Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo Ordinario

 

29a Domenica

(17 ottobre 2010)

 

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Es 17,8-13;  Sal 120;  2Tm 3,14-4,2;  Lc 18,1-8

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La liturgia di oggi risponde a una delle contraddizioni più lancinanti della vita: se Dio è Dio, perché non interviene quando il male devasta il mondo? Il popolo di Israele, provato dalla sete nel deserto, aveva espresso la sua angoscia negli unici termini possibili per dei credenti: “Il Signore è in mezzo a noi sì o no?” ed era seguito il miracolo dell’acqua scaturita dalla roccia che Mosè aveva percossa con il bastone di Dio. Ma subito dopo il popolo corre un altro tremendo pericolo: l’attacco degli Amaleciti. È il nemico che viene a cercarli; non semplicemente che trovano un nemico sulla loro strada. L’angoscia del popolo, questa volta, sembra sparire dietro alla figura di Mosè, ritto sul monte a pregare per la salvezza del popolo e a quella di Giosuè che è mandato a combattere. Il fatto però che Mosè salga sul monte significa che è visibile a tutti, ai combattenti e al popolo che attende angosciato l’esito della battaglia. Tutto il popolo prega con Mosè; tutto il popolo rinnova la sua fede nel Dio di Israele perché un’altra volta il loro Dio li salvi.

I testi salmici di questa liturgia alludono a una situazione drammatica. La vita dell’uomo non è drammatica semplicemente perché continuamente provata da afflizioni e ingiustizie, ma perché nelle afflizioni e nelle ingiustizie subite ci può essere preclusa la visione di Dio. Come a dire: l’aspetto più angoscioso per il cuore dell’uomo è la delusione nei confronti del suo Dio, la perdita di speranza e il tormento di un amore mancato. Il canto di ingresso (Sal 16,6.8) descrive la fiducia in Dio ma nella costatazione che gli empi opprimono il giusto; il salmo responsoriale, il salmo 120, allude alla fiducia in Dio ma nel pericolo di un’invasione (‘alzare gli occhi verso i monti’ allude al possibile alleato assiro contro l’attacco egiziano, aiuto che però si tramuterà in schiavitù e allora il salmista invita a fidarsi di Dio).

Ecco allora il punto: come riconoscere il suo amore? Come fidarsi del suo amore in modo da attraversare le prove senza venir meno nella fede? Non per nulla Gesù parla della pronta risposta di Dio che fa giustizia ai suoi eletti mentre sta salendo a Gerusalemme incontro alla sua ingiusta condanna. La parabola che racconta nasce da due domande precedentemente poste:

1) il regno di Dio si può vedere?

2) il Figlio dell’uomo sarà riconosciuto?

Se il regno di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, vuol dire che si dovrà imparare a percepirlo, a sentirlo. Se il Figlio dell’uomo “è necessario che soffra molto e venga ripudiato”, vale a dire: non si vedrà come ci si aspetta di vederlo, occorrerà imparare a riconoscerlo, a sentirne la presenza, a percepirne bellezza e potenza. Ma come? Con la perseveranza nella preghiera. Lo dice espressamente Luca nell’introdurre la sua parabola del giudice iniquo e della vedova che lo importuna fino ad ottenere giustizia: “Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi”. Il linguaggio è quello di Paolo e si possono citare numerosi passi paralleli: 2Ts 1,11.3,13; Fil 1,4; Col 1,3; Gal 6,9; Ef 3,13.

I discepoli che subiscono persecuzioni per fedeltà a Cristo si chiedono: perché Dio tarda? Certo Dio farà giustizia, ma quando? Dio mi aiuterà contro il peccato, ma perché si deve fare così tanta fatica? Sarà possibile resistere fino alla fine? Ecco, la parabola risponde a queste domande angosciose.

La parabola della vedova che importuna il giudice disonesto richiama quella dell’amico importuno raccontata sempre da Lc 11,5-8. Da notare che quest’ultima è introdotta dall’insegnamento della preghiera del Padre nostro, allorquando i discepoli erano rimasti affascinati dal modo in cui Gesù pregava e gli avevano chiesto di insegnar anche a loro a pregare così. Se poi colleghiamo alla parabola della vedova che assilla il giudice il commento di Gesù a questa sua parabola dell’amico importuno: “Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!” (Lc 11,13), il senso che ne scaturisce è più profondo. Cosa significa per noi dire che Dio “farà loro giustizia prontamente”, quando registriamo con sofferenza come un dato di fatto che il Signore tarda, che non viene quando vorremmo noi (cfr. 2Pt 3,9-11)?

Dio esaudisce prontamente, senza fare aspettare, ogni richiesta di Spirito Santo, vale a dire l’anelito del cuore che non si accontenta delle cose che provengono da Dio, ma che cerca proprio Dio, l’incontro, l’intimità con lui. Quando un discepolo è afflitto dalla fatica di perseguire il bene, quando non riesce a sopportare un’ingiustizia, quando è tormentato da persecuzioni interiori ed esteriori, anche se Dio tarda a rendergli soddisfazione così come se lo immaginerebbe, subito Dio gli concede lo Spirito del suo Figlio perché il suo cuore non si allontani da lui comunque, perché non venga meno l’anelito alla sua compagnia, perché si rafforzi la sua fede, cioè la sua visione di lui. Come dice Gesù alla fine della parabola: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”. Senza quella costante perseveranza nella preghiera la fede non potrà durare.

Perché dobbiamo pregare sempre? Perché il regno di Dio non lo vediamo e perché il Figlio non si manifesta secondo le nostre attese. La perseveranza costante nella preghiera è l’unica porta che ci fa accedere alla visione del Figlio ed al sentore del Regno. Senza dimenticare che un’antica tradizione ebraica rileva nelle braccia alzate di Mosè in preghiera sul monte la solenne benedizione sacerdotale di Nm 6,24-27, benedizione che misticamente fa sussistere il mondo.