Terzo ciclo

Anno liturgico B (2008-2009)

Tempo di Pasqua

 

4a Domenica

(3 maggio 2009)

 

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At 4,8-12;  Sal 117;  1Gv 3,1-2;  Gv 10,11-18

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La liturgia pasquale, con l’immagine di Gesù buon pastore, ci dischiude la possibilità di cogliere la realtà del Risorto come di colui che dà la vita e la riprende di nuovo (cf. Gv 10,17). Gesù si presenta come il buon pastore e fa consistere la sua bontà nel fatto che ha dato la vita, seguendo il comando del Padre, che per questo lo ama. Sembra questa la concatenazione logica dei pensieri. Ma la realtà è più misteriosa. Il comando del Padre sembra riguardi non tanto il fatto di dare la vita, ma di poterla dare e di poterla riprendere di nuovo. Cosa significa? Sul dare la vita non è detto semplicemente che dà la vita, ma che dà la sua anima, la sua persona, se stesso e non semplicemente che la dà a qualcuno, ma per qualcuno. Gesù unisce strettamente le due dinamiche del conoscere e dell’amare nel fatto di dare la vita. Perché?

L’immagine del pastore è sviluppata in quattro passaggi ben concatenati: prima Gesù usa una semplice similitudine, poi si definisce come la porta, quindi come il buon pastore in rapporto al mercenario per finire con l’immagine del buon pastore in rapporto al Padre. Il tutto è incentrato sulla dinamica del dare la vita come la caratteristica propria del buon pastore. Il passaggio chiave è dato dal definirsi di Gesù come la porta nel senso che lui costituisce il punto di passaggio da un mondo all’altro, il punto in cui si entra dalla dimensione umana a quella divina. Non per nulla la figura del pastore acquista tutto il suo valore di rivelazione quando è collegata al comando del Padre di dare e riprendere la vita. Credo che il senso possa essere questo: l’opera principale del Padre è l’amore al Figlio perché dia se stesso e così doni agli uomini la vita del Padre. Gesù, mentre dà se stesso, dona agli uomini il Padre.

L’amore del Padre si rivela in Gesù perché Gesù lascia che quell’amore, che in lui riposa totale, si espanda e conquisti tutti fino a far vivere tutti di quello stesso amore. Quando dice che il buon pastore conosce le sue pecore e le sue pecore conoscono lui allude al fatto che l’amore per loro, frutto dell’amore del Padre che su di lui riposa, è la ragione stessa della sua vita, la ragione che non permette a nessun’altra di avere voce nel suo cuore. E le pecore possono conoscere lui perché conoscono questo suo amore, che rivela loro la bontà di Dio per loro. Ma tale è la dinamica di ogni amore: conosco se do la vita, solo se metto a disposizione dell’altro la mia vita potrò conoscerlo perché la conoscenza proviene e conduce all’amore. Non solo, ma che per noi uomini l’esperienza dell’amore risulta possibile a condizione di percepirlo come dono di vita, vita di Dio per noi e vita di noi per il prossimo. Gesù è colui che dal punto di vista di Dio ci rivela qual è la dinamica dell’amore e dal punto di vista dell’uomo ne svela la profondità e la densità. L’amore ha sempre a che fare con la vita di Dio, con il mistero di Dio. Non è detto semplicemente che Gesù dà la vita a, ma per le pecore. Così, se non percepisco il suo dono per, non potrò viverlo riferito a me, perché lo vivrei in senso egoistico, come se l’amore di Dio servisse semplicemente a far star bene me, bisognoso di amore. Il mistero dell’amore è dato dal rimando al mistero di Dio che vuole tutti gli uomini salvi; è dato dal fatto che Gesù è il Signore di tutti (cf. At 10,36). Per questo Gesù parla di altre pecore che non sono del suo ovile; tutte lui deve condurre, per fare un solo gregge. La dinamica dell’amore è essenzialmente universale. Dal punto di vista di Dio, sarebbe un controsenso amare qualcuno e odiare altri; sarebbe come un volere contemporaneamente Dio per sé ed escluderlo per altri.

In questo senso Gesù è detto pietra d’angolo (At 4,11) della nuova costruzione del popolo di Dio che riguarda tutta l’umanità. E la ragione profonda è data dal fatto che, essendo stato respinto, scartato, ma senza esser venuto meno all’amore di Dio e alla sua opera per l’uomo, ha superato ogni forma di rifiuto e di discriminazione, cioè ha avuto ragione della morte e così può costituire la radice di vita per tutti perché l’amore di Dio risplenda nel mondo.

Quando dice che può dare la vita e riprenderla e che questo è il comando del Padre suo allude al fatto che dà se stesso senza arrogarsi nessun altro diritto che non sia quello di testimoniare l’amore del Padre agli uomini e così la vita che vive è vita eterna, perennemente vitale, capace di attraversare ogni movimento di morte. E questo corrisponde al volere di Dio per l’uomo, che è chiamato comando. Quando in effetti la riprende, con la sua risurrezione, è per darla a tutti coloro che in lui vedono il mistero della fedeltà di Dio all’uomo, è per far prevalere il volere del Padre che vuole la vita per gli uomini. E perciò noi possiamo avere la vita in abbondanza, cioè la vita secondo quella stessa dinamica di amore di colui che ce l’ha data. Vale lo stesso effetto anche per noi: per accrescere la vita, occorre darla. Non semplicemente darla a qualcuno, ma darla perché l’amore di Dio per gli uomini torni a risplendere e l’opera di Dio in Gesù si faccia sperimentabile e abbordabile per l’umanità, nostra e degli altri.

Potessimo – e, in Gesù, come suggerirà l’immagine della vite e dei tralci di domenica prossima, lo possiamo! - anche noi, di fronte ad ogni tipo di ingiustizia, di afflizione, di oppressione, interiore e esteriore, dire con Gesù: “Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso” (Gv 10,17)! Significherebbe diventare collaboratori con Dio alla sua opera di salvezza, quella cioè di radunare i figli di Dio dispersi; significherebbe non permettere che il nostro cuore ceda alla divisione e all’odio con qualche fratello scavando fossati o respingendolo lontano da noi, perché in tal caso daremmo più importanza all’agire di un uomo che all’agire di Dio e ci sottrarremmo alla comunione con Lui che non ha altro desiderio se non quello di attrarre alla sua comunione tutti i suoi figli.

Così l’anima può cantare: “Celebrate il Signore, perché è buono; perché eterna è la sua misericordia” (Sal 117,1).