profonda della non accoglienza della sua preghiera è un’altra. Basta mettere a confronto la preghiera del fariseo con quella che Gesù innalza al Padre al ritorno dei discepoli da una missione di predicazione: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11,25). Almeno tre sono le differenze vistose: la preghiera di Gesù prorompe da un'intimità goduta, esprime solidarietà con Dio e con gli uomini, celebra Dio e non l'uomo. Quella del fariseo è appiattita sull'esteriorità esibita, fa rimarcare la separazione, celebra l'uomo e non Dio. Se nella preghiera di Gesù Dio è benedetto come Padre, in quella del fariseo, la caratteristica che manca, è proprio la proclamazione della sua paternità.

Nella preghiera del Padre Nostro, tutte le richieste sono dirette a Dio, eccetto una : “... come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. A questa richiesta che ci fa Dio rimanda la conclusione della parabola di Gesù: “chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato” (Lc 18,14). Chi è profondamente consapevole del suo peccato e chiede a Dio il perdono, come dice il pubblicano: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”, non ha bisogno di smarcarsi dagli altri, non avverte nemmeno che qualcuno sia in difetto verso di lui. Ed è solo a partire da questa consapevolezza che, risalendo all'indietro nella preghiera del Padre Nostro, chiediamo di nutrirci del Pane di vita, di accogliere come desiderio  e criterio supremo di condotta del cuore il mistero di benevolenza di Dio per gli uomini, di farci guidare dallo Spirito e di cercarne il regno, di vivere in maniera che il Nome di Dio sia costantemente glorificato ed allora, come Gesù, potremo chiamare Dio Padre. Questo, il fariseo, non lo può fare. Ma se non fa questo, come può essere gradita la sua preghiera? In realtà la preghiera non tende ad altro se non a far sì che sia rivelata al nostro cuore la verità di Dio, cioè che è Padre.

La difficoltà per noi, provati dalla vita, affaticati e oppressi, sta nel fatto che non è così semplice presentarci davanti a Dio in tutta sincerità da peccatori, come fa il pubblicano della parabola. Vorremmo comunque poter esibire qualcosa di buono o rivendicare qualcosa che ci sarebbe dovuto; eppure, così facendo, non conosceremo mai la vera confidenza in Dio. Sembra questa la ragione per la quale Gesù ci invita a fare credito al prossimo per ottenerlo davanti a Dio.

Il movimento della preghiera non è quello di esibire qualcosa per convincere Dio a venire da noi, bensì quello di confidare nella sua offerta di salvezza, nella sua prossimità. Un passo del profeta Isaia lo esprime chiaramente: “Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi trema alla mia parola” (passo, che la versione greca di Isaia 66,2 rende con: “Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e sul mite…”). E non è Gesù colui che di sé dice: “Venite a me … e imparate da me, che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,28-29)? Così, se Gesù è l’offerta di salvezza da parte di Dio, non c’è alcun bisogno di esibire alcunché davanti a Dio; di conseguenza, non c’è più alcun bisogno di separarci dai nostri fratelli, perché possiamo godere insieme la salvezza di Dio. Più un uomo si loda e più piccola è l’immagine di Dio che coltiva; più un uomo si distingue e si separa dagli altri, meno conosce la dolcezza che viene dalla salvezza di Dio.

Il canto al vangelo ci introduce alle parole di Gesù con l’affermazione paolina: “Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo, affidando a noi la parola della riconciliazione” (cfr. 2Cor 5,19). Come possiamo 'rivelare' la presenza di Dio nel mondo? Come collaboratori della sua opera di riconciliazione. L’annuncio della fede, la celebrazione dei sacramenti, la testimonianza della carità, non tendono ad altro: lasciatevi riconciliare con Dio! Dove ‘riconciliazione’ non significa “Dio si riconcilia con noi, riconcilia se stesso con noi”, ma solo “Dio riconcilia a sé noi”. Dio è in pace con noi, Dio offre la sua pace a noi, Dio ci invita a vivere nella sua pace, riassume la rivelazione del Padre, in Gesù, nella potenza dello Spirito. E quando Gesù conclude la sua parabola con l’indicare il pubblicano ‘tornò a casa sua giustificato’ siamo rimandati a questa suprema verità: Dio offre la sua pace a noi, non noi che dobbiamo rabbonirlo. È questa la ‘buona notizia’, la radice di una gioia nuova, capace di creare comunione con se stessi, con i fratelli, con le cose e gli eventi, in Cristo, nostro Salvatore.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Solennità e feste

