Terzo ciclo

Anno liturgico B (2008-2009)

Tempo Ordinario

 

32a Domenica

(8 novembre 2009)

 

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1Re 17,10-16;  Sal 145;  Eb 9,24-28;  Mc 12,38-44

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La liturgia di oggi può essere letta come il commento della chiesa all’elogio che Gesù tributa ad una povera vedova a sua insaputa. La preghiera della vedova è proprio giunta al Signore, come canta l’antifona di ingresso: “La mia preghiera giunga fino a te; tendi, o Signore, l’orecchio alla mia preghiera”. Perché è a pieno titolo ‘familiare’ di Dio, come proclama il canto al vangelo: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”. L’antifona alla comunione ne svela la ragione: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla ...” Di questa ‘certezza’ era colmo il suo cuore, certezza che fa dire a Gesù: “In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei, invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”.

Gesù non vuole stabilire una preminenza; solo gli uomini pensano sempre a riconoscersi in termini di importanza (sia essa personale, di merito, di censo, di doti, ecc.). Gesù vuol esaltare un tipo di legame, di attaccamento, di comportamento dei cuori tra Dio e i suoi servi. La vedova, nel dare tutto quello che aveva per vivere, fa affidamento alla promessa di Dio che, nella sua grandezza e generosità, non lascerà mancare il necessario ai suoi servi. Quella donna si fida del suo Dio, con tutto il suo cuore. E come sempre, la promessa di Dio, per rivelarsi nella sua gratuità, non ha bisogno di sfruttare nulla che appartenga all’uomo. Dio in effetti ha soltanto bisogno dello spazio di un cuore che si faccia semplicemente e totalmente accogliente, anche quando le apparenze giocano a sfavore.

Ma qui, dove si esprime la promessa di Dio? La traduzione inganna. Letteralmente si dovrebbe rendere: “dalla sua mancanza gettò tutto quanto aveva, tutta la sua vita”. Il nostro Dio è un Signore strano: non chiede né poco né tanto né tutto; chiede quello che non hai. Il gesto della vedova, che trae dalla sua mancanza quello che costituiva la sua vita, assume una valenza spirituale paradigmatica. Basta pensare ai comandamenti. Dio ci comanda: “siate miti  … portatori di pace … misericordiosi …”. Uno dà quello che ha, questa è la norma dell’agire tra gli uomini. Con Dio non vale: uno deve dare quello che non ha per averlo anche lui. Così, io, che non sono affatto mite, che non sono affatto in pace, sono richiesto di usare mitezza, di portare pace. Ma come è possibile? Sulla promessa della fedeltà di Dio al suo comandamento. Dare mitezza in nome di Dio a un fratello vuol dire fidarsi totalmente della promessa che farà gustare anche al mio cuore quella mitezza. Ed in questo gusto trovare finalmente la compagnia di colui che il mio cuore ama. Perché se già non lo amassi, come farei a fidarmi? Per questo la vedova è tanto elogiata da Gesù. Il fidarsi del suo Dio rivela il suo amore per lui, per tutte le sue cose, vale a dire il tempio e il suo popolo per cui si portavano le monete al tesoro. Ed in cambio tutta la sua vita resta assicurata, in modo inspiegabile, sulla fedeltà di Dio.

Gregorio Magno, commentando la prontezza dei pescatori a seguire la chiamata di Gesù, riflette sul fatto che a dire il vero quegli uomini avevano ben poco da lasciare essendo poveri. Ma – aggiunge – “ha molto lasciato chi non ha tenuto nulla per sé”. È il senso della fede genuina. Non importa lasciare poco o tanto; l’importante è non conservare nulla per sé, vale a dire fidarsi fino in fondo, lungo tutto il cammino, con tutte le fatiche che comporta, in modo che la grazia dell’incontro possa rivelare tutti i suoi frutti, nel tempo.

La vicenda del profeta Elia e della vedova di Sarepta allude alla medesima realtà. Se la vedova si fida della parola del profeta, il quale si era fidato della parola di Dio, non solo non muore nella sua indigenza, ma con la sua indigenza, offerta, ricostituirà la vita sua e del profeta e del popolo dei credenti in generale. Nessuna offerta di questo tipo ha un valore meramente individuale. Riguarda sempre l’insieme, coinvolgendo insieme Dio ed il suo popolo, per cui la vita in questo mondo risulterà più vivibile e la presenza di Dio più tangibile, per tutti. Il canto al vangelo: ‘beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli’, se letto in rapporto alla vedova, acquista una risonanza più profonda. Lei è di quei poveri nei quali prevale la beatitudine promessa perché la fedeltà di Dio per lei è cosa saputa, vera, tanto da scavare nella sua indigenza la gioia del vivere, proprio perché con il suo Dio. Ma la beatitudine va letta non solo in rapporto al fatto che i poveri in spirito avranno parte al regno dei cieli, ma anche in rapporto al fatto che, se incontreremo questi poveri, avremo toccato il regno dei cieli, il regno dei cieli sarà reso visibile a noi. Così in effetti prega la chiesa dopo la comunione: “La forza dello Spirito Santo, che ci hai comunicato in questi sacramenti, rimanga in noi e trasformi tutta la nostra vita”. Come a dire: lo Spirito del Signore radichi i nostri cuori nello stesso atteggiamento di fede della vedova che ha strappato a Gesù quell’elogio pieno di ammirazione.