Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo di Avvento

 

1a Domenica

(2 dicembre 2007)

 

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Is 2,1-5;  Sal 121;  Rm 13,11-14;  Mt 24,37-44

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Con l’Avvento inizia un nuovo ciclo liturgico. Proprio alla sua apertura, la liturgia suggerisce subito una visione spirituale del tempo, non più concepito semplicemente come una successione lineare di istanti, ma essenzialmente come un riverbero dell’eterno dove il tempo ha senso solo nel suo riferimento ad un mistero che vi si dispiega. Il periodo dell’Avvento ha come scopo diretto la preparazione alla festa della nascita di Gesù, ma guarda a quel mistero con un movimento che parte dal futuro ritornando indietro. La prima domenica mostra la visione del Cristo che verrà alla fine dei tempi; la seconda e la terza domenica mettono in scena la testimonianza di Giovanni Battista riguardo a Gesù all’inizio della sua predicazione, per arrivare, nella quarta domenica, a riconoscere in quel Bambino nato a Betlemme proprio colui di cui i profeti parlavano e che sarà, come Figlio dell’uomo, il giudice supremo.

La nota caratteristica della liturgia dell’avvento è l’invito alla vigilanza. Ciò significa che il mistero della venuta di Gesù non si presenta con evidenza. È un mistero di cui dobbiamo imparare a riconoscere i contorni, le linee di sviluppo, il senso. Si tratta di una venuta di Gesù nella parola: è la parola che presiede alla creazione e che costituisce il senso segreto delle cose, come anche è la parola che manifesta il volere di bene di Dio per l’uomo comunicandogli la sua santità; di una venuta nella carne: la parola, per mezzo della quale le cose furono create e fu conosciuto il volere di bene di Dio, diventa essa stessa visibile e prende forma e volto umani, a sottolineare la prossimità di Dio con l’uomo e dell’uomo con Dio; di una venuta nella gloria quando, ormai dispiegato tutto il mistero dell’amore di Dio per l’uomo, tutti lo riconosceranno e ne godranno lo splendore.

Il mistero si regge insieme e tutti e tre gli aspetti si richiamano. Ma la percezione che di quel mistero noi abbiamo, nel tempo, è appena percettibile. Siamo invitati a diventare più percettivi, più sensibili al suo splendore. Prendiamo la prima lettura, tratta dal profeta Isaia. Il profeta parla della fine, parla del monte Sion e di Gerusalemme, parla del dono della pace; il tutto da afferrare nella luce di Dio. La visione profetica annuncia per il futuro quello che costituisce il sogno per il cuore dell’uomo. E se l’annuncia già ora, vuol dire che l’uomo può incominciare a percepirne il mistero e ad orientare la sua vita in tal senso. Il salmo così appunto interpreta e invita a muovere i propri passi verso la casa del Signore, che diventa l’orientamento del cammino della vita e motivo di responsabilità nell’agire.

È la lettura di san Paolo a indicarci la natura di quella ‘luce’ che ci fa intravedere il mistero in atto: “Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri”. Come anche altrove dice: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5). Sono quelle ‘le armi della luce’ da indossare, per attraversare la storia e realizzare la nostra vocazione all’umanità come prossimità di Dio all’uomo e dell’uomo a Dio.

Il brano di vangelo, invece, invita alla vigilanza contando sul fattore sorpresa, con un ragionamento del tipo: se riconoscere la venuta di Gesù è essenziale al nostro vivere, dato che non verrete preavvertiti, allora state vigili. Il non essere preavvertiti allude non tanto alla possibile fine del tempo, ma al fatto che non siamo padroni del tempo; l’essere vigili, al fatto che ogni tempo della nostra vita si può aprire al mistero di Dio che viene, perché lui non è impedito da nulla. Allora, perché non cercare di tenere aperto ogni tempo a che la venuta del Signore si riveli al nostro cuore? In effetti, l’immagine del ladro che viene inaspettato va unita all’altra, che leggiamo nell’Apocalisse: “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). Quel ‘ladro’ è poi il Signore che sta alla porta e bussa, vale a dire che sempre cerca l’accesso al nostro cuore finché gli apra la porta e possa condividere la sua gioia. Dietro l’urgenza del tempo sta il desiderio di Dio di essere in compagnia degli uomini e dietro il desiderio di Dio, quando lo percepiamo, c’è il riconoscimento che i sogni del nostro cuore parlano di quel desiderio.

Pregare con il canto al vangelo: “Mostraci, Signore, la tua misericordia”, significa cogliere l’eco di quel desiderio di Dio che intende come germogliare dentro il nostro cuore. Fare esperienza della sua misericordia significa accorgersi e accompagnare la fioritura di quel germoglio. Germoglio che, come fiorisce dall’umanità della Vergine perché tutti ne possiamo contemplare la bellezza, così anche fiorisce dal cuore di ciascuno perché la nostra umanità ritrovi lo splendore della sua bellezza.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo di Avvento

 

Immacolata Concezione

(8 dicembre 2007)

 

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Gn 3,9-15.20; sal 97; Ef 1,3-6.11-12; Lc 1,26-38

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Ave, piena di grazia” è il saluto dell’angelo Gabriele a Maria. La festa di oggi fa presagire quanto siano insondabili i confini di questa sua pienezza di grazia: unica tra tutte le creature non è toccata da ombra di peccato, fin dal suo concepimento, fin dal suo primo istante di esistenza. Dire che non ha ombra di peccato non è che la modalità per negativo di dire quanto sia coperta dall’ombra dello Spirito Santo: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo…”.

La liturgia oggi non fa che proclamare l’insondabile e straordinaria volontà di benevolenza di Dio per gli uomini, in tutto lo splendore d’amore che comporta, che,  per dirla con l’espressione di Paolo agli Efesini, esprime tutto ‘il beneplacito della sua volontà’. Se leggiamo la festa di oggi sulla falsariga dell’inno di Paolo, nel capitolo primo della sua lettera agli Efesini, potremo comprendere più adeguatamente sia l’inno del magnificat pronunciato dalla Vergine che la ragione della profezia rivoltale di essere ‘la benedetta tra tutte le donne’. Dice Paolo: “In lui siamo stati fatti anche eredi, essendo stati predestinati secondo il piano di colui che tutto opera efficacemente, conforme alla sua volontà, perché noi fossimo a lode della sua gloria, noi, che per primi abbiamo sperato in Cristo”. Vediamo in lei la prima che ha sperato in Cristo e che perciò è stata fatta a lode della sua gloria, vale a dire adatta a rivelare la sua gloria, adeguata a portare la sua gloria. E se la gloria non è che lo splendore del suo amore per gli uomini, allora è lei colei che più di tutti l’ha fatto risplendere con il portare in grembo, partorire, custodire, condividere il mistero di quel Gesù, suo Figlio, dato per noi, a rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini. La pienezza di grazia della Vergine è in funzione di quella rivelazione, che costituisce la ragione per cui lei è chiamata a dare carne a colui nel quale riposa il sommo beneplacito, la totale compiacenza di Dio, come sarà dichiarato espressamente nel momento del battesimo e della trasfigurazione del Signore Gesù. È lei che può esprimere in tutta la sua profondità ed esultanza quell’amore di benevolenza di Dio che salva l’uomo, di cui tutti siamo chiamati a fare esperienza: “benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo…”. Ci può essere per l’uomo motivo più autentico di benedizione di Dio di questo ‘riconoscimento’ dell’amore Suo per noi, in Cristo, che ha presieduto alla stessa origine del mondo e che ha avuto nella Vergine Immacolata il suo segno tangibile?

Riflettendo sul passo del racconto del peccato narrato dal libro della Genesi si può osservare come le varie creature si pongano nei confronti di Dio. Quando Dio chiede ad Adamo se abbia trasgredito il suo comando, lui risponde addossando la colpa ad Eva. Quando Dio si rivolge ad Eva, lei risponde addossando la colpa al serpente. Ma quando Dio è davanti al serpente, il serpente tace. Adamo ed Eva rispondono a Dio, pur giustificandosi, perché hanno nostalgia di Dio. Il serpente sembra non avere alcuna nostalgia: non semplicemente ha peccato, ma non è proprio d’accordo sul fatto che Dio conceda i suoi favori agli uomini e resta quindi avversario di Dio. È avversario di Dio chi è geloso dei beni che Lui riversa sulle sue creature e perciò resta astioso, astio di cui facciamo le spese noi continuamente. Chi è capace di far risplendere i doni di Dio solo godendo dell’immenso amore di Dio per gli uomini è pieno di grazia. E da tale pienezza di grazia non può non derivare il Salvatore, che è la rivelazione dell’infinito amore di Dio per gli uomini. Credo voglia dire anche questo la pienezza di grazia della Vergine, dalla quale nasce Gesù, il Salvatore. Ed è per questo che la tradizione saluta la Vergine come la gioia dell’universo.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo di Avvento

 

2a Domenica

(9 dicembre 2007)

 

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Is 11,1-10;  Sal 71;  Rm 15,4-9;  Mt 3,1-12

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Il ritornello del salmo responsoriale (“Vieni, Signore, re di giustizia e di pace”), commentando la profezia di Isaia, illustra in cosa consista la potenza di colui che Giovanni il Battista descrive : “ma colui che viene dopo di me è più potente di me”. È come se Giovanni Battista dicesse: quella giustizia e quella pace, da parte di Dio, che io annuncio, Lui la compie; quella conversione a cui io vi invito, Lui ce la otterrà. C’è però un particolare che fa problema: Gesù corrisponde all’annuncio del Battista? Il Battista ha visto giusto? Tutta la sua vita non ha avuto altro scopo se non quello di mostrare che in quell’uomo, Gesù di Nazaret, si compiva il piano di Dio. La sua esistenza mirava a fare spazio all’apparizione dell’Agnello di Dio e tutta la sua predicazione, che attirava folle numerose, evidentemente colpite dalla sua santità di vita, non tendeva ad altro se non a preparare i cuori alla fede nel Figlio di Dio. La forza del suo annuncio: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino…. Fate frutti degni di conversione”, dipendeva dalla percezione dell’imminenza del terribile giudizio di Dio, al quale non ci si sarebbe più potuti sottrarre. Gesù invece si presenterà come un servo dolce e umile (cfr. Mt 12,18-21; 11,28-30), come colui che salva dall’ira (1Ts 1,10) più che come l’esecutore dell’ira di Dio.

Se ritorniamo ora al brano di Isaia possiamo comprendere perché la Chiesa risponde a quella profezia con il ritornello: vieni, Signore, re di giustizia e di pace! Il profeta parla di un germoglio che sorgerà ed evidentemente la chiesa pensa subito al natale di Gesù, a cui viene riferito tutto il brano. Le conseguenze dell’apparizione di quel germoglio sono precisamente due: viene vinta l’inimicizia col serpente (nell’immagine della profezia: “il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi”) e la sapienza è diffusa su tutta la terra (“la saggezza del Signore riempirà il paese, come le acque ricoprono il mare”). Se l’immagine del serpente, presente nel giardino dell’Eden a frodare l’uomo del suo vestito di luce, costituisce l’icona dell’iniquità che insidia il mondo, allora, quando è vinta l’inimicizia con lui, il mondo torna a risplendere della santità di Dio, che è il vestito di luce dell’uomo. Colui che assicura la vittoria su questa radicale inimicizia sarà proprio Gesù, rivestendosi del quale torniamo a risplendere di quella luce di Dio. Questa è la giustizia di Dio per il mondo e Gesù può essere chiamato a pieno titolo re di giustizia.

L’immagine della sapienza diffusa allude invece ad un’altra profezia, quella di Ger 31,31-34: “Ecco verranno giorni - dice il Signore - nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò una alleanza nuova… Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato”. La sapienza diffusa corrisponde a ‘tutti mi conosceranno’. E tutti mi conosceranno perché ‘io perdonerò le loro iniquità’  e la pace regnerà di nuovo. Gesù è proprio il re di pace perché in lui è fatta pace tra cielo e terra, tra Dio e l’uomo e tra uomo e uomo. Così, quando di lui si dirà che è ‘mite e umile di cuore’, si vorrà indicarlo come colui sul quale riposa lo sguardo di compiacenza del Padre, nel quale tutta l’umanità può star raccolta. Gesù è colui che di sé dice: “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime” (Mt 11,28-29). È la sua ‘umiltà e mitezza’ a rivelare la presenza dello Spirito Santo in Lui; è l’umiltà e la mitezza il segno della guida dello Spirito Santo. Così la colletta oggi fa pregare: “Dio dei viventi, suscita in noi il desiderio di una vera conversione, perché rinnovati dal tuo Santo Spirito sappiamo attuare in ogni rapporto umano la giustizia, la mitezza e la pace, che l’incarnazione del tuo Verbo ha fatto germogliare sulla nostra terra”.

Con l’esortazione di Paolo ai Romani, intuiamo dove possiamo cominciare a percepire quel movimento di pace che con Gesù si rivela al mondo. Proprio nelle Scritture, definite da Gregorio Magno come la lettera d’amore all’umanità. Tutto nelle Scritture converge verso Cristo, tutto illumina il Suo mistero, perché Lui è la rivelazione dell’amore di Dio per l’uomo e tutte le Scritture narrano di tale amore per l’uomo da parte di Dio. L’intelligenza delle Scritture ci porta a conoscere ‘la perseveranza e la consolazione’ che Dio trova in noi con il suo Figlio, come anche la perseveranza e la consolazione che noi troviamo in Lui, nel suo Figlio. E quale augurio più bello per una comunità cristiana di quello di Paolo ai Romani: “E il Dio della perseveranza e della consolazione vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti ad esempio di Cristo Gesù”? Non c’è più separazione tra ebrei e pagani; non c’è più separazione che tenga tra uomo e uomo. Tutti possiamo avere gli stessi sentimenti gli uni verso gli altri: è il frutto più maturo di quella conversione che porta a rivestirsi del Signore Gesù, a vivere secondo il suo Spirito.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo di Avvento

 

3a Domenica

(16 dicembre 2007)

 

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Is 35,1-10; Sal 146;  Gc 5,7-10;  Mt 11,2-11

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La liturgia di oggi fa da contrappunto alla domanda di Giovanni Battista e alla risposta di Gesù. Il Battista, alla fine della vita, si è accorto che Gesù non corrisponde all'immagine del Messia che si era fatto e tuttavia non cessa di riferirsi a lui. Gesù risponde al Battista usando il linguaggio delle Scritture, che il Battista conosceva: "Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: i ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti... E beato colui che non si scandalizza di me". L'espressione di Gesù è un assemblaggio di vari passi del profeta

Isaia: se ciò che dice il profeta si avvera, allora Dio davvero si mostra - questo è il senso delle parole di Gesù; allora puoi avere fiducia in me. E se conclude con la beatitudine "beato chi non si scandalizza di me", è per sottolineare che se Lui viene accolto, viene per davvero il Regno di Dio, Dio è per davvero con noi, la Sua presenza per davvero risplende.

Le opere a cui accenna Gesù sono opere di Dio: quale uomo può vantarsi di far vedere i ciechi, sanare i lebbrosi, risuscitare i morti? E Dio non ha atteso la conversione degli uomini per compiere quelle opere; anzi, la conversione deriverà proprio dal vedere che Gesù compie quelle opere e quindi che Dio è con noi. Ma pur vedendo, quanti crederanno? Quanti rimetteranno in discussione l'accoglienza di Gesù come Inviato di Dio in ragione proprio del fatto che la sua apparizione risulterà troppo diversa da ciò che si immaginavano!

L'immagine di Dio che accarezziamo spesso risponde al desiderio di

vendetta: i cattivi devono sparire, i buoni devono prevalere. Evidentemente, in nome di una 'giustizia' divina, ma pensata in termini troppo mondani.

Gesù scombina quell'immagine. Di lui si dirà che sta con i peccatori, che mangia e beve, che finisce per essere annoverato tra i malfattori, che soccombe e muore: come ritenerlo 'il Dio con noi' se quel Dio non stabilisce la giustizia come noi immaginiamo? Paolo dice che gli ebrei cercano la giustizia (la religiosità) e i pagani la sapienza, mentre Dio, in Gesù, mostra debolezza e follia. Gesù può allontanare da Dio: è questo lo scandalo. Se per gli antichi era facile mettere in discussione Gesù nella sua verità umana, per noi moderni è facile metterlo in discussione per la sua verità divina. Ciò significa che la portata dello scandalo non è esaurita.

La liturgia di oggi, consapevole della vicinanza del mistero del Natale che ci prepariamo a celebrare e della perenne portata di scandalo di quell'evento, indica la porta di accesso per il mistero di Dio in Gesù.

Invita alla gioia, alla letizia, che suona scandalosa per la carne. Se l'uomo fosse davvero giusto, potrebbe gioire. Ma può l'uomo trovare nella sua giustizia la fonte della letizia? Così, se l'uomo potesse vantarsi di una scienza sicura e potente, potrebbe gioire. Ma può derivare all'uomo la letizia dalla potenza della scienza? Tutti ci rendiamo conto dell'illusione di una letizia che avesse tali radici.

Ora, proprio la possibilità di una letizia che non ha bisogno di trovare nella propria giustizia e nella propria scienza la radice della sua desiderabilità rivela al cuore dell'uomo la presenza finalmente del Dio con noi, del Dio che accondiscende alla nostra umanità perché risplenda della sua luce sanante. Gesù rivela questo al Battista e quando ne tesse l'elogio non fa che mettere in risalto la grandezza della sua umanità, tutta protesa al mistero di Dio, ma che a paragone della ricchezza di verità che viene da Dio risulta essere assolutamente incompiuta. Ma l'ammissione di tale incompiutezza è espressione della vera grandezza del Battista, che riconosce nel Figlio dell'uomo la 'grazia della verità' che viene da Dio.

Il movimento interiore del Battista esprime la traiettoria dello stesso movimento che caratterizza il nostro cuore. Anche noi siamo nella sua condizione e, come lui, per vivere fino in fondo la nostra vocazione all'umanità, abbiamo bisogno di affidarci all'Inviato di Dio e di imparare a modellare le nostre attese sul compimento effettivo delle opere di Dio che in Gesù si manifestano. Il segnale dell'accoglienza di quell'Inviato è dato proprio da quel principio di letizia che possiede il cuore senza aver alcun altro titolo per goderla se non che quella è il dono dell'incontro con il Salvatore che si è fatto nostro vero prossimo.

Quando Giacomo, nella sua lettera, invita alla pazienza, vuole invitarci ad attendere la manifestazione del Salvatore al nostro cuore finché essa diventi radice di letizia. Solo allora non scambieremo più le nostre opere con la pretesa di giustizia o la nostra scienza con la rivendicazione di potere e sapremo rapportarci a tutti nella condivisione di quella letizia che fa conoscere a tutti l'amore salvatore di Dio.

Sarà il senso della gioia del Natale scoperta come radice di speranza per il mondo che trova nella presenza del 'Dio con noi' la ragione profonda della sua storia.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo di Avvento

 

4a Domenica

(23 dicembre 2007)

 

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Is 7,10-14;  sal 23;  Rm 1,1-7;  Mt 1,18-24

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La liturgia di oggi proclama che l’Emmanuele, il Dio-con-noi, è il re della gloria: sarà questa la buona novella che costituisce la radice di gioia dell’universo. L’aspetto misterioso dell’evento è descritto con la profezia di Isaia: “Stillate dall’alto, o cieli, la vostra rugiada e dalle nubi scenda a noi il Giusto: si apra la terra e germogli il Salvatore” (Is 45,8), ripresa dall’antifona di ingresso. Il testo è riportato secondo la versione della Volgata che attualizza messianicamente il testo ebraico più generico che parla solo di giustizia e di salvezza. L’allusione più diretta è all’imminente nascita di Gesù, il Giusto, dal grembo della Vergine. Ma la colletta allarga questa allusione anche alla terra del nostro cuore invitata a far nascere il Verbo della vita:   “…concedi anche a noi di accoglierlo e generarlo [= Verbo della vita] nello spirito, con l’ascolto della tua parola, nell’obbedienza della fede”.

Come è possibile che uno contemporaneamente scenda dall’alto e germogli dal basso? È appunto il mistero dell’agire divino che il profeta fa risaltare e che vale anche per noi. Non bisogna dimenticare che, in termini spaziali, ‘alto’ e ‘dentro’ alludono alla stessa regione, in contrapposizione a ‘basso’ e ‘fuori’. La grazia proviene dall’alto e agisce dal di dentro, mentre il peccato viene dal basso e agisce dal di fuori. È il peccato ad aver creato tale contrapposizione. Superarla significa ritrovare l’unità del cielo e della terra, l’unità del divino e dell’umano. Con la nascita di Gesù tale unità si compie: viene dall’alto e germoglia dal basso, ma senza più contrapposizione tra i due poli. Viene dal cielo e germoglia dalla terra, come ‘segno’ dell’azione di salvezza di Dio per l’uomo: “Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele: Dio-con-noi”. All’uomo sarebbe stato impossibile perfino immaginare un segno di tal genere, benché quel segno compia finalmente i suoi desideri più profondi. Dio sopravanza sempre la sua creatura, ma nella linea del desiderio della sua creatura stessa.

Dio, non semplicemente viene vicino a noi, ma germoglia dalla nostra umanità. Ciò significa che Dio è più intimo a noi di noi stessi; che Dio costituisce l’eredità più preziosa della nostra umanità; che Dio costituisce il senso della nostra stessa umanità. Tale rivelazione, che costituisce la gioia del nostro cuore per sempre, si presenta però con modalità assolutamente imprevedibili. Consideriamo la figura di Giuseppe. È l’ultimo testimone chiamato in causa nella serie delle testimonianze a favore del Figlio di Dio che si fa uomo. Paolo, nel saluto iniziale ai Romani, proclama: “… il vangelo di Dio, che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture, riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne…”. Quel Figlio è la buona novella di cui tutte le Scritture raccontano l’annuncio e la promessa e si fa uomo nella linea della discendenza davidica, discendenza che Giuseppe assicura. Quando l’angelo gli appare, chiama Giuseppe ‘figlio di Davide’. Naturalmente, Giuseppe non ha più nulla della gloria mondana di una discendenza regale, e tuttavia assicura a Gesù la verità del titolo ‘Figlio di Davide’, la verità della sua regalità. A convincere Giuseppe non sono bastate le parole della Vergine, la quale gli avrà spiegato la natura misteriosa del bambino che portava in grembo con le parole dell’angelo che l’aveva visitata. Eppure, le parole dell’angelo che gli appare in sogno riprendono le stesse parole della Vergine e avviene anche per lui ciò che era avvenuto alla sua sposa: si affida completamente a Dio. Di Giuseppe i vangeli non riportano alcuna parola; annotano solo i suoi pensieri, le sue decisioni, la sua obbedienza adorante e la sua premura per la sua sposa e il suo bambino. Entra nella gloria di Dio, che è splendore di amore per l’uomo, nella consapevolezza soltanto di permettere al Signore di realizzare le sue promesse d’amore all’umanità. Ma non sa in anticipo cosa questo gli richieda; sa solo che questo è il suo compito e in tutta obbedienza lo eseguirà, fedele in tutto e in ciò ritrovando gli aneliti supremi del suo cuore di uomo e di credente.

Giuseppe accoglie: la grazia viene dall’alto. Ma Giuseppe acconsente nella sua umanità: dalla terra germoglia il Salvatore. Così si manifesta la gloria del Dio-con-noi, che, mentre rivela la grandezza del suo amore per l’uomo, rende l’uomo capace di operare in quell’amore e secondo quell’amore, tanto da indurre tutti a vedere la vicinanza di Dio. La sua vocazione può essere definita come l’accettazione del compito affidatogli in rapporto al disegno di Dio di rivelare il Suo Amore agli uomini. E la sua obbedienza si rivela nel fatto di accettare di svolgere una parte semplicemente a favore della sua sposa, dentro un disegno più grande di lui, che imparerà a decifrare lungo tutta la sua vita senza mai essere in primo piano e proprio questo rivela la sua grandezza agli occhi di Dio. Così la vocazione di ciascuno di noi, nella fede, non è che quella di acconsentire a che il disegno di amore di Dio per gli uomini ci raggiunga e si manifesti e ci abiliti a diventare dei segni nell’unico ‘Segno’ che rivela compiutamente il volto d’amore di Dio, Gesù Cristo, Salvatore.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo di Natale

 

Natale del Signore

(25 dicembre 2007)

 

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Messa vespertina della vigilia:  Is 62,1-5;  Mt 1,1-25

Messa della notte:                Is 9,1-6;  sal 95;  Tt 2,11-14;  Lc 2,1-14

Messa dell’aurora:                Is 62,11-12;  Lc 2,15-20

Messa del giorno:                 Is 52,7-10;  Gv 1,1-18

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Se consideriamo lo sviluppo della liturgia natalizia nei suoi quattro formulari delle Messe, il mistero del Natale appare in tutto il suo splendore. Una tensione unica percorre la liturgia, sottolineata dalle collette: Dio si fa uomo perché l’uomo diventi ‘dio’. Ciò significa che la natura dell’uomo è strutturata sulla vita divina e la liturgia del natale del Signore appunta lo sguardo sul mistero da dentro tale prospettiva.

Se teniamo presenti i brani evangelici possiamo notare che l’evento della nascita di Gesù, a Betlemme, celebrato nella messa della notte, con la successiva adorazione dei pastori, commemorato nella messa dell’aurora, risulta incastonato dai brani della genealogia di Gesù (messa vespertina della vigilia) e dal prologo di Giovanni (messa del giorno). Quale lettura possibile?

È come se la liturgia insegnasse ad affinare gli sguardi. Quel Bambino che contempliamo nel presepio è Colui che compie la promessa di Dio al popolo d’Israele. La geneaologia di Matteo, all’inizio del suo vangelo, vuol proprio dire questo: Gesù, che risale ad Abramo, è inserito nella storia sacra di Dio col popolo d’Israele. Lui realizza le profezie, Lui compie le promesse, Lui è il Messia. Se però leggiamo la genealogia in Luca, posta dopo il battesimo di Gesù al Giordano, quando il cielo si apre e si ode la voce del Padre: “Questi è il Figlio mio prediletto ...”, allora il significato muta. Il Bambino del presepe è Colui sul quale il Padre dice: “Questi è il mio Figlio amatissimo, in Lui mi sono compiaciuto, mi sono sentito bene in Lui, in Lui ho trovato il mio posto, il mio spazio”. In effetti il cielo si apre su di lui e passa per lui (Gesù dirà: ‘io sono la porta…’) in modo che chi entra per lui arriva al principio della sua genealogia umana e la sorpassa, collegandola al mistero che la origina. Nella genealogia di Luca Gesù non risale ad Abramo, ma discende da Dio, assumendo Adamo: viene svelato il mistero della sua identità di Figlio di Dio, il mistero dell’amore di Dio nel quale prende origine la creazione dell’uomo e la storia di amore di Dio con l’umanità.

Con il brano di Giovanni si afferma la stessa cosa dando la griglia di lettura della storia umana a partire da Dio e dal Figlio, sul quale e per mezzo del quale tutto è stato creato, avvalorata ormai dalla testimonianza apostolica di aver visto lo splendore della gloria di Dio in quel Figlio, nato, vissuto, morto e risorto per noi. Dice Giovanni: “il Verbo si è fatto carne e noi abbiamo visto la sua gloria”.

Quando nella notte si celebra l’evento della nascita a Betlemme è da dentro questa prospettiva che gli occhi guardano. Forse noi non ci rendiamo conto della immensa sproporzione e inadeguatezza tra la povertà del segno indicato (un bambino giace nella mangiatoia) e lo splendore della visione celebrata con gli angeli che lodano Dio, con la luce che risplende, con la letizia immensa e incontenibile che riempie i cuori. Se si rilegge l’episodio del presepe di Greccio nella vita di s. Francesco di Assisi ci rendiamo conto della ‘logica’ di quella visione. “Meditava continuamente le parole del Signore e non perdeva mai di vista le sue opere. Ma soprattutto l’umiltà dell’incarnazione e la carità della Passione aveva impresse così profondamente nella sua memoria, che difficilmente gli riusciva di pensare ad altro… E ogni volta che diceva ‘Bambino di Betlemme’ o ‘Gesù’ passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole” (FF 467-470). È il desiderio di far memoria di Gesù, il desiderio di condividere con lui quello che lui vive, sente e opera, perché il cuore è pieno di lui, a permettere agli occhi di vedere, all’anima di gustare. Allora, la semplicità del segno parla, si spalanca su spazi immensi perché la storia umana si apre sulla storia di Dio con l’umanità e la letizia non può non spuntare.

Così, se consideriamo le collette, la progressione della comprensione del mistero è delineata secondo questa traiettoria: l’evento sprigiona una tale luce (notte) da investire il nostro agire (aurora) per partecipare alla stessa vita di Dio (giorno). “O Dio, che hai illuminato questa santissima notte con lo splendore di Cristo, vera luce del mondo …” (notte);”Fa’ che risplenda nelle nostre opere il mistero della fede che rifulge nel nostro spirito” (aurora); “Fa’ che possiamo condividere la vita divina del tuo Figlio…” (giorno) e questo è lo scopo di tutta la nostra gioiosa adorazione.

 

Un poema natalizio di s. Efrem canta: “Sia benedetto Colui che ha consegnato la nostra anima, che l’ha adornata e se ne è fatta la fidanzata! Sia benedetto Colui che ha fatto del nostro corpo una tenda per la sua Invisibilità! Sia benedetto Colui che nella nostra lingua ha tradotto i suoi segreti!... Gloria a Colui che non ha mai bisogno che noi lo ringraziamo. Ma che ha bisogno di tenerci per cari, che ha sete di amarci e che chiede che noi gli diamo perché Lui possa darci ancora di più”. Possano i nostri cuori percepire quei segreti e scoprire le radici della letizia in questo mondo. La letizia dell’annuncio natalizio costituisca il vigore dell’anima e lo spazio di intelligenza del cuore per la vita propria e quella di tutti.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo di Natale

 

Santa Famiglia

(30 dicembre 2007)

 

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Sir 3,2-6.12-14;  sal 127;  Col 3,12-21;  Mt 2,13-23

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"O Dio, nostro creatore e Padre, tu hai voluto che il tuo Figlio divenisse membro dell'umana famiglia": così prega la colletta della festa di oggi. È significativo che la Chiesa non celebri l'incarnazione del Figlio di Dio in generale, ma dentro una singola famiglia della famiglia umana. Per quanto misteriosa e singolare sia questa famiglia, è proprio a questa famiglia che tutte le altre famiglie possono guardare per comprendere e vivere il loro stesso mistero.

Si tratta del mistero che io definirei dell’obbedienza all’amore. Parlo di obbedienza prima che di amore perché l’amore costituisce l’esito di un’obbedienza confidente. Vale nei confronti di Dio, ma anche nei confronti degli uomini. È caratteristico che nella liturgia di oggi come nella liturgia del matrimonio al termine amore si accompagni il termine onore. Senza la percezione dell’onore dovuto al mistero che si vive, l’amore non riuscirà a sopravvivere perché divorerà invece di comunicare vita. Lo dice chiaro il libro del Siracide invitando a onorare il padre e la madre, a suggello del patto di solidarietà con l’umanità che rende la vita in questo mondo vivibile. Senza onore non si assicura più quella ‘vivibilità’ perché la vita sarà vissuta nella logica dell’arraffare, che mina alle radici le ragioni appunto della vivibilità.