 

Tutti i Santi

(1 novembre 2013)

 

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Ap 7,2-4.9-14;  Sal 23;  1 Gv 3,1-3;  Mt 5,1-12a

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Le preghiere e le letture di oggi mostrano in cosa consiste la gioia della santità: godere dello splendore dell’amore di Dio per noi. E tutti gli sguardi si accentrano sulla figura dell’Agnello glorioso e immolato ‘fin dalla fondazione del mondo’ (Ap 13,8). Il mondo è uscito dall’amore di Dio, di esso è intessuto e percorso, di esso parla, ma quanta tenebra ne impedisce la visione! Ebbene, oggi la chiesa mostra al mondo la sua visione: è l’Agnello che attira gli sguardi e gli uomini si ritrovano uniti nella stessa visione e possono risplendere della santità di Dio, che è splendore di amore immolato.

Lo sguardo della Chiesa non è però attirato come da un punto di fuga situato oltre la storia, come si trattasse di riempirsi gli occhi con una visione consolatoria. La sua visione parla di un’esperienza quotidiana; parla di realtà ultima ma vicina, più reale delle cose di tutti i giorni: un mondo che interpella e invita con soave insistenza. Parla al cuore degli aneliti che lo assillano, delle radici che lo costituiscono, delle tensioni che lo lavorano, dei desideri che l’abitano.

Sempre mi piace riandare all’esperienza esaltante degli abitanti di Siena nel 1311 quando l’enorme pala (tre metri per cinque) della Maestà di Duccio da Buoninsegna fu scortata in trionfo dalla bottega dell’artista alla cattedrale, tra gli applausi della cittadinanza. La visione di tutti quei santi schierati a destra e a sinistra del trono dove, in Maria, la natura umana viene rivelata come degna dimora dello Spirito, portatrice del Figlio dell’Altissimo, doveva suscitare l’impressione di trovarsi già partecipi della loro compagnia e del loro tripudio. Oggi, forse, non avvertiamo più l’attrazione del cielo allo stesso modo, ma la speranza, di cui era portatrice quell’attrazione, è ancora necessaria per vivere e cogliere il senso della nostra vita.

L’antifona di ingresso e la preghiera dopo la comunione fanno come da cornice alla visione aperta dalle letture della festa di oggi. “Rallegriamoci tutti nel Signore in questa solennità di tutti i santi: con noi gioiscono gli angeli e lodano il Figlio di Dio”. È motivo di gioia la santità perché non può esserci gioia se non a partire da un amore accolto e condiviso. E la santità, come proclamano i beati davanti al trono dell’Agnello, è questo amore accolto e condiviso. Perché anche gli angeli sono implicati nella stessa gioia? E perché tutto si risolve nella lode del Figlio di Dio? La gioia degli angeli esprime il mistero del loro essere in adorazione: adorano un Dio che è pieno di amore per gli uomini, non per loro. L’amore di Dio per gli uomini l’ha indotto a farsi uomo come loro, di modo che l’uomo potesse, nella sua umanità, essere come il Figlio di Dio. Ne scaturisce una conseguenza: se l’amore che gli uomini si portano non parla di questo amore di Dio lodato dagli angeli, allora vuol dire che non si è più capaci di adorazione, cioè della gioia di vedere splendere l’amore di Dio per tutti gli uomini, non si è più figli di Dio. Un amore che non allude all’adorazione di Dio diventa tiranno.

Nella preghiera dopo la comunione diciamo: “... fa’ che raggiungiamo anche noi la pienezza del tuo amore”. Non preghiamo semplicemente per arrivare anche noi in paradiso, ma preghiamo perché quell’amore costituisca l’orizzonte della nostra vita. La proclamazione dei santi, come viene descritta nella prima lettura, non si riferisce ad un futuro dopo la storia, ma esprime la verità della nostra storia, verità che non passerà e riempirà tutto del suo splendore. Ma quello splendore costituisce già il senso della nostra storia, anche se spesso i nostri occhi sono così velati da non accorgercene più. Sarebbe il senso della preghiera: renderci accorti di quella verità.

