Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo di Pasqua

 

3a Domenica

(18 aprile 2010)

 

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At 5,27-42;  sal 29;  Ap 5,11-14;  Gv 21,1-19

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Il brano di vangelo di oggi chiude il vangelo di Giovanni. Sembra quasi un’appendice, che racchiude però un alto valore simbolico, soprattutto se incentriamo l’attenzione sull’apostolo Pietro. Nel vangelo di Giovanni, il primo incontro di Gesù con Pietro viene narrato in 1,42 quando “fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: "Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa" - che significa Pietro”. Nel corso della narrazione evangelica viene sempre denominato Simon Pietro o Pietro. Solo alla fine, di nuovo, Gesù lo chiama: “Simone, figlio di Giovanni ...” per tre volte. Perché? Sembra che Pietro, con tutto l’amore che porta al suo Maestro, abbia ancora bisogno di qualcosa di essenziale, di decisivo, per realizzare quello che il nome, Pietro, impostogli da Gesù, significa per lui e per la comunità dei suoi fratelli.

Gesù lo chiama con il vecchio nome rammentandogli l’amore che gli ha sempre protestato senza però essere stato capace di viverlo fino in fondo. Nell’ultima cena aveva protestato: “Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!” (13,37) e poi, nella stessa notte, l’aveva rinnegato tre volte. Ma Giovanni non dice nulla del suo pentimento, come gli altri evangelisti hanno annotato: “E, uscito fuori, pianse amaramente” (Lc 22,62). Sembra che Pietro conservi ancora qualcosa dell’antico discepolo del Battista, almeno nella sua visione messianica su Gesù, il Messia che avrebbe stabilito il regno di Dio, come d’altronde fa fede la sua prontezza nel difendere Gesù con la spada nell’orto degli ulivi e nella volontà di seguirlo fin dentro il cortile del sommo sacerdote. Pietro ha sempre preteso giocare un ruolo di primo piano per la sua generosità nella sequela del Maestro – cosa che Gesù e gli altri compagni gli riconoscono. Quando vuole uscire a pescare, e gli altri compagni lo seguono, lavora invano. Invece, quando si presenta Gesù sulla spiaggia e gli dice di gettare le reti alla destra della barca, la pesca è oltremodo sovrabbondante. Ma lui non capirà se non dopo il colloquio con Gesù: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”. Era chiaro a tutti che Pietro amava il Signore più di tutti per la sua impetuosità, ma ora Pietro non lo può più riconoscere perché era stato l’unico a rinnegarlo. E quando, la terza volta, Gesù gli dice: “Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?” Pietro non può che restare addolorato perché evidentemente si rendeva conto della sua posizione e, finalmente conquistato alla nuova modalità di sequela che Gesù esigeva, risponde affidandosi: “Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene”.

Solo ora la sua sequela diventa quella voluta da Gesù. Qui avviene la trasformazione definitiva di Pietro. In effetti, per l’apostolo, non si tratta semplicemente di dare la vita per Gesù – cosa che può avvenire anche dentro una visione delle cose mondana o ideologica! - ma di darla condividendo i suoi segreti, il suo sentire, la sua modalità di azione nel mondo perché tutti abbiano la vita. Potremmo anche interpretare: “Signore, non sono degno del tuo amore, e del mio non posso fare gran conto, ma tu conosci il mio cuore, tu sai che ti vuole bene”. Quando un uomo professa il suo amore come balbettando, appena sussurrando, vuol dire che il suo amore va oltre ogni forma di orgoglio o di pretesa e sarà immune dal tarlo del predominio, sotto qualsiasi forma si cerchi: in quell’amore c’è tutto il suo cuore perché si fida totalmente dell’accoglienza dell’altro. E non ha da esibire altro di sé. E quando l’amore è di tal fatta, allora può assumere il compito pastorale in nome del Signore: “Pasci le mie pecore”. A tutti verrà inviato, di tutti si prenderà cura, e di gran cuore, perché tutti e ciascuno appartengono a quel Signore, il cui amore l’ha conquistato e l’amore per il quale costituisce il vero obiettivo del suo interessamento per tutti perché tutti lo riconoscano e trovino riposo. Gesù può predirgli tranquillamente il suo martirio: l’intimità goduta, finalmente, non sarà più insidiata, così come è avvenuto per Gesù.

Allora avverrà, nelle afflizioni o nelle persecuzioni, come riporta la prima lettura, di essere “lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù”, con l’allusione al fatto che la letizia nella persecuzione rivela la dignità ottenuta dall’anima, dignità che si esprime nel suo splendore quando gli altri la calpestano e non viene meno. E non è un fatto personale, ma ecclesiale. Vale a dire: non è in gioco la virtù di una persona, ma la fede, una fede condivisa dentro uno stesso progetto di vita e di missione evangelica per il mondo. L’obbedienza è così dovuta a Dio prima che agli uomini e comporta appunto la condivisione del segreto di Dio per gli uomini nell’amore che ha mosso Gesù e che perdura nei suoi discepoli. Nel brano evangelico il pasto comune dopo la pesca miracolosa comporta due ‘offertori’ di sapore eucaristico: c’è il pesce preparato prima da Gesù e il pesce portato dai discepoli. Vi si può ravvisare il dono di Gesù ai suoi e il dono degli uni agli altri nell’amore che risponde a quello di Gesù.