Nell’esperienza cristiana l’onore è vissuto ‘in Cristo’. La lettera di Paolo ai Colossesi descrive la famiglia come il luogo di esercizio e di visione nella fede, in obbedienza all’unico mistero che tutti ci riguarda. Paolo parla di ‘sottomissione’ per la moglie, di ‘amore’ per il marito, di ‘obbedienza’ per i figli. Il senso lo si ricava dalle espressioni precedenti quando Paolo delinea la comunità dei credenti come eletti di Dio rivestiti dei sentimenti di Cristo, riconciliati, nella pace di un unico sentire, con la parola di Cristo che tutto regge e pervade. La ‘sottomissione’ della donna non ha nulla a che vedere con la soggezione all’uomo; si riferisce a quella visione del mistero che appartiene alla donna, che le colma il cuore e che estende continuamente i confini di quell’ ‘amore’ che è richiesto all’uomo, perché senza di lei l’uomo non saprebbe coglierne la profondità e la preziosità. La ‘obbedienza’ dei figli in quel contesto non è che l’appropriazione della tenerezza verso la propria umanità, terreno ideale per imparare a vedere la ‘promessa’ di vita che si apre davanti a loro. E così tutti restano immersi in quell’unico mistero di obbedienza che regge e orienta la loro vita, mistero di cui imparano, insieme, poco a poco, a dipanare i segreti nel concreto della loro vita. L'avvertimento di Paolo ai Colossesi "...rivestitevi, come eletti di Dio, santi e amati, di sentimenti di misericordia ... perdonandovi a vicenda ... e la pace di Cristo regni nei vostri cuori ..." allude appunto al mistero di obbedienza. L'obbedienza si fa trasparenza della tenerezza di Dio che non disdegna di consegnarsi agli uomini perché essi imparino a consegnarsi vicendevolmente e a Lui. E se l'obbedienza non porta a svelare la tenerezza vuol dire che non procede dall'adorazione, da una visione, ma solo da una volontà. E quando tutto procedesse dalla mia volontà, come posso accogliere e celebrare la salvezza che viene da Dio? Come essere segno e custode del 'segreto' di Dio?

Il vangelo presenta Giuseppe proprio come il custode del segreto di Dio, nella concretezza e nel dramma della vita quotidiana, custode della tenerezza di Dio per l'umanità, che per lui si concentrava nella sua famiglia, luogo di rivelazione di Dio nel mondo e la sua storia è storia di questa famiglia, storia per questa famiglia. La realizzazione di sé, come diremmo oggi, passa per l'assunzione di un compito di grazia che fa dell'obbedienza a Dio, nel cammino di fedeltà all'assolvimento di tutto ciò che un tal compito comporta nel concreto delle situazioni, la porta dell'amore. Porta che può essere intravista solo se gli occhi del cuore 'vedono' quanto basta per non tirarsi indietro.

La storia di una famiglia è la storia di come questo 'segreto' di Dio è accolto, custodito, vissuto. Abbiamo solo bisogno di 'rivestirci', di divenire cioè consapevoli del dono e compito di grazia che ci ha riguardati nell'intimo e ci ha resi , nella nostra piccolezza e nelle situazioni concrete, 'evangelici', cooperatori della gioia altrui, segni e strumenti di salvezza, come Giuseppe. Non però di quella salvezza operata da noi, come se il nostro amore bastasse a salvare noi o gli altri, ma di quella che viene da Dio la cui debolezza è più forte della forza degli uomini, debolezza la cui eco io sento nel qualificare Gesù 'il nazareno'.

In effetti, l’ultimo versetto del brano evangelico letto riporta: "... andò ad abitare in una città chiamata Nazaret, perché si adempisse ciò che era stato detto dai profeti: «Sarà chiamato Nazareno»". Non è chiaro a quali passi profetici l'evangelista si richiama, ma è chiara l'allusione al mistero che quell'aggettivo comporta. Tre sono almeno i significati di quell'aggettivo. Designa Gesù come proveniente da Nazaret, abitante a Nazaret con i suoi genitori ai quali, come riporta l'evangelista Luca, stava sottomesso. È un'affermazione della sua vita quotidiana, nascosta, in famiglia. Esprime la concretezza della sua umanità quanto alle radici, agli affetti, alla crescita. Gesù è uomo non solo perché è nato, ma perché è stato allevato, nutrito, curato, educato, amato,in una famiglia umana. Nazareno richiama poi 'nazir' (cfr. Gen 49,26; Gdc 13,5), il consacrato a Dio, il Santo di Dio. Esprime la natura del compito che è chiamato a compiere: salvare Israele, salvare l'umanità. E siccome il Salvatore è solo Dio, partecipare al compito di 'salvare' comporta la pienezza di santità di Dio stesso. Nazareno richiama anche un altro termine ebraico che vuol dire 'germoglio'. Girolamo spiega così l'etimologia del nome Nazaret: "Il luogo dove la terra ha germinato il Salvatore, dove è cresciuto il germoglio giusto, il fiore della radice di Jesse, si chiama Nazaret, che significa: santità, germoglio, fiore, ramoscello". E si allude alle profezie di Is 11,1 e Zac 6,12.

Se andiamo a vedere quando Gesù è chiamato 'nazareno' notiamo che lo chiamano così i demoni (Mc 1,24) i quali lo sanno 'Santo di Dio'; lo chiamano così anche gli angeli alla risurrezione (Mc 16,6); ma soprattutto l'aggettivo compare nei racconti della passione di Giovanni, all'arresto e soprattutto sull'iscrizione sopra la croce: Gesù Nazareno Re dei Giudei (Gv 18,5; 19,19). Tutte sottolineature della realtà della sua umanità: è proprio quell'uomo che è vissuto a Nazaret, la cui famiglia è di Nazaret, è proprio lui il Figlio di Dio, morto e risorto per la nostra salvezza, Lui proprio nel quale abita la pienezza della divinità.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo di Natale

 

Maria ss. Madre di Dio

(1 gennaio 2008)

 

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Num 6,22-27;  Sal 66;  Gal 4,4-7;  Lc 2,16-21

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Il primo gennaio, capodanno, coincide con l’ottava del Natale. La Chiesa festeggia, da una parte, la gloria della madre nella sua divina maternità venerando la Vergine con il titolo di ‘madre del Cristo e di tutta la chiesa’, come recita la preghiera dopo la comunione espressamente voluta da papa Paolo VI e, dall’altra, la verità dell’incarnazione del Figlio di Dio facendo memoria del rito della circoncisione e dell’imposizione del nome al bambino nell’ottavo giorno. Consacrando poi la giornata all’intercessione per la pace, la chiesa annunzia al mondo che in Cristo è fatta pace tra cielo e terra e che la pace tra gli uomini ne è come il riverbero, lo splendore di benedizione.

Nessuno meglio della Vergine Maria ha potuto vedere l'estensione e la profondità della benedizione che Dio promette di elargire: "Ti benedica il Signore e ti protegga. Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace" (Num 6, 24-26). Se la formula di benedizione riportata nel libro dei Numeri concerne Israele, il salmo 66 la estende a tutta l’umanità perché ormai Colui, che del Padre è lo splendore, è nato per noi. In Lui si concentra la pienezza di benedizione, in Lui che è nato nella pienezza dei tempi, come dice l’apostolo. Ciò significa che la Sua benedizione copre tutti i tempi e contemporaneamente ogni genere di tempo, tutto il tempo della vita in tutte le situazioni possibili. Quando il canto al vangelo proclama: “Dio ha parlato ai nostri padri per mezzo dei profeti; oggi, invece, parla a noi per mezzo del Figlio” allude non semplicemente al fatto che Colui che era stato annunciato dai profeti è venuto, ma che in Lui si compiono tutte le possibilità dei tempi.

La colletta, quando prega: “Padre buono, che in Maria, vergine e madre, benedetta fra tutte le donne, hai stabilito la dimora del tuo Verbo fatto uomo tra noi…”, riprende la dichiarazione di Giovanni: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Ma anche la promessa di Gesù ai discepoli: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). La benedizione di Dio per l’uomo consiste proprio nel suo dimorare fra noi, in noi. L’aspetto straordinario, sconvolgente, dell’amore di Dio per l’uomo, che però spesso nemmeno siamo più capaci di percepire, è dato dal fatto che possiamo essere accolti in quella stessa intimità di vita e di relazione che esiste tra il Padre e il Figlio e che ci è fatto dono di quella stessa intimità. Sembra strano, ma soltanto da dentro quella intimità possiamo sperare di compiere la volontà del Padre nella nostra vita e sentirci avvolti dalla sua benedizione. Se prima non si gusta la volontà di benevolenza di Dio nei nostri confronti, che si esprime nella benedizione che è il Cristo per noi, come poter arrivare alla gioia dell’osservanza dei comandamenti e ad essere operatori di pace? Se non capiamo come Cristo non antepose nulla all’amore per noi, come possiamo noi non anteporre nulla all’amore per Cristo e ritrovarci amati dal Padre, che nel suo Figlio ha posto tutta la sua compiacenza? Il mistero della benedizione di Dio sull’uomo sta tutto qui e tutta la vita della Vergine, come il suo parto prodigioso, è lì a dimostrarlo.

Gli angeli, apparendo ai pastori, annunciano “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà” (tradotto anche: ‘agli uomini che egli ama’). Il significato più veritiero di questa lode sta nell’affermare che, se gli uomini vogliono vedere il volto sorridente di Dio nei loro confronti, vogliono essere accolti dallo splendore del suo sguardo benevolo e compiaciuto, come descrive il libro dei Numeri, devono compiacersi di quel Figlio, in quel Figlio, sul quale si concentra tutta la benevolenza assoluta di Dio. E non in quel Figlio eterno, ma in quel Figlio fatto uomo, che ha preso carne, che conosce il nostro patire, che condivide le nostre aspirazioni, i nostri sentimenti. Quel Figlio è il Volto sorridente del Padre, quel Figlio è la benedizione invocata sull’umanità, quel Figlio è il nome pronunciato e posto sull’umanità perché l’uomo e Dio riconoscano la mutua appartenenza. È quello che la vergine Maria proclama nella sua divina maternità, come le icone del Natale sottolineano. La Vergine non è rappresentata china sul proprio bambino, ma rivolta ai pastori e al mondo a proclamare che quel ‘figlio’ è la benedizione per loro.

Benedizione, che possiamo ripetere a ciascuno e su ciascuno intendendo:

- che tu possa sentirti dentro confini di benevolenza, possa sentire alleata la vita e Padre tuo il tuo Dio

- che il volto del Signore si riveli al tuo cuore e faccia brillare il tuo volto del suo splendore

- possa fare esperienza del Suo perdono, del Suo farsi grazia a te e sentirti fortificato, imprendibile, per il legame di intimità che ti nasconde nella Sua pace. E così apparterrai al Suo amore, non desiderando altro se non di attrarre a questo amore tutto e tutti finché ci si possa riposare insieme nella Sua benedizione.

La realtà dell’incarnazione comporta anche la variabile tempo. Ogni cosa ha il suo tempo, ogni cosa ha bisogno del suo tempo.  Anche la Vergine Maria ha avuto bisogno di tempo per ‘assuefarsi’ all’agire di Dio. Il brano evangelico la descrive come colei che “serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore”. Evidentemente perché anche per lei la realtà non svelava il suo mistero di colpo. I due verbi, serbava e meditando significano più direttamente: teneva se stessa e queste cose insieme in cuore, facendole rimbalzare l'una sull'altra in modo da ottenerne una visione d'insieme. Sono termini che illustrano il metodo di lettura delle Scritture: una parola si illumina con un'altra parola ed il senso che ne scaturisce si riverbera nel cuore aprendo la parola al cuore ed il cuore alla parola. E non se ne tralascia nessuna: tutte queste cose del testo sono sia le parole udite (dall'angelo, dai profeti, dai pastori) sia gli eventi successi; non si cerca solo quella 'adatta' a me, ma ci si 'adatta' a loro tutte, insieme. Non si preferisce un tempo (il tempo della gioia, del godimento), ma si tengono insieme tutti i tempi (anche il tempo del dubbio, dell’afflizione). Allora, poco a poco, anche al nostro cuore si svelerà quella ‘benedizione’ che Dio ha posto sull’umanità e la vita torna a risplendere della presenza del nostro Dio.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo di Natale

 

Epifania

(6 gennaio 2008)

 

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Is 60,1-6;  Sal 71; Ef 3,2-6;   Mt 2,1-12

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Epifania vuol dire manifestazione. La festa di oggi ingloba tre momenti della manifestazione del Signore: la manifestazione di Gesù alle genti con la venuta dei magi; la manifestazione del Signore all’inizio della sua carriera messianica con il battesimo al fiume Giordano; la manifestazione del Signore con il primo miracolo alle nozze di Cana. 

L’antifona di ingresso della messa si richiama al libro del profeta Malachia, l’ultimo libro dell’Antico Testamento: “È venuto il Signore nostro re: nelle sue mani è il regno, la potenza e la gloria”. Quale visione singolare: un bambino è proclamato ‘sovrano, potente e glorioso’! La proclamazione comporta qualcosa di radicalmente nuovo per gli occhi umani o, se vogliamo, comporta la visione di una realtà con occhi radicalmente nuovi. Stessa ‘novità’ che sta dietro la proclamazione di Gesù come re nei vangeli (soltanto durante la sua passione Gesù accetta il titolo di re) e particolarmente come re della gloria (titolo che fornisce, da una parte, la ragione della condanna sul patibolo della croce e, dall’altra, per la visione di fede dei credenti, la ragione dell’amore di Dio per l’uomo che proprio sulla croce risplende). È in ragione di quella ‘novità’ che la manifestazione di Gesù può conquistare le genti e può convincere Israele. Quando la colletta fa pregare: “O Dio, che in questo giorno, con la guida della stella, hai rivelato alle genti il tuo unico Figlio, conduci benigno anche noi, che ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la grandezza della tua gloria”, guida i credenti alla percezione di quella ‘novità’ e li predispone a cogliere e a vivere dello splendore di quell’amore, che costituisce ormai la ragione di senso del vivere nella storia.

La visione dei popoli che si ritrovano a Gerusalemme, ripresa anche dal salmo 71 e celebrata dal salmo 87 (Il Signore scriverà nel libro dei popoli: “Là costui è nato”. E danzando canteranno: “Sono in te tutte le mie sorgenti”), mostra come ormai non esiste più motivo di distinzione tra gli uomini perché la loro dignità deriva da un’unica radice. La dignità degli uomini parla dell’amore di Dio che si è rivelato in quel Figlio di Dio fatto uomo e che nella liturgia odierna è adorato da tutte le genti. Quando Paolo ricorda agli Efesini che il mistero manifestato ora agli uomini è il fatto che i Gentili sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità di Israele, rivela che davanti a Dio sussiste un’unica famiglia umana, destinataria e portatrice allo stesso tempo del Suo amore. Se il Signore, come dice il salmo 71, interviene a favore del povero e del debole, categorie che attraversano la diversità dei popoli e si riferiscono all’umanità di tutti, significa che chi calpesta il povero e il debole ferisce la propria dignità umana e non rispetta l’immagine di quel Figlio che si è confuso con l’umanità di tutti. Davanti a quel Figlio, Bambino, adorato dalle genti – dice il salmo, eco del pensiero di Dio: chiunque tu sia, da qualunque paese provenga, qualsiasi sia stata la tua storia, a qualsiasi cultura appartenga, da qualsiasi parte proceda, sappi che qui sei nato, di qui trai vita e qui conducono i tuoi desideri perché qui si compiono i miei progetti: nel mio Figlio! Non è evidentemente una forma di imposizione spirituale all'umanità. Si tratta invece di una visione lucida, nella fede, sulla realtà delle cose e del mondo. Non si tratta di contrapporre una visione ad altra visione, una fede ad altra fede. Si tratta di imparare a stupirsi a tal punto dei pensieri di Dio per l'umanità che la modalità stessa di vivere e testimoniare quella visione diventa 'divina'. Per questo l'amore è l'ultima parola convincente, sebbene non sia la parola più potente. La debolezza di Dio è più forte della forza degli uomini e la stoltezza di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini: per questo a tutti gli uomini, di ieri, come di oggi e di domani, a tutti spetta questa 'eredità', che è il Figlio di Dio fatto uomo.

I magi sono la figura della manifestazione di Dio alle genti; portando i loro doni, si aprono al mistero di Dio (con l’oro riconoscono la regalità misteriosa di quel ‘bambino nato per noi’, con l’incenso riconoscono la sua divinità, con la mirra la sua umanità pronta a soffrire la passione per la nostra salvezza) e permettono al loro cuore di vedere la gloria di Dio tanto che fanno ritorno a casa loro per altra strada, come a dire che chi si apre all’adorazione di Dio riscopre la casa propria in altro modo, con altro sguardo, sotto altri orizzonti. Questo mi induce a due osservazioni: 1) se il Messia è promesso alle genti, di che cosa siamo noi credenti debitori al mondo? Siamo debitori proprio della conoscenza del Signore. E questo debito pende sulla nostra testa. Qui si ricollega la responsabilità della testimonianza dei credenti di fronte al mondo; 2) se il Messia è promesso alle genti, vuol dire che fin tanto che tutte le genti non l’hanno conosciuto, la nostra stessa conoscenza del Messia è manchevole, resta limitata. Come in un’amicizia: fin tanto che non ho trovato qualcuno che voglia bene a me, io non potrò scoprire quello che sono in verità, quello che porto e di cui sono capace. Così è con Dio. Fin tanto che tutti non l’hanno conosciuto, Dio non ha ancora avuto modo di manifestarsi in tutta la sua ricchezza. Attendere questa manifestazione, nel cuore di tutti, rende umili e adoranti e risponde al comandamento dell’amore verso tutti, anche verso i nemici, finché la gloria di Dio si manifesti compiutamente.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo di Natale

 

Battesimo del Signore

(13 gennaio 2008)

 

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Is 42,1-7;  Sal 28;  At 10,34-38;  Mt 3,13-17

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La liturgia del battesimo di Gesù fa parte ancora del ciclo natalizio. La Chiesa celebra, nel battesimo al fiume Giordano, la manifestazione di Gesù al suo popolo e il mistero di salvezza che ne deriva, collegato alla visita dei Magi e al primo miracolo a Cana di Galilea, come canta l’antifona al Benedictus: "Oggi la Chiesa, lavata dalla colpa nel fiume Giordano, si unisce a Cristo suo Sposo; accorrono i magi con doni alle nozze regali e l'acqua cambiata in vino rallegra la mensa". Il mistero è contemplato nell’ottica dell’invocazione: "Dio onnipotente ed eterno, che nel Natale del Redentore hai fatto di noi una nuova creatura, trasformaci nel Cristo tuo Figlio, che ha congiunto per sempre a sé la nostra umanità" (colletta, sabato 12 gennaio).

Nel battesimo di Gesù, che la Chiesa legge a partire dal mistero della nascita a Betlemme, si preannuncia il compimento della Pasqua. L'immagine di fondo è quella delle nozze: Dio sposa l'umanità. A Betlemme il Figlio di Dio si fa uomo, Dio assume l'umanità, ma quello che ha comportato tale assunzione si fa manifesto con il Battesimo di Gesù quando, confuso con i peccatori, Lui, l'Innocente, solidarizza con l'umanità reale e a questa umanità reale dona il suo riscatto. L'evento è però solo proclamato, sigillato, in attesa di compierlo definitivamente con la sua morte-risurrezione. Con l'adorazione dei magi questo mistero è rivelato essere eredità di tutte le genti e con la trasformazione dell'acqua in vino a Cana viene celebrata la gioia messianica dell'umanità. Oramai l'umanità appartiene in proprio a Dio, oramai l'umanità, pur con tutto il suo carico di paure e ferite, è carne del Figlio di Dio, che se l'è assunta nella sua realtà, integralmente. Non si può più parlare di umanità senza che sia Dio ad esserne toccato. Non si può più gemere sull'umanità senza aver compassione di Dio. Non c'è più motivo di temere questa umanità perché tutta parla di Dio, del Suo amore e della Sua sofferenza.

“Appena battezzato, Gesù uscì dall' acqua: ed ecco, si aprirono i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire su di lui. Ed ecco una voce dal cielo che disse: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto»”. Questi due versetti celano molti misteri. Notiamo intanto che Gesù viene al battesimo di Giovanni nella sua natura di servo e proprio in questa forma riceve la consacrazione dello Spirito Santo e la testimonianza del Padre. Lo Spirito riempie non tanto il Figlio di Dio, ma il Figlio di Dio fatto uomo, lo riempie nella sua umanità; il Padre esprime il suo compiacimento non semplicemente sul Figlio, ma sul Figlio nella sua umanità. Così il particolare dei cieli che si aprono assume un significato molto denso: non si tratta semplicemente della rivelazione della divinità di Gesù, ma del fatto che il cielo e la terra si specchiano perfettamente, del fatto che Dio è in comunione con l’umanità riconciliata, che l’umanità può entrare nei cieli. Quando Matteo, descrivendo gli eventi dopo la morte di Gesù in croce, riferisce: “Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo” (Mt 27,51) allude proprio a questa ‘apertura’ dei cieli. Il particolare che Marco, nel suo vangelo, usa lo stesso verbo ‘squarciare’ per indicare i cieli aperti al battesimo e il velo del tempio che si lacera, conferma l’accostamento.

Il battesimo mostra anticipatamente quello che si compie alla Pasqua: il velo del tempio (per l’esattezza, del Santo dei santi) che si squarcia, significa, tra l’altro, che ciò che è riposto nel seno del Padre, il suo Verbo, germoglia dall’interno della terra ove è stato riposto con la morte-risurrezione, aprendo, per l’umanità intera, l’accesso al Santo dei santi: la vita intima del Padre. Quando Gesù dirà che lui è la porta vuole riferirsi a questa medesima realtà: in Gesù l’umanità entra nel cielo e il cielo si apre sull’umanità. L’immagine della colomba sembra riferirsi alla stessa realtà, almeno secondo certe interpretazioni patristiche: lo Spirito annuncia al mondo la misericordia di Dio, che in Gesù risplende piena e assoluta.

La voce del Padre è quella di cui Gesù dirà: “Io sono nel Padre e il Padre è in me” (Gv 14,10); “Io dico quello che ho visto presso il Padre” (Gv 8,38); “Io invece lo conosco” (Gv 8,55); “Faccio quello che il Padre mi ha comandato” (Gv 14,31). L'aggettivo prediletto, proclamato dalla voce del Padre, non dice soltanto tutta l'intimità goduta tra il Padre e il Figlio, ma illustra anche  lo sconfinato amore per l'umanità che i due condividono. Prediletto fa pensare ad Abramo, pronto ad immolare il figlio Isacco (Gen 22,2). Rimanda al figlio della parabola dei vignaioli omicidi (Mc 12,6). Prediletto ha attinenza con “Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16), ha attinenza al mistero dell'amore del Padre per l'umanità di cui il Figlio è il rivelatore, lui che è il Volto visibile del suo splendore. È il prediletto perché il Suo Amore di Padre in Lui è perfetto nel senso che in Lui si compie perfettamente il Suo volere di benevolenza per l'umanità e Lui non ha altro volere che quello di compierlo perfettamente: “Mio cibo è fare la volontà del Padre” (Gv 4,34). È prediletto perché non solo il Suo Amore si volge verso di lui , in lui si posa, ma anche si riposa, sta soddisfatto, ne ottiene la risposta più piena.

Il risvolto tutto speciale del mistero allude però a qualcos’altro. Lo sguardo di predilezione del Padre sul Figlio non concerne più oramai solo la persona del Verbo, ma il Verbo nella sua umanità, il Capo con le sue membra. La lettura del profeta Isaia riguarda proprio l’identificazione di Gesù come il servo, l’identificazione del Messia nella sua natura di servo. Non dimentichiamo che questo brano di Isaia ricorre nella liturgia del lunedì della settimana santa, a sottolineare la dimensione pasquale di quell’identificazione. In quella natura di servo siamo noi, nella nostra umanità, ad essere considerati. Non dobbiamo perciò pensare che lo sguardo di compiacimento del Padre attenda a posarsi su di noi allorquando saremo capaci di seguire Cristo in una vita santa; è esattamente il contrario. Potremo impegnarci in una vita santa solo se sentiremo sulla nostra umanità peccatrice, ferita e piena di paure, questo sguardo di compiacimento perché Dio ama per primo, perché a Lui apparteniamo, perché siamo la sua stessa carne. Ed è proprio perché la nostra fede squarcia l’orizzonte per introdurci in questa visione che possiamo pregare, come citavo all'inizio: " ... trasformaci nel Cristo tuo Figlio, che ha congiunto per sempre a sé la nostra umanità".

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo Ordinario

 

2a Domenica

(20 gennaio 2008)

 

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Is 49,3-6;  Sal 39;  1Cor 1,1-3;  Gv 1,29-34

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Il vangelo di Giovanni, a differenza di Matteo, Marco e Luca, non parla delle tentazioni che Gesù subisce nel deserto prima di iniziare la sua predicazione. Subito dopo il battesimo al Giordano, i sinottici mostrano Gesù, nel deserto, assalito dal diavolo che cerca di imporgli una visione messianica tutta sua, senza evidentemente riuscire a distoglierlo da quella vera secondo Dio. Con la particolarità di Luca che, prima di narrare delle tentazioni, riporta la genealogia di Gesù risalendo all’indietro fino ad Adamo, fino alla sua figliolanza divina, a sottolineare che colui che è stato battezzato e colui che intraprenderà la predicazione del Regno è proprio il Figlio di Dio, fatto uomo per noi, inviato per la nostra salvezza.

In Giovanni leggo l’allusione alle tentazioni, soprattutto a quello che le tentazioni comportano nell’economia dei racconti evangelici,  nella testimonianza solenne del Battista: “Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!”. La figura dell’agnello richiama sia il servo obbediente sia l’agnello pasquale e rimanda al contesto pasquale in cui si compie la salvezza, là dove il diavolo sarà definitivamente sconfitto.

La figura del servo obbediente è richiamata dalla lettura di Isaia. Si tratta del secondo canto del Servo obbediente, testo che viene proclamato solennemente nella settimana santa, il martedì. “Ora disse il Signore che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele… : "È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti di Israele. Ma io ti renderò luce delle nazioni perché porti la mia salvezza fino all' estremità della terra”. Il salmo 39, che riprende quel testo, commenta: “Sacrificio e offerta non gradisci, gli orecchi mi hai aperto. Non hai chiesto olocausto e vittima per la colpa.  Allora ho detto: «Ecco, io vengo. Sul rotolo del libro di me è scritto, che io faccia il tuo volere. Mio Dio, questo io desidero, la tua legge è nel profondo del mio cuore»”.

Il servo è il Figlio che ha lo stesso volere del Padre nel suo amore agli uomini. L’espressione della sua obbedienza a quel volere di amore per gli uomini si esprime con le parole ‘gli orecchi mi hai aperto’, che la versione greca, ripresa dalla lettera agli Ebrei 10,5, rende con ‘un corpo mi hai preparato’. L’umanità del Figlio di Dio costituisce l’obbedienza al volere di amore del Padre per gli uomini, umanità che con il battesimo al Giordano viene consacrata per diventare luce delle nazioni e portare salvezza al mondo. Quando il Battista testimonia che Gesù, che ha appena battezzato, è il Figlio di Dio, svela il segreto di Dio al mondo: in quell’umanità si giocherà l’amore di Dio agli uomini. Dove la luce di quella salvezza risplenderà in tutta la sua potenza? Sulla croce, dove il Signore è innalzato. Là conduce gli sguardi la figura dell’agnello di cui dà testimonianza il Battista.

Quando il salmo 39 usa l’espressione ‘sul rotolo del libro’, l’allusione è all’insieme delle Scritture che di quel segreto parlano. La figura dell’agnello raccoglie tutta la storia del mondo, come suggerirà il libro dell’Apocalisse, rimandando all’agnello immolato fin dalla fondazione del mondo  (Ap 13,8) e nella Gerusalemme celeste alla luce di Dio e dell’Agnello che sostituirà il sole (Ap 22,5).

Non dimentichiamo che la proclamazione di Giovanni Battista: "Ecco l'agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!" risuona con la stessa solennità e lo stesso stupore in ogni celebrazione eucaristica prima della comunione. È diventata l'invito alla mensa del Signore. In vista di quale mistero, per partecipare a quale mistero? Lo dice bene la preghiera dopo la comunione: "Infondi in noi, o Padre, lo Spirito del tuo amore, perché nutriti con l'unico pane di vita formiamo un cuor solo ed un'anima sola". Quello Spirito che Giovanni Battista ha visto scendere e rimanere su Gesù, quello Spirito che l'ha condotto a dare la sua vita per noi, quello Spirito che su di noi ha effuso dalla croce, in quello stesso Spirito noi siamo battezzati, di quello stesso Spirito siamo rivestiti. È lo Spirito dell'amore del Padre, lo Spirito del Figlio che è prediletto proprio perché condivide con il Padre lo sconfinato amore per gli uomini per riunire i quali non esita a mettere in gioco tutta la sua vita. Il compimento della grazia dello Spirito è proprio quel mistero della fraternità che è sacramento della paternità di Dio. È caratteristico che nel Canone eucaristico si invochi due volte lo Spirito Santo: una volta, prima della consacrazione, per trasformare il pane ed il vino nel Corpo e nel Sangue del Signore e un'altra volta, dopo la consacrazione, per formare un unico corpo, per vivere cioè il mistero della fraternità in tutta la sua potenza di rivelazione dell'amore di Dio. Non si può dispiegare in tutta la sua potenza e profondità la rivelazione dell'amore di Dio in questo mondo se non dentro il mistero della fraternità, se non in cuori che, in Cristo, Agnello di Dio, conoscono i segreti di Dio tanto da essere perfettamente solidali con i loro fratelli portando i loro peccati, massimo segno di amore per loro perché si concedono a loro tutti i diritti su di noi.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo Ordinario

 

3a Domenica

(27 gennaio 2008)

 

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Is 8,23-9,3;  Sal 26;  1Cor 1,10-17;  Mt 4,12-23

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La liturgia di oggi, giocando su alcune immagini di fondo, suggerisce diverse porte di accesso al brano evangelico. Consideriamo l’immagine della luce. Gesù è presentato alle prese con l’inizio della sua predicazione in Galilea, dopo l’investitura del battesimo e il superamento delle tentazioni. L’evangelista Matteo, che molte volte si premura di collegare gli eventi evangelici al mondo delle Scritture per offrirne la retta comprensione, si rifà a un testo del profeta Isaia che descrive i territori del nord della Palestina lungo la via che i vari conquistatori percorrevano per estendere i loro domini, la via tra l’Egitto e l’Assiria, i due imperi antagonisti. Un territorio di popolazioni miste perché soggetto a deportazioni e vassallaggi. Il profeta però esorta alla fiducia perché l’angoscia degli abitanti di quel territorio si trasformerà in esultanza per la venuta di un nuovo re liberatore (“un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio”, Is 9,5), che la liturgia canta il giorno di Natale. La luce che gli abitanti vedranno è la luce di colui che Giovanni descriverà nel prologo del suo vangelo: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini … veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” [reso forse meglio: il Verbo era la vera luce che, venendo nel mondo, illumina ogni uomo].