È caratteristico che l’antifona alla comunione, riprendendo la serie delle otto beatitudini proclamate nel vangelo,  le riduca a tre: puri di cuore, operatori di pace, perseguitati a causa della giustizia. La purità di cuore capace di vedere Dio è quella che scaturisce dall’esperienza della compassione, della misericordia, così tipica della santità di un cuore che consola e conforta, che accoglie in benevolenza e solidarietà, che rimanda a tutti quello che lui stesso riceve, cioè il perdono rigenerante del suo Signore, che viene così conosciuto come il Salvatore, come l’Amore che ti sottrae all’abisso. La purità però, intrisa di gioia, è solo quella che si traduce in un agire che porta pace a tutti, che rende capaci i cuori di pace, che si fa dono di pace, capace di far grazia di sé come il Figlio di Dio che fa dono di sé perché l’amore di Dio risplenda. E la pace donata è a prova di persecuzione, perché niente è più caro al cuore di colui che gli ha restituito la dignità di uomo e di figlio di Dio. L’amore a prova di persecuzione procede dal fatto di sentire la mia dignità sullo stesso piano della dignità di tutti. Dire che di questi è il regno di Dio significa proclamare che il cuore dell’uomo non può saziarsi che della verità di quell’amore che giunge sanante e potente, sebbene ora si sia sempre nell’occasione di perderlo di vista, di impedirci di goderlo, di impedire agli altri di farne esperienza. Eppure, così proclama tutta la liturgia di oggi, quella verità è la verità del mondo come dei cuori. È la verità di felicità per il cuore dell’uomo, che intravede nelle beatitudini evangeliche le coordinate precise per non fallirla.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo Ordinario

 

XXXI  Domenica

(3 novembre 2013)

 

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Sap 11,22-12,2;  Sal 144;  2 Ts 1,11 - 2,2;  Lc 19, 1-10

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Nella narrazione di Luca, l’ultimo incontro di Gesù, prima di arrivare a Gerusalemme, è quello con Zaccheo, l’esattore delle tasse di Gerico, piccolo di statura. La gente, che fa ala al passaggio di Gesù, non gli lascia nemmeno un varco per sbirciare tanto che, se vorrà vedere che faccia abbia quel famoso maestro, dovrà correre avanti e salire su un sicomoro, un albero che può diventare molto grande ma i cui primi rami sono poco elevati. Non poteva certo prevedere l’esito dell’incontro, ma sicuramente il suo cuore era già mosso da un’aspettativa misteriosa, che l’antifona di ingresso interpreta: “Non abbandonarmi, Signore mio Dio,  da me non stare lontano;  vieni presto in mio aiuto, Signore, mia salvezza” (Sal 37,22-23). Un uomo della sua importanza non poteva certo esporsi al ridicolo per un motivo futile. Gesù, che guarda ai cuori, sente il suo desiderio e gli si fa incontro.

Il racconto gioca appunto sulle attese dei cuori. Tutti, per motivi diversi, non riescono ancora a cogliere Gesù nella sua realtà di Salvatore. Zaccheo però vuole vedere Gesù (motivo, questo, che ricompare diverse volte nei vangeli).  Anche la folla, curiosi e simpatizzanti, vogliono vedere il Maestro ma – i loro pensieri lo rivelano! - non sanno capacitarsi del mistero di Dio che incontra l'uomo.

Quando diciamo nella colletta: "... porta a compimento ogni nostra volontà di bene..." è come se domandassimo: fa' che il bene che operiamo si risolva nella visione di te. Desiderare il bene non comporta solo il fatto di muoversi a farlo, ma di farlo in modo tale che si riveli al nostro cuore il Volto di Dio. Fare il bene comporta sempre un incontrare il nostro Dio, che vuole la salvezza di tutti. Così, quando Gesù arriva sotto l'albero dove è salito Zaccheo e lo invita a riceverlo nella sua casa, in realtà non è Gesù che va nella casa di Zaccheo, ma Zaccheo che viene nella casa di Gesù. Avviene come per l’Eucaristia: ci avviciniamo all’altare per mangiare il Corpo del Signore, ma in realtà è lui che mangia noi, che ci assimila a sé. La decisione di Zaccheo di dare la metà dei suoi beni ai poveri e di restituire quattro volte tanto il maltolto, esprime la gioia di trovarsi ormai nella casa di Gesù, nel mistero cioè di quella fraternità che svela il Volto di Dio agli uomini. Si realizza per Zaccheo la preghiera dell’apostolo per i Tessalonicesi: “preghiamo continuamente per voi, perché il nostro Dio vi renda degni della sua chiamata e, con la sua potenza, porti a compimento ogni proposito di bene e l’opera della vostra fede”. Il bene che così si compie non ha più nulla di esibito, di rivendicatorio, ma procede e si risolve interamente in quella intimità ritrovata con il proprio Dio. La folla invece non è ancora entrata nella casa di Gesù, anche se lo accompagna.

