Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo di Pasqua

 

2a Domenica

(11 aprile 2010)

 

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At 5,12-16;  Sal 117;  Ap 1,9-19;  Gv 20,19-31

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Se il proverbio popolare, di Tommaso, ha ritenuto la sua incredulità e testardaggine, la liturgia ne ha colto l’audacia e l’ardore: “Attingendo ricchezza dall’inviolabile tesoro del tuo divino costato trafitto dalla lancia, Didimo ha riempito il mondo di sapienza e conoscenza”. La valenza simbolica del suo mettere la mano nel costato di Gesù è la medesima del reclinarsi di Giovanni sul petto di Gesù nell’ultima cena: “O straordinario prodigio! Giovanni ha riposato sul petto del Verbo, Tommaso ha ottenuto di toccare il suo costato: e l’uno ne ha tremendamente tratto l’abisso della teologia, mentre l’altro è stato reso degno di iniziarci all’economia, perché chiaramente ci presenta le prove della sua risurrezione, esclamando: O mio Signore e mio Dio, gloria a te”.

Se, da parte di Gesù, il suo rivolgersi ai discepoli e poi a Tommaso con il mostrare le sue cicatrici significa: ‘sono proprio io, colui che per voi, per te, ha patito’, il riconoscimento da parte dei discepoli significa: ‘Dio ha proprio amato il mondo, le nostre vite hanno senso solo come risposta a quell’amore che in Gesù ha svelato il vero volto di Dio pieno di accondiscendenza per gli uomini, solo l’amore che da lui deriva e a lui si volge sazia il cuore fino alla letizia di vedere che tutti i cuori si possano di lui saziare’.

Tommaso non è un pavido, un insicuro. Le altre due volte che il vangelo di Giovanni parla di Tommaso ce lo presenta come un uomo generoso, pronto ad andare a morire con Gesù. Il suo dubbio procede da un cuore che ha preso molto sul serio la vicenda di Gesù. Quando Gesù, ricomparendo, gli dice di mettere la mano nel costato e nelle cicatrici, non ha bisogno di ricredersi o di scusarsi: è tutto teso a quel Signore che ha sempre voluto seguire e che ora riconosce per davvero "mio Signore e mio Dio", la più solenne professione di fede del vangelo di Giovanni e, nello stesso tempo, la più intima delle professioni. In quel mio, c'è tutto l'anelito del suo cuore, la sua appassionata esperienza di lui; in quel Signore e Dio, c'è tutta la rivelazione di Gesù al suo cuore, l’intelligenza di tutte le Scritture.

La sua esclamazione ricalca quella di Maria Maddalena: “Hanno portato via il mio Signore” (Gv 20,13) e quella di Gesù: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, al Dio mio e Dio vostro” (20,17). Non solo, ma in essa si avverte la risposta alla domanda che nell’ultima cena l’apostolo Giuda aveva rivolto a Gesù: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?” (Gv 14,22). Gesù si rende presente a coloro che lo amano, non si manifesta al mondo: questo è il mistero da accogliere. In effetti, Tommaso riceve la rivelazione del Signore risorto dentro la comunità degli apostoli, divenuta il luogo della sua manifestazione nel mondo a partire dall’amore che gli apostoli esprimono al loro Signore e tra di loro, come segno della vita nuova ricevuta con il dono dello Spirito. È caratteristico che la conoscenza del Signore, ormai, non si riferisca più alla modalità con cui i discepoli hanno conosciuto Gesù nella sua storia terrena, ma si riferisca all’esperienza della sua presenza tra loro come Messia crocifisso (con le cicatrici sul corpo), nella pace che rassicura e accompagna nelle difficoltà dell’impegno nel mondo. La sua presenza è esperita a partire dalla comunità dei credenti, che diventano testimoni e nello stesso tempo ‘donatori’ al mondo della possibilità della visione del Signore.

Gesù aveva promesso nell’ultima cena: “Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi” (Gv 14,19-20). E quando rimprovera Tommaso gli dice: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”. Eppure, tutti i credenti sono chiamati a vedere il loro Signore. La visione, però, deriva ormai dallo sperimentare la vita che egli comunica, vita che diventa nostra praticando il suo comandamento e accogliendo il suo amore.

Qui si innesta la missione di cui ci fa portatori il Signore: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. La pace che dà il Signore è quella per la quale gli apostoli sono inviati nel mondo, per la quale viene loro dato lo Spirito Santo in modo che l’innocenza ottenuta da Dio e con Dio confermi la fraternità degli uomini, segno dello splendore della presenza di Dio ormai riconosciuto. Spiega Gregorio Magno: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi, cioè: come il Padre Dio ha inviato me Dio, così io uomo mando voi uomini. Il Padre inviò il Figlio, avendo stabilito che questi si incarnasse per la redenzione del genere umano: volle che entrasse nel mondo per subire la passione, e tuttavia amò il Figlio, che pure era stato inviato per affrontare la morte. E anche gli Apostoli non furono destinati dal Signore ai piaceri del mondo, ma vi furono inviati per subire dolori come era avvenuto per Lui. Così il Figlio è amato dal Padre, e tuttavia è mandato alla passione; come i discepoli sono amati dal Signore, ma inviati nel mondo per affrontare le sofferenze. Per questo Egli dice: Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi, cioè, quando vi espongo alle ingiustizie dei persecutori vi amo con lo stesso amore che ha verso di me il Padre, che pure mi ha inviato a subire tanti dolori”.

Se la liturgia pasquale proclama insistentemente: “eterna è la sua misericordia”, ciò significa non soltanto che Dio sarà eternamente fedele alla sua misericordia, che la sua misericordia durerà per sempre, ma soprattutto che, essendo la sua misericordia dall’eternità, si trova alle origini del nostro mondo, ne racchiude il senso e il mistero fino alla fine, finché il mondo sussisterà. Gesù rivela la verità di questa realtà e Tommaso si situa in quella verità con la sua sussurrata e potentissima confessione di fede: mio Signore e mio Dio!