Il salmo responsoriale riprende la stessa immagine: “Il Signore è mia luce e mia salvezza”. E così, quando Matteo descrive la predicazione di Gesù, la colloca nella prospettiva di questa luce che splende, luce che si esprimerà nel discorso della montagna, con l’annuncio delle beatitudini, che segue subito dopo.

Sempre in riferimento a quella luce va compreso l’annuncio: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”. Convertirsi è vedere quella luce che splende. Non si tratta però di una visione materiale perché all’esterno non si vede nulla di particolare. La luce induce alla conversione ma è la conversione che permette di vedere lo splendore di quella luce. La luce che induce alla conversione è la percezione della potenza che abita quel Maestro, tanto da andargli dietro se ti chiama, come hanno fatto gli apostoli. Come se si dicesse: se volete che il regno di Dio diventi vostro, convertitevi, cioè acconsentite alla visione che scaturisce dalla fede nel Figlio di Dio. Il convertirsi comporta prima di tutto un dare fiducia, un affidarsi, un prestar fede alla promessa di Dio, alla potenza della sua parola, potenza di verità e di vita lasciata a noi perché diventi nostra. Solo in un secondo momento la conversione comporta un valore morale, nel senso di una disciplina del vivere che corrisponda e fortifichi nello stesso tempo il desiderio del cuore.

Gregorio Magno, commentando la prontezza dei pescatori a seguire la chiamata di Gesù, riflette sul fatto che a dire il vero quegli uomini avevano ben poco da lasciare essendo poveri. Ma, aggiunge “ha molto lasciato chi non ha tenuto nulla per sé”. È appunto il senso della fede genuina. Non importa lasciare poco o tanto; l'importante è non conservare nulla per sé, vale a dire fidarsi fino in fondo, con tutto il cammino, con tutte le fatiche che questo comporta, in modo che la grazia dell'incontro possa rivelare tutti i suoi frutti, nel tempo.

Se ora riflettiamo sul significato della chiamata degli apostoli non si può non notare il fatto che non sono stati chiamati semplicemente alla sequela di Gesù, ma alla sequela di Gesù che è inviato a portare a tutti la salvezza e la consolazione (vi farò pescatori di uomini). Seguire Gesù comporta un’esperienza di vita, la condivisione del suo insegnamento e della sua missione; dice prima di tutto quanto l’intimità di vita con il Signore sia sconfinata nel senso che non può ripiegarsi su se stessa ma continuamente si traduce in condivisione della misericordia di Dio per l'umanità. L'intimità con Dio comporta sempre una buona dose di sana angoscia per i propri fratelli e per questo non sta mai ferma: fin dove c'è un uomo, fin dove c'è un livello di umanità non ancora aperto alla grazia dell'incontro, fin dove c'è una malattia da curare, l'apostolo, come Gesù, non si dà pace. Più profonda è la pace che viene dalla grazia dell'incontro, meno pace si dà finché tutti i fratelli possano godere della stessa grazia. Il senso del guarire ogni sorta di malattie e di infermità da parte di Gesù in missione, come avverrà per gli apostoli inviati in missione (imporranno le mani ai malati e questi guariranno, Mc 16,18), è proprio questo: condividere la misericordia di Dio per l’umanità.

Un altro particolare della chiamata degli apostoli è estremamente significativo. Gesù li chiama non semplicemente a seguirlo, ma a mettersi dietro a lui, come poi dirà Gesù a Pietro quando lo rimprovererà per aver pensato non secondo Dio: “Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: Lungi da me, satana! [da intendersi: vieni dietro a me]. Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!” (Mt 16,23). Quel mettersi dietro a corrisponde a quanto il salmo fa dire al fedele: “Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita”. Qual è la nostra domanda al Signore? Qual è l’unica cosa necessaria da domandare? Tutto dipende dalla profondità che nei nostri cuori ha raggiunto la conversione al  vangelo del regno, di cui ci ha fatto vedere lo splendore da indurci a rivestircene.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo Ordinario

 

4a Domenica

(3 febbraio 2008)

 

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Sof 2,3; 3,12-13;  Sal 145;  1Cor 1,26-3;  Mt 5,1-12

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Oggi viene proclamato il vangelo delle beatitudini. Lasciandoci guidare dalla liturgia, proviamo ad avvicinarlo partendo dal salmo responsoriale, il salmo 145, che esplicita la profezia di Sofonia. “Il Signore regna” conclude il salmo. La proclamazione fa da contrappunto ai primi versetti del salmo: “non confidate nei potenti, in un uomo che non può salvare”, da rendere con più precisione, secondo la versione greca: ‘in un uomo che non ha salvezza’. Quando la moltitudine dei santi in paradiso loda Dio grida: “La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all'Agnello” (Ap 7,10). L’uomo non può darsi la salvezza: ecco l’evidenza della storia. Se l’uomo si affida all’uomo non troverà salvezza. Il che equivale anche a dire: non godrà felicità. Eppure l’uomo non godrà felicità se non in comunione con gli uomini. Perché?

Possiamo anche intendere così: la nostra vocazione è la felicità e, per quanto possa sembrare strano, la felicità è paradossale. Non la si prende dove sembra di vederla, ma la si ottiene spesso con ciò che sembra il contrario. Perché in gioco è la credibilità stessa di Dio che viene incontro all'uomo, senza però mai poterlo convincere all'evidenza. Nella felicità è in gioco non semplicemente l'esaudimento di un cuore, ma l'incontro di due, la comunione di due.

Il brano del profeta Sofonia introduce la promessa per il resto d’Israele di godere del regno di Dio nel contesto, terribile, del giorno dell’ira del Signore. Il profeta assiste ad avvenimenti tragici: in pochi decenni si susseguono devastazioni immani ad opera dei due regni contrapposti, Egitto e Assiria. Israele non confida più in Dio; cerca alleati umani, si fida ora dell’uno ora dell’altro, per scampare al pericolo, ma non trova riposo perché l’uno e l’altro sono antagonisti perenni e lui ne fa continuamente le spese. Dopo le minacce e le invettive tra le più terribili della Bibbia, il profeta annuncia la fedeltà di Dio al suo popolo, annuncia la felicità che vuol procurare al suo popolo.

Il salmo 145, che riprende la promessa annunciata da Sofonia, fonda la credibilità di Dio su di una sua specifica qualità: “egli custodisce la verità in eterno’, ‘egli è fedele per semprè. Quale questa verità? La verità del suo amore per l’uomo, la verità del suo agire in benevolenza verso l’uomo. Alle nostre orecchie appare perlomeno contraddittoria questa affermazione, quando risuona in un contesto di afflizioni e drammi. Ma la profondità di senso di quell’affermazione si può cogliere solo a partire dal dramma nel quale l’uomo vive.

Gesù, quando annuncia le sue beatitudini, ha presente il dramma dell’uomo. Senza riferire le sue parole al profondo dramma che vivono gli uomini, le beatitudini suonano come pie esortazioni e il riferimento alla felicità una pia illusione.

Intanto, Gesù può annunciare le sue beatitudini ai discepoli perché ha già fatto vedere che ‘il regno di Dio è vicino’, vale a dire:

a) ha già potuto far vedere la potenza dell’agire di Dio a loro favore (Gesù ha già cominciato a predicare il vangelo del regno, ha già entusiasmato uomini che lo seguono, ha già guarito molti da malattie e infermità e mostrato il suo potere sui demoni, come dirà più avanti: “Ma se io scaccio i demòni per virtù dello Spirito di Dio, è certo giunto fra voi il regno di Dio”, Mt 12,28);

b) è stato però necessario convertirsi al mistero della sua persona per cogliere il suo agire come testimonianza della presenza salvatrice di Dio in mezzo a loro. Diversamente – e per molti si ridurrà a questo! – vedranno solo un guaritore da importunare in ogni caso per avere un po’ di sollievo. Chi però agirà così, non troverà felicità, perché non avrà incontrato il suo Dio.

 

Ciò che le beatitudini hanno di paradossale deriva dall'esperienza di un incontro assoluto che pone tutto il resto in sott'ordine. E tutto il resto sta in sott'ordine perché è tale la potenza che si sprigiona da quell'incontro che nulla potrà sostituirsi al suo fascino. La beatitudine che proclama Gesù deriva dalla comunione con la sua, da quella vita con il Padre e lo Spirito che lo rende così Figlio da non volere altro per sé se non di vedere tutti immersi nello stesso amore del Padre. Deriva dalla rivelazione dell'esperienza del Regno ormai giunto fino a noi, ormai schiuso nella sua inaccessibilità e nel suo mistero tanto da schiudere ogni evento alla sua realtà. Deriva dalla partecipazione alla vita divina, quella che non avrà più fine e che si fa accessibile a noi fin da ora.

Le beatitudini sono otto. La prima e l’ultima comportano la stessa promessa: ‘perché di essi è il regno dei cieli’ e racchiudono le altre sei. C’è un doppio movimento nell’elenco delle beatitudini: un movimento di concatenazione e un movimento circolare. La concatenazione riguarda lo spazio definito dalla seconda alla settima, mentre il movimento circolare è dato dal ritornare dell’ottava alla prima per riavviare, a livelli sempre più profondi, la concatenazione. La felicità scaturisce dai passaggi indicati: se ti affliggi solo per la potenza del male che ti domina e dal quale vuoi esserne liberato, se non avrai altro motivo di ira se non quello di opporti al maligno e così custodirti dolce con tutti, se cercherai la giustizia al di sopra del tuo interesse, se condividerai con tutti la misericordia che avrai gustato nel perdono di Dio, se sarai così privo di rivendicazioni e pretese da vedere tutto e tutti nella luce di Dio di cui godrai la presenza, se seguirai l’opera di Dio che è la fraternità tra gli uomini, allora – è la promessa della settima beatitudine – sarai come il Figlio di Dio che, per essere venuto a testimoniare quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini, non ha preferito se stesso all’amore che lo divorava e ha accettato di essere consegnato nelle mani degli uomini. Se nella persecuzione l’uomo non perde la sua gioia, allora vuol dire che la potenza del Regno l’ha lambito, che la sua felicità non dipende più dal mondo. Non avrà più bisogno di cercare altra affermazione di sé perché ha trovato quella capace di soddisfare l’anelito del suo cuore, che così sarà confermato nella rinuncia alla brama di ogni bene che non sia espressione di quell’esperienza. Tanto che si affliggerà ancora più profondamente del male che in lui si annida e ripercorrerà la concatenazione dei passaggi a livelli sempre più coinvolgenti.

 

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo di Quaresima

 

1a Domenica

(10 febbraio 2008)

 

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Gn 2,7-9; 3,1-7;  Sal 50;  Rm 5,12-19;  Mt 4,1-11

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Il cammino quaresimale è una buona immagine del cammino della vita. Il percorso per arrivare alla Pasqua del cielo è segnato da innumerevoli tentazioni. Senza tentazioni non c’è verità, dicevano i nostri padri. Il brano evangelico di questa prima domenica di quaresima riporta le tentazioni di Gesù. Il maligno, non essendo stupido, non tenta certo di distogliere Gesù da Dio per indurlo al male. La sua azione è più raffinata. Gli suggerisce che ci sarebbe un modo più diretto ed efficace per arrivare al suo scopo. L’inganno sta nel fatto di fargli fare qualcosa in nome di Dio senza condividere il segreto di Dio, senza il compiacimento di Dio. Le tentazioni hanno appunto lo scopo di distoglierci dall’obiettivo vero per suggerirne uno fasullo.

Le tre tentazioni sono precedute dall’annotazione che, dopo quaranta giorni di digiuno, Gesù ebbe fame. Non si tratta solo di una fame materiale (solo la prima tentazione alluderebbe direttamente al desiderio di cibo) ma del suo desiderio di realizzare il compito di cui è stato investito come Messia: portare tutti a Dio. Il ritirarsi di Gesù nel deserto segue l’evento del battesimo al Giordano allorquando si è sentito proclamare ‘Figlio prediletto’, ripieno dello Spirito Santo. Il suo aver fame richiama il grido sulla croce: ho sete (Gv 19,28). Ha fame e sete degli uomini. È nel suo zelo per gli uomini che viene tentato.

La scena richiama l’esperienza del popolo di Israele in viaggio verso la terra promessa nel suo peregrinare nel deserto, luogo della rivelazione di Dio e nello stesso tempo luogo di terribili tentazioni. Le risposte che Gesù dà al diavolo sono tutte citazioni prese dal libro del Deuteronomio (Dt 8,3; 6,16; 6,13), soprattutto da quel capitolo 6 che contiene la professione di fede del pio israelita, lo Shema Israel.

D’altro canto, è caratteristico che l’antifona di ingresso della messa di oggi sia la ripresa di un versetto del salmo 90, di cui si serve anche il diavolo nel suo secondo attacco a Gesù: “Egli mi invocherà e io lo esaudirò; gli darò salvezza e gloria, lo sazierò con una lunga vita”. Il salmo 90, nella tradizione ebraica, è il salmo che chiude la celebrazione del sabato. Dopo aver goduto della luce e della gloria della presenza del Signore nella meditazione della sua parola per tutta la giornata, all’appressarsi del nuovo giorno della settimana, quando le occupazioni quotidiane riprenderanno con il loro fardello di preoccupazione, di fatica e di tentazioni, il fedele supplica fiducioso: la gloria di questo santo giorno si estenda nella settimana per essere custodito nella pace del Signore. L’invocazione corrisponde a ciò che la colletta fa pregare: “concedi ai tuoi fedeli di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e di testimoniarlo con una degna condotta di vita”.

Cogliere la dinamica specifica delle tentazioni di Gesù significa individuare l’illusione con cui il diavolo vuole estendere al mondo la gelosia che lo divora e di cui ne facciamo amaramente le spese. Per Gesù le tentazioni riguardano il potere di trasformare in pane le pietre, di buttarsi dal pinnacolo del tempio e cadere illeso, di possedere i regni di questo mondo se solo accettasse di prenderli dal diavolo.

Il riferimento a Dio suggerito dal diavolo è ingannevole, perché il destinatario ultimo dei miracoli non è Dio, ma lui stesso. Così se mai Gesù avesse accolto l'inganno, non si sarebbe trovato dalla parte di Dio, ma del diavolo; vale a dire non avrebbe portato a compimento la missione affidatagli da Dio, ma ne avrebbe pervertito il senso a danno degli uomini e li avrebbe condannati alla disperazione.

Consideriamo la tentazione dalla parte del diavolo. Quale sarebbe l’esito per noi se acconsentissimo? Ci ritroveremmo condannati a queste illusioni:

all’oppressione dell’esibizione del nostro potere, che in realtà ci allontana dalla vita, perché rende tutto il resto insignificante;

all’ipertrofia di se stessi a tal punto da servirci persino di Dio per riempire la scena;

alla tirannia della gloria effimera di questo mondo che vuole la nostra vita.

In realtà la posta in gioco della vita sta in questa corrispondenza: scegliere Dio stando dalla parte degli uomini e scegliere gli uomini stando dalla parte di Dio. Quando questa corrispondenza si spezza – lo scopo del diavolo è proprio quello di pervertirla – allora l’uomo diventa schiavo, perché idolatra. L’intenzione segreta del diavolo la vediamo emergere nella terza tentazione: “… se, prostrandoti, mi adorerai”. Sottrarre l’uomo a Dio significa sottrarlo alla gloria che gli spetta. L’uomo schiavo non rientra nel progetto di Dio.

Se consideriamo la tentazione dalla parte di Dio che la consente, vediamo come sia in gioco la verità della promessa di Dio al nostro cuore:

ci è promessa la vita, ma non secondo il proprio piacere;

ci è promesso il soccorso, ma dentro una provvidenza che impariamo ad accogliere;

ci è promessa la gloria, ma non per i propri interessi.

Essere figli non comporta titolo alcuno di pretesa; significa solo condividere con Dio il suo amore per gli uomini.

La penitenza quaresimale va diretta contro l'illusione. Le risposte di Gesù frantumano l'illusione con la quale il diavolo irretisce per impedirci di essere liberi e veritieri. E lo scopo del vincere l'illusione lo rivela assai bene s. Francesco nel suo commento al Padre nostro: “sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra: finché ti amiamo con tutto il cuore, sempre pensando a te; con tutta l'anima, sempre desiderando te; con tutta la mente, orientando a te tutte le nostre intenzioni e in ogni cosa cercando il tuo onore. E con tutte le nostre forze, spendendo tutte le nostre energie e sensibilità dell'anima e del corpo a servizio del tuo amore e non per altro; e affinché amiamo il nostro prossimo come noi stessi, trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo amore, godendo dei beni altrui come dei nostri e compatendoli nei mali e non recando offesa a nessuno”. È l'illusione infranta, la libertà acquisita, lo spazio nuovo dell'umanità da riempire.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo di Quaresima

 

2a Domenica

(17 febbraio 2008)

 

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Gn 12,1-4;  Sal 32;  2Tm 1,8-10;  Mt 17,1-9

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Il cammino quaresimale porta alla Pasqua di risurrezione, ma la chiesa sa che prima dell'esultanza della risurrezione viene il dramma della morte. Così, prima di ritrovarci immersi nel dramma della passione e della morte, la liturgia ci consola con la visione della trasfigurazione, allo scopo di predisporci a vedere nel volto che sarà martoriato e insanguinato il volto del Signore della gloria.

Una duplice tensione anima la liturgia: a) proclama l’evento della trasfigurazione di Gesù per esaltarne la tensione alla Pasqua, tensione che Gesù vive in se stesso e nella sollecitudine per i suoi discepoli perché imparino a fidarsi di Dio; b) fa emergere la tensione che lavora il cuore dell’uomo nel suo desiderio di vedere il volto di Dio e saziare la sua nostalgia.

L’antifona di ingresso: “Di te dice il mio cuore: «Cercate il suo volto». Il tuo volto io cerco, o Signore. Non nascondere il tuo volto da me” risponde allo stupore estasiato di Pietro: “Signore è bello per noi restare qui”. Il salmo 26 incomincia con “Il Signore è mia luce e mia salvezza”; prosegue con “Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore” e finisce con “Mostrami, Signore, la tua via”. È la tensione di una vita: “sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”. Quando il salmo proclama: “Non nascondermi il tuo volto”, supplica Dio per due cose precise: perché faccia sentire la sua presenza di accompagnamento e si degni di far vedere il suo volto. L’uomo ha bisogno di tutte e due le cose.

Il punto di convergenza delle due tensioni non riguarda però il vedere, ma l’ascoltare. Il racconto si conclude infatti con la proclamazione della voce: “Questi è il mio Figlio prediletto: ascoltatelo” e con la consegna del silenzio.  Come a sottolineare che, se il racconto è per gli occhi, lo scopo che ne costituisce la ragione è per gli orecchi, con l’evidente conseguenza che soltanto ascoltando si potrà vedere.

La narrazione è preceduta da due particolari estremamente significativi. Nel contesto dell’annuncio della sua passione a Gerusalemme , Gesù aveva rimproverato apertamente Pietro e gli aveva detto “Lungi da me, satana!”, vale a dire: va’ dietro di me (Mt 16,23). E dopo che Gesù aveva richiamato gli apostoli a seguirlo portando ciascuno la sua croce, aveva concluso: “vi sono alcuni tra i presenti che non morranno finché non vedranno il Figlio dell'uomo venire nel suo regno” (Mt 16,28). ‘Sei giorni dopo’ (probabilmente all’inizio o alla fine della festa delle capanne, che era diventata la festa dell’alleanza e del dono della Legge al Sinai) Gesù si trasfigura sul monte in mezzo a Mosè ed Elia. In questo caso, Mosè ed Elia non stanno a significare semplicemente la Legge e i Profeti, ma che essi sono i precursori o i testimoni dell’Alleanza. L’alleanza non è questione di vista, ma di udito. In effetti l’aspetto misterioso e strano della narrazione evangelica è dato dal fatto che la paura assale gli apostoli non quando vedono ma quando ascoltano.

Ci aiuta a entrare nel mistero la colletta di oggi: “O Padre, che ci chiami ad ascoltare il tuo amato Figlio, nutri la nostra fede con la tua parola e purifica gli occhi del nostro spirito, perché possiamo godere la visione della tua gloria”. La supplica è in funzione dell’ascoltare; sarà l’ascoltare che purificherà gli occhi del cuore perché possano vedere.

L’esempio di Abramo è eloquente. Sente la voce di Dio: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre”. Non conosce nulla del nuovo paese: sa solo che Dio gliene fa promessa. Sarà il suo ascoltare che gli consentirà di vedere la benedizione realizzarsi. Proprio perché accetta la relazione con colui che lo coinvolgeva nella sua storia sacra fino a diventare il suo Dio, lascia la sua casa (se scegli il Padre celeste, devi lasciare quello terreno; se scegli il regno di Dio, devi lasciare ogni altro regno; se ti accetti da Dio, di Dio e secondo Dio devi vivere, come dirà Cipriano nel suo commento al Padre nostro) e per questo, oltre a godere della benedizione di Dio, diventa benedizione lui stesso per tutti perché rivela la grandezza dell'amore di Dio e lo splendore che si irradia su tutto.

Così, se Abramo ascolta Dio, Gesù ascolta il Padre, i discepoli ascoltano Gesù e il frutto della benedizione promessa rivelerà il suo splendore. Per gli uomini, quello splendore consisterà nel godere della visione del volto del Cristo, testimone dell’amore di Dio per gli uomini, nella gloria della Pasqua di morte e risurrezione, condividendo nella loro umanità lo sguardo di compiacenza del Padre che riposa tutto sul suo Figlio benedetto. L’ascolto condurrà così alla visione di colui che mentre ci squaderna il segreto di Dio per l’uomo fa rilucere il mondo dello splendore della sua bellezza.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo di Quaresima

 

3a Domenica

(24 febbraio 2008)

 

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Es 17,3-7;  Sal 94;  Rm 5,1-8;  Gv 4,5-42

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Il brano evangelico di oggi si può definire come una delle catechesi più riuscite di Gesù. Dico ‘riuscite’ nel senso dell’esito finale, che corrisponde all’intenzione del Maestro. Il brano finisce con l’accesso alla fede nel Salvatore non solo della donna samaritana, ma dei Samaritani, simbolo della venuta alla fede da parte delle genti.

Il dialogo con la samaritana al pozzo di Giacobbe comporta riferimenti diretti e suggestioni più segrete, in un susseguirsi di immagini allusive della storia dell’alleanza di Dio con il popolo di Israele. Se consideriamo il racconto dal punto di vista della posizione della donna samaritana di fronte a Gesù, non  possiamo non notare l’evoluzione del suo atteggiamento interiore. Prima lo considera semplicemente un giudeo, poi uno più grande del patriarca Giacobbe, poi un profeta, poi messia, infine salvatore del mondo. Nel suo percorso leggiamo anche il nostro stesso percorso; la sua scoperta del Salvatore invita noi a porci nello stesso atteggiamento di scoperta e la prosecuzione della lettura del vangelo di Giovanni darà l’orizzonte di intelligenza  e la consistenza di coinvolgimento nell’avventura che scaturisce da quella scoperta.

Vorrei però soffermarmi su una di quelle che ho chiamato suggestioni segrete di cui il brano è ricchissimo. La si può desumere dai passaggi repentini nello svolgimento del dialogo. Che senso ha introdurre nel dialogo con la samaritana la richiesta: Va’ a chiamare tuo marito? Ricollochiamo la scena del dialogo. Siamo presso il pozzo di Giacobbe, descritto dall’immaginazione popolare come miracoloso per la capacità di trasbordare senza che nessuno attingesse l’acqua, da quando Giacobbe vi incontra la sua futura sposa, Rachele (cfr. Gn 29,1-14). Presso un pozzo anche Isacco incontra Rebecca (Gn 24) e Mosè la sua futura sposa (Es 2,15-22).  Il tema dell’acqua è collegato alle nozze. E chi dà l’acqua è il futuro marito: Giacobbe a Rachele e Mosè a Zippora.

Nell’accusa che Dio rivolgerà al suo popolo che si è prostituito tradendo il suo amore, Osea metterà in bocca a Israele queste parole di tragico vaneggiamento: “Seguirò i miei amanti, che mi danno il mio pane e la mia acqua, la mia lana, il mio lino, il mio olio e le mie bevande” (Os 2,7). E dopo che Dio avrà rinnovato il suo amore per Israele, dirà: “ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore. E avverrà in quel giorno - oracolo del Signore - io risponderò al cielo ed esso risponderà alla terra; la terra risponderà con il grano, il vino nuovo e l' olio e questi risponderanno a Izreèl. Io li seminerò di nuovo per me nel paese e amerò Non - amata; e a Non - mio - popolo dirò: Popolo mio, ed egli mi dirà: Mio Dio” (Os 2,22-25). Dio ricorderà che l’acqua la dà lui.

La vicenda personale della samaritana (l’uomo con cui sta non è suo marito) diventa l’emblema dell’uomo che non sta con il suo Dio. L’invito di Gesù a ritrovare il vero marito è l’invito a ritornare al vero Dio. Così il tema dell’acqua, che è implicato con l’immagine delle nozze, si apre al tema del tempio e della vera adorazione: dove trovare il vero Dio? In questo contesto si comprendono le parole di Gesù sull’adorare in spirito e verità. Abbiamo sì bisogno di un luogo in cui stare per adorare, ma è finita l'economia antica: né qui né là, né sul monte Garizim né a Gerusalemme. L'unico luogo, l'unico ubi consistam ormai non è che Lui, il Cristo, il Figlio che rivela il Padre. Adorare Dio ormai non può significare altro che adorare il Padre, Colui che nello Spirito possiamo chiamare Abbà, Padre. Ma come si può conoscere il Padre se non dal Figlio che ce lo mostra, di cui ci svela i segreti, nella comunione del quale ci attrae? E come adorare il Padre se non nel Figlio con il quale diventare uno stesso Spirito per respirare della stessa intimità che lo lega al Padre? Qui si innesta il dialogo successivo con i discepoli, in assenza della samaritana: mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. L’opera si rivelerà subito con il ritornare della samaritana e con il venire dei suoi concittadini che invitano Gesù a rimanere con loro per concludere: “Non è più per la tua parola che noi crediamo; ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo”.

Tutto il dialogo come la conclusione che sfocia nella professione di fede sembra rispondere all’invito evangelico: “Chiedete e vi sarà dato”. Ma cosa va chiesto? “Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!” (Lc 9,11.13). E nel vangelo di Giovanni l’acqua allude sempre al dono dello Spirito Santo.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo di Quaresima

 

4a Domenica

(2 marzo 2008)

 

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1Sam 16,1-13;  Sal 22;  Ef 5,8-14;  Gv 9,1-41

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I vangeli della terza, quarta e quinta domenica di quaresima formano un tutto compatto per l'accentuato contesto battesimale nel quale sono proclamati in vista del grande appuntamento pasquale, soprattutto per i catecumeni. Il vangelo della samaritana (Gesù acqua viva), del cieco nato (Gesù luce vera) e della risurrezione di Lazzaro (Gesù vita vera) richiamano appunto il nostro battesimo. In particolare, i tratti che avevano definito la venuta del Cristo nel prologo del vangelo di Giovanni (“in lui era la vita e la vita era la luce degli uomini ..  Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo”), con il vangelo del cieco nato e della resurrezione di Lazzaro si impongono alla coscienza dei fedeli.

Da vari punti di vista può essere letto il brano di oggi. Per esempio, dal punto di vista della progressiva apertura alla fede da parte del cieco guarito. Non è lui a chiedere la guarigione: l’iniziativa è di Gesù. Lui ha fiducia e va a lavarsi alla piscina di Siloe  (quella dalla quale veniva attinta l’acqua portata solennemente verso il tempio e versata attorno all’altare nella solennità della festa delle capanne, cfr. Gv 7,37-39. Siloe significa piuttosto ‘chi invia [le acque]’e Giovanni, rendendolo al passivo, ‘Inviato’, indica che la nostra guarigione si trova in Gesù, che poco prima si era definito ‘inviato’ dal Padre, v. 4). Nelle parole del cieco guarito Gesù è indicato prima come ‘quell’uomo che si chiama Gesù’, poi ‘un profeta’, poi ‘che è da Dio’ e infine, davanti alla domanda di Gesù che lo va a cercare dopo che è stato cacciato dai farisei: “Tu credi nel Figlio dell’uomo?”, risponde:  Io credo, Signore!”.

La progressione segnala la dinamica spirituale del credente. Da un singolo evento (la guarigione dalla cecità) si arriva al coinvolgimento di tutta la propria vita (la fede nel Figlio dell'uomo). Oppure, per esprimerla con altra immagine, dalle cose si passa a scoprire un Volto e da questo Volto si torna, nuovi, alla propria vita, alla propria storia. Gli eventi ci sono dati per scoprire il Volto di colui che il nostro cuore cerca e la scoperta di questo Volto ci rimanda agli eventi perché siano vissuti nella luce e nella vita che da lui promanano.

Altro aspetto di tale dinamica è quello che chiamerei la responsabilità della storia personale. È vano voler trovare il senso delle cose per assumerle (l'atteggiamento dei farisei lo dimostra); piuttosto, le assumo e scopro il senso (è la via della fede e dei comandamenti evangelici).

A tale riguardo è estremamente significativo l’introduzione al brano del cieco nato. I discepoli interrogano Gesù: “ha peccato lui o i suoi genitori?”. La domanda esprimeva il tentativo di sfuggire all’angoscia del male da parte di una coscienza religiosa. Noi non formuleremmo più la domanda in quei termini, ma non per questo l’interrogativo di fronte al male ha perso la sua angoscia lancinante. Gesù non dà risposta in termini ‘ragionevoli’. Invita più semplicemente, ma più potentemente, a distogliere lo sguardo dal passato e volgerlo al futuro: “è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio”. Cosa significa? Vuol solo dire che si appresta a fare il miracolo? E per tutti gli altri ‘ciechi’ che non verranno mai guariti? S. Paolo, in Rm 3,9-20, ricorda che ‘tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio’. Sarebbe inutile cercare la causa 'indietro'; ci inchioda al non-senso e alla rabbia della frustrazione. La motivazione va cercata 'in avanti', rispetto a un 'qualcosa' che per noi deve ancora farsi, deve ancora rivelarsi. Ma non si tratta più semplicemente di cose, di eventi, bensì di incontri, di volti. È il mistero stesso della fede. La vita scaturisce dalla fede nel senso che la si può vivere ricevendola dalle mani di colui che ci è venuto incontro ed ha mostrato il suo Volto. Del resto, il mistero dell'amore umano trova qui le radici del suo insopprimibile fascino, nonostante le ferite e le delusioni alle quali così spesso ci condanna.

I vari personaggi che entrano in gioco nella scena del racconto tendono a inchiodare il cieco alla sua storia. I discepoli di Gesù lo vedono sotto il peso del castigo di Dio; i farisei si tengono a distanza per paura di dover trarre le conseguenze dall’evidenza di un miracolo del genere e gli rinfacciano perciò la sua ‘nascita nei peccati’ (in questo, dimostrandosi ‘veri ciechi’, come dirà Gesù alla fine); i suoi genitori se ne stanno da parte per timore. Lui, invece, forte della gioia della sua guarigione, sa tener testa a tutti e proprio perché nessuno gli sta attorno amichevolmente, quando Gesù si fa vedere da lui, è pronto a riconoscerlo non semplicemente come il suo guaritore, ma come colui che gli ha aperto la visione della vita: “Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12), ripreso nel canto al vangelo.