 

Se suona vera l’espressione del libro della Sapienza: “tutto il mondo davanti a te è come polvere sulla bilancia”, allora possiamo pregare: di fronte alla visione di Te, tutto è come polvere. Se davvero “Hai compassione di tutti ... chiudi gli occhi sui peccati degli uomini”, allora i nostri cuori siano così desiderosi di Te da poterci riferire a tutti in modo da non separarci dal tuo amore, da non guardare al peccato di nessuno per non essere separati dai nostri fratelli, da amare chiunque perché tutti facciano esperienza di quanto sia buono il tuo amore.

Ancora un’annotazione. Gesù dice a Zaccheo: “oggi devo fermarmi a casa tua”. Vuol dire che ogni momento della nostra storia è il momento adatto per farla diventare storia sacra, e lo diventa appena si fa strada nel cuore il desiderio di vedere Gesù. Ma vedere Gesù significa disporsi a scoprirlo come il Salvatore, come Colui che ci porta a vivere nella sua casa, nella comunione con il Padre che vuole i suoi figli con lui. Vuol dire anche che in ogni situazione, in ogni circostanza, in ogni peccato, possiamo percepire nel cuore l’eco delle parole di Gesù: “scendi subito, perché devo fermarmi a casa tua”. Nulla impedisce al Signore di invitarci nella sua casa e di sciogliere i nostri lacci per vivere finalmente una fraternità che riveli il gusto di aver incontrato il Signore. Scendere allude all’abbandonare le nostre posizioni per recarsi dove ci vuole Gesù e Gesù vuole portarci in casa nostra.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo Ordinario

 

XXXII  Domenica

(10 novembre 2013)

 

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2 Mac 7, 1-2. 9-14;  Sal 16;  2 Ts 2,16-3,5;  Lc 20, 27-38

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Gesù è entrato trionfalmente in Gerusalemme, ha mostrato tutta la sua autorità messianica nello scacciare i venditori dal tempio, si è inimicato la leadership religiosa e politica del tempo con la parabola dei vignaioli omicidi. Con la decisione di mettergli le mani addosso, senza però ancora riuscirci, si cercano pretesti e si tendono trappole al Maestro per coglierlo in fallo. Con la discussione sulla risurrezione futura, che i sadducei, a differenza dei farisei, non ammettevano, si chiude il confronto dei capi con Gesù. Non si faranno più domande al Maestro; l’incomprensione è totale e ci sarà posto solo per la cattura ormai prossima. Con la differenza che, mentre i capi si chiudono nell’accusa, la gente resta stupita dalla forza dell’insegnamento di Gesù.

Nella risposta ai Sadducei, nei passi paralleli di Matteo e Marco, Gesù li apostrofa come coloro che non conoscono le Scritture né conoscono la potenza di Dio. Cita l’evento del roveto ardente, narrato in Esodo 3, dove Dio rivela il suo nome, nome che rimanda alla ‘compassione’ per il suo popolo di cui conosce le sofferenze e che vuole scendere a liberare. Il nome di Dio non rinvia mai semplicemente all’essere di Dio, ma al suo ‘essere per noi’. Tanto che Dio è sempre ‘Dio di’: Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe.

