Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo di Pasqua

 

4a Domenica

(25 aprile 2010)

 

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At 13,43-52;  Sal 99;  Ap 7,9-17;  Gv 10,27-30

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Le ultime domeniche del tempo pasquale sono tutte incentrate sulla comunità dei discepoli unita attorno al suo Signore, testimone del suo amore, pervasa dalla gioia dello Spirito Santo, in missione apostolica nel mondo fino alla fine dei tempi. La liturgia di oggi ruota attorno all’immagine del gregge e del suo pastore, tema del cap. 10 di Giovanni, insistendo sul fatto che la comunità è unita saldamente al suo pastore, che non può essere dispersa, che possiede ormai la vita dal suo Signore, per cui vive.

Gli ascoltatori sono divisi nei riguardi di Gesù: è vero, le sue parole suonano piuttosto strane, ma sono proferite da uno che ha guarito un cieco dalla nascita (cap. 9) e che è capace di ridare la vita a un morto (cap. 11, a Lazzaro). Cosa pensare di lui? Quale mistero divino sta svelando?

Gli uomini sono sempre in ricerca e si accorgono della ‘stranezza’ di Gesù: “Non potrebbe parlare più chiaramente?”, pensa il gruppo dei Giudei che lo attornia. Ma appena Gesù risponde, l’incertezza si trasforma in avversione e rifiuto. È vicino il dramma finale. Il punto centrale può essere espresso in questi termini: voi non mi potete capire perché non volete essere dalla mia parte; voi vi appellate a Dio per respingermi, ma è proprio lui che mi ha inviato a voi e se non accogliete me non potete nemmeno capire quanto è grande il suo amore per voi. Invece, chi mi ascolta, è perché mi appartiene, conosce in verità la grandezza dell’amore di Dio e nessuno potrà privarlo di questa certezza, nessuno potrà dividerlo da me. Come nessuno ha potuto rapire Gesù dalle mani del Padre, sebbene tutto congiurasse contro questa fedeltà del Figlio al Padre suo, soprattutto nel dramma della passione e della morte in croce, così nessuno potrà rapire i discepoli di Gesù dalle sue mani, per quanto si scateni la violenza degli avversari.

In effetti, l’unico impedimento risulta essere quello che l’uomo si giudichi non degno della vita eterna, come dicono Paolo e Barnaba ai convenuti in sinagoga ad Antiochia: “… poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna ...” (At 13). Il dramma dell’uomo consiste proprio in un giudizio cattivo su di sé, che nasconde un cattivo giudizio su Dio: non ci si ritiene degni dei misteri di Dio! Quando l’uomo non accoglie umilmente questa ‘dignità’ si fa violenza e la eserciterà su tutti: sarà in preda del tormento della morte. E il mondo è prostrato dagli effetti di questo tormento. I discepoli invece sono “pieni di gioia e di Spirito Santo” perché partecipano all’opera dello Spirito Santo che è l’edificazione di un’umanità con ‘un cuor solo e un’anima sola’. La partecipazione al mistero stesso della vita di Dio e in Dio non dipende minimamente da quello che fa il mondo o da quello che ci fa il mondo.

Quando cantiamo con il salmo responsoriale: “noi siamo suo popolo, gregge che egli guida”, non vogliamo dire che siamo semplicemente quelli che lui guida individualmente, ma che siamo coloro che hanno in lui una stessa vita e fanno risplendere la fraternità nel mondo come espressione della rivelazione del Padre ai loro cuori. Riconoscere con il salmo: “egli ci ha fatti” significa proclamare tutta la dignità dell’uomo di cui il gregge del Signore, che noi siamo, ha la responsabilità, in questo mondo, di far risplendere nella sua bellezza. L’esperienza dell’amore di Dio per l’uomo, rivelatasi in Cristo, condivisa e partecipata dai suoi discepoli, ha rivoluzionato la percezione interiore delle prime generazioni cristiane a tal punto da costituire la radice di una nuova umanità di cui essere fermento nel mondo intero. Qui si colloca la sfida della speranza per il mondo da parte della comunità dei discepoli del Cristo risorto.

In questa luce le parole di Gesù risuonano in tutta la loro densità. Gesù è amato dal Padre perché ‘dà la sua vita’ per le pecore (Gv 10,17) e questo comporta il suo ‘dare la vita eterna’ (10,28), vale a dire la vita come espressione di un amore che non cede davanti a nulla e che diventa la radice di vita di coloro che da lui l’accolgono. Se aggiunge che nessuno ‘strapperà’ le pecore a lui affidate vuol dire che per quanto si scateni il male contro di loro, all’interno e all’esterno, non verrà meno la percezione di quello che Gesù dirà nell’ultima cena: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Anche per noi, uniti a Gesù, varrà quello che lui dice di sé a conferma delle sue parole: “Io e il Padre siamo una cosa sola”, perché: “le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”. Da intendere secondo questi tre passaggi:

1) ‘le mie pecore ascoltano la mia voce’: non semplicemente ascoltano quello che dice, ma riconoscono che quello che dice viene da Dio. Sentono che la sua parola e la sua vita confermano tutte le parole della Scrittura e ne svelano il mistero;

2) ‘io le conosco’: vedendo l’intimità tra lui e il Padre, le pecore si sentono conosciute, cioè amate e cercate da lui. Il movimento di amore di Dio per l’uomo riguarda tutti e perciò dire ‘io le conosco’ comporta la sfumatura di senso: io conosco tutti, ma di quella conoscenza che fa godere l’intimità con lui sono capaci solo le pecore che si lasciano raggiungere, portare in spalla, come la parabola della pecorella perduta dirà. Ne consegue che chi non accetta questo, si trova come escluso dalla sua conoscenza e proprio perché escluso non può sentirsi amato;

3) ‘esse mi seguono’: solo lui può mostrare il segreto di Dio in tutta la sua estensione e bellezza. In gioco è sempre la disponibilità alla fede e la fede si gioca nell’accogliere il mistero di accondiscendenza di Dio, per l’uomo, in Gesù, rivelatore del Volto del Padre.