Quando Gesù dice “Io sono la luce del mondo” non si può non risalire al racconto della creazione in Genesi 1,3, quando fu creata la luce. Non è semplicemente la luce fisica, quella che deriva dal sole, creato solo nel quarto giorno. È la luce della santità amorevole di Dio che attraversa il mondo, luce che è stata nascosta. È la luce che fa intuire il mondo dentro uno sguardo unico. È la luce che il messia rivelerà. È la luce che Gesù ha fatto risplendere liberando gli uomini succubi del serpente che li ha privati della gloria di Dio. Come fa pregare la preghiera dopo la comunione: “O Dio, che illumini ogni uomo che viene in questo mondo, fa risplendere su di noi la luce del tuo volto [il Signore nostro Gesù Cristo], perché i nostri pensieri siano sempre conformi alla tua sapienza e possiamo amarti con cuore sincero”.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo di Quaresima

 

5a Domenica

(9 marzo 2008)

 

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Ez 37,12-14;  Sal 129;  Rm 8,8-11;  Gv 11,1-45

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Gesù, che ha appena saputo della malattia mortale del suo amico Lazzaro, non si muove subito. Sa che morirà e lui andrà non a guarirlo, ma a svegliarlo dal sonno della morte e lo spiega così ai discepoli: “Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perché per essa il Figlio di Dio venga glorificato”. Quando Marta, davanti al sepolcro del fratello, come arrendendosi di fronte alla terribile realtà della morte, ricorda a Gesù il fetore dei morti, si sente dire: “Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?”. Sembra che la domanda di fondo che serpeggia per tutto il brano non sia: perché la morte?, ma: perché Dio ritarda? Perché Dio non impedisce la morte? L’osservazione assume tutto il suo valore proprio tenendo conto della conoscenza del potere di Gesù e dell’amore grande che lo lega ai suoi amici, amore che tutto il racconto rimarca con vari dettagli. La domanda invece che rimbalza per noi si può formulare così:come possiamo entrare nella gloria di Dio?

È la stessa domanda di fondo che muove Tommaso a solidarizzare con Gesù: “Andiamo a morire con lui”. È la stessa domanda della fede di Marta, che non dice di credere a quanto le ha chiesto Gesù, ma inaspettatamente dichiara: “Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo”. In effetti non dice: io credo che tu hai il potere di far risorgere i morti, ma piuttosto: io credo che tu sei il Figlio di Dio. Afferma la verità del suo incontro con lui, del suo amore; ha piena fiducia in lui. Non solo, ma dichiara che di ogni desiderio che porta nel suo cuore colui che glielo farà realizzare compiutamente è soltanto lui. Per questo potrà vedere la gloria di Dio. E sarà per questo che potrà seguire il suo Gesù, con sua sorella Maria, fino alla fine, fino a che la sua glorificazione appaia al mondo.

La colletta fa pregare: “Vieni in nostro aiuto, Padre misericordioso, perché possiamo vivere e agire sempre in quella carità che spinse il tuo Figlio a dare la vita per noi”. Quella carità è il frutto della sua glorificazione che ci viene elargito dallo Spirito Santo. Il combattimento spirituale, la lotta contro il male, l’acquisto delle virtù, l’osservanza dei comandamenti altro non è che una partecipazione alla potenza della risurrezione, allorché la vita viene vissuta nella carità del Cristo che niente e nessuno può mortificare. È il principio della vita eterna, quello di una vita che non abbia altra consistenza se non come carità. L’incontro con Gesù apre a questa dimensione. Se lui è ‘datore di vita’ lo è perché, facendo vivere nella sua carità, impedisce alla morte di tenere prigioniero il nostro cuore.

Ireneo l’aveva proclamato stupendamente: “La gloria di Dio è l’uomo vivente, e la vita dell’uomo è la visione di Dio” (Adv. Haer. IV,20,7). L’uomo vivente non indica semplicemente l’uomo che vive la sua vita biologica, ma l’uomo che vive secondo le potenzialità di cui è stato dotato nella sua capacità di accogliere la vita di Dio, come rivela il prologo del vangelo di Giovanni: “A quanti però l' hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1,12-13). E la testimonianza a proposito di questa vita la si desume dall’esperienza: “e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14).

Il nostro gridare, nel salmo responsoriale, a commento del passo di Ezechiele che riporta la promessa di Dio di aprire le nostre tombe: “Dal profondo a te grido, o Signore; Signore, ascolta la mia voce”, deriva dalla coscienza della nostra mortalità, non semplicemente come termine della vita biologica, ma come abisso della mortificazione della vita che stenta ad accedere alla carità di Dio. Quella ‘mortificazione della vita’ vince il Signore. È interessante osservare che l’episodio della risurrezione di Lazzaro si chiude non con il riconoscimento o l’incontro affettuoso di Lazzaro con Gesù, ma con il comando: “Scioglietelo e lasciatelo andare”. Corrisponde all’invito di Gesù, dopo i miracoli di guarigione: ‘va’, la tua fede ti ha salvato’. Venire a Gesù (questo potrebbe anche voler significare il grido di Gesù: Lazzaro, vieni fuori!) comporta vivere della sua vita, della vita che lui può dare e lo spazio di espressione di questa vita è ormai dato dalla fraternità che si vive nel mondo. A questa Gesù rimanda.

Un’ultima annotazione. Con il miracolo della risurrezione di Lazzaro Gesù scatena la sua ora, come la finale del capitolo sottolinea espressamente: “Ma uno di loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell' anno, disse loro: "Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera". Questo però non lo disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,49-52). Lo scopo e la ragione del suo agire, sottolineato dal potere di fare miracoli, di cui questo della risurrezione di Lazzaro è il settimo nel racconto di Giovanni, si manifesteranno chiaramente con la sua stessa morte e risurrezione.

Se Gesù non ha voluto risparmiare la prova ai suoi amici e viene a condividerla, tanto da restarne intimamente e profondamente scosso, la ragione è da ricercare nel fatto che così facendo si espone alla sua prova, anzi la provoca con l'arresto e la morte imminenti.  Ma la sua non è una semplice condivisione della sofferenza umana. Il suo rendere grazie l'attraversa, la porta fino in fondo. È però più forte della morte e se esulta, non è per aver impedito il suo corso, ma per aver trionfato su di essa dopo averle lasciato esprimere tutto il suo potere.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo di Quaresima

 

Domenica delle Palme

(16 marzo 2008)

 

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Ingresso in Gerusalemme        Mt 21,1-11

Messa Is 50,4-7;  sal 21;  Fil 2,6-11;  Mt 26,14-27,66

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L’arrivo a Gerusalemme di Gesù, nella narrazione di Matteo, è preceduto dalla guarigione a Gerico di due ciechi, dei quali si dice: “Gesù si commosse, toccò loro gli occhi e subito ricuperarono la vista e lo seguirono” (in Marco il racconto si riferisce al cieco Bartimeo di cui si dice: “Subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada”). Quella strada portava a Gerusalemme. C’è bisogno di aver gli occhi aperti per cogliere il senso dell’arrivare di Gesù a Gerusalemme. Qui porta il suo cammino, qui lo spinge la sua vocazione, qui si compie quel disegno del Padre che Gesù andava illustrando con le sue parole e con i suoi atti, sebbene nessuno, neanche i suoi discepoli, fosse ben consapevole della posta in gioco.

La liturgia di oggi accompagna Gesù nel suo ingresso trionfale a Gerusalemme ma per celebrare, con i testi della messa, l’inizio della sua drammatica passione. Vorrei prima soffermarmi sull’ingresso di Gesù in Gerusalemme e illustrare qualche dettaglio del racconto evangelico.

È caratteristico che in Matteo e Marco Gesù sia chiamato il Signore solo in questa occasione e quasi in sordina: “il Signore ne ha bisogno”, per rispondere a chi si fosse mostrato contrariato del fatto che i suoi discepoli si portavano via l’asina e il puledro. Secondo la profezia messianica di Zaccaria 9,9-10, Gesù entra in città seduto sull’asina, tra i gesti di devozione dei discepoli e della folla che stendevano al suo passaggio i loro mantelli. La scena ha sapore regale perché ricorda la proclamazione di Salomone come re di Israele sulla mula di Davide (1Re 1,33-34); ricorda i patriarchi (Abramo si incammina verso il monte Moria per il sacrificio di Isacco a dorso di asino); richiama il re Messia mite e pacifico, che disdegna i cavalli perché simbolo di guerra.

Nel particolare delle fronde tagliate riecheggia il sal 117,27: “Ordinate il corteo con rami frondosi fino ai lati dell’altare” allorquando i sacerdoti benedicevano i pellegrini che salivano al tempio e dicevano: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore … Dona, Signore, la tua salvezza [= Hosanna]”. Anche la folla che accompagna Gesù riprende le parole del salmo: “Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!”.

La citazione risulta ancor più misteriosa se si tiene conto dell’antica versione aramaica: “Legate la vittima per la festa con rami frondosi fino ai lati dell’altare”. A Gesù si fa festa perché è la vittima prescelta, ma nessuno ancora lo sa se non lui. L’acclamazione dell’hosanna era già risuonata sulla bocca degli angeli alla nascita di Gesù e risuona ora sulla bocca dei discepoli per la sua morte. Ciò che avviene in Gerusalemme lascia intravedere ciò che avviene nei cieli e ciò che avviene nei cieli è proprio la verità di quanto sta succedendo in Gerusalemme. Solo Gesù evidentemente è consapevole ma di lì a poco se ne renderanno conto tutti, prima in forma drammatica con il rifiuto di quel re mite e pacifico e poi in forma di esultanza con il riconoscimento del Signore risorto, datore di pace e di letizia.

A dire il vero, almeno secondo la narrazione di Giovanni, una persona che si accorge di quanto sta succedendo c’è. È Maria di Betania la quale, il giorno prima dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme, fa presagire la sua morte con l’espressione di devozione del suo amore. Soltanto lei, nella tenerezza del suo amore, intuisce il mistero di Gesù. Spezzare quel vasetto di unguento assai prezioso (se la stima di Giuda è realistica, il costo ammonterebbe più o meno allo stipendio di un anno per un operaio), ungere i piedi di Gesù e asciugarli con i suoi capelli finché tutto in quella casa senta di quel profumo, risponde al desiderio di accompagnare Gesù nella sua solitudine. Quel profumo rivela la morte imminente, che nessuno è pronto ad accettare, ma anche tutto l'amore che quella morte significa ed esprime, tutto l'amore che quel corpo 'dato per noi' significa ed esprime. E i Padri antichi hanno visto in quel profumo versato su Gesù il pentimento dei nostri cuori, pentimento che si allarga ed impregna tutto perché l'amore che Gesù ha testimoniato con la sua passione non resti estraneo a niente di noi e perché niente di noi resista a tale amore.

Da oggi e per tutta la settimana santa la prima lettura è tratta dal libro del profeta Isaia. Vengono proclamati i quattro canti del Servo del Signore (cap. 42, 49, 50 e 53) che, insieme al salmo 21, costituiscono le straordinarie testimonianze profetiche della passione di Gesù. Sono quei versetti a costituire la cornice di riferimento per lo svolgimento dei riti santi e sono quei versetti a esprimere la profondità e la tenacia dell’amore di Dio per l’uomo e insieme la tenerezza dell’amore dell’uomo per il suo Dio. Le espressioni sono altamente drammatiche ma l’esito colmo di speranza. Dalle prime parole del salmo: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Tu sei lontano dalla mia salvezza” si arriva alle ultime, già piene del frutto di grazia ottenuto: “E io vivrò per lui, lo servirà la mia discendenza. Si parlerà del Signore alla generazione che viene; annunzieranno la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno: Ecco l’opera del Signore!”. Ma il tragitto passa per momenti estremamente oppressivi: “Ma io sono verme, non uomo, infamia degli uomini, rifiuto del mio popolo … Hanno forato le mie mani e i miei piedi, posso contare tutte le mie ossa…” (sal 21). Parole ancora piene degli echi del profeta Isaia che descrive il Servo del Signore così: “Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire…il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui, per le sue piaghe noi siamo stati guariti” (Is 53). Parole e echi che si concretizzano in quell’uomo, inviato da Dio, vilipeso, schiacciato, deriso, torturato, crocifisso, che noi contempliamo nelle celebrazioni pasquali, il nostro Signore Gesù Cristo, che per noi ha patito, è morto e risorto.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo di Pasqua

 

Domenica di Pasqua

(23 marzo 2008)

 

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Risurrezione del Signore

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Il giovedì santo la chiesa pone a suggello della celebrazione del triduo pasquale l’affermazione del vangelo di Giovanni: “Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1). Certamente non vuol significare solo che Gesù starà fedele al suo amore fino alla morte, ma più precisamente che va incontro alla morte perché si sveli in tutto il suo splendore l’amore che lo muove rispetto al Padre e a tutti noi. Nella stessa celebrazione, con l’istituzione dell’eucaristia e la lavanda dei piedi, l’amore è definito nel suo mistero di dono (“questo è il mio corpo, che è per voi”) e di servizio (“Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri”). La posta in gioco è ‘aver parte con lui’. Accogliere il servizio di Gesù e non praticarlo al fratello significa non riconoscere quel ‘corpo, che è per noi’, tanto il mistero dell’amore parla di Dio e dell’uomo insieme.

Quando, nel venerdì santo, la liturgia illustrerà fino a che punto l’amore di Gesù ha prevalso nella sua passione, non avrà che da citare la profezia di Isaia: “Si compirà per mezzo suo la volontà del Signore” (Is 53,10). Non tanto nel senso che la volontà del Signore era di condurlo alla passione, ma piuttosto nel senso che la volontà di bene e di salvezza da parte di Dio per gli uomini potesse risplendere in tutta la sua forza e il suo splendore proprio per mezzo della sua passione. Lì possiamo comprendere la potenza dell’amore di Dio che sopravanza l’ingiustizia e la durezza di cuore degli uomini con la sua mansuetudine. Giovanni interpreta con il profeta Zaccaria 12,10: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (da leggere, secondo il testo ebraico e greco della LXX: “Guarderanno verso di me che hanno trafitto”). È quello che succederà dopo Pasqua, quando Pietro annuncerà il mistero della morte e risurrezione di Gesù in modo che gli ascoltatori si sentiranno trafiggere il cuore ripensando alla morte di Gesù. In quel ‘si compirà per mezzo suo la volontà del Signore’ sta anche l’esempio per i suoi discepoli che non potranno far risplendere l’amore di Dio in questo mondo se non come Gesù, se non seguendo la via di Gesù. Non esiste altro modo di vivere l’amore se non quello di ‘amare sino alla fine’, vale a dire di amare fino a che il mistero che richiama si sveli in tutta la sua potenza di mansuetudine e porti vita.

Ma il mistero dell’amore, per quanto desiderabile, non è affatto scontato. Senza il sigillo della risurrezione di Gesù non sarebbe stato colto e non avrebbe potuto essere immesso nel mondo. Le donne, i discepoli, la domenica di Pasqua, attendono o corrono al sepolcro per trovare un morto; l’unico orizzonte possibile è avere il corpo del loro amato Signore. Se l’esperienza della risurrezione di Gesù era del tutto inconcepibile per i discepoli, ciò significa che anche l’esperienza del suo amore sino alla fine non poteva essere colto.

Il primo giorno, il giorno uno della settimana, dischiude un tempo completamente diverso, un tempo nel quale tutto ciò che è stato compiuto fino ad ora si rivela come novità. Il primo personaggio che ci conduce alla soglia di questa novità è Maria Maddalena. A differenza dei sinottici, Giovanni non aveva menzionato per la circostanza della sepoltura la presenza delle donne. La mistura di mirra e aloe era stata portata da Nicodemo e Giuseppe di Arimatea. I sinottici narrano dell’arrivo al sepolcro, all’alba, delle donne con gli oli per completare l’unzione del corpo di Gesù. Giovanni sorvola su tutto questo. Parla solo di Maria Maddalena e l’accento è posto sulla motivazione profonda, interiore, della sua presenza al sepolcro. Essa vive un’angoscia personale, un sentimento di assenza irrimediabile; per lei oramai il Signore è l’Assente; non può che sentirlo che così. Per prima vede la pietra del sepolcro tolta via e corre ad avvertire i discepoli: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove lo hanno posto”. Dall’angoscia dell’assenza passa all’angoscia dell’incertezza. Ma Giovanni parla della pietra tolta via dal sepolcro per sottolineare, in questo Giorno della Risurrezione, che viene tolto l’ultimo impedimento alla ‘vista’, alla ‘visione’, come poi il brano dirà a proposito di Giovanni entrato nel sepolcro.

L’episodio dei due discepoli che corrono al sepolcro lo conferma in una tensione crescente per giungere, alla fine, alle straordinarie parole: “Allora entrò anche l’altro discepolo …e vide e credette”. È come una richiesta che viene sussurrata al cuore dei possibili lettori del vangelo, la richiesta di avanzare nella conoscenza del mistero, di salire fino all’intelligenza della risurrezione che viene svelata poco a poco: “Vide e credette”.

La letizia pasquale che, poco a poco, invade e conquista i discepoli e che scaturisce dall’esperienza dell’incontro con lui, vivo, capace di far vincere ogni paura, ha anche a che fare con i tre doni che Gesù conferisce: la gioia, la pace e la libertà. Ma se andiamo a vedere, quei tre doni, tipicamente pasquali, uniti all’esperienza dell’incontro con lui, il Vivente, ci partecipano la sua stessa vita e ci consentono di vivere come lui, vale a dire ci porteranno a poter dire di noi: “e lo amarono sino alla fine’, ‘amarono i loro fratelli sino alla fine’. L’augurio pasquale più bello!

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo di Pasqua

 

2a Domenica

(30 marzo 2008)

 

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At 2,42-47;  Sal 117;  1Pt 1,3-9;  Gv 20,19-31

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Per tutta l’ottava è risuonata l’acclamazione pasquale: “Questo è il giorno fatto dal Signore: rallegriamoci e esultiamo”, ripresa dal sal 117. Se la risurrezione di Gesù inaugura il giorno fatto dal Signore, si comprende come essa non potesse appartenere all’orizzonte mentale dei discepoli. I racconti di risurrezione lo provano. Ma allora qual è il significato di quei racconti? In Giovanni, a differenza dei sinottici, i racconti delle apparizioni del Risorto non hanno un valore apologetico; non mirano semplicemente a comprovare la ‘realtà’ del corpo risorto di Gesù. La risurrezione di Gesù non è il ‘miracolo’ che può convincere della sua divinità. La fede degli apostoli come quella dei discepoli che li seguiranno, quindi anche la nostra, riposa sempre sulla parola trasmessa con la forza dello Spirito Santo e non sui segni visibili della Presenza. Non esiste ‘evidenza’ costringente del mistero di Dio e del suo amore per gli uomini.

Cosa allora ‘costringe’ il cuore dell’uomo a riconoscere il mistero di Gesù, morto e risorto? Notiamo anzitutto che non si tratta tanto di ‘riconoscere’ che Gesù è davvero risorto, quanto piuttosto di restare intimamente coinvolti nel dinamismo di un rapporto che porta vita e cambia tutto. Se Tommaso, che non era stato presente alla prima apparizione di Gesù, non vuol credere ai suoi compagni, non è per mancanza di fede, ma per eccesso di zelo, come ben si attaglia al suo personaggio, fervido e coraggioso. Ha preso sul serio la storia con Gesù e non vuole alcuna illusoria consolazione. Vuole Gesù e basta. Quando Gesù si ripresenta una settimana dopo e si rivolge a lui con le sue stesse parole, Tommaso non ha bisogno di alcuna comprova (di mettere cioè il dito e la mano nelle ferite), riesce solo a sussurrare: “Mio Signore e mio Dio”, che è la professione di fede più solenne e più intima di tutto il vangelo. La frase conclusiva di Gesù: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno” è spesso letta come un rimprovero nei suoi confronti, ma niente autorizza a leggerla così. Tommaso ha semplicemente avuto quello che è stato concesso agli altri apostoli e la cosa risponde alla promessa di Gesù nell’ultima cena: “Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi” (Gv 14,19-20).

Il mondo non può vedere, il discepolo sì. Ciò significa che in gioco non è un vedere semplicemente con gli occhi, ma un vedere nella fede, un vedere nella luce della compiacenza di Dio per noi. Tommaso è riconosciuto beato non per aver toccato, ma per aver ‘veduto’. L’aveva già preannunciato Gesù a proposito della missione degli apostoli allorquando, esultando nello Spirito, aveva innalzato la sua solenne benedizione al Padre: “Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così a te è piaciuto. Ogni cosa mi è stata affidata dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare". E volgendosi ai discepoli, in disparte, disse: "Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Vi dico che molti profeti e re hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, ma non lo videro, e udire ciò che voi udite, ma non l' udirono” (Lc 10,21-24).

Quando gli apostoli ‘vedono’ Gesù risorto non significa che hanno ‘visioni’, ma più concretamente che ‘il Signore si fece vedere’, cioè sperimentano degli incontri. Ma come un cuore può aprirsi all’incontro se già non tende a colui che desidera vedere? Per questo, nella proclamazione di fede della chiesa nella risurrezione sempre si aggiunge ‘secondo le Scritture’. Gesù è risorto, secondo le Scritture; Gesù risorto apre la mente all’intelligenza delle Scritture. Non è semplicemente il suo ‘essere ritornato in vita’ che costituisce il mistero della risurrezione. Non per nulla, nella narrazione di Giovanni, quando Lazzaro è risuscitato appare avvolto con bende, impedito di muoversi, mentre quando risorge Gesù le bende (i ‘lenzuoli’ funerari) diventano segno di qualcosa d’altro.

Nella proclamazione del Signore risorto da parte dei discepoli si fonda la comunità cristiana che risponde all’Alleanza annunciata dal profeta Osea 2,25. “Li seminerò di nuovo per me nel paese e amerò Non - amata; e a Non - mio - popolo dirò: Popolo mio, ed egli mi dirà: Mio Dio”, confessione che è quella di Tommaso. Perché allora Gesù proclama beati quelli che pur non avendo visto crederanno? La narrazione evangelica ha presente non semplicemente la cronaca degli eventi pasquali, ma la storia dei credenti. Finirà il tempo di una certa ‘visione’, come finirà il tempo dei testimoni oculari sulla cui autorevolezza coloro che verranno dopo continueranno a credere al Signore Gesù. Quello che non finisce, perché continua eterno il giorno fatto dal Signore, è la possibilità reale dell’incontro, è la percezione della Presenza in mezzo al suo popolo, a cui il dono della pace fa riferimento e di cui la gioia è il segnale per eccellenza.

La prima lettera di Pietro lo dice chiaro riferendosi a coloro che sono venuti alla fede dopo gli apostoli: “voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa” (1Pt 1,8). Per cogliere a fondo il senso si dovrebbe però tradurre: ‘senza averlo visto, voi l’amate; senza vederlo ancora, ma credendo in lui, voi trasalite di gioia’. L’espressione si riferisce a noi, che siamo venuti dopo l’epoca apostolica. L’accento non è più posto tanto sul ‘vedere’ ma sulla ‘fede’ che permette il vedere in modo da avere la vita, la stessa vita che scorre nel Figlio di Dio, morto e risorto. Si passa dalla gioia della presenza ‘vista’ (apparizioni del risorto agli apostoli) alla gioia della presenza percepita (celebrazione dell’eucaristia) fino alla letizia nello Spirito quando si dovrà soffrire per il nome di Cristo perché la sua pace conquisti il mondo intero e la gioia dell’essere in lui riveli a tutti lo splendore dell’amore di Dio per gli uomini. A questo si riferisce la confessione di Tommaso e della chiesa a proposito di Gesù risorto: “Mio Signore e mio Dio”.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo di Pasqua

 

3a Domenica

(6 aprile 2008)

 

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At 2,22-35;  Sal 15;  1Pt 1,17-21;  Lc 24,13-35

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Nel vangelo di Luca, l’apparizione del Risorto ai discepoli di Emmaus costituisce il racconto più dettagliato e espressivo delle testimonianze pasquali. I particolari del racconto non esprimono solo quella che potremmo chiamare la relazione dettagliata dell’incontro dei due discepoli con il Risorto, ma tendono a suggerire lo scenario possibile di ogni incontro con Gesù, morto e risorto, per tutti i credenti.

Gesù si accompagna loro nel cammino, spezza loro la sua parola aprendo le Scritture, si ferma a cenare da loro (con tutta probabilità, i discepoli erano arrivati a casa loro quando invitano Gesù a fermarsi da loro per la notte), benedice e spezza il pane per loro e loro lo riconoscono, tornano a Gerusalemme per condividere l’esperienza e insieme si rallegrano: tutti particolari che parlano anche di noi, del nostro incontro con Gesù.

Vorrei soffermarmi solo su alcuni punti. Prima di tutto sui due discepoli. Sono tristi e abbattuti. Conoscevano le Scritture, ma restavano loro chiuse. La loro vicenda potrebbe essere riassunta in questo modo: proprio a partire dalla loro fede nel Dio di Israele erano stati affascinati dalla figura di Gesù e avevano creduto in lui; l’avevano seguito, ma forse in funzione delle loro attese secondo la storia di Israele, perché avevano, sì, sentito Gesù predire la sua passione, ma a passione avvenuta non si raccapezzavano più e cedettero alla delusione; non avevano però rinunciato alla loro storia con Gesù e quando il viandante che si accompagna loro ritorna alle Scritture che loro stessi conoscevano, pur senza essere capaci di aprirle, il loro cuore torna a ardere, sommessamente; quando vogliono con loro quel pellegrino e lo invitano a cena e Gesù si fa riconoscere, la loro storia si riaccende, tutto si collega e prende vita; devono tornare a Gerusalemme dai compagni che a loro volta hanno fatto la stessa esperienza e nella gioia che tutti insieme provano vivranno ormai la loro storia aperta sul mondo, che ha diritto anch’esso a quella letizia.

Il salmo 15 dice bene la sostanza di questa letizia: “Benedico il Signore che mi ha dato consiglio [il greco, più precisamente: benedico il Signore che mi ha dato intelligenza]… gioia piena nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra”. Si può applicare al racconto dei discepoli di Emmaus che acquistano intelligenza e vedono, al colmo della letizia, ma anche a noi con il Signore Gesù che si accompagna a noi, suoi discepoli, perché la sua ‘vita immortale’ possa scorrere nelle nostre vene e recare al mondo la letizia di Dio per i suoi figli. Il salmo, nella sua stesura antica, richiama l’adesione al vero Dio di Israele rifuggendo da ogni pratica idolatrica; richiama l’eredità di Levi che, a differenza delle altre tribù, non riceve alcun appezzamento di terra, essendo scelto per il culto. Nella sua formulazione più recente, il salmo celebra l’adesione a Dio in un’esperienza di intimità così grande da costituire il vero tesoro del cuore, così carica di letizia da diventare radice di senso e di vita. Siccome però il dono di Dio risponde direttamente al desiderio dell’uomo, al cuore dell’uomo sembra che le attese che lo muovono corrispondono al dono di Dio. Il dramma della vita e la vicenda dei discepoli come dello stesso Signore Gesù parlano invece diversamente. Ci attende un lungo cammino perché le nostre attese si convertano al dono di Dio, ma quando questo avviene scatta quella letizia che tutto riempie.

I discepoli non riconoscono Gesù quando spiega loro le Scritture, ma quando si dona loro con l’eucaristia (a questa allude, secondo l’esperienza della chiesa, il benedire e lo spezzare il pane del racconto). Senza quel ‘dono’ la Scrittura rimane ancora muta. Per noi, ora, la ‘visione’ non c’è più, ma lo ‘spezzare il pane’, questo, sì, continua nella chiesa e continua la percezione della Presenza di Gesù, morto e risorto, che si dà a noi tramite la parola e il corpo, tramite le Scritture e l’eucaristia. Quello che non è detto, ma fa da sfondo vitale, è che parola e corpo si possono ‘vedere’ solo nella chiesa, dentro la storia comune che ci ingloba. Non si può assumere il corpo di Gesù se non accogliendolo ‘secondo le Scritture’. Quel ‘secondo le Scritture’ allude al mistero di Gesù come apertura al mistero di Dio, al mistero e al senso del mondo, al mistero del Regno che ci lambisce fino a inglobare tutti nella sua luce di letizia. Gesù rimanda alla storia di Dio con Israele, nella quale accogliere la storia di Dio con l’umanità e la nostra, personale, singola storia, perché il suo Spirito di vita faccia esplodere le nostre attese secondo il dono di Dio. Come per i discepoli di Emmaus, una volta che gli occhi si sono schiusi e la fede si è fatta ‘visione’ per la parola e per il corpo del Signore Gesù, il cuore mette fretta ai piedi in due direzioni: una, verso la chiesa, nel senso di vedere confermata e condivisa la propria visione; l'altra, verso il mondo, perché nessuno possa restare privo di questa visione, tanto racconta la verità di Dio e la verità del cuore dell'uomo. In questa comunione condivisa, testimoniata, cercata, donata, accolta, il cuore può riposarsi perché gode lo stesso riposo di Dio: si faccia una sola famiglia, nel regno di Dio. Ma il riposo che si godrà è assai diverso da quello che ci si immagina ... sicuri però che comunque sarà il vero riposo.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo di Pasqua

 

4a Domenica

(13 aprile 2008)

 

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At 2,36-41;  Sal 22;  1Pt 2,20-25;  Gv 10,1-10

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La liturgia di questa domenica è intessuta sull’immagine del buon pastore (cfr. Sal 22; 1Pt 2,25; canto al vangelo e colletta), sebbene il brano di vangelo si incentri più semplicemente sulla figura della porta: “in verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore”. Porta, che dà accesso a ‘pascoli e acque tranquille’, dove trovare vita e vita in abbondanza. Il brano appartiene a uno dei discorsi di Gesù con i Giudei, che nel vangelo di Giovanni costituiscono, insieme agli avvenimenti della vita di Gesù, la trama narrativa della rivelazione del Figlio di Dio. A noi che non siamo più familiari con le Scritture, a differenza di quei Giudei che interrogavano Gesù proprio a partire dalle Scritture, le parole di Gesù sembrano semplicemente illustrare attraverso immagini ben scelte un certo insegnamento. La forza però delle parole di Gesù, che quei Giudei sembrano cogliere nella loro reale portata anche se poi respingono colui che le ha proferite, sta nel fatto che lui si attribuisce la prerogativa tipica di Dio, con l’intensità tutta speciale dovuta alla rivelazione ultima e definitiva di Dio che compie finalmente le sue promesse.

Solo Dio è il pastore di Israele; solo lui guida il suo popolo perché se l’è scelto, l’ha posto in essere, gli testimonia il suo amore di predilezione e ne esige la santità corrispondente. Ogni altro che ambisce a pascere Israele a titolo proprio è ladro e brigante. Quando Dio affidava la cura del suo popolo a certi capi, affidava la sua parola a certi profeti perché il popolo ritornasse a lui, sua comunque era la signoria sul suo popolo, lui solo era la guida e lui solo il popolo riconosceva (lo riconosceva nel senso che solo da Dio derivava il bene e la felicità per se stesso). Basta riandare al cap. 34 di Ezechiele dove tutta la tensione di comunione-comunanza tra Dio e il suo popolo si incentra sull’invio del Re Messianico, del nuovo Davide, quando Dio si rivelerà compiutamente come Pastore di Israele.