La tradizione ebraica ha commentato in mille modi la singolarità di questa rivelazione. Dicendo che Dio è Dio di Abramo non si vuole sottolineare che è il Dio che Abramo ha adorato e servito, ma il Dio che ha chiamato, custodito e salvato Abramo. L’alleanza con i Patriarchi non sarà mai dimenticata e quando in ogni generazione i figli di Israele ricordano e gridano a Dio come al Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, Dio risponderà loro. Dio si definisce come Colui la cui esistenza è al loro servizio tutte le volte che lo cercano. Esperienza così fondante per il cuore dell’uomo che Origene così illustra nel suo commento a Giosuè: “Magari venisse concessa anche a me l’eredità di Abramo, Isacco, Giacobbe e divenisse mio il mio Dio allo stesso modo che è diventato Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, in Cristo Gesù, Signore nostro” (Omelia XVIII,3). In quel ‘mio’ possiamo ravvisare tutto il coinvolgimento emotivo della professione di fede di Tommaso davanti al Signore Gesù Risorto. Possiamo ravvisare tutta l’intimità di Gesù con il Padre di cui svela l’immenso amore per noi. In effetti, con la venuta di Gesù e con l’imminente mistero della sua morte e risurrezione, Dio oramai sarà il ‘Dio di Gesù’, il Dio che in Gesù ha sigillato il suo amore per noi nel modo più radicale e definitivo. Non solo ha fatto risorgere Gesù, diventato nella confessione di fede il Vivente, ma ha reso accessibile, in Gesù, il dono della sua vita eterna, quella vita sulla quale la morte non ha potere alcuno di mortificazione.

Il canto al vangelo lo sottolinea molto bene: “Gesù Cristo è il primogenito dei morti: a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli” ripreso da Ap 1,5.6: “…Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti…”. Dio è Dio dei vivi e Gesù, il Vivente, ne dà la certificazione più assoluta. Chiamare Gesù testimone significa alludere al fatto che lui conosce e svela il disegno di Dio nella sua grandezza di amore per l’uomo e chiamarlo fedele significa fondare l’esistenza su quell’amore/compassione che ha presieduto alla creazione, che regge il mondo e accompagna la storia perché tenda alla partecipazione della sua gloria, che è splendore di amore per noi, tutte verità che in Gesù si fanno toccabili e vivibili per il nostro cuore. In questo senso è potente la dichiarazione di Paolo ai Tessalonicesi: “Ma il Signore è fedele: egli vi confermerà e vi custodirà dal Maligno” (2Ts 3,3). Ci mantiene nella fiducia dell’amore del Padre che ci ha fatto conoscere nel suo amore per noi facendoci vivere, uniti a lui, nella vita che scaturisce da quell’amore. Essere custoditi dal Maligno significa non essere sottratti alla fiducia in e di quell’amore.

La risposta di Gesù ai Sadducei non riguarda semplicemente una verità degli ultimi tempi: i morti risorgeranno. Riguarda la potenza del dono di Dio che rende gli uomini che lo accolgono figli della risurrezione. D’altra parte, chi non accetterà il patire del Figlio dell’uomo, nemmeno accetterà la realtà della risurrezione. In gioco è la potenza della fede che non tollera la prospettiva mondana nel mistero di Dio. Il caso prospettato dai sadducei dei vari mariti e dell’unica moglie nel regno di Dio nasconde l’incapacità di comprensione del dono di Dio. Ogni proiezione mondana impedisce l’accoglienza del dono di Dio. Vale per la risurrezione come per ogni altra verità del mistero di Dio che in Gesù si rivela.

Per declinare in modo a noi accessibile la realtà della definizione di Gesù dei beati come figli della risurrezione, potremmo collegarla alla beatitudine: “beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5,9). Gesù dice che i figli della risurrezione sono i figli di Dio. Allora i figli della risurrezione sono gli operatori di pace: chi vive nella pace e nella concordia, quella che Gesù ci ha ottenuto con il dono del suo Spirito e che Paolo illustra in Ef 4,32 dicendo: ‘Dio ha perdonato a voi in Cristo’, espressione che secondo il verbo greco dovrebbe essere resa con ‘Dio ha fatto grazia di sé a voi in Cristo’. Un’esperienza profonda del suo perdono, di questo suo far grazia di sé a me, che rende capace me, a mia volta, di fare grazia di me a tutti nel suo amore, in fraternità. Questa è proprio l'opera del suo Spirito, quello che sulla croce Gesù ha reso al Padre perché venisse effuso su di noi. Lo stesso Spirito che invochiamo nella preghiera eucaristica perché ci renda un unico corpo e uno spirito solo, finché alla fine Dio sia tutto in tutti. Figli di Dio sono allora coloro che lo Spirito governa, coloro che si muovono sotto l'azione dello Spirito e l'unica perfezione desiderabile per l'uomo è appunto quella di lasciarsi penetrare fin nelle midolla da questo far grazia di sé da parte di Dio agli uomini, in Cristo, per la potenza del suo Spirito. Come dice stupendamente s. Francesco, sintesi dell’intera Tradizione: “ciò che devono desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo Ordinario