Quando Gesù dice che il pastore delle pecore entra per la porta, vuol alludere al fatto che il Padre in lui si fa vedere e in nessun altro: “Dio nessuno l' ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18); “Chi vede me, vede colui che mi ha mandato” (Gv 12,45). In lui Dio stesso si rivela e giunge a pascere le sue pecore. E quello che Dio fa, anche lui lo fa: lui è il pastore (non solo la porta, come dirà più avanti), come Dio; lui dà la vita, come Dio … Gesù è la porta nel senso che lui è l’accesso al cielo; in lui il cielo si apre sul mondo e il mondo si apre sul cielo. L’episodio del battesimo al Giordano è assolutamente rivelativo: si aprono i cieli, discende lo Spirito, si ode la voce del Padre che lo dichiara prediletto, luogo della sua compiacenza. Gesù è porta tanto da parte di Dio (lui solo, che ha visto il Padre, lo può rivelare) quanto da parte dell’uomo (lui solo costituisce la chiave di senso che manca all’agire dell’uomo perché lui solo lo apre in verità al compimento della sua vocazione all’umanità come rivelazione di Dio nel mondo). Per questo Gesù dice di sé che è venuto a dare la vita in abbondanza, quella vita che costituisce il supremo desiderio dell’uomo. Non semplicemente la vita, ma la vita in abbondanza, ad indicare quella certa qualità di vita che sola colma i desideri dell’uomo, fatto per Dio.

La sua venuta è finalizzata proprio a dare la vita eterna, la vita abbondante. In ciò si compie il desiderio di comunione di Dio con gli uomini e il desiderio di appartenenza degli uomini a Dio. Quando il salmo 22 proclama che il pastore fa riposare le pecore in pascoli erbosi e presso acque tranquille, allude proprio al dono della vita eterna, sovrabbondante. Le acque tranquille, le acque di ‘menuchot’, richiamano la creazione del riposo/ristoro nel settimo giorno della creazione. Il testo della Genesi, dopo aver narrato la creazione di tutte le cose, dice: “Il settimo giorno Dio terminò la sua opera”. Ma non era più logico attendersi che avesse terminato la sua opera nel sesto giorno? Gli antichi rabbini hanno concluso evidentemente che vi fu un atto di creazione anche il settimo giorno: “Che cosa è stato creato il settimo giorno? La ‘menuchà’, la tranquillità, la serenità, la pace e il riposo” (Cfr Gen Rabbà, 10, 9). È lo stato in cui non vi è contesa né lotta, né paura né diffidenza; è felicità, pace e armonia; vita nel mondo futuro, vita eterna. Proprio quella ‘vita abbondante’ che Gesù riconsegna agli uomini che lo accolgono. È la gioia di un amore che non sarà più mortificato da nulla, amore che, testimoniato nel suo splendore sul calvario, è donato come Spirito di vita agli uomini che nel ‘crocifisso’ colgono il compimento della promessa di Dio per l’uomo.

A quel dono anelano gli ascoltatori che hanno seguito il discorso di Pietro a Pentecoste sentendosi trafiggere il cuore: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?”. “Convertitevi”: tornate alla promessa di Dio che si è compiuta in quel ‘trafitto’, morto e risorto; tornate a sentirvi destinatari della promessa di Dio che ha fatto risplendere il quel ‘trafitto’ lo splendore del suo amore salvatore, riunendo – come buon pastore – i figli di Dio dispersi. Tornate a dar credito alla potenza salvatrice di Dio che per mezzo di quel ‘trafitto’ ha realizzato la sua promessa di vita, la quale non è che l’offerta incondizionata della sua comunione perché tutto e tutti possano godere del suo amore.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo di Pasqua

 

5a Domenica

(20 aprile 2008)

 

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At 6,1-7;  Sal 32;  1Pt 2,4-9;  Gv 14,1-12

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Il brano di vangelo di oggi contiene due affermazioni e due domande estremamente eloquenti. È giunta la sua ora e Gesù parla con i suoi discepoli del suo ritorno al Padre. Filippo, colui che aveva accompagnato a Gesù quei greci che volevano vederlo (cfr. Gv 12,21), domanda: “Mostraci il Padre”. Il momento è drammatico e rivelativo dell’intera storia di amore di Dio con il suo popolo e l’umanità tutta. La sua richiesta riformula la domanda di Mosè: “Mostrami la tua Gloria” (Es 33,18); contiene l’ardente desiderio del cuore dell’uomo per il Dio di cui porta così intima traccia da averne una nostalgia acuta: “L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio?” (Sal 43,3). Filippo non si rende conto che chiedere di ‘mostrare il Padre’ significa voler vedere il Dio che salva e il Regno di Dio venire con potenza; significa cioè voler vedere risplendere in Gesù l’amore di Dio per gli uomini dall’alto della croce. I discepoli sono ancora turbati, non comprendono bene cosa stia accadendo e non sono ancora pronti a leggere gli avvenimenti che di lì a poco si scateneranno in rapporto al loro Maestro, ma Gesù li precede, li orienta, li prepara. Tutto il discorso e le azioni di quella sera, la sera dell’ultima cena (l’istituzione dell’eucaristia, la lavanda dei piedi, l’istruzione ai discepoli) mirano a predisporre gli occhi e il cuore dei discepoli allo svelamento del segreto di Dio che Gesù è.

Prima di Filippo, anche Tommaso aveva mostrato di non comprendere: “Non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?”. Tommaso era quello che aveva voluto seguire Gesù fino a morire con lui (cfr. Gv 11,16); sarà quello che non vorrà illudersi sulla risurrezione di Gesù e vorrà tastare il corpo del Risorto per sincerarsene e alla fine riassumerà la fede dei discepoli e dei futuri credenti con la sua solenne e intima professione: ‘mio Signore e mio Dio!’. Gli era ancora impossibile cogliere che ‘luogo e via’ indicavano la stessa cosa. Ragionava in termini spaziali: non poteva sapere ancora che luogo e via a cui alludeva Gesù si riferivano al nostro essere in lui, partecipi dello stesso suo amore per il Padre e dell’amore del Padre per lui.

Non per nulla, quando Gesù commenta la richiesta dei greci di volerlo vedere e dichiara che ormai la sua ora è arrivata, presenta la sua morte come gloria e rivela la comunanza di destino con i suoi discepoli: dove sono io, là sarà anche il mio servo. Anche nel nostro brano, Gesù spiega il suo ritorno al Padre e il suo ‘venire’ ai discepoli (un venire che non allude semplicemente al suo ‘farsi vedere’ dopo la risurrezione o al suo ritorno glorioso alla fine dei tempi, ma al suo ‘dimorare’ nei discepoli, alla sua ‘presenza’ potente tra i discepoli, al divenire uno spirito solo con il Signore da parte dei discepoli) con l’espressione: “perché siate anche voi dove sono io”. L’espressione non significa: io soffro e anche voi soffrirete; io sono ripudiato dal mondo e pure voi lo sarete; io muoio sulla croce e anche voi avrete la vostra croce. Dice piuttosto: io sono nell'amore del Padre, anche voi lo sarete; sono il testimone del suo amore in questo mondo e anche voi lo sarete; risplendo della gloria dell'amore del Padre e pure voi risplenderete dello stesso amore. E questo proprio perché sopportando l'ingiustizia e la violenza senza venir meno alla potenza dell'amore, sarà noto a tutti che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato (Gv 14,31) e così l’amore del Padre risplenderà sul mondo.

Le due affermazioni di Gesù sono strettamente collegate a questo segreto di Dio per il mondo che in Gesù si fa scoperto: “Io sono nel Padre e il Padre è in me” e “Io sono la via, la verità e la vita”. La prima affermazione la collego ai passi: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18), per cui “chi vede me vede il Padre” (cfr. Gv 12,45; 6,46), con la sfumatura che vedere Gesù comporta essenzialmente vedere il suo invio da parte del Padre. Il che significa che, se in Gesù riposa tutta la compiacenza del Padre, riconoscerlo significa entrare in questa compiacenza e goderne la potenza risanante e vivificante. In Gesù si concentra tutto il desiderio di comunione di Dio con l’uomo e tutto il desiderio dell’uomo per il suo Dio: riconoscere Gesù, nel suo invio come testimone dell’amore del Padre per gli uomini, significa godere la rivelazione del volto di Dio, che è amore per gli uomini.

L’altra affermazione la collego al passo: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28,18). Il potere di Gesù è duplice: dalla parte di Dio, ha il potere di rivelare il vero volto di Dio; dalla parte dell’uomo, ha il potere di compiere i desideri dell’uomo, di soddisfare la sua fame di conoscenza e di relazione in pienezza e verità. Questo potere viene come sancito nel compiersi del suo mistero pasquale quando torna al Padre e ritorna agli uomini allorché gli uomini possono ‘vedere’ che il suo amore per il Padre testimonia l’amore del Padre per loro e che l’amore che rivela comporta la partecipazione agli uomini della sua stessa potenza, vita divina per l’uomo, dono del suo Spirito, verità di Dio e dell’uomo.

Quando Gesù proclama che è ‘via e verità e vita’ si riferisce al mistero di Dio che viene svelato all’uomo nella sua offerta d’amore, offerta che costituisce la vita per lui, una vita piena, per ciascuno e per tutti, perché la vita e la verità di Dio, se valgono per la singola persona, valgono in quanto dinamismo di comunione tanto da poter proclamare Dio, a pieno titolo e in tutta evidenza, Padre di tutti. Se Gesù è via-verità-vita lo è in quanto Figlio, che è nel seno del Padre e di cui svela il Volto d’amore per gli uomini. Solo accogliendo quel dinamismo di rivelazione esteso a tutti gli uomini si può conoscere il Padre ed essere ritrovati figli in quell’unico Figlio. È la tensione ‘apostolica’ della fede nel Cristo: per credere al Cristo occorre ritrovarsi nel suo stesso ‘essere inviati’ perché il mondo conosca che amiamo il Padre e facciamo quello che il Padre ha comandato.

Solo a mistero pasquale compiuto gli apostoli si rendono conto della reale posta in gioco del loro seguire il Signore e della grazia concessa al mondo.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo di Pasqua

 

6a Domenica

(27 aprile 2008)

 

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At 8,5-17;  Sal 65;  1Pt 3,15-18;  Gv 14,15-21

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Il brano di vangelo di oggi è denso di misteri che la liturgia legge in riferimento alla prossima ascensione di Gesù e all’invio dello Spirito Santo, che chiude il periodo pasquale. Letto poi nel contesto del cap. 14 di Giovanni, il brano assume sfumature impreviste.

Il dato centrale è la proclamazione di Gesù che va al Padre e contemporaneamente viene a noi, evento che costituisce la rivelazione del ‘giorno del Signore’ (v. 20: “In quel giorno voi saprete”). La rivelazione di ‘quel giorno’ è definita dalle parole di Gesù: “Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete”, parole che forse sarebbe meglio rendere con: ‘voi invece mi vedrete vivo e anche voi vivrete’. Si tratta della assolutamente imprevedibile esperienza della presenza del Cristo risorto e della condivisione della sua nuova vita, nello Spirito. A questa particolarissima ‘comunanza’ di vita col Risorto, nello Spirito, alludono tutte le espressioni sull’amore a Gesù e sull’osservanza dei suoi comandamenti.

Possiamo intuirne il mistero cogliendo le corrispondenze sulle quali è intessuto tutto il cap. 14 di Giovanni. Ne accenno ad alcune. Gesù aveva appena assicurato i discepoli che se chiederanno qualche cosa al Padre nel nome suo, lui la farà. E continua dicendo: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti. Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre”. Da intendere: se voi farete [= osserverete i miei comandamenti], io pregherò di mandarvi lo Spirito Santo, colui che renderà vere per voi le mie parole e potente in voi il mio amore. Come la preghiera dei discepoli ha a che fare con l’agire potente di Gesù in essi, così la preghiera di Gesù ha a che fare con l’invio dello Spirito Santo, il quale, mentre fa conoscere al cuore il Signore Gesù, ci partecipa la sua potenza di azione. In Gesù il Padre compie le sue opere e nei discepoli Gesù compie le sue. Ma l’opera di Dio è il suo amore per gli uomini ed è questo che ci viene partecipato con l’osservanza dei comandamenti. Ed è per questo che la promessa di Gesù a chi pratica i suoi comandamenti suona: “noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui … Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch' io lo amerò e mi manifesterò a lui”. Gesù promette ‘comunanza’ di vita, non solo nel senso che Dio abita il cuore dell’uomo, ma nel senso che l’uomo diventa capace di agire nell’amore e secondo l’amore di Dio. L’uomo fa uno spirito solo con il suo Signore (cfr. 1Cor 6,17), vale a dire attinge le stesse ragioni di vita e partecipa dello stesso dinamismo di vita.

L’espressione che mi pare più rivelativa di questo mistero è quella conclusiva del cap. 14: “Non parlerò più a lungo con voi, perché viene il principe del mondo; egli non ha nessun potere su di me, ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato”. La frase che viene tradotta: ‘non ha nessun potere su di me’, in greco è resa più semplicemente: ‘in me non ha nulla’. Vale la stessa cosa per i comandamenti. La frase: ‘chi accoglie i miei comandamenti’ andrebbe resa con: ‘chi ha i miei comandamenti’. Parola e comandamento evocano la verità di un legame, di un’alleanza; evocano la volontà di bene, di benevolenza di Dio per l’uomo tanto che l’uomo, se li accoglie, può ottenere la visione di quella verità piena d’amore, espressa in un volto, il volto del Cristo. Il comandamento non ha a che fare con un imperativo, con un dovere morale; ha a che fare con l’esperienza di un amore. Come a dire: chi ha in sé la parola, il comandamento di Dio, non offre presa alcuna al potere del demonio e quindi il demonio lo lascia indenne, vale a dire il demonio non può rapirgli quell’amore che aveva giustificato la sua venuta e la sua testimonianza presso gli uomini, per cui la verità di Dio risplende in lui rivelando agli uomini l’amore che lo abita. Come è per Gesù, così per i discepoli.

La percezione di questa verità è però drammatica nel senso che risplende nel contesto del ‘processo’ del mondo a Gesù e ai suoi discepoli. La giustizia si rivela se non acconsente all’ingiustizia; l’amore si rivela se non si fa disperdere dall’odio o dall’invidia. Gesù diventa ‘il re della gloria’ dall’alto della croce. Quando Pietro, nella sua prima lettera, parla di coloro che domandano ragione ai cristiani della speranza che è in loro, allude proprio a questo ‘processo’ del mondo contro i seguaci di Gesù. Non allude alle possibili discussioni sulla fede, ma alle sofferenze che il seguace di Gesù patisce per testimoniare l’amore di Dio agli uomini, non cedendo all’ingiustizia e non venendo meno alle ragioni di questo amore. La testimonianza ha valore se viene praticata con dolcezza e rispetto, nella coscienza cioè di non abbandonare quella benevolenza di amore che Dio ha testimoniato in Gesù per gli uomini. La forza di quella testimonianza deriva dall’azione dello Spirito nel cuore dei discepoli, che li rende insieme ‘concordi, partecipi degli stessi sentimenti, fraternamente affettuosi, misericordiosi, con un sentire umile e sempre benedicenti’. È lo spazio della chiesa che diventa credibile, rispetto alla testimonianza che porta, se fa trasparire la ‘benedizione’ di Dio sull’umanità, che è Gesù, vivo e operante nel cuore dei discepoli. Così il mondo ‘saprà’ che i discepoli di Gesù amano il Padre e fanno quello che ha loro comandato, come è stato per Gesù. È questa la speranza di vita per il mondo che i credenti testimoniano.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo di Pasqua

 

Ascensione

(4 maggio 2008)

 

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At 1,1-11;  sal 46;  Ef 1,17-23;  Mt 28,16-20

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Probabilmente oggi non esprimeremmo i desideri profondi del nostro cuore con le parole della liturgia nella preghiera dopo la comunione: “Dio onnipotente e misericordioso, che alla tua Chiesa pellegrina sulla terra fai gustare i divini misteri, suscita in noi il desiderio della patria eterna, dove hai innalzato l’uomo accanto a te nella gloria”. Eppure, questa preghiera corrisponde profondamente all’anelito dei cuori.

Tutto dipende dalla prospettiva in cui guardiamo ai misteri della vita del Signore. Possiamo guardarli da spettatori, come da fuori campo o da attori in gioco, dentro la scena. I misteri della vita di Gesù, ascensione compresa, vanno tutti letti nella loro potenza di rivelazione dell’amore del Padre per noi uomini. La colletta lo illustra molto bene: “Esulti di santa gioia la tua Chiesa, o Padre, per il mistero che celebra in questa liturgia di lode poiché nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo nostro Capo nella gloria”. Se guardiamo al mistero come rimirando un quadro vediamo Gesù in alto e immaginiamo, oranti e fiduciosi, di poter partecipare un giorno alla sua gloria. Se guardiamo da dentro la scena la vista cambia. Dov’è il cielo o che cosa è cielo? Il cielo non è un luogo ma una dimensione e non per nulla quando Gesù dice che va al Padre dice anche che viene a noi. Cielo è il cuore dove Dio è adorato in tutta la sua gloria e la sua gloria è l’amore per gli uomini che in Gesù, morto e risorto, risplende e che il suo Spirito ci partecipa perché possiamo conoscere il Padre nel suo immenso amore per noi e avere la vita. Così, vedere Gesù asceso al cielo significa vedere compiersi l’umanità nella gloria dell’amore, amore che è la vita di Gesù che viene a noi e agisce dal di dentro dei nostri cuori, riempiendo ogni spazio in modo da far risplendere la presenza di Dio.

Il passaggio da un modo di guardare all’altro è dato dalla tensione che intercorre tra la gioia di adesso e la gloria di domani. La gioia di adesso ha proprio a che fare con la presenza esperita del Signore Gesù, quella gioia di cui Gesù aveva detto: “nessuno vi potrà togliere la vostra gioia” (Gv 16,23). È la gioia che scaturisce da un incontro rivelatore, un incontro che apre il nostro cuore alla possibilità di vedere compiuti i desideri di innocenza, di bene, di comunione, che portiamo inscritti ma senza riuscire a soddisfarli. Lo stesso passaggio è sottolineato dalla diversità di sguardo rispetto all’evento dell’ascensione come narrato negli Atti degli apostoli: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l' avete visto andare in cielo”. Un conto è guardare un fenomeno (in greco, βλέπω) e un conto è contemplarlo, coglierne il senso, assimilarne il significato, permettergli di generare in noi quella vita di cui è portatore (in greco, θεάομαι). Per arrivare al secondo significato è necessario l’apertura all’incontro, come prega Paolo: “il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui. Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti secondo l'efficacia della sua forza …” (Ef 1,17-19).

L’apertura all’incontro è l’apertura ad una ‘potenza’ che dinamizza, che include in una relazione che genera vita, che induce all’amore e che svela i volti, e di Dio e dell’uomo. È l’effetto della contemplazione dell’ascensione di Gesù al cielo. Le ultime parole del vangelo di Matteo, che oggi abbiamo proclamato, sono particolarmente significative a questo riguardo.

Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra.

Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo,

insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato.

Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.

Sono quattro parole che riassumono la logica della fede in Gesù.

1) a lui è dato tutto il potere per farci conoscere il vero volto di Dio: lui ci fa conoscere che Dio è Padre e ci riconcilia con Lui svelandoci il suo immenso amore. Nello stesso tempo, a lui è stato dato il potere di parteciparci la sua vita, quella vita di cui portiamo immenso desiderio e che risulta essere condivisione del suo immenso amore.

2) il segreto del mondo è proprio questo: quanto Dio ha amato il mondo mandandoci il suo Figlio! Non resta che percorrere il mondo perché sia noto a tutti questo segreto, fonte di vita per l’uomo. ‘Ammaestrare’ significa far sì che tutti possano veder risplendere questo segreto, che tutti possano vedere quanto Gesù ha amato il Padre e ha testimoniato il suo amore per gli uomini.

3) quando nei cuori alberga questa verità, allora il compito dei discepoli è quello di seguire Gesù sempre e comunque, facendo continuamente memoria di lui, in quello Spirito che li accomuna e li muove, nella storia degli uomini.

4) vivendo sempre della gioia della sua presenza nell’ora attuale della nostra storia.

Dio è davvero capace di adempiere le sue promesse. L’ascensione al cielo di Gesù lo dimostra, come ripete s. Paolo ricordando “qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti secondo l’efficacia della sua forza …”.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo di Pasqua

 

Pentecoste

(11 maggio 2008)

 

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At 2,1-11;  Sal 103;  1Cor 12,3-13;  Gv 20,19-23

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Se colleghiamo l’antifona d’ingresso: “L’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito, che ha stabilito in noi la sua dimora” (ripresa di Rm 5, 5 e 8,11) con il canto al vangelo: “Vieni, santo Spirito, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore” possiamo entrare direttamente nel mistero della festa di oggi.

Si allude contemporaneamente a una esperienza ‘antica’ e ‘nuova’, all’esperienza della chiesa e di ogni fedele, all’esperienza degli apostoli e alla nostra. Come facciamo esperienza dello Spirito Santo? Rispetto a che cosa possiamo fare esperienza dello Spirito Santo? Paolo annuncia che l’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori perché la speranza di cui godiamo non delude. Il senso delle sue dichiarazioni si può riassumere così: noi abbiamo coscienza di essere amati da Dio proprio nella nostra realtà di uomini peccatori. Se dunque, da peccatori, Dio ci è venuto incontro nella persona del suo Figlio, quanto più, una volta riconosciuto e accolto il mistero del Figlio, potremo godere del suo amore! L’esperienza dello Spirito Santo ha così a che vedere con l’esperienza della grandezza dell’amore di Dio che, non avendo vergogna di noi, ci raggiunge dentro il nostro peccato, ci rivela che di quell’amore siamo intessuti e così ci rende ‘capaci’, nel suo Figlio prediletto, di vivere proprio di quell’amore, realizzando la nostra vocazione all’umanità fatta ‘a immagine e somiglianza di Dio’.

È caratteristico il fatto che la promessa dello Spirito (cfr Lc 24,49: “Io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto”) riassuma l’esperienza più personale e più universale che ci possa essere. È la promessa che riassume tutte le promesse di Dio al suo popolo. Il mistero della Pentecoste lo rivela. Lo vediamo prima di tutto dalle ‘condizioni’ che la presuppongono. Luca sottolinea come gli apostoli, dopo l’ascensione al cielo di Gesù, tornati con gioia a Gerusalemme, siano “assidui e concordi nella preghiera” (At 1,14) e che il giorno di Pentecoste “si trovavano tutti insieme nello stesso luogo” (At 2,1). Non sono semplici annotazioni; indicano piuttosto la condizione di possibilità dell’esperienza dello Spirito: se lo Spirito viene a uno, viene in quanto rivelatore di comunione in umanità. La ‘potenza dall’alto’ allude a questa dimensione di comunione profonda e misteriosa in umanità. Così anche dopo l’evento della Pentecoste, Luca descrive i discepoli, ormai ricolmi di Spirito Santo: “Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere” (At 2,42).

Se guardiamo ora all’evento della Pentecoste, notiamo che le persone di varie etnie, che ascoltano gli apostoli parlare nelle varie lingue, sentono tutti la stessa e unica cosa: “li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio”. La meraviglia che accomuna tutti non è semplicemente quella di sentire parlare nella propria lingua, ma quella di cogliere la grandezza dell’amore di Dio che a tutti si fa manifesto. E questa è attività propria dello Spirito Santo. L’aspetto misterioso è dato dal fatto che, se la diversità di espressione fa riferimento all’unica verità, l’unicità della verità non può che essere comunicata nella varietà delle lingue. E la varietà delle lingue ormai è vissuta in funzione della comunione, superando così la paura della diversità che aveva fatto preferire l’uniformità alla comunione (si ha così il superamento della divisione, perché viene annullato il principio del potere). Solo dello Spirito di Dio può essere detto: “lo Spirito del Signore ha riempito l’universo, egli che tutto unisce, conosce ogni linguaggio” (Sap 1,7). Ma questo ‘Spirito di Dio’ non può che essere lo Spirito del Figlio, perché lui solo ha il potere di rivelare il vero volto di Dio e di compiere i veri desideri del cuore dell’uomo (cfr Mt 28,18). In effetti, la venuta dello Spirito rivestirà i discepoli di quella ‘potenza dall’alto’ perché siano testimoni di Gesù nel mondo e a tutti possa esser manifesto il segreto di Dio per gli uomini. Se lo Spirito agisce per la comunione è perché il Figlio ha mostrato quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini che li vuole suoi figli, tutti insieme, nessuno escluso.

La verità di cui lo Spirito è promotore ha così una coloritura dinamica e drammatica: ingloba in un amore che, mentre si manifesta a te, lo fa vivere aperto a tutti, perché tutti sono chiamati a gustare le stesse cose. La verità che viene resa nota, per quanto bella e consolante, non convince nessuno automaticamente, non ha potere strabiliante: si comunica di bocca in bocca, di cuore in cuore, di atto in atto, in umanità. Il racconto di Pentecoste finisce difatti con l’annotazione: “Tutti erano stupiti e perplessi, chiedendosi l’un l’altro: ‘Che significa questo?’. Altri invece li deridevano e dicevano: ‘Si sono ubriacati di mosto’ ”.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Solennità e Feste

 

Ss. Trinità

(18 maggio 2008)

 

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Es 34,4-9;  Sal 3,52-56;  2Cor 13,11-13;  Gv 3,16-18

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La finale della seconda lettera ai Corinzi riporta la formula più chiaramente trinitaria di tutto il Nuovo Testamento, che la liturgia usa come saluto iniziale della celebrazione eucaristica: “La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio [Padre] e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi”. In questa formula è singolare che Gesù, che pur rappresenta per noi l’espressione stessa dell’amore (“li amò sino alla fine”, Gv 13,1), non sia definito in rapporto all’amore, termine che invece è riservato al Padre. E noi potremmo pensare: se Gesù tanto ci ha amato, quanto ci amerà il Padre, che è l’Amore stesso? È esattamente il punto di rivelazione della festa di oggi.

Per coglierlo ci riferiamo alla rivelazione di Dio a Mosè sul Sinai, oggetto della prima lettura, sulla quale concentriamo la nostra attenzione. La narrazione è ripresa dal cap. 34 dell’Esodo, che forma però un tutt’uno con i capitoli precedenti 32 e 33. Il popolo si è traviato: ha voluto un ‘dio’ su misura e si è costruito il vitello d’oro. Mosè, scendendo dalla montagna, spezza le tavole della legge che il Signore aveva tagliato e scritto, punisce gli idolatri, sposta la tenda del convegno fuori dell’accampamento e il popolo fa lutto, accompagnando la supplica di Mosè al Signore perché perdoni il grave peccato. In questo contesto Dio ordina a Mosè di far riprendere al popolo il cammino verso la terra promessa, ma negando la sua presenza diretta. Mosè non acconsente e lotta per il suo popolo con Dio e gli avanza tre richieste: ‘indicami la tua via così che io ti conosca’ (33,13); ‘mostrami la tua Gloria’ (33,18); ‘che il Signore cammini in mezzo a noi’ (34,9). A tutte e tre le richieste Dio cede, mostrando però che la sua realtà può essere goduta solo entro certi limiti: Dio si mostra, ma non fa vedere il suo volto (33,20); la proclamazione del ‘Nome’ implica che l’uomo possa conoscere ciò che Dio fa e farà a suo favore (34,6); Dio stabilisce un’alleanza, ma le tavole della legge e le parole ivi scritte non sono più opera diretta sua, ma di Mosè (34,28).

Se queste pagine sublimi si leggono nell’ottica della rivelazione del Figlio, allora la loro densità si esprimerà in tutta la loro portata. Gesù di sé ha detto: ‘io sono la via, la verità e la vita…’ (Gv 14,6). Ma è via per il Padre, è verità di rivelazione del Padre, è datore di vita che viene dal Padre. Il desiderio di Mosè per sé e per il suo popolo si compie. Quel desiderio esprimeva non semplicemente la conoscenza di Dio, ma la conoscenza del favore di Dio per il suo popolo, il quale lo poteva sperimentare nel fatto che Dio l’accompagnava per arrivare alla terra promessa. La conoscenza di Dio ha sempre a che fare con il cammino della nostra vita diretto alla meta agognata. È rispetto a quella ‘conoscenza’ che l’uomo desidera vedere la gloria di Dio, cioè lo splendore del suo amore per noi. Splendore, che si compie nel fatto che non solo Dio viene ad abitare in mezzo a noi, ma che abita in noi: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità … Dio nessuno l' ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato (Gv 1,14.18); “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23).

Il nome che Dio proclama: “Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e fedeltà” (Es 34,6) si riassume nell’esperienza che ‘il Signore è per noi’, esperienza che Gesù fa splendere in tutta la sua bellezza. Chi ci apre a quella esperienza è proprio lo Spirito Santo il quale ci mette in comunione proprio con l’amore del Padre, di cui il Figlio è la grazia di verità per noi. Lo Spirito ritorna a scrivere direttamente sul nostro cuore le parole di Dio di modo che noi non le professiamo semplicemente ricordando che sono parole di Dio, ma vivendole direttamente come mozione di Dio in noi.

Non dobbiamo tuttavia dimenticare che il contesto della rivelazione di Dio sul Sinai come sul Calvario, se esprime l’immensità dell’amore di benevolenza di Dio per i suoi figli, per noi diventa esperibile solo ‘facendo lutto’, solo riconoscendo la nostra insensata idolatria e consegnandoci di nuovo interamente nelle mani del Dio Vivente. Tutta la Scrittura ricorda come quell’esperienza sia la più sublime e la più tormentosa, la più agognata e la più temuta. Non è così facile spiegarne il perché nonostante non ci manchino le ragioni di comprensione, che però il cuore stenta ad accogliere. Eppure, anche per noi risulta vera la proclamazione evangelica: “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia. Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1,16-17). Se l’uomo cerca la verità, la verità di cui ha sete il suo cuore è una verità di grazia e contemporaneamente una grazia di verità. La festa di oggi invita ciascuno a vivere la propria vita nell’atteggiamento di chi si dispone ad accogliere nel suo cuore la grazia di verità che il Signore Gesù testimonia rivelando l’amore del Padre.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Solennità e Feste

 

Ss. Corpo e Sangue di Cristo

(25 maggio 2008)

 

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Dt 8,2-16;  Sal 147;  1Cor 10,16-17;  Gv 6,51-58

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La liturgia di oggi evidentemente ruota attorno all’immagine del mangiare. “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna” dice Gesù ripetutamente ai giudei che lo incalzano, desiderosi di seguire la via di Dio senza però riuscire ad accoglierla.

Il brano evangelico di oggi riporta le ultime battute del lungo discorso di Gesù con i giudei, prima dello scandalo finale degli ascoltatori e dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani che tanto entusiasmo aveva suscitato. Le parole di Gesù acquistano altra potenza se le intendiamo dentro il percorso di intelligenza del suo mistero. Gesù stesso aveva distribuito alla folla i pani che aveva moltiplicati: nel far dono di quei pani era sottinteso il dono che di sé faceva, ma non era scontato coglierlo. Come nell’ultima cena, il suo lavar i piedi agli apostoli sottintendeva il suo servire l’umanità che di lì a poco sarebbe sfociato nel dono di sé agli uomini nella passione. Se però i discepoli si scandalizzano della sua ‘discesa’, come potranno accettare la sua ‘salita’ al Padre, tramite la croce, come Gesù dirà: “Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima?” (Gv 6,61-62)? In effetti, dopo il miracolo la gente viene per farlo re, ma Gesù come può assumere dagli altri quello che non prende da Dio?