 

XXXIII  Domenica

(17 novembre 2013)

 

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Ml 3, 19-20;  Sal 97;  2 Ts 3, 7-12;  Lc 21, 5-19

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L’anno liturgico volge al termine e la Chiesa si confronta con gli eventi della fine. La passione di Gesù è imminente e le sue parole alludono al giudizio di Dio sulla storia, giudizio che viene dalla croce: l’amore di Dio si è manifestato, venga meno ogni boria umana! In una visione volutamente complessa, secondo lo stile apocalittico della tradizione ebraica, si intersecano annunci di eventi storici drammatici come la distruzione del tempio e della città di Gerusalemme (probabilmente Luca ha conosciuto la tragedia del 70 d.C.) insieme ad allusioni catastrofiche riguardo alla fine della storia e del mondo, inserite però in un contesto di senso preciso: il dramma della storia fino alla sua fine si gioca per la testimonianza (“Avrete allora occasione di dare testimonianza”). Comprendere di che testimonianza si tratta significa trovare il senso della nostra vita.

L’aspetto singolare di questo brano lucano è il contrasto tra i terrori annunciati e la fiducia inculcata, aspetto che la liturgia si premura di sottolineare. L’antifona d’ingresso canta con il profeta Geremia: “Io ho progetti di pace e non di sventura” (Ger 29,11); l’antica colletta: “Il tuo aiuto, Signore, ci renda sempre lieti nel tuo servizio, perché solo nella dedizione a te, fonte di ogni bene, possiamo avere felicità piena e duratura”; l’antifona alla comunione: “Il mio bene è stare vicino a Dio, nel Signore Dio riporre la mia speranza”.

Lungo tutto il cap. 21 di Luca, Gesù mette in guardia contro il pericolo di seduzione sempre in agguato: “Badate di non lasciarvi ingannare”, “State attenti a voi stessi”, “Vegliate in ogni momento”. La fedeltà al segreto di Dio svelato nel giudizio della croce non è un viaggio in carrozza per nessuno, per cui è necessaria una estrema vigilanza. Ciò che Luca ricordava a proposito della preghiera (‘necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai’, Lc 18,1), ora lo ricorda a proposito della responsabilità dei servi che attendono l’arrivo del padrone (‘Vegliate in ogni momento, pregando’, Lc 21,36). Nella vita è in atto qualcosa di grande che ci riguarda e che può costituire anche per noi, come per la Vergine, gli apostoli, Paolo, i santi, il segreto della vita. Là Gesù indirizza la nostra attenzione. Non si tratta però di attendere l’eterno dopo il tempo, ma di accogliere l’eterno nel tempo.

Il senso del brano evangelico non è che un’introduzione al mistero della fedeltà dei credenti, fedeltà che nasce da una sapienza ricercata e che si gioca in una vigilanza capace di attraversare le prove e i tormenti della storia. La storia è piena di tormenti, i tormenti però non sono per la morte, ma perché si svelino i segreti di Dio. Assai istruttiva a tal riguardo è la prima lettura tratta dal profeta Malachia. Il testo di Malachia, secondo la suddivisione dei libri nella Bibbia accolta nella tradizione cristiana, è l’ultimo libro dell’Antico Testamento, quello che fa da cerniera con i vangeli. Il profeta parla del giorno rovente del Signore, ma nell’ottica della salvezza di coloro che hanno fatto memoria della parola del Signore. Sarà proprio la conversione a Gesù a introdurre negli eventi della fine, intendendo: se in lui è sigillata l’alleanza di Dio godibile per l’uomo, allora il segreto da condividere non è che quell’immenso amore svelato nel Cristo che nulla e nessuno potrà rapire. Lo scenario delineato, l’unico possibile rispetto alla potenza dell’amore che dal Cristo deriva e che diventa la nostra ragione di vita finché tutto e tutti possano goderlo, non resta che quello del martirio, cioè della testimonianza. Fatto, che anche le cronache quotidiane di questi ultimi anni ci rammentano con evidenza a proposito dei nostri fratelli di fede in certe parti del mondo. D’altra parte, il dire ‘finché tutto e tutti possano goderlo’ significa accettare ogni forma di avversità e tormento nell’ottica di vivere la potenza di quell’amore comunque. Significa vivere quell’amore fino alla fine, vale a dire fino a che il segreto che comporta si sveli in tutta la sua potenza, per me come per tutti.