Inizia così la discussione tra Gesù e i suoi possibili discepoli nel tentativo di scoprire la vera via di Dio. Gesù obbliga la gente a riflettere riferendosi all’episodio della manna nel deserto e invitando a cercare un cibo che dura per la vita eterna. Introduce così l’accesso al suo mistero, perché proprio lui Dio ha consacrato per dare la vita al mondo. Se ci riferiamo alla prima lettura tratta dal libro del Deuteronomio, l’espressione più diretta che fa da premessa alle parole di Gesù è la seguente: “… per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l' uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore” (Dt 8,3). La manna è l’espressione della potenza di Dio che accompagna il suo popolo per farlo giungere alla terra promessa. Ma chi ha mangiato quella manna alla terra promessa non è giunto. Qual è allora il significato dell’episodio della manna? Gesù accosta quell’episodio ai pani che lui aveva distribuito. Qual è la posta in gioco? Semplicemente non far morire di fame il popolo? La manna era sì un pane del cielo, ma non quello vero, come Gesù fa intendere, perché quello vero ‘dà la vita al mondo’.

Così, nel discorso di Gesù i passaggi sono: io sono il pane dal cielo, quello vero; io sono il pane disceso dal cielo; io sono il pane della vita; io sono il pane vivo. Sempre rimanda al mistero della sua persona, a lui sul quale il Padre ha messo il suo sigillo, vale a dire a lui sul quale riposa la compiacenza del Padre e nel quale dimora la pienezza dello Spirito. Ogni dono dato da Dio ha lo scopo di rivelare il suo Donatore; in particolare, di rivelare che nel suo dono lui stesso si comunica perché l’uomo viva della comunione con lui. Gesù è proprio colui che di quella comunione è l’oggetto e il soggetto in assoluto. E quando dice che il pane vivo che egli darà è la sua carne (evidente l’allusione all’eucaristia) intende dire che lui, il figlio dell’uomo, l’Uomo pieno, è la carne piena dello Spirito, per cui mangiare lui vuol dire essere assimilati al suo Spirito, vivere del suo Spirito, vivere della vita che lo Spirito comunica, vivere della vita pienamente riconciliata con Dio.

La conseguenza sarà che chi mangia lui, potrà dimorare in lui come lui dimorerà in colui che lo mangia. Si stabilisce non solo comunanza di vita, ma la stessa vita e l’uomo ritrova la potenza del suo essere fatto a immagine e somiglianza di Dio. Non voler ‘mangiare’ lui significa non accogliere la rivelazione di Dio che vuole gli uomini in comunione con lui, perché vivano della sua stessa vita, che è amore donato e condiviso.

Qui si svela in tutta la sua radicalità l’invito del Deuteronomio: “Baderete di mettere in pratica tutti i comandi che oggi vi dò, perché viviate” (Dt 8,1). La parola del Signore è finalizzata alla vita e quando non si tiene conto, non si osserva la parola/comandamento, vuol dire che ci si dimentica del Signore, cioè non si vive più di quell’amore che ci è comunicato come radice di vita; non si vive più di quell’umanità santificata, abitata e colmata dallo Spirito, di cui le sue parole sono realizzatrici. Non per nulla Gesù, dopo aver detto che chi mangia la sua carne dimora in lui, aggiunge: “Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me”. È l’aspetto più singolare e impressionante dell’esperienza cristiana: essere inseriti nella stessa dimensione di essere di Dio. L’uomo è chiamato a vivere della stessa vita di Dio: come il Figlio vive del Padre, così i fedeli vivono di Gesù.

Le due perplessità che occupano il cuore della folla: 1) come può dire che è disceso dal cielo se conosciamo i suoi genitori? 2) come può darci la sua carne da mangiare?, occupano anche il nostro cuore. Le potrei esprimere così: è sempre terribilmente facile pensare di sapere senza sapere e di ascoltare senza imparare. Se vogliamo che l’udire si traduca in ascoltare dobbiamo arrivare a udire ‘da presso colui che ci parla’ e non tirare a noi le parole di colui che ci parla. Lo dice Gesù: “Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me” (Gv 6,45). ‘Imparare’ comporta l’essere attratti, come Gesù dirà: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Così il sapere comporta l’aver gustato, l’essere raggiunti dalla rivelazione di un amore che ci riguarda e che diventa radice di vita. Mangiare la carne del Figlio dell’uomo per avere la vita comporta il ‘vedere e il credere’, ‘l’ascoltare e l’imparare’, essere passati dalla ‘carne’ allo ‘spirito’: “È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita” (Gv 6,63).

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Solennità e Feste

 

Ss. Cuore di Gesù

(30 maggio 2008)

 

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Deut 7,6-11;  Sal 102;  1Gv 4,7-16;  Mt 11,25-30

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Molti testi della liturgia di oggi possono illustrare emblematicamente l’immagine del cuore di Gesù, spalancato sul mondo, che la ferita del colpo di lancia del soldato al calvario lascia intravedere. “Di generazione in generazione durano i pensieri del suo cuore” (Sal 32,11) canta l’antifona di ingresso. I nostri pensieri sono mutevoli, i nostri progetti pure, ancor più i nostri desideri. Ma sperimentare che quelli del Signore sussistono per sempre, sono sempre i medesimi, significa cogliere e accogliere il segreto di amore che regge il mondo. Il fatto stesso che tale segreto possa essere svelato in tutto il suo splendore solo nel momento più drammatico della vita di Gesù la dice lunga sul fatto che quell’amore non sia scontato coglierlo e viverlo, per quanto desiderabile.

In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10). Questa espressione dell’apostolo Giovanni riassume bene tutta la consolazione e tutto il dramma dell’amore di Dio per l’uomo. L’invito è a leggere la storia del mondo e la propria storia personale a partire da quell’invio. Gesù è il testimone per eccellenza dell’amore del Padre: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).

Collegare questi passi al brano di vangelo odierno fa scaturire una luce potente. Gesù aveva inviato in missione i suoi discepoli e questi, tornando tutti pieni di gioia per il successo dell’impresa (cfr. Lc 10,21), provocano un’intima esultanza in lui tanto da fargli esclamare, rapito nello Spirito Santo: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare. Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero”.

Due particolari sono da rilevare: la beatitudine dei piccoli e l’invito a imparare. Per amare è necessario farsi piccoli: l’amore è rivelazione, non conquista. Vediamo l’amore di Dio in Gesù perché lui si è fatto ‘piccolo’, così piccolo da dimenticare totalmente la sua gloria e poter far arrivare agli uomini l’amore di Dio. Ora, la sua piccolezza ha a che fare con la situazione degli uomini, incapaci di vedere Dio perché non più capaci di amare (“Chi non ama non ha conosciuto Dio”), non più aperti alla rivelazione dell’amore (potrebbe essere spiegata così la situazione di peccato in cui versano gli uomini che tanto li inasprisce). Quando gli uomini si accorgono, guardando Gesù morire sulla croce, dell’amore di Dio per loro e chiedono perdono (chiedono cioè di uscire dal peccato), con ciò non vogliono semplicemente mettersi a posto, ma vogliono tornare a godere dell’amore di Dio, in umiltà. Più l’umiltà sarà sincera e profonda, più faranno esperienza della tenerezza di quell’amore e più saranno disposti a condividerlo con tutti.

E se Gesù invita: “Imparate da me”, che cosa dobbiamo imparare? Nel fatto di ‘imparare’ va letta la sfumatura di significato di ‘essere attratti’, come si può arguire dal discorso di Gesù alla folla dei giudei riportato in Gv 6,45 (“Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me”,  pa/j o` avkou,saj para. tou/ patro.j kai. maqw.n e;rcetai pro.j evme). Imparare e essere attratti comportano lo stesso movimento, alludono alla condivisione di una intimità di vita e di sentire che diventa potenza di azione. Imparare da Gesù significa perciò essere attratti a lui, per vivere della sua stessa vita. Non per nulla Giovanni dice che ‘chiunque ama è generato da Dio’ perché ‘a quanti però l’hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio’. L’amore viene dal fatto di essere generati da Dio, vale a dire di aver accolto il Figlio, che è stato mandato per testimoniare agli uomini quanto è grande l’amore di Dio. Accogliere il Figlio significa vivere dello stesso dinamismo di amore che quel Figlio ha inviato, in modo da far risplendere nel mondo, nella comunione tra gli uomini, la comunione con Dio. Di tutto questo l’immagine del Cuore di Gesù è emblema.

La proclamazione del salmista: “Benedici il Signore anima mia …” (Sal 102) risuona in tutta la sua potenza sulle nostre labbra appena ci apriamo al mistero del cuore di Gesù, sentendoci implicati nelle sue parole: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli…”. E avremo così modo di comprendere meno confusamente come le due definizioni di Dio dell’apostolo Giovanni (“Dio è amore”, 1Gv 4,8.16; “Dio è luce”, 1Gv 1,5) siano un tutt’uno. La luce allude alla santità di Dio nel suo splendore di amore per l’uomo, come l’amore è la dimensione della santità di Dio che accomuna a sé l’uomo. Il cuore di Gesù mostra sia l’amore di Dio che la sua santità. Non siamo attratti allo stesso titolo dall’amore e dalla santità e forse per questo l’amore, che è così desiderabile, ci riesce così irraggiungibile. Eppure, il cuore di Gesù è lì a ricordarci il contrario: possiamo entrare anche noi nella santità dell’amore di Dio e avere la vita.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo Ordinario

 

9a Domenica

(1 giugno 2008)

 

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Dt 11,18.26-28;  Sal 30;  Rm 3,21-25.28;  Mt 7,21-27

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Le parole del brano di vangelo di oggi sono le ultime battute del grande discorso di Gesù sul monte delle beatitudini (cfr. Mt 5,1-7,29), che termina con l’annotazione: “Quando Gesù ebbe finito questi discorsi, le folle restarono stupite del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi” (Mt 7,28-29). La parabola della casa costruita sulla roccia o sulla sabbia assume così il valore riassuntivo rispetto all’intero discorso. Segnala il giudizio della fine allorquando l’uomo potrà essere messo a confronto con la sincerità del suo cuore davanti al Signore. Essa è riferita alle ‘parole di Gesù’ e non semplicemente alle ‘parole della Scrittura’, mettendo subito in chiaro davanti ai possibili discepoli che “se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5,20). Modalità di insegnamento, questo, da parte di Gesù, che strappa agli ascoltatori la dichiarazione: ma questi non insegna come uno scriba qualunque; parla in proprio!

Evidentemente, non c’è alcuna contraddizione o opposizione tra le parole della Scrittura e le parole di Gesù. Anzi! “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento” (Mt 5,17). Qual è allora il senso delle sue parole?

La parabola è costruita sulla natura del fondamento della casa: roccia o sabbia. Non vuol dire però che la roccia è il Signore e la sabbia la Legge. Nemmeno vuol dire che la roccia è la parola di Dio e la sabbia i pensieri dell’uomo. E nemmeno si può pensare che la roccia sia la retta dottrina e la sabbia la falsa dottrina. Il paragone è giocato sul fatto che l’uomo può fare il bene o solo parlarne; può compiere il bene o solo vantarsi di essere ritenuto buono. Non per nulla la parabola è introdotta con le parole: “Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica [= tutto il discorso sul monte delle beatitudini], è simile a un uomo saggio … Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile a un uomo stolto…” . Gesù sta illustrando il volere del Padre di cui, nella preghiera del Padre nostro (Mt 6,9-13), si chiede il compimento. Richiama il regno di Dio che in lui si realizza e di cui mostra le coordinate perché gli uomini possano gustarlo concretamente. A quello scopo indirizza l’animo degli ascoltatori e ne esige la sequela. Chi intravede questo e si mette nella condizione di agire secondo quanto ha colto ascoltando, allora costruisce sulla roccia. La sua casa resisterà davanti al giudizio di Dio. Chi lo intravede ma poi se ne discosta nella sua vita, non ne tiene conto, lo disprezza, allora costruisce sulla sabbia. La sua casa crollerà: non otterrà il compiacimento di Dio e si ritroverà condannato, un perfetto sconosciuto.

In questo senso la parabola è diretta primariamente contro i falsi profeti o i falsi carismatici, contro coloro cioè che piegano la parola di Dio o le capacità ricevute a scopi personali, per prestigio personale, per imporsi, rinnegando così la volontà di salvezza di Dio. A loro, primariamente, è diretto il monito: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”. E per estensione, a tutti coloro che vogliono essere discepoli di Cristo ma senza condividere con Dio l’ansia di salvezza per l’umanità.

Così, costruire sulla roccia e fare la volontà del Padre indica la stessa cosa. Ma noi ci possiamo chiedere: qual è la volontà del Padre? Cosa intendere per volontà del Padre?

La lettura del cap. 11 del libro del Deuteronomio ce ne può fornire la spiegazione. Occorre leggerlo per intero e non limitarsi al brano scelto come prima lettura di oggi. A differenza dell’Egitto, ‘dove gettavi il tuo seme e poi lo irrigavi con il piede’ (11,10: in pianura, con l’acqua abbondante del Nilo, i canali tra i solchi erano aperti o chiusi con un piede), la terra promessa è ‘un paese di monti e di valli, beve l’acqua della pioggia che viene dal cielo: paese del quale il Signore tuo Dio ha cura e sul quale si posano sempre gli occhi del Signore tuo Dio dal principio dell’anno sin alla fine’ (11,11). Israele dipende da Dio per la terra che lavorerà. Ma se si allontana da lui, allora anche la terra non produrrà e il popolo perirà. La ‘benedizione’ e la ‘maledizione’ alludono direttamente a questa situazione. Il punto centrale del discorso è però un altro. Osservare i comandi di Dio e metterli in pratica per godere la sua benedizione richiede un certo atteggiamento del cuore: obbedire diligentemente ‘amando il Signore vostro Dio e servendolo con tutto il cuore e con tutta l’anima’ (11,13). Sarà quell’amore che permetterà a Israele di ‘eseguire’ e di ‘ascoltare’ (cfr. Es 24,7, secondo l’interpretazione antica, ebraica e patristica: ‘noi eseguiremo e ascolteremo’).

Costruire sulla roccia o fare la volontà del Padre allude a quell’amore che coinvolge la vita e ci predispone all’ascolto, alla partecipazione cioè dei segreti di Dio, che si esprimono nel suo desiderio, condiviso da noi, di salvezza per tutti e per ciascuno. Se la proclamazione della propria fede (si può credere vanamente) o la pratica della propria vita (si può praticare vanamente) non diventano espressioni della condivisione dei segreti di Dio, nulla ci gioverà e la nostra casa andrà in rovina. Gesù, con il suo discorso sul monte delle beatitudini, è lì appunto a ricordarci quei segreti di Dio che vuole svelare al mondo e di cui vuole investire i suoi discepoli perché il mondo creda e si salvi e Dio sia glorificato.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo Ordinario

 

10a Domenica

(8 giugno 2008)

 

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Os 6,3-6;  Sal 49;  Rm 4,18-25;  Mt 9,9-13

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Gesù si trova a Cafarnao, dove ha stabilito la sua residenza. Conosce bene quindi i suoi abitanti. Ha appena guarito un uomo paralitico suscitando stupore e scompiglio: l’ha guarito dalla sua malattia, ma l’ha anche rimandato libero dai suoi peccati. Con quale potere osa comportarsi in tal modo? Uscendo di casa, si avvicina al banco delle imposte e invita l’esattore, di nome Matteo (o Levi), a seguirlo. Altra scena di scompiglio: Matteo (forse per sancire il commiato dalla vita solita) lo invita a pranzo e gli fa festa insieme ai suoi amici, gente poco raccomandabile dal punto di vista della purità legale seguita scrupolosamente dai farisei. “Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?”. Evidentemente, quel maestro colpisce: prende iniziative inaudite, sebbene poi alle parole faccia seguire i fatti. Ma se viene da Dio, perché non osserva la Legge?

I discepoli tacciono. Gesù però sente e ribatte: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati”. E giustifica il suo agire con le parole del profeta Osea: “Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”.

Perché Dio cerca la ‘misericordia’? Perché essa sola è segno della sua presenza, splendore della sua grazia. Quel ‘sacrificio’ che non parla della Sua misericordia, che non fa risplendere la Sua misericordia, non Gli è gradito. La ragione profonda mi sembra questa. Ciò che conta è l’accondiscendenza allo splendore del Suo amore. Più risulta autentica quell’accondiscendenza, più il suo amore, supplicato, accolto e condiviso, risplende nel mondo. E questo corrisponde alla gloria di Dio. Ora, l’accondiscendenza a quello splendore ci fa gustare la misericordia di Dio e ci dispone a ricercarla e a viverla come dono supremo, come il tesoro più prezioso del cuore.

L’aveva già proclamato il profeta Samuele davanti al re Saul che nella guerra contro gli Amaleciti aveva risparmiato, contro il comando del Signore, il meglio del bestiame minuto e grosso con l’intenzione di offrire poi sacrifici al Signore: “Il Signore forse gradisce gli olocausti e i sacrifici come obbedire alla voce del Signore? Ecco, obbedire è meglio del sacrificio, essere docili è più del grasso degli arieti” (1Sam 15,22). Anche lo scriba, lodato da Gesù, l’aveva sottolineato: “Hai detto bene, Maestro, e secondo verità che Egli è unico e non v' è altri all' infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olocausti e i sacrifici” (Mc 12,32-33).

La parola profetica di Osea, citata da Gesù, proclama: “Voglio l' amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti” (Os 6,6).

Se colleghiamo il passo di Osea con il brano evangelico ci accorgiamo che l’espressione di Gesù: ‘sono venuto a chiamare i peccatori’ risponde alla frase del profeta: ‘Affrettiamoci a conoscere il Signore’, frase che riassume l’atteggiamento di pentimento del popolo davanti a Dio. Nel testo del profeta, però, Dio non accoglie quel pentimento perché procede da un calcolo: torniamo al Signore e offriamogli sacrifici di modo che finiscano le sciagure che ci ha mandato! ‘Conoscere il Signore’ equivale a fare esperienza della sua benevolenza. Ma tale atteggiamento può derivare solo dal fatto di non poterne più dei rovesci della vita. Dio non può gradire un atto di culto che derivi solo dal non voler più subire afflizioni semplicemente. Per questo Dio dice al popolo: “voglio l' amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti”.

Nell’espressione profetica di Osea l’amore, la misericordia, allude alla lealtà in amore secondo l’alleanza con Dio. Ma l’uomo può vivere l’alleanza con Dio solo come una forma di protezione (che suona come un ‘tener buono’ chi è pensato detenere il potere sulle vicende umane) senza accedere allo spazio di un amore condiviso. Così, quando l’uomo, illuso dei beni che può godere, non sembra più interessato alla storia di amore con il suo Dio, non riesce a far fronte ai rovesci della vita e si ritrova abbandonato e disperso. Ricorre allora a Dio, ma come dall’esterno, solo per riottenere quei beni che ha perso. Fa cose sante senza lambire la santità.

Dio, invece, invitando alla misericordia e non ai sacrifici, è come se dicesse: tornare a me vuol dire tornare a vedere la mia Provvidenza per voi, tornare a vedere la mia grazia risplendere. Quando il salmo 149 parla del ‘sacrificio di lode’ allude proprio al’agire dell’ uomo che miri a far risplendere l’amore di Dio, non solo in me o per me, ma nel mondo, attraverso me. Così Dio è glorificato, così l’umanità torna a Dio. Così è vinto il peccato, quando non divide più né da Dio né dai fratelli e si realizza l’invocazione dell’antifona dopo la comunione: “Ci guarisca dal male che ci separa da te”. Di per sé la dinamica del sacrificio che tende a divenire ‘sacrificio di lode’ lavora proprio a impedire quella separazione e quindi a favorire l’esperienza della misericordia. E questo corrisponde al dar gloria a Dio, come Paolo dice di Abramo: dare gloria a Dio significa far spazio al compimento della sua promessa nella mia esistenza e la sua promessa non è che l’offerta della sua comunione perché su tutto e tutti risplenda il suo amore. Ora, la mia vita si gioca precisamente in questo punto: dare credito di fiducia alla sua potenza perché questo si compia anche in me e, attraverso me, nel mondo. Coltivare dunque la misericordia non vuol dire sforzarsi di essere generosi con il prossimo, ma coltivarsi nell’apertura all’esperienza del suo amore, al riconoscimento del suo agire nella nostra vita, allo splendore della sua presenza, alla condivisione dei suoi sentimenti.

Applicato al contesto in cui Gesù si rivolge ai farisei, la domanda che potremmo farci può suonare così: cosa fa conoscere di Dio quel modo di agire di Gesù? Se Dio non è per tutti, quale immagine di Dio adoriamo? Se adoriamo un Dio che tiene qualcuno lontano, l’orizzonte della nostra umanità resta limitato. Gesù, cercando i peccatori, facendo suoi discepoli gente peccatrice, svelando la bontà di Dio a coloro che si tenevano lontani dalla santità di Dio, svela sia la natura della conversione secondo Dio che la grandezza del suo amore salvatore: non è un invito alla virtù, ma un’introduzione ad una visione, ad una esperienza dell’anima che ‘conosce’ l’amore del suo Dio nella misericordia, gustata e condivisa.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo Ordinario

 

11a Domenica

(15 giugno 2008)

 

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Es 19,2-6; Sal 99; Rm 5,6-11;  Mt 9,36-10,8

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Gesù, vedendo le folle, ne sentì compassione”. In questa 'compassione' prendono senso e valore tutti i gesti e le parole di Gesù per noi. È estremamente importante per il nostro cuore riuscire a percepire almeno gli echi della sua compassione. Già nell'Antico Testamento il Signore si era espresso allo stesso modo: “Il Signore disse: Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso” (Es 3,7-8). E Origene in una sua omelia su Ezechiele (VI,6) sottolinea arditamente: "Egli è disceso sulla terra mosso a pietà del genere umano, ha sofferto i nostri dolori prima ancora di patire la croce e degnarsi di assumere la nostra carne; se egli non avesse patito, non sarebbe venuto a trovarsi nella condizione della nostra vita di uomini. Prima ha patito, poi è disceso e si è mostrato. Qual è questa passione che per noi ha sofferto? È la passione dell'amore". E se Gesù prova compassione è perché sa che può dire: "Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero" (Mt 11,28-30). E ancora perché sa che, se il cuore dell'uomo cerca ristoro e non lo trova, è perché si illude di cercarlo fuori di Lui. Così, quando Gesù, mosso dalla sua compassione, invita i discepoli a pregare perché il Padre mandi operai nella sua messe, fa pregare non tanto perché mandi tanti operai, ma perché ne mandi di quelli che si muoveranno spinti dalla stessa sua compassione. Compassione, nella quale si riconosce l'amore del Padre. E gli operai che lavorassero in questa messe immensa senza essere il riflesso di questo amore e di questa compassione, non favorirebbero il ristoro del cuore degli uomini. Ma come diventare il riflesso dell'amore e della compassione di Dio per gli uomini senza la preghiera? Per questo Gesù fa pregare.

Gesù andava attorno per tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando il vangelo del regno e curando ogni malattia e infermità” recita il v. 35 che precede l'inizio del nostro brano. Quando chiama i discepoli, li fornisce delle stesse sue prerogative: 'diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d'infermità'. Nessuno può proclamare la verità della vita a titolo proprio, come nessuno può procurare ristoro al cuore degli uomini a titolo proprio. La verità e il ristoro che essa procura procedono dall'alto, esprimono la compassione di Dio che raggiunge il cuore degli uomini, in Cristo. E se il discepolo non lascia intravedere chiaramente tale rimando, non è un 'chiamato', un 'inviato', lavora per la sua gloria e non potrà sanare nessuno.

Tanto che Gesù, nel suo inviare i discepoli, di ieri come di oggi, comanda i miracoli: "guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni". Quale uomo di buon senso può sottoscrivere seriamente queste ingiunzioni? Quando l’annuncio del vangelo pesca nella compassione di Gesù, allora il regno di Dio è percepito vicino. E da che cosa si vede? Dal potere che viene conferito ai discepoli di guarire gli infermi e cacciare i demoni. Sono i demoni, per la volontà di far condividere agli uomini la loro scelta di separazione da Dio, di grandezza ricercata sulla piccolezza degli altri, di gloria ottenuta sulla vergogna altrui, che turbano la vita, l’ammorbano, la opprimono e la mortificano. Cacciare i demoni significa tornare a far risplendere l’umanità nella sua vocazione di dignità e di comunione con Dio, con il creato, con i fratelli; significa ridare speranza ai cuori che incominciano a vedere splendere in mezzo a loro la presenza del loro Dio, Salvatore; significa tornare a far giungere ai cuori la compassione di Dio. È questo il potere del vangelo. Al di là del dono particolare, fatto a qualche discepolo, qualche volta, di fare miracoli, credo che il valore di queste 'guarigioni' che Gesù promette nell'annuncio del vangelo del regno stia tutto nel senso di procurare quel 'ristoro' che rende un cuore pieno di vita, colmo di gratitudine, solidale e ricco in umanità, puro da vedere Dio e da desiderare il bene di tutti perché Dio sia conosciuto ed il suo amore riconosciuto.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo Ordinario

 

12a Domenica

(22 giugno 2008)

 

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Ger 20,10-13;  sal 68;  Rm 5,12-15;  Mt 10,26-33

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Gesù ha appena avvertito i discepoli che subiranno persecuzioni ma li invita a non aver paura. Tutto il brano si fonda sul principio: “Un discepolo non è da più del maestro, né un servo da più del suo padrone; è sufficiente per il discepolo essere come il suo maestro e per il servo come il suo padrone” (Mt 10,24-25). La paura che prendesse il discepolo nella tribolazione non equivarrebbe semplicemente alla mancanza di coraggio, ma alla mancata intimità con il suo maestro. Tale è l’ottica di lettura per i brani di oggi. Lo rivela anche il canto al vangelo riportando, in forma abbreviata, un passo di Giovanni: “Questo perché si adempisse la parola scritta nella loro Legge: Mi hanno odiato senza ragione [sal 68,5]. Quando verrà il Consolatore che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza; e anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dal principio” (Gv 15,25-27).

Come a dire: la verità che lo Spirito farà risplendere è la verità, accolta, del mistero della persona di Gesù, di cui si è condiviso la vita e l’insegnamento, imparando a conoscerne l’amore e a viverne la dinamica di rivelazione che comporta. Davanti alla tribolazione che sorprende il discepolo, quando subirà persecuzione dagli uomini, quando subirà ingiustizie e oppressione, quando si sentirà ingiustamente accusato, egli potrà ‘mostrare’ che cosa il suo cuore cerca, di che cosa è pieno, che cosa costituisce il suo tesoro. Di qui deriva la sua non paura.  In effetti, il contrario della paura non è il coraggio, ma la confidenza, la fiducia. L’uomo che ha rinunciato alla sua pretesa di innocenza di fronte all’amore di Dio che lo accoglie e lo perdona, gli fa godere la sua intimità, è un uomo che non ha più paura, che non ha più paura di essere calpestato dagli uomini, di essere da loro discreditato o umiliato. Il segreto che porta, di cui è testimone, è più potente. E sarà proprio quel segreto che dovrà essere manifestato, gridato a tutti e in tutto il mondo. Proprio quello che nella più personale intimità di incontro col Signore costituisce la verità del proprio cuore, proprio quello andrà gridato in tutti modi, perché tutto sarà svelato a suo tempo, a tutti apparirà chiara la verità di quel segreto a suo tempo. Forse Gesù allude a un proverbio popolare: tutto finisce per arrivare al grande giorno. Ciò che ora è ancora un segreto, sarà la verità più limpida e convincente per tutti a suo tempo. Non temete dunque, conclude Gesù: fate risuonare quel segreto, fate risplendere davanti a tutti quella verità.

Il passo di Giovanni del canto al vangelo richiama il salmo 68, da molti interpretato come salmo della passione di Gesù. La preghiera che Gesù innalza al Padre per essere liberato dalla prova è quella di cui parla la lettera agli Ebrei: “Proprio per questo nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà” (Eb 5,7). Gesù però non fu sottratto alla morte, ma nella morte ottiene la vita. Una cosa simile ricorda Pietro nella sua prima lettera: “E chi vi potrà fare del male, se sarete ferventi nel bene? E se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non vi sgomentate per paura di loro, né vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1Pt 3,13-15).

Così, nella terribile esperienza del profeta Geremia, insidiato da ogni parte e abbandonato da tutti, la sua preghiera è esaudita nel senso che i suoi nemici non ottengono la sua anima, cioè non lo piegano ai loro voleri e non lo distolgono dal perseguire la verità della parola di Dio, che continua a proclamare imperterrito. Ma da dove deriva la sua forza, la forza di non avere paura nonostante le angosce e i terrori che lo tormentano? “Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso… Mi dicevo: “Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!”. Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo” (Ger 10,7.9). La sua vita scaturiva dal legame con il suo Signore che gli aveva rapito il cuore.

Da dove i discepoli traggono la forza di non avere paura? Se il brano evangelico di oggi richiama al principio della fedeltà nella persecuzione – cosa che di per sé supporrebbe un coraggio incredibile! – ricorda però che la testimonianza si alimenta nella prospettiva di una confidenza goduta: “Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure neanche uno di essi cadrà a terra senza che il Padre vostro lo voglia”. Come a dire: il Padre vostro è sempre con voi; voi siete cari al Padre vostro. Tutto quello che vi capita non è un incidente, ma ha lo scopo di mostrare il suo desiderio di comunione con gli uomini, desiderio che in voi è diventato il vostro segreto di vita. Se il male che ci viene dagli altri uccide la nostra anima nel senso che ci distoglie dalla comunione con Dio e soffoca il suo amore, come potrà il mondo ancora risplendere della presenza di Dio? Come la salvezza di Dio potrà ancora lambire i cuori?

Da notare la corrispondenza tra il riconoscimento di Gesù davanti agli uomini e il riconoscimento suo davanti al Padre. A dire il vero, il testo evangelico suona: ‘Chi confesserà in me davanti agli uomini, anch’io confesserò in lui davanti al Padre mio’. Il che significa: non si può confessare il Signore Gesù se non a partire da un’intimità di vita con lui, per cui riconoscerlo significa godere dell’intimità che ci offre. E la cosa avviene davanti agli uomini nel senso che quell’intimità si svela nell’amore verso gli uomini, alla comunione coi quali tende il desiderio di Dio, proprio quando gli uomini, rifiutando di rispondere a quel desiderio, contestano e opprimono coloro che vivono secondo quel desiderio che è diventato il loro segreto. Il riconoscere di Gesù davanti al Padre significa mostrare al cuore la verità dell’amore salvatore di Dio per gli uomini che prevale in ogni circostanza, anche la più drammatica o la più affliggente.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Solennità e feste

 

Ss. Pietro e Paolo

(29 giugno 2008)

 

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At 12,1-11,  Sal 33;  2Tm 4,6-8.17-18;  Mt 16,13-19

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A cosa guardi la chiesa, nella celebrazione degli apostoli Pietro e Paolo, lo rivela la preghiera dopo la comunione: “Concedi, Signore, ai membri della tua Chiesa, che hai nutriti alla mensa eucaristica, di perseverare nella frazione del pane e nella dottrina degli Apostoli, per formare nel vincolo della tua carità un cuor solo e un’anima sola”. La preghiera riecheggia la descrizione di At 2,42: “Erano assidui nell' ascoltare l' insegnamento degli apostoli e nell' unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere”. Come a dire: l’esperienza di Gesù si fonda sulla testimonianza degli apostoli, che ci danno la verità del Cristo, come parola e come Corpo, perché possiamo formare un cuor solo e un’anima sola nella potenza del suo Spirito, perfettamente riconciliati con Dio e con il prossimo.

L’aspetto singolare della loro testimonianza è dato dal fatto che soltanto tramite loro siamo garantiti nell’accesso alla rivelazione di Dio, in Gesù. Il brano evangelico della confessione di Pietro a Cesarea lo conferma: “Disse loro: "Voi chi dite che io sia?". Rispose Simon Pietro: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente". E Gesù: "Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l' hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli”.  La confessione della verità del Signore Gesù comporta la partecipazione alla rivelazione di Dio. Quando ci si appressa al mistero della persona di Gesù si comincia a godere di un dinamismo di rivelazione che proviene da Dio e che ci precede. Non si tratta in effetti di conquistare una verità su Gesù, ma di percepire che Dio ci si fa incontro nella sua accondiscendenza di amore per noi. Accondiscendenza, che ci riguarda a doppio titolo: implica il movimento che viene direttamente da Dio nel suo amore anche per me e il movimento che viene dai suoi servi che già hanno goduto di quell’amore e di cui si fanno garanti per me. Ambedue gli aspetti sono essenziali per il nostro cuore, perché questa è la provvidenza di Dio per gli uomini.

La ragione profonda di questo doppio dinamismo è svelata da Gesù quando prorompe in un inno di lode al Padre dopo che gli apostoli, inviati in missione evangelizzatrice, tornano a lui: “In quel tempo Gesù disse: Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli.  Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te” (Mt 11,25-26). ‘Così è piaciuto a te’: l’espressione non si riferisce semplicemente al fatto che Dio ha voluto così, ma al fatto che in quel volere di Dio sta tutta l’accondiscendenza di amore per l’uomo. Quel ‘compiacimento’ del Padre sta tutto sul Figlio, come viene rivelato al Giordano e al Tabor e noi siamo chiamati – questo è il valore della confessione di Pietro! – ad accogliere il Figlio per godere di quella stessa compiacenza, fonte per noi di bene e di santità.

Pietro confessa in tutta sincerità la verità di Gesù, ma non è ancora consapevole di ciò che quella verità comporta. Basta leggere il seguito del brano e il resto del racconto evangelico per sincerarsene. Eppure, Gesù proprio sulla verità confessata da ‘Pietro’ (il nome Pietro, traduzione greca del nome aramaico Kepha, roccia, non era usato come nome proprio di persona nell’ambiente di allora) edifica la sua chiesa. Il che significa che quella verità non sarà mai più ritoccata; risuonerà eterna e salvatrice a dispetto di ogni prova. Tuttavia – noi possiamo domandarci - la confessione di Pietro, pur veritiera, a quale profondità di risonanza si situa nel suo cuore? Se rileggiamo la confessione di Pietro dopo il brano evangelico della messa vigiliare, Gv 21,15-19, possiamo comprendere più da vicino l’arco di sviluppo della fede di Pietro. Quando Gesù gli domanda per tre volte: ‘Simone di Giovanni, mi vuoi bene?’, Pietro sa bene che non ha mai rinunciato al suo Gesù, ma sa altrettanto bene che l’aver saputo la verità su Gesù non gli ha impedito il tradimento. Ha dovuto rendersi conto direttamente di quanto l’uomo possa misconoscere il dono e le vie di Dio, sebbene non sia mai venuto meno al fascino di Gesù che l’ha segnato nell’intimo. “Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene”: il suo amore non è più proclamato, è solo sussurrato; non si fonda più sul suo slancio, ma sulla confidenza nella compiacenza di Gesù che lo vuole suo intimo e testimone; ha ormai accettato che le vie di Dio sono diverse da quelle degli uomini. È così pronto, come gli profetizza Gesù, a vivere la verità del suo Maestro dovunque la testimonianza del suo amore lo porterà. In quel momento, la sua confessione: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” acquista tutta un’altra risonanza. E anche la rivelazione di Dio per lui acquista tutta un’altra densità e potenza. Lì tutti noi siamo fondati.

È caratteristico che la liturgia accomuni a Pietro Paolo nella sua testimonianza di apostolo che ha combattuto la buona battaglia, che ha terminato la corsa conservando la fede: la verità confessata di Gesù, acquisita per rivelazione, ha impegnato tutta la sua vita perché risplendesse al di sopra di tutto l’amore del Signore che conquista tutti. La corona che si aspetta, che ha sempre cercato e che ha condiviso con tutti, è quella che definisce con l’attesa della manifestazione del Signore: “Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione”. Manifestazione, che costituisce la tensione del cuore nell’adesione al Signore Gesù che man mano condivide con i suoi fedeli i suoi segreti, fonte di dignità per il mondo intero.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo Ordinario

 

14a Domenica

(6 luglio 2008)

 

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Zc 9,9-10;  sal 144;  Rm 8,9-13;  Mt 11,25-30

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Il passo del vangelo che viene proclamato oggi è forse il momento più alto della presentazione della figura di Gesù, almeno nella prima parte del vangelo di Matteo. Gesù prorompe in un grido di esultanza davanti ai discepoli che tornano dalla predicazione, come il passo parallelo di Luca 10,21-22 conferma: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te”. È l’esultanza di fronte all’accondiscendenza di benevolenza del Padre per gli uomini, che possono godere del suo amore senza averne alcun titolo. L’uomo può godere del fatto che Dio si approssimi a lui in Gesù e tutto si risolve in una questione di sguardo. L’uomo non deve conquistare Dio, ma aprirsi alla sua rivelazione. Dio è già dalla sua parte. L’unica conquista è quella di acquisire quell'atteggiamento del cuore che consente di ricevere la rivelazione del suo amore. Questo caratterizza i ‘piccoli’, la cui qualità è definita in rapporto ai ‘sapienti’ che si affannano invece a volere che Dio sia come è stabilito che sia, come a cercare le condizioni possibili per una presenza accettabile di Dio. I pensieri degli uomini non corrispondono ai pensieri di Dio e chi preferisce quelli di Dio ai propri appartiene al numero dei ‘piccoli’. La condivisione da parte di Gesù del piacere di Dio, non allude semplicemente al fatto che a Dio piace rivelarsi ai piccoli, ma alla condizione essenziale perché Dio possa rivelarsi, come a dire: appena ci si fa piccoli, nella misura in cui ci si fa piccoli, Dio si rivela a noi. Qui si cela il segreto dell’obbedienza al Padre di Gesù, dell’obbedienza del discepolo al suo Maestro, dell’obbedienza della fede. L’esultanza di Gesù come del credente deriva da qui.

In effetti, tutta la compiacenza del Padre sta nel Figlio, come tutta la conoscenza di Dio sta nel Figlio. Alla fine del vangelo di Matteo, Gesù lo ribadisce chiaramente: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28,18), cioè tutto il potere di far conoscere Dio in verità e tutto il potere di compiere i desideri del cuore dell’uomo quanto alla sua vocazione in umanità, in modo da far risplendere l’umano della compiacenza di Dio. È per questo che Gesù invita tutti ad appressarsi a lui. Come se dicesse: per quanto vogliate vivere secondo leggi sante, resterete schiacciati dalla fatica se la vostra santità non parlerà dell’amore di compassione di Dio che in me risplende e tutto investe. Del resto, è caratteristico che Gesù si attribuisca i tratti di ‘mitezza e umiltà’ per convincere i cuori della sua verità da parte di Dio.

Sono i tratti della profezia di Zaccaria, proclamata come prima lettura, che viene riferita a Gesù che entra trionfale a Gerusalemme: “Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina”. Il termine italiano ‘umile’ qui dovrebbe essere reso con più precisione ‘mite’. È lo stesso termine che compare sia in Mt 5,5 (‘beati i miti…’) che in Mt 21,5 (entrata in Gerusalemme) come in Mt 11,29. È il termine che fa pensare al ‘re della gloria’ dal legno della croce, porta di accesso perché a noi arrivi lo splendore dell’amore di Dio e perché noi ci si faccia capaci di portare quello splendore. L’unione tra mitezza e umiltà costituisce la cifra divina dell’umanità perché al mite e all’umile sono svelati i segreti di Dio, che sono i segreti di amore per gli uomini di cui il Figlio è il Testimone per eccellenza. Come anche leggiamo nel libro del Siracide secondo alcuni manoscritti: “… i suoi segreti li rivela agli umili… poiché grande è la misericordia di Dio, agli umili svela il suo segreto” (Sir 3,19-20).

Di questa capacità parla la colletta che interpreta assai bene il movimento di rivelazione che ci è dato gustare: “O Dio, che ti riveli ai piccoli e doni ai miti l’eredità del tuo regno, rendici poveri, liberi ed esultanti, a imitazione del Cristo tuo figlio, per portare con lui il giogo soave della croce e annunziare agli uomini la gioia che viene da te”. La colletta riassume in tre caratteristiche l'imitazione del Cristo: 'rendici poveri, liberi ed esultanti'. Poveri di tutto ciò che ci allontana dalla rivelazione dell’amore del Padre, liberi da tutto ciò che si oppone a quella rivelazione ed esultanti di tutto ciò che la consente. Ma giustamente 'a imitazione del Cristo tuo Figlio' perché, per quanto si sia desiderosi dei segreti di Dio, non si è disposti a riconoscerli dove si trovano, ad accettarli per quello che sono, a goderli per quello che comportano. Stare con il Signore Gesù è il modo migliore per riconoscere le vie di Dio, accogliere i suoi segreti e non illudere il nostro cuore. Per questo, per quanto strana suoni l'espressione, viene aggiunto 'per portare con lui il giogo soave della croce'. Nulla di più contrastante tra 'soavità' e 'croce'. Ma quel 'con lui' cambia tutto. La storia è attraversata dal grido di angoscia del Cristo: 'ho desiderato ardentemente mangiare questa pasqua con voi', 'c'è un battesimo che devo ricevere e come sono angosciato finché non sia compiuto', 'Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?'. Ma è contemporaneamente percorsa dal suo grido di esultanza: 'Ti benedico, Padre ...', 'io ho vinto la morte'. Noi dobbiamo imparare a percepire la sua esultanza, dobbiamo imparare a farla nostra, a ritrovarci in questa esultanza che deriva da un’intimità che nulla può violare o sopprimere. Anzi, sarà a partire da questa intimità, dentro quell’esultanza, che si svela il senso della storia e delle cose. Si tratta però di un'esultanza sul 'giogo soave della croce'. È un'esultanza del cuore, degli occhi, non della bocca. E quando gli uomini coglieranno da noi l'eco di quell'esultanza, allora sapranno che la gioia viene da Dio e la desidereranno anche loro. Anche loro torneranno piccoli per non perdere la possibilità di godere della stessa gioia.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo Ordinario

 

15a Domenica

(13 luglio 2008)

 

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Is 55,10-11;  sal 64;  Rm 8,18-23;  Mt 13,1-23

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A partire da oggi e per altre due domeniche verrà proclamato il cap. 13 di Matteo con le sette parabole del regno. La parabola di oggi, del seminatore o dei quattro terreni, è quella che fa da cornice di riferimento a tutte le altre. La parabola è ricchissima di suggestioni nella sua semplicità.

Il cap. 12 di Matteo finiva con la dichiarazione di Gesù: «“Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”. Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: “Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre”». Il cap. 13 comincia con ‘quel giorno Gesù uscì di casa’ e il racconto della parabola ‘ecco, il seminatore uscì a seminare’. Gesù, Verbo del Padre, lascia il Padre e viene tra gli uomini, non solo seminando la sua parola nei cuori, ma seminando sé, sua Parola Vivente, nei cuori. C’è identità tra il seminatore e il seme, perché colui che semina e la cosa che viene seminata è la stessa realtà, Gesù stesso. Ognuno è chiamato a far nascere e far crescere Gesù dentro il proprio cuore. Questo è il significato profondo della parabola.

È rispetto a questo significato profondo che la parabola è narrata come da dentro un dramma. Perché a qualcuno è dato conoscere i misteri del Regno dei cieli (espressione che in Matteo allude direttamente ai segreti del regno che solo Gesù svela) e a qualcun altro no? Perché ai discepoli Gesù parla direttamente e alle folle invece solo in parabole? Cosa è in gioco?

Come ci viene illustrato dalla prima lettura di Isaia, la Parola produce sempre quello per cui è mandata. Ma – e questo è il dramma – se in chi l’accoglie, produce salvezza, in chi la rifiuta produce condanna (cfr. Gv 5,24), la condanna di non vedere compiuti i desideri del proprio cuore perché impenetrabile alla tenerezza della Parola. È il dramma della relazione mancata con il proprio Dio! Si può vedere e sentire Gesù, ma non entrare nel suo mistero e perciò il cuore non portare frutto.

Il brano profetico è preso dal cap. 55, che chiude la seconda parte del libro di Isaia con la promessa di un nuovo esodo. I versetti che precedono il nostro brano recitano: “L’empio abbandoni la sua via e l' uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona. Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie - oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri” (Is 55,7-9). Quando leggiamo nel v. 11: “così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata”, il significato è da mettere in relazione al ‘largamente perdona’. E il ‘largamente’ allude alla straordinaria prodigalità del seminatore che ‘spreca’ generosamente il suo seme (non si stanca mai di seminare, non teme di buttar via il seme, evidentemente perché sempre Dio ricerca la conversione del cuore dell’uomo)  su ogni tipo di terreno, ad illustrare l’estrema accondiscendenza di Dio che va in cerca dei suoi figli con i quali vuole condividere i segreti del suo regno. Dietro ogni Parola annunciata e ascoltata, sta sempre il desiderio di Dio di essere accolto e l’invito suo ad accoglierlo. Questa alleanza di Dio con l’umanità costituisce il quadro di riferimento, il contesto di senso della parabola del seminatore. In quel contesto prende significato sia la prodigalità del seminatore che la potenza di crescita del seme (che può produrre fino a 100 volte tanto), mostrando in questo il compimento dei desideri del cuore dell’uomo: “chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna” (Mt 19,29).

Quanto ai vari tipi di terreno, il frutto è in rapporto all’accoglienza del seme, come a dire: tutto il lavorio del cuore, tutto lo sforzo ascetico e spirituale è per accogliere e far crescere in noi il Cristo, per diventare sua madre, suoi fratelli. Accogliere e far crescere significa allora ascoltare la parola di Dio, metterla in pratica, compiere la volontà del Padre.

I terreni, che possiamo intendere come le possibili condizioni di una conversione sempre più coinvolgente e radicale, sono: la strada, i sassi, le spine, la terra buona. Dobbiamo operare tre passaggi per arrivare a produrre qualche frutto. Dobbiamo prima lasciare l’essere come la strada. Il terreno della strada è calpestato, duro, impenetrabile. È la situazione di un cuore che dà il diritto d’accesso a qualsiasi cosa, a qualsiasi pensiero, con un andirivieni senza sosta e soprattutto senza senso. La terra va perciò lavorata per renderla soffice, penetrabile dal seme della Parola e ciò comporta l’imparare a orientare i nostri pensieri, a riconoscerli, a saperli distinguere e a lottare per non andar dietro ad ognuno che passa e subire vessazioni di ogni tipo.

Poi dobbiamo lasciare l’essere come i sassi, dove la terra è uno strato superficiale, che non permette al seme di mettere radice. Se la Parola non può aver radici, non ha ancora consistenza ed il cuore non può che restare incostante. È la situazione di un cuore che ha paura di soffrire a causa della Parola, che non ha fiducia nella promessa di Dio. Dio fa sempre paura, perché temiamo chieda cose che siano contro di noi e cedendo a questa paura non conosceremo mai l’amore e la vita!

Quando la terra è lavorata ed è profonda, fa nascere di tutto: cresce il seme, ma crescono anche facilmente le erbacce. La terra va dunque tenuta pulita, se no le erbacce, le spine, crescendo insieme al seme, ne soffocano il germoglio. È la situazione del cuore che fa resistenza al  distacco  da tutto ciò che momentaneamente ci alletta. Troppi beni finiscono per nascondere il vero Bene; troppe attese soffocano la vera attesa del cuore; le pretese impediscono al cuore di godere. Si deve lavorare per non compromettere il cuore in cose che ritardano o addirittura soffocano i suoi aneliti più genuini. È la battaglia della sobrietà: siamo sì liberi verso ogni cosa, ma non ogni cosa giova. Occorre imparare a discernere bene e scegliere ciò che è in funzione degli aneliti più veri.

La terra, così lavorata, diventa buona, capace di accompagnare la crescita del seme fino a maturazione, fino cioè a godere dei frutti sperati. La distinzione della terra buona in ragione della capacità di dar frutto per il 30, il 60 e il 100 per uno, allude alla diversità di coinvolgimento e di radicalità della risposta da parte del cuore alla Parola. La tradizione ebraica ha visto in questa distinzione la fedeltà di chi crede e uniforma la sua vita ai precetti del Signore, di chi lo fa spendendo tutti i propri beni per il regno di Dio, di chi lo fa fino al dono di se stesso, capace di morire pur di star fedele al suo Dio. Nella tradizione cristiana si sono visti i martiri, i vergini e gli altri credenti in generale. In sostanza, tutto dipende dal livello di profondità e di verità del cuore nell’aderire alla Parola; direi, tutto dipende da quanto si vuole investire della propria vita nella relazione con il Signore.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo Ordinario

 

16a Domenica

(20 luglio 2008)

 

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Sap 12,13-19;  sal 85;  Rm 8,26-27;  Mt 13, 24-43

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Vengono oggi proclamate altre tre parabole del Regno: quella della zizzania, del lievito e del granellino di senapa. Notiamo subito un particolare. Gesù, quando racconta le parabole, spesso conclude con l’avvertimento: chi ha orecchi intenda! Ma qui, l’avvertimento non è dato alla fine del racconto della parabola, ma dopo la spiegazione stessa della parabola che avrebbe dovuto chiarirne adeguatamente i significati nascosti. Due cose da notare: 1) con Gesù vengono ‘rivelate’ cose nascoste fin dalla fondazione del mondo, vale a dire: tutto il mondo si regge sul mistero di Dio e del suo amore per l’uomo e all’uomo viene data finalmente la possibilità, con Gesù, l’Inviato del Padre, di aprirsi a quel mistero e trovare riposo nel suo cuore; 2) il passaggio dal nascosto al chiaro è continuo, non è mai dato una volta per tutte e segue l’evoluzione del rapporto di intimità con Gesù, il Figlio di Dio, ‘potenza e sapienza’ di Dio.

La parabola della zizzania potrebbe rispondere alla domanda: perché Dio non toglie di mezzo i malvagi? Perché Dio lascia spazio al male? La domanda può essere formulata a partire dal brano della Sapienza e dal salmo 85. Nel brano della Sapienza è detto: “Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini”, dove a ‘tale modo di agire’ si intende l’indulgenza e la mitezza con cui Dio, dotato di forza onnipotente, agisce verso gli uomini e li giudica. Quel ‘deve amare gli uomini’ sarebbe, letteralmente, ‘è necessario che il giusto sia amante degli uomini’. Dove la Scrittura segnala un ‘deve’, un ‘è necessario’, vuol dire che allude a una radice e a un compimento divini, a un esito divino della vita umana. Anche per Gesù si dice: è necessario che il Figlio dell’Uomo patisca…

Così il salmo 85, quando riprende, come a commento del brano della Sapienza, la lode di Dio compassionevole, pieno di amore, fedele e misericordioso, lo fa in un contesto preciso, che è il seguente: “Mio Dio, mi assalgono gli arroganti, una schiera di violenti attenta alla mia vita, non pongono te davanti ai loro occhi”. E continua: “Ma tu, Signore, Dio di pietà, compassionevole, lento all’ira e pieno di amore, Dio fedele, volgiti a me e abbi misericordia: dona al tuo servo la tua forza”. L’invocazione a Dio misericordioso nasce dal fatto che il giusto subisce l’azione dei malvagi e l’invocazione si traduce nella richiesta della ‘forza’, tipica di Dio, che è quella della ‘indulgenza, mitezza, pazienza…’.

La parabola indica la storia di Dio nel mondo. Il Signore vuol fare degli uomini i figli del Regno, ma insieme, di nascosto, è all'opera anche il Maligno che invece vuole renderli suoi figli. L'esito della contesa tra l'uno e l'altro è scontato: prevarrà il Regno di Dio. Il problema nasce dal fatto che, se il Regno di Dio è reale per noi e dentro di noi, non è ancora però manifesto, per cui l'uomo si sperimenta come un campo di tensioni contrapposte, che la venuta di Gesù rende ancora più evidenti. Possiamo allora commentare la parabola con rapidi flash:

- 'un nemico ha fatto questo', cioè il male non proviene dall'intimo dell'uomo. L'uomo non è fatto per il male, sebbene il male stia sempre con lui.

- 'mentre tutti dormivano', il male si diffonde per la mancanza di vigilanza, per non vegliare alle porte del cuore, sebbene sia inevitabile che il cuore si addormenti e sia toccato dal male. È questa 'inevitabilità' del male che rende inutile ogni lamentela, che rende inutile il condannarsi: meglio lottare e basta. Ogni forma di lamentela è una vittoria del maligno perché fa partecipi della stessa sua condanna.

- contrasto tra la pazienza del padrone e lo zelo dei servi. La pazienza del padrone è data dalla sicurezza della vittoria, mentre il falso zelo dei servi denuncia la ristrettezza delle vedute umane, l'impazienza dell'uomo che cede al potere della violenza, anche se camuffata da nobili ideali. Il rischio dell'uomo è appunto tra un'assunzione indebita di responsabilità (posizione rigorista) e un abbandono di responsabilità (posizione lassista), ambedue procedenti da una ipertrofia dell'io che tutto fagocita, anche se stessi, rendendoci nemici a noi stessi e incapaci di adorare il vero Dio.

È esattamente il contesto della parabola della zizzania. Dio non toglie di mezzo i malvagi perché sono oggetto della sua ‘pazienza’, perché i giusti possano rivelare ai malvagi la ‘forza’ di Dio che non rinuncia al suo amore perché l’uomo lo disattende e i giusti saranno tanto più giusti quanto più faranno risplendere questa potenza di amore paziente di Dio.

 

Ora, la ragione di tale ‘pazienza’ dei giusti è basata sulle altre due parabole, quella del granellino di senapa e del lievito, parabole che rispondono alla domanda: perché l’inizio del Regno è così insignificante? Dove si rivela l’evidenza del Regno?

La parabola del seme non insiste tanto sulla sua piccolezza, ma sulla potenza che possiede nonostante la sua piccolezza. Il paragone del seme vale anche per la fede: ‘aveste fede come un granellino di senape…’. Non da intendere: basta che abbiate almeno un pochino di fede. Piuttosto: aveste fede autentica, grande come un minutissimo seme di senape… Il paragone è basato sulla potenza che il seme racchiude. E quando questa potenza si dispiega cresce a dismisura e diventa un albero e tutti gli uccelli del cielo (intesi dalla tradizione: i popoli pagani, i pensieri malvagi, tutti i pensieri dell’uomo) vengono a nidificare sui suoi rami, cioè sono attratti e lì trovano riposo. Tale potenza appartiene al seme, non a noi: questo è il motivo profondo della fiducia del cuore rispetto al peso della vita, al peso dei malvagi nella vita.

La parabola del lievito mostra come l’evidenza del Regno non riguardi una cosa o l’altra. Del ‘regno’ non si può dire: eccolo qui, eccolo là. Riguarda l’insieme del mondo, della vita, dei rapporti, dell’agire e del sentire, dell’essere e del fare. Girolamo spiega come il lievito sia la conoscenza e la comprensione delle Scritture, la conoscenza del mistero del Figlio di Dio fatto uomo per noi, la gioia della scoperta del Figlio di Dio come tesoro e perla preziosa tanto da investire tutte le proprie energie in quel cammino di scoperta e da cedere ogni altro bene in vista di ottenere e di condividere con tutti quel tesoro. Saranno le parabole proclamate domenica prossima. Sempre secondo s. Girolamo, la potenza del lievito è quella di portare tutto all’unità: all’unità delle potenze dell’anima, all’unità di spirito/anima/corpo, all’unità della famiglia umana. È la tensione divina che attraversa la nostra storia, che per questo è sempre storia sacra.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo Ordinario

 

17a Domenica

(27 luglio 2008)

 

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1Re 3,5-12;  Sal 118;  Rm 8,28-30;  Mt 13,44-52

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La proclamazione del vangelo contiene le ultime tre parabole del Regno, a completare il quadro delineato nelle due domeniche precedenti. Consideriamo oggi in particolare quelle del tesoro nascosto in un campo e della perla preziosa. La colletta ci apre direttamente l'intelligenza: "O Padre, fonte di sapienza, che ci hai rivelato in Cristo il tesoro nascosto e la perla preziosa ...". Il tesoro e la perla sono il Cristo stesso. Le parabole rispondono alla domanda: potrà mai l'uomo aprirsi per davvero alla rivelazione del Regno di Dio se è necessario attraversare molte tribolazioni per accedervi? Potrà l'uomo portare il giogo del Regno dei cieli? Non c'è contraddizione tra il suo istinto alla felicità e l’asprezza dell'esigenza evangelica?

Non che il regno dei cieli siano paragonati a un tesoro o a un mercante. Il paragone si gioca sulla situazione che si è invitati a vivere, come a dire: il regno dei cieli è simile a ciò che succede quando si scopre un tesoro o quando un mercante trova una perla di gran valore. Il punto nevralgico per la comprensione è dato appunto dalla gioia della scoperta. Tutta l'azione successiva scaturisce dalla gioia prorompente della scoperta. Senza quella gioia non è possibile concepire nessuna azione significativa a livello dell'orientamento della propria vita, sebbene le parabole alludano anche ad altre dinamiche, più nascoste ma non meno vere.

Alla dinamica di ricerca, anzitutto. Non si scopre a caso. Ci deve essere, di fondo, una passione per ciò che è prezioso, una inquietudine che non ti lascia vaneggiare o istupidire. Non sono sufficienti, al cuore dell'uomo, le cose che arriva a possedere; ha bisogno di cogliere quello che dentro le cose vive e attira, quello che solo può colmare il suo desiderio.

Alla dinamica di compravendita. Ciò che è prezioso non sta insieme a ciò che è vile, ciò che è profondo a ciò che è superficiale, ciò che ha sostanza con ciò che ha solo apparenza. Perlomeno, insieme non possono stare tanto tempo e difatti viene il momento in cui ci si deve disfare di una cosa per comprare l'altra. È inevitabile.

Alla dinamica di rischio. Più grosso è l'affare, più alto il rischio. E quando il tesoro o la perla trovata sono incomparabilmente più preziosi di tutto quello che ci si sarebbe potuti immaginare di trovare, allora ci si disfa di tutto. Il tutto di cui ci si disfa è direttamente proporzionale alla preziosità del tesoro trovato. La molla che permette, anzi che spinge al rischio della compravendita è appunto la gioia, percepita così profonda e piena da cacciare ogni timore.

In queste parabole l'accento non è posto sul fatto che l'uomo è chiamato a lasciare tutto per il Regno dei cieli, ma che lascia tutto perché trasportato dalla gioia di una scoperta che gli riempie il cuore. D’altra parte, il Regno non si contrappone a nulla di per sé. Non è la perla più bella delle altre. È, più semplicemente ma più potentemente, la perla di ‘gran valore’; è il tesoro tra i beni e non un bene più prezioso degli altri beni. Saper cogliere questo è frutto di ‘sapienza’ e la colletta fa pregare: “concedi a noi il discernimento dello Spirito, perché sappiamo apprezzare fra le cose del mondo il valore inestimabile del tuo regno, pronti ad ogni rinunzia per l’acquisto del tuo dono”.

È il tema della prima lettura, dove il re Salomone chiede la sapienza del giudicare, con la conseguenza di avere insieme anche quello che non ha chiesto: regno, vittoria e stabilità. Chiedere sapienza per il cuore per ben discernere significa predisporsi a vivere la vita per il verso giusto, per il verso santo, per il verso beato. E la sapienza va impetrata dall'alto perché il tesoro e la perla di gran valore sono come nascosti; realmente si possono trovare, ma solo dentro una rivelazione che fa aprire gli occhi.

Ora, per quale via si accede alla sapienza del discernimento? Lo indica il canto al vangelo: “Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché ai piccoli hai rivelato i misteri del Regno” (cfr. Mt 11,25). Se colleghiamo questo versetto alla suggestione del serpente nel giardino: “Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male” (Gen 3,5) insieme all’ingiunzione di Dio ai progenitori: “Il Signore Dio disse allora: Ecco l' uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell' albero della vita, ne mangi e viva sempre!” (Gen 3,22), scopriamo che la sapienza che non porta alla vita non è degna dell’uomo. Conoscere il bene e il male significa conoscere le vie della vita. Ma chi può illudersi di conoscerle? Se l’uomo non si fa piccolo, non si dispone cioè alla confidenza nel suo Dio, come potrà godere dei segreti della vita per cui è fatto? Il dramma dell’uomo sta appunto nel volere la vita senza fidarsi del suo Dio che gliel’ha preparata. Chi non vede in Gesù la promessa di vita che si compie per l’uomo da parte di Dio, non sarà disposto ad accoglierlo e non vedrà il tesoro che costituisce per la sua umanità.

La stessa allusione, sebbene in termini assai più misteriosi, si cela nel versetto di ingresso ‘ai derelitti Dio fa abitare una casa’ (Sal 67, 6). Se nell’interpretazione ebraica i ‘derelitti’ sono coloro che aspettano di essere raccolti dal Messia, nell’interpretazione patristica sono ‘gli uomini di un solo intento’, gli uomini che vivono senza divisioni perché abitanti della casa di Dio, la chiesa. Loro sono i piccoli, quelli che hanno preferito i sentimenti di Dio ai propri, quelli per i quali la gioia della comunione con Dio e con i fratelli risulta essere di gran lunga preferibile a ogni altro desiderio perché si sono aperti ai segreti di Dio. La sapienza ha a che fare con quella gioia di condivisione dei sentimenti di Dio per l’uomo.

Un’ultima annotazione. La scena delle parabole è presentata come avvenisse in un momento determinato. Invece interessa tutto il corso della vita. Sempre troviamo 'averi' che occorrerà vendere per godere appieno del nostro tesoro dove far riposare il cuore in tutta pace. E sarà sempre la stessa dinamica in gioco: una nuova gioia ci farà accettare il rischio, fino a che tutto di noi risplenderà della luce di quel tesoro e via via scopriamo come il cuore si possa costantemente rinnovare e aprire alla rivelazione del suo Signore, mai sazio di Lui come mai sazio di vita e di amore.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo Ordinario

 

18a Domenica

(3 agosto 2008)

 

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Is 55,1-3;  sal 144;  Rm 8,33-39;  Mt 14,13-21

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Il filo rosso che attraversa tutta la liturgia odierna è suggerito dal canto al vangelo: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4). Con l’accentuazione che la parola di Dio che oggi viene celebrata è una parola ‘capace di moltiplicare il pane’. Il brano evangelico incastona l’episodio della moltiplicazione dei pani nel movimento di compassione di Dio per l’uomo: “e sentì compassione per loro”.