È chiaro allora che la perseveranza a cui Gesù ci invita (“Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita”) non allude a uno sforzo di tenacia ma a una verità di esperienza: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20), le parole conclusive del vangelo. Perseveranza va coniugata con Presenza. In effetti, nell’ascolto del nostro brano odierno, non saremo tanto colpiti dalle predizioni dei tormenti, ma dalla fiducia che ci deriva dall’attraversarli in compagnia di Colui che abbiamo conosciuto essere l’Inviato di Dio, il Figlio di Dio, nato-morto-risorto per noi, come sottolinea all’evidenza l’espressione paradossale: “Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto”.

In gioco, nella storia, è appunto la fedeltà a Colui che il nostro cuore ha scoperto essere il sigillo della misericordia di Dio per noi, a Colui che per noi è diventato radice di vita e di sentimenti a tal punto da farci conoscere contemporaneamente il riposo e l’angoscia dell’amore, non potendo tollerare che nessuno ne resti privo per causa nostra. Tanto che il modo più sicuro di vivere del riposo dell’amore è quello di non rifiutarlo a nessuno. Con questa tensione dell’amore ha a che fare la perseveranza, che non è semplicemente la durata nel tempo, ma la tenuta di qualità dell’amore nel tempo e nelle prove.

‘Perseverare fino alla fine’ (cfr. Mt 10,22) non riguarda semplicemente la fine della vita, ma finché il fine della vita non si sveli pienamente al cuore, vale a dire finché non compare al cuore il volto misericordioso del Signore. Così, perseveranza o pazienza ha sempre a che vedere con la presenza del Signore, generatore di letizia, accanto a noi, pur nelle prove. È tale presenza che salva le nostre vite, che ci impedisce di intristire e di fallire nella realizzazione della nostra vocazione all’umanità. Se nemmeno un capello del nostro capo andrà perduto, non è per invitarci alla speranza, vanesia, che i tormenti non ci toccheranno, ma, al contrario, che nemmeno i tormenti ci ruberanno la confidenza ottenuta e non ci muoveranno ad agire contro il suo amore, come del resto è stato per lui, che non ha agito contro di noi, nella sua passione e morte.

 

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Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Solennità e feste

 

N.S. Gesù Cristo Re dell’universo

XXXIV Domenica del Tempo Ordinario

(24 novembre 2013)

 

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2 Sam 5, 1-3;  Sal 121;  Col 1, 12-20;  Lc 23, 35-43

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A ben guardare, molti particolari del racconto della crocifissione richiamano il racconto delle tentazioni di Gesù nel deserto all’inizio del suo ministero messianico. Quella che allora veniva letta come tensione drammatica, qui diventa concretezza drammatica. Se là emergeva la verità del cuore di Gesù rispetto alle insinuazioni del diavolo, qui viene proclamata la verità della sua vita rispetto all’amore del Padre e all’amore dei suoi figli. Le parole del diavolo sono rivelate in tutta la loro portata nel momento cruciale della vita di Gesù allorché, appeso in croce, si sente apostrofare: “Ha salvato altri e non può salvare se stesso! È il re d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui. Ha confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: ‘Sono Figlio di Dio’!” (Mt 27, 42-43). Gli uomini scherniscono, ma veramente Gesù non può salvare se stesso, non può dimostrare nulla e non viene liberato dalla morte. Eppure, proprio quel non salvare se stesso, non voler dimostrare nulla, non essere liberato dalla morte, comporta la rivelazione del vero amore di Dio che riempie la sua vita e che riverbererà sul cuore degli uomini che non vorranno più illudersi rispetto alle insinuazioni del maligno.

Nel prefazio di questa festa la Chiesa canta: “Egli, sacrificando se stesso immacolata vittima di pace sull’altare della Croce, operò il mistero dell’umana redenzione; assoggettate al suo potere tutte le creature, offrì alla tua maestà infinita il regno eterno e universale: regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace”. La cosa singolare è che l’assoggettamento di tutte le cose da parte di Gesù avviene proprio nel suo stare sottomesso alla potenza del male senza venir meno alla confidenza nel Padre e all’amore per i suoi figli, per i quali è stato inviato. Così la scritta sulla croce “costui è il re dei Giudei” è interpretata dalle generazioni cristiane: ‘Costui è il re della gloria’, la gloria dello splendore dell’amore di Dio per l’uomo.

Nel brano di oggi, al centro, ci sono i due malfattori, l’empio e il pio, che riassumono le due possibili visioni: l’empio si accoda, per motivi suoi, alla visione di scherno dei capi e dei soldati; il pio invece sa scorgere il mistero e si abbandona fiducioso. Cosa ha visto quel malfattore pio, che l’iconografia cristiana rappresenta come colui che in paradiso aspetta l’ingresso di tutti i santi, da indurlo a pregare quel condannato: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”? Segnalo intanto che questa è l’unica volta in tutto il Nuovo Testamento che uno si rivolge a Gesù con il suo solo nome, a indicare la comunanza di destino e la confidenza totale. Il fatto è che, di fronte a quell’uomo ingiustamente condannato, eppur così mite, vede la propria storia rovinosa e senza perdersi in rivendicazioni ormai inutili, crudeli perfino, accoglie in pace la sua sorte perché può aprirla su qualcosa di più grande. Con la sua richiesta e la risposta di Gesù veniamo a sapere che il regno di Dio è splendore di amore che si riversa sull’uomo, che Dio non rinuncia al suo amore perché l’uomo è cattivo, che Dio si manifesta con il volto mite dell’amore, proprio quando è rifiutato e calpestato, in attesa che l’uomo lo riconosca e ne faccia la radice della sua vita e del suo tormento.

L’immagine del buon ladrone è una di quelle immagini che svelano il paradosso del mistero di Dio aperto sull’uomo. Il giudizio della croce non parla dell’ingiustizia degli uomini, ma della giustizia di Dio. E la giustizia di Dio è esattamente quella che rende noi, indegni, degni dello splendore del suo amore a tal punto da farci partecipi di quella dinamica di amore da riversarla con lui sul mondo. Nel giudizio universale rappresentato da Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova, ai piedi della grande croce (e quasi a darle gambe perché muova incontro all’uomo) sta una piccola figura umana. Partecipa all’esaltazione della croce: due grandi angeli la reggono e lui – se ne vedono i piedi, uno scorcio del capo e le braccia – si stringe al cuore il dulce lignum. Un piccolo fragile uomo (buon ladrone, cireneo, ciascuno di noi) che si è imbattuto in quell’Uomo, l’ha riconosciuto Dio, gli si è affezionato: porta quindi il ‘giogo soave, il carico leggero’, nella prospettiva alta della felicità, la cui caparra è, qui e ora, la letizia dell’amore.

Secondo le letture della liturgia della festa odierna, il regno che il Signore ci acquista e che costituisce la nostra eredità (si veda la parabola del giudizio finale di Mt 25, dove il re proclamerà: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo...”) è presentato in tre immagini:

a) come un’alleanza, che il popolo riconosce nella decisione di Dio di pascere il suo popolo (2Sam 5,2) e che si realizzerà nella carità svelata dal Figlio morto e risorto;

b) come splendore di riconciliazione ( “È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose ...”, Col 1,19-20) che Gesù ci ottiene sulla croce, quando ci mette nella condizione di partecipare alla santità di Dio che è amore per gli uomini. È la carità di Dio, per noi, che si traduce in riconciliazione vicendevole, a livello della storia e che parla della pacificazione tra il cielo e la terra, del fatto cioè che la terra del nostro cuore diventa cielo dove Dio è adorato, goduto, condiviso in fraternità;

c) come comunione con lui, oltre ogni rivendicazione, sopraffatti dalla sua misericordia: “In verità ti dico: oggi con me sarai nel paradiso”. Nella nostra umanità, tribolata e pacificata, il Signore ci permette di godere della comunione con lui.

Ogni proclamazione di regalità che non partisse dalla croce non potrebbe convincere i cuori perché non renderebbe ragione dell’immensità dell’amore di Dio per l’uomo. Non per nulla il tono con il quale i capi, i soldati e il malfattore empio, si rivolgono a Gesù sa di scherno, è crudele: non possono concepire altra regalità se non nel registro della potenza. Il tono invece del malfattore pio è mite, esprime tenerezza e sa riconoscere il mistero di quella regalità così mal compresa. Ma è appunto un re del genere che la Chiesa contempla, è un re del genere che la chiesa annuncia e che serve.