Dietro ogni parola di Gesù, dietro ogni gesto sta una ‘compassione’, immensa, che rimanda direttamente all’amore sconfinato di Dio per i suoi figli, per i quali non ha esitato a mandare il suo Figlio. Proprio come annotava Origene in un suo commento a Ezechiele: “Egli è disceso sulla terra mosso a pietà del genere umano, ha sofferto i nostri dolori prima ancora di patire la croce e degnarsi di assumere la nostra carne; se egli non avesse patito, non sarebbe venuto a trovarsi nella condizione della nostra vita di uomini. Prima ha patito, poi è disceso e si è mostrato. Qual è questa passione che per noi ha sofferto? È la passione dell’amore”. È a partire da quella passione che Gesù si ‘muove nelle viscere’ davanti allo smarrimento, alla sofferenza, alla fatica degli uomini. Ed è per aver percepito quella passione che san Paolo dirà con la convinzione dell’esperienza di una vita: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?...”.

Quando il profeta Isaia, sempre percependo quella passione di Dio per il suo popolo, riassumerà l’invito di Dio per gli uomini alla comunione con lui, dirà: “Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete”. Il desiderio di Dio e dell’uomo si richiamano. Come Dio invita l’uomo a venire a lui, così l’uomo grida a Dio perché venga a lui. Tutta la Scrittura è modulata sul grido del desiderio di Dio e dell’uomo perché tornino in comunione e tornino a godersi a vicenda. Dio dà la vita e l’uomo, che vi anela angosciosamente, da lui la può accogliere. L’ascoltare riguarda sempre l’ascoltare una ‘parola viva’ per avere la vita. L’ascoltare comporta così l’immagine corrispondente del mangiare perché allusivi di un’unica realtà: avere la vita. Il Signore sa saziare la fame dei suoi figli! Eppure, non risulta sempre evidente questa 'capacità' di Dio per noi tanto che ha bisogno di invitarci al suo banchetto, ha bisogno di sollecitarci a venire al suo banchetto. Le letture di oggi si intersecano per illustrare appunto il pressante invito di Dio. Si mangia per vivere. Ma che cosa fa vivere il cuore dell'uomo?

Risponde il salmo 144: “Paziente e misericordioso è il Signore, lento all’ira e ricco di grazia. Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature”. Nello stesso capitolo 55, Isaia riporta la parola di Dio: “i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” (v. 8). Il punto è esattamente questo. Quando Dio fa rilevare che il suo pensiero non è come il nostro vuol sottolineare che Lui è paziente e misericordioso con gli uomini, mentre gli uomini, con se stessi e con i loro simili, non lo sono; Lui è buono verso tutti, comunque, mentre gli uomini sono buoni ogni tanto e verso qualcuno piuttosto che verso altri. Se applichiamo la cosa al nostro cuore ne deriva che, se anche si ritrova cattivo, può sempre sperare nella bontà di Dio che non lo respinge; se anche si condanna, Dio può salvarlo, basta che abbandoni la sua iniquità. Tenendo conto di come sono fatti i nostri cuori, che si confondono con le loro azioni passate, proprie e altrui, incapaci di aprirsi al futuro come allo spazio di verità e di bene offerto loro da Dio, questa verità è estremamente consolante, è vivificante per i cuori. Proprio come dice s. Giovanni nella sua lettera: “Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (1Gv 3,20).

La parola di Gesù agli apostoli:  “date voi loro da mangiare”, è interpretata dalla tradizione nel senso che viene affidato loro il compito di spiegare le Scritture come un pane spezzato per nutrire l'intelligenza dei fedeli. Solo il pane distribuito è un pane moltiplicato. E l'intelligenza dei fedeli resta nutrita appena il cuore si apre a questa rivelazione: i pensieri di Dio sono diversi dai nostri, il suo amore ci raggiunge comunque, il suo perdono, cioè la comunione con Lui, ci è sempre offerto. Questo è il banchetto a cui siamo invitati. Non per nulla tutto il brano evangelico ha una forte coloritura eucaristica. I verbi che introducono il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci sono i verbi tipici della celebrazione eucaristica: prese i pani, li benedisse, li spezzò, li diede. E l'Eucaristia costituisce il momento culminante dell'offerta di comunione da parte del Signore all'uomo tanto da renderlo un tutt'uno con Sé. È questa comunione che sazia il cuore dell'uomo.

Ma - e trattandosi dei doni di Dio non può mancare questo ma - se il miracolo avviene nella sua materialità, vale a dire rivela la capacità di Gesù di compierlo, l'effetto non è ancora quello sperato da Gesù. La gente non interpreta secondo i pensieri di Dio, ma secondo i propri. E Gesù, dopo il miracolo, si ritrova solo. La gente non ha colto l'invito di Gesù alla comunione con Dio; ha sì mangiato il suo pane, ma non ne ha gustato la sostanza, non se ne è potuta impossessare della potenza che racchiudeva e non ne ha colto il mistero di vita.

Quando allora tale mistero diventa accessibile? Lo riferisce s. Paolo: “Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?” Quando nulla più ci separa dall'amore di Cristo che ci ha rigenerati nel perdono, quando non permettiamo a nulla, nemmeno ai nostri ‘nobili’ sensi di colpa, di sopraffare il nostro cuore al di sopra dell'amore del nostro amato Signore. Non solo le cose negative non ci separano più da Cristo, ma nemmeno quelle positive, che il cuore umano può desiderare e ricercare con passione.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo Ordinario

 

19a Domenica

(10 agosto 2008)

 

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1Re 19,9-13;  sal 84;  Rm 9,1-5;  Mt 14,22-33

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Le parole della Scrittura vanno colte nella stessa intensità drammatica con cui sono state vissute. Il brano evangelico di oggi è narrato in Matteo, Marco e Giovanni, ognuno apportandovi dettagli estremamente rivelatori. Gesù aveva appena operato il miracolo della moltiplicazione dei pani, che aveva scatenato l’immaginario messianico della gente. Gesù però accetterà di essere proclamato re solamente durante la passione, davanti a Ponzio Pilato e sulla croce. Deve quindi rifiutare il delirio della gente e si premura di salvaguardare i discepoli. Congeda la folla e si ritira sul monte, a pregare. Non è usuale una annotazione del genere nel vangelo di Matteo, mentre Luca accenna più volte alla preghiera di Gesù e sempre in circostanze particolarmente significative (al battesimo, Lc 3,21; alla chiamata degli apostoli, Lc 6,12; alla trasfigurazione, Lc 9,28). Il fatto che Gesù si predisponga con la preghiera a determinate azioni sottolinea il valore di rivelazione di quelle azioni. Tanto più che altri particolari qui indicano l’intensità e la finalità. Si trova solo, sul monte, in attesa di ricongiungersi con i discepoli, ma camminando sul mare, come a rivelare qualcosa del suo mistero a loro e a noi. Ad esempio, Matteo non dice che i discepoli faticavano ai remi per il vento contrario; parla della barca agitata dalle onde, della barca in cui Pietro e i discepoli fanno la loro confessione di fede, della barca che, una volta accolto a bordo Gesù, non ha più il vento contrario. Tutti particolari che danno all’episodio una forte valenza simbolica: la barca è la Chiesa, che con la presenza del suo Signore non teme alcuna traversata, alcun vento contrario.

Non solo, ma l’intervento di Pietro e dei discepoli è collocato dentro una linea di sviluppo della loro fede in Gesù che si fa via via più coinvolgente e totale. L’evangelista aveva notato come i discepoli, al miracolo della tempesta sedata, siano rimasti colmi di stupore; qui, riconoscono Gesù come Figlio di Dio; poi riconosceranno Gesù il loro Signore. Pietro, in particolare, attira l’attenzione dell’evangelista Matteo. Pietro è affascinato dalla figura di Gesù, vuole seguirlo, ma stenta ad accettare la rivelazione di Dio. Cammina anche lui sulle acque, ma ha paura e affonda. Nell’ultima cena non vuole essere lavato, al Gethsemani estrae la spada, segue Gesù nella sua cattura, ma per paura lo rinnega. Tuttavia, sempre ritorna a Gesù, vuole seguire Gesù, piange il suo tradimento e finalmente il Maestro lo rassicura sulla sua fedeltà a Lui, ormai conquistato alla fede in Lui e al suo amore fino a dare la vita per Lui.

La preghiera di Gesù sul monte ha a che fare appunto con la rivelazione del disegno di Dio, con la rivelazione della sua persona e dell’amore salvatore di Dio, rivelazione che ha bisogno di tempi e spazi per conquistare i cuori, cosa che il Signore sa benissimo e che con fantasia persegue pazientemente. Così, quando Gesù viene incontro ai discepoli camminando sulle acque – Marco annota che Gesù fa come finta di passare oltre – il gesto è collocato dentro una successione di rivelazioni che costellano tutto il percorso della Scrittura al fine di conquistare al suo mistero i discepoli.

Qui ci soccorre il parallelo della prima lettura, il racconto della rivelazione di Dio al profeta Elia sull’Oreb, in un contesto altamente drammatico. Come per Mosè, così per Elia, il Signore è il ‘Dio che passa’, e per Elia il Dio che passa dentro ‘il fruscìo di un silenzio leggero’, come letteralmente si dovrebbe tradurre il passo. Anche Mosè e Elia si trovano sul monte, in preghiera. La preghiera ha sempre a che vedere con la rivelazione del volto di Dio e la rivelazione del volto di Dio ha sempre a che vedere con la missione ai propri fratelli, in quanto, se Dio si rivela, si rivela solo come amante e salvatore degli uomini. In effetti, la voce che viene rivolta al profeta: “Che fai qui, Elia?” precede e segue la manifestazione di Dio. Nulla è detto di quanto avviene tra il profeta e il suo Signore nel momento misterioso della manifestazione. Quello che sappiamo è che Dio rimanda il profeta sui suoi passi, tra i suoi fratelli, a continuare l’opera di cui lui, forse presuntuosamente, si era immaginato essere l’unico testimone credibile.

La denominazione del ‘Dio che passa’, come Gesù fa mostra di assumere, rivela il fatto che Dio può essere conosciuto solo stando dietro, solo seguendolo, solo camminando dietro a Lui, solo osservando la sua parola. Ed è quello che fa la Chiesa nel mondo: seguire Cristo, che rivela al mondo lo splendore dell’amore di Dio. E sarà solo seguendo Gesù che l’amore agli uomini comporterà lo splendore della presenza di Dio in questo mondo.

Noi tutti siamo invitati a identificarci con Pietro, con le sue generosità e debolezze. Ci si può appoggiare sul Cristo più e meglio che su qualsiasi realtà fluida di questo mondo. È nella fiducia di quel ‘se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque’ che si intraprende il cammino spirituale di una vita. Ma c'è da vincere la paura che agita, paralizza, chiude, affonda. E allora non si parla più semplicemente, come se si trattasse di una provocazione, di una sfida, di una competizione; si comincia a gridare: è il tono della preghiera quando è sincera. Non c'è più ombra di sfida, di pretesa, di vanità. È il momento della verità ed invece di affondare, sentiamo una mano tesa che ci sottrae ai gorghi. Quante stupide pretese ci condannano a restare nei gorghi! Ed è allora che capiremo qualcosa di più di quel Signore che abbiamo accolto venirci incontro e sentiremo il suo nome che si rivela al nostro cuore : “il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira, ricco di grazia e di fedeltà ...” (Es 34,6).

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Solennità e feste

 

Assunzione della Beata Vergine Maria

 (15 agosto 2008)

 

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Ap 12,1-10;  Sal 44;  1Cor 15,20-26;  Lc 1,39-56

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In un inno anonimo del VII secolo, la prima esclamazione degli angeli nei riguardi della Vergine suona: “Ave, nutrimento della gioia degli uomini”, mentre gli antichi testi agiografici parlano della Vergine in rapporto ai fedeli come della Regina, della Madre del Signore, della loro sorella. La liturgia bizantina sottolinea il parallelo tra il parto verginale e l’assunzione gloriosa in questi termini: “Nel parto, hai conservato la verginità, con la tua dormizione non hai abbandonato il mondo, o Madre-di-Dio. Sei passata alla vita, tu che sei Madre della vita e con la tua intercessione riscatti dalla morte le anime nostre”.

La festa di oggi modula la devozione alla Vergine su due registri: la gioia come radice di speranza per l’umanità e la sua intercessione universale. Nella sua lettera ai Corinzi Paolo ricorda il dato della fede nella risurrezione. E tratteggia tutto il corso della storia fino alla fine del mondo nel senso di una rivelazione progressiva, anche se misteriosa e drammatica, della signoria di Cristo che prevarrà su tutto. Noi siamo nel tempo della sottomissione a Cristo di tutti i nemici di Dio, morte compresa. Il regno di Cristo coincide con la riduzione a nulla di ogni potere della morte. La cosa va vista nel suo succedersi temporale in ciascuno di noi oltre che nella storia. Tutta l’ascesi e la lotta interiore non sono altro che l’espressione di questo potere di Cristo che riduce a nulla il potere della morte che ci assilla e ci impasta. E man mano che questo potere di Cristo prevale, la vita sgorga fluente e incontenibile.

Ora, nella Vergine Maria, tutto questo non è più in fieri, non ha più spazi o dinamiche da conquistare. È compiuto. E siccome è compiuto, può essere consegnata a Dio Padre, fulgida di tutto lo splendore che la salvezza operata da Dio comporta. Il disegno di Dio in tutto il suo amore per l’uomo, dalla creazione alla glorificazione finale nel suo Regno, solo questa nostra sorella, la Vergine, l’ha potuto godere compiutamente. Oggi, festa dell’assunzione, ella lo sa e può dichiarare: ora so per esperienza tutto l’amore che Dio ha portato all’umanità, che ha portato a me perché sia vivibile da tutti e quindi posso glorificarlo compiutamente. E proprio perché la sua lode per Dio è piena, allora anche l’esultanza del suo cuore è piena e la sua intercessione potente. Quando i credenti guardano alla Vergine gloriosa, assunta in cielo, non possono non considerarla, come canta il prefazio: “primizia e immagine della Chiesa … un segno di consolazione e di sicura speranza”. In lei possono magnificare l’amore di Dio per l’uomo, la grandezza della salvezza operata da Dio che anche in noi si dispiegherà a suo tempo, come in lei, che per noi intercede. E a lei rivolti, fiduciosi possiamo pregarla, come le antiche comunità cristiane: “Sotto la tua protezione troviamo rifugio, santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta”.

Da dove deriva alla Vergine tutta la sua gloria? L’elogio alla madre da parte della donna che ascoltava affascinata Gesù: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!” è trasformato da Gesù nell’elogio ai discepoli: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!” (Lc 11,27-28). Gesù sembra spostare l’attenzione sui discepoli, ma in realtà definisce esattamente in che cosa consiste la beatitudine di sua madre. Come i Padri sottolineano spesso: prima di essere madre fisicamente di Gesù, Maria lo è spiritualmente, perché il suo cuore ascolta e osserva la Parola, l’ha sempre ascoltata e osservata. Se però colleghiamo il commento di Gesù all’espressione pronunciata da Elisabetta nel saluto alla Vergine: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”, ci viene svelato un altro aspetto fondamentale. Ascoltare e osservare la Parola non è semplicemente un mettere in pratica quello che Dio dice. È assai di più. Significa permettere alla promessa di Dio racchiusa nella sua parola di compiersi, di rivelarsi finalmente al cuore e al mondo. Significa acconsentire al desiderio di Dio di compiersi, significa fare in modo che il desiderio che Dio ha di incontrare l’uomo finalmente trovi compimento. Ora, da dove deriva la vita all’uomo se non da un incontro d’amore? Sia in senso fisico, un figlio, sia nel senso di procurare vitalità, gioia di vivere, visione di speranza, forza ed energia. Più questo consenso da parte dell’uomo è totale, più la vita che deriva da Dio è fluente e incontenibile. Vince la morte. Per sempre.

In quel “ha creduto” è indicata tutta la disponibilità della Vergine all’azione di Dio (“Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”) dove il proprio essere è vissuto come risposta al desiderio di Dio, come spazio di compimento all’agire di Dio. Nell’“adempimento” è adombrata la generazione del Verbo che in lei prende forma. Accogliere il Verbo nella propria umanità significa ritrovarsi nel mistero di Dio Trinità, che è amore comunicato; significa far risplendere l’amore di Dio nel mondo e compiere la propria umanità permettendole di far trasparire la divina Presenza. La grazia di questa ‘maternità’ spirituale è estesa a tutti i credenti: tutti possono ereditare la beatitudine che deriva dall’ascoltare e osservare la Parola. Nella dinamica dell’obbedienza della fede, l’ascolto della Parola equivale alla fin fine ad accogliere e generare in noi il Verbo, di cui risplendono tutte le parole della Scrittura.

Ora, la vera meraviglia di Dio per gli uomini è proprio il dono del Figlio, che di quell’umanità che ci costituisce svela i confini e le sorgenti divine. Chi, più della Vergine, ha goduto tutta la potenza di splendore di questo dono per l’umanità? Così l’intercessione della Vergine va nella direzione dell’invocazione della preghiera ‘sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra’, interpretata ‘si compia il tuo amore finché la terra diventi tutta cielo’: nulla rimanga inaccessibile all’amore di Dio che si dispiega potente. Lei, la serva del Signore, terra come noi, ma totalmente disponibile all’agire di Dio, è diventata tutta cielo. Intercede perché anche la nostra umanità, in ciascuno e in tutti, si allarghi agli spazi e alle profondità della sua stessa umanità, nella comunione con il suo Dio.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo Ordinario

 

20a Domenica

(17 agosto 2008)

 

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Is 56,1-7;  sal 66;  Rm 11,13-15.29-32;  Mt 15,21-28

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Il tema della liturgia di oggi è l'ingresso dei pagani nell'alleanza del Signore: a tutti si rivolge la salvezza operata dal Signore. Come l’annuncia il profeta Isaia: “... il mio tempio si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli”. Il capitolo 56 inizia la terza parte del libro di Isaia. Siamo a Gerusalemme, pochi decenni dopo la tragedia dell’esilio, in attesa che la promessa di liberazione si compia. La visione del profeta non riguarda però semplicemente la liberazione dall’esilio, ma la valenza profetica di quella liberazione: sarà estesa a tutti i popoli; tutti, pagani ed eunuchi (categoria di persone che erano escluse dal culto in Israele), tutti potranno godere della misericordia di Dio, tanto che il Dio di Israele non sarà più indicato come il Dio che trasse Israele dall’Egitto, come il Dio che liberò Israele dall’esilio, ma come il Dio che raduna il suo popolo ‘da tutte le nazioni’.

A dire il vero, siamo abituati a considerare l’universalità della salvezza del Signore nella sua dimensione storica: da una persona a tutto un popolo (Abramo e Israele), da un popolo a tutti i popoli (Israele e le genti). Comporta però anche una dimensione personale. Il che significa: se io ho accolto l’alleanza del Signore, non tutto di me l’ha accolta; se io ho accolto la buona novella, non tutto di me è stato evangelizzato e poco a poco l’insieme di me deve poter godere dei beni di questa alleanza. Se le mie qualità e virtù mi riportano al Signore, anche i miei difetti e peccati devono potermi riportare a Lui. Se un pensiero buono mi svela qualcosa del mio Signore, mi introduce nella sua intimità, anche un pensiero cattivo cela qualcosa da scoprire per il mio cuore in rapporto al Signore, così un mio peccato, una mia debolezza. “Tutti i confini della terra” del salmo 66 alludono proprio alla totalità degli aspetti che ci compongono e ci strutturano: tutti appartengono al Signore, tutti sono destinati a essere riportati al Signore.

Il brano del vangelo lo mostra splendidamente. I pagani sarebbero entrati nell’Alleanza non con la predicazione o i miracoli, ma attraverso la morte redentrice di Gesù. L’ora però non era ancora giunta e Gesù respinge sulle prime la richiesta della donna cananea. Era ancora il tempo riservato alle pecore perdute della casa di Israele. Ma allora perché Gesù cede all’insistenza della donna, come se lui fosse costretto ad accelerare, ad anticipare la sua ora? Era già successo con la richiesta del centurione (cfr. Mt 8) che Gesù aveva esaudito. Ma qui Gesù sembra alzare il prezzo, sembra voler accentuare una distanza, una inopportunità che tende a suonare ai nostri occhi, oltre che sgradevole, dura e irrispettosa. Non è però stato così per la donna cananea che non recede, non si fa intimidire, ha la risposta pronta, nella quale Gesù vede la fede del suo cuore a cui non resiste. Addirittura, si potrebbe pensare che la fede della cananea faccia presagire alla coscienza di Gesù l’orizzonte universale della salvezza che solamente più tardi si farà evidente. La donna, da pagana, sa che può contare sulla generosità di Dio, sebbene sia perfettamente cosciente di non poter avanzare alcun titolo di pretesa. Non solo, ma sa che nel banchetto messianico il pane sarà sovrabbondante, tanto che lei si può accontentare delle briciole, sebbene Gesù alla fine le dà proprio il pane dei figli. Va notato che nel racconto precedente della moltiplicazione dei pani per gli isareliti, gli apostoli passano a raccogliere gli avanzi. Ma il racconto successivo dell’altra moltiplicazione dei pani sarà per i pagani, anche se in terra di Israele.

La particolarità dell'atteggiamento della cananea sta in quel grido ‘Signore figlio di Davide’ dove compare tutto lo stridore della distanza tra lei, pagana e quel profeta, ebreo. Non minimizza la distanza, la sottolinea, la rimarca e quando Gesù le rinfaccia che non si dà il pane ai cagnolini (i pagani erano chiamati 'cani' dai giudei), non si lamenta e non si ritrae sdegnata del paragone, sviluppa anzi il paragone a suo favore. Riconosce che non ha diritto a quel pane, ma che per la sua sovrabbondanza alcune briciole possono cadere anche per lei. Grande era la sua fiducia in quel profeta e nello stesso tempo era priva di qualsiasi pretesa.

La fede della cananea proveniva poi dall’urgenza del suo bisogno. Non vedeva altri rimedi, troppo era l’amore per sua figlia e allora perché non rivolgersi a quel ‘profeta’ di cui sentiva dire cose meravigliose, sebbene non possedesse alcun titolo per trovare soddisfazione?

L’aspetto misterioso che va colto è il fatto che fiducia e indegnità vanno di pari passo, mentre normalmente, nelle dinamiche interiori che possiamo osservare, tendiamo a separarle. Invece l’una è custode dell’altra, l’una dice la sincerità dell’altra. Davanti al Signore il nostro cuore è come la donna cananea. È vero, noi siamo nella grazia, abbiamo già incontrato il Signore, ma tutto di noi non è ancora nella luce del suo vangelo. Per molti aspetti siamo cananei, pagani. E possiamo trovare accesso al Signore, Salvatore nostro, solo come la donna cananea, dove la fiducia nella potenza di Gesù sta in stretta compagnia con la coscienza della sua indegnità e l’urgenza del bisogno di guarigione e di vita. L’insincerità del nostro cuore, quello che indebolisce la nostra fede e l’annacqua è la pretesa di trovar soddisfazione comunque. È la debolezza dell’israelita ‘fariseo’ che crede di avere la vita perché Dio gliela deve. In questo modo non scoprirà nulla ed il miracolo non avverrà. Ci si avvicina a Dio quando più si ha coscienza di essere peccatori e meno scusanti si adducono ai nostri guai. Quando finiremo di giustificarci accusando gli altri, gli eventi, il mondo, allora saremo sinceri davanti a Dio e scopriremo che Dio non potrà resistere al nostro grido perché indegnità e fiducia accelereranno la sua manifestazione di grazia al nostro cuore.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo Ordinario

 

21a Domenica

(24 agosto 2008)

 

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Is 22,19-23;  sal 137;  Rm 11,33-36;  Mt 16,13-20

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I brani evangelici di oggi e di domenica prossima andrebbero letti insieme. Siamo a Cesarea di Filippo, la città costruita da Erode Filippo presso le sorgenti del Giordano, in una zona rocciosa, alle pendici del monte Hermon. Gesù, come annota l’evangelista Luca, ha appena terminato la sua preghiera, segno evidente dell’imminenza di una rivelazione. Gesù intende manifestare ai discepoli qualcosa del mistero della sua persona.

Quando i discepoli rispondono a nome della gente alludono alla grande attesa che abita i cuori: verrà il messia e ci libererà. Non era importante definire la persona del messia, era sufficiente che fosse definito il ruolo del messia. La gente si ferma qui. Ma a Gesù preme altro e insiste con i discepoli: “Voi chi dite che io sia?”. La risposta di Pietro fa un passo avanti rispetto alla gente; cerca di cogliere la persona del messia senza fermarsi semplicemente al ruolo: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Nella sua professione di fede c’è la confessione di Gesù come l’Eletto, l’Unico, il Figlio Unico, l’Unigenito, nella sua unicità di relazione con Dio; ma anche nella sua unicità di relazione con gli uomini, per i quali è l’Inviato, il Figlio prediletto che rivela l’amore del Padre, l’Unico che può rivelare il vero volto di Dio, di quel Dio che è definito ‘Vivente’, cioè il vero Dio dell’alleanza e che quindi compie tutte le promesse di Dio per l’uomo e tutti i desideri dell’uomo. Tutto questo esprime la sua confessione di fede ed è per questo che Gesù lo proclama beato in quanto quella percezione non può derivare dalla carne e dal sangue, dalla sua esperienza umana, ma deriva dall’iniziativa stessa di Dio che al suo cuore si è mostrato.

La beatitudine richiama la benedizione proferita in precedenza da Gesù per i discepoli: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te” (Mt 11,25-26). È la benedizione/beatitudine per i ‘piccoli’, per coloro che stanno aperti al pensiero e all’azione di Dio in tutta confidenza, capaci perciò di ricevere senza filtri l’atto di rivelazione di Dio. Ma - il solito ‘ma’ che tanto valore ha nelle cose di Dio - questa rivelazione, che pure è veritiera, vivida, coinvolgente, non ha ancora plasmato la carne e il sangue. In effetti, appena Gesù rivela a fondo il suo mistero, che cioè dovrà soffrire e morire, Pietro si rifiuta di accoglierlo, segno nello stesso tempo del suo amore e del suo essere semplicemente ancora carne e sangue e segno anche della sua paura, paura che nel pericolo della sua vita lo porterà a rinnegare il suo Maestro. Ma quando la paura sarà tolta, quando l’amore del Signore lo farà testimone in mezzo ai suoi fratelli nel senso che l’amore per loro deriverà principalmente dal partecipare all’amore del suo Maestro, allora sarà capace anche lui di dare la vita. La rivelazione avrà plasmato completamente il suo essere carne e sangue. Questo tragitto è il tragitto di ogni discepolo del Signore: dall’essere carne e sangue, giungere alla rivelazione fin tanto che questa avrà plasmato tutto il proprio essere carne e sangue. Dove è in gioco la nostra vita, a qualsiasi livello si intenda, finiamo sempre per riscegliere noi stessi, rifiutando il Signore fino a rinnegarlo, per poi pentirci, piangere, vederlo, sentirci amati, seguirlo finalmente e poter dare la vita per lui.

Gesù fa una promessa a Pietro: “E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa”. Pietro è la traduzione greca del nome aramaico Kepha (roccia). Nell’ambiente di allora non veniva usato come nome proprio di persona. L’attribuzione a Simone, figlio di Giovanni, del nome ‘Kepha’, ‘Roccia’, Pietro, indica il fondamento sul quale si regge la fede: la persona del Figlio del Dio vivente, sul quale l’apostolo e tutti i discepoli con lui possono giocare la loro vita, perché Dio non viene meno alla sua alleanza con gli uomini e perché Gesù costituisce il sigillo ultimativo e definitivo della volontà di salvezza di Dio per l’uomo. Dio in effetti è la Roccia, colui che non viene mai meno, che non manca di adempiere le sue promesse, che è sufficientemente potente per adempierle; se l’uomo lo accoglie, lo riconosce, ne avverte il Bene e gli fa spazio, partecipa anche lui di quella ‘saldezza di fondamento’ e può gustarne la dolcezza incorruttibile.

Il potere delle chiavi, nel giudaismo, si riferisce all’esercizio di un’autorità fondata sull’interpretazione della Legge. Qui invece si riferisce al potere della confessione di fede nel Signore Gesù che apre al perdono dei peccati e dà l’accesso al regno di Dio. È il mistero della ‘conversione’ che ci ottiene la riconciliazione con Dio, nel Signore Gesù, garantita dalla chiesa. Come se la chiesa ci ripetesse sempre: il regno dei cieli è davanti a voi; Colui che Dio ha designato per mostrarvelo, per aprirvelo, per introdurvici, è qui davanti a voi. Lo potete toccare, è finalmente alla vostra portata. Del resto, è esattamente la stessa testimonianza dei discepoli, come riporta Giovanni: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo” (1Gv 1,1-3). In quell’annunzio, efficace, con l’esperienza di vita alla quale apre, c’è tutto il potere delle chiavi della chiesa.

Niente e nessuno può rapirci al Signore: questo significa che le porte degli inferi non prevarranno contro la chiesa. Se siamo suoi, di lui che è il più forte, allora nessuno può rapirci; se prendiamo la vita da lui, che è il Vivente, Colui sul quale la morte non ha più potere, allora la vita che ci attraversa non cederà davanti a nulla perché non è più soggetta alla morte. Quella promessa è da raccordare con l’altra, alla fine del vangelo: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”, parole con cui si chiude il vangelo di Matteo (Mt 28,20). E nelle parole di Gesù è adombrata la promessa che non mancheranno mai uomini e donne che faranno risplendere in mezzo a noi quella Presenza.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo Ordinario

 

22a Domenica

(31 agosto 2008)

 

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Ger 20,7-9;  Sal 62;  Rm 12,1-2;  Mt 16,21-27

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Il brano di vangelo di oggi, unito a quello della domenica precedente, costituisce un punto nevralgico del racconto evangelico: rivela la direzione della vita. Gesù svela il suo mistero e insieme quello dei discepoli. La rivelazione della ‘necessità’ della passione di Gesù, insieme al destino dei discepoli invitati a portare la loro croce, avviene dopo la proclamazione della beatitudine a Pietro: “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli”, eco dell’altra: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te” (Mt 11,25-26). Ma Pietro, come i discepoli tutti, non sa ancora cosa comporta la sua confessione di fede. Quando Gesù si rivela come il Messia che dovrà molto soffrire indica la direzione nella quale si può vivere la beatitudine. Ed è per questo che Gesù subito dopo parla ai discepoli che lo vogliono seguire di ‘rinnegamento di sé’ e di ‘portare la croce’. Ma cosa intende in pratica?

Guardiamo a Pietro. È proclamato beato perché ‘piccolo’, cioè nella disposizione di accogliere e non di suggerire; è chiamato ‘satana’ perché si fa grande: vuole suggerire, vuole stare davanti, vuole condurre. E Gesù lo rimprovera: “Va’ dietro a me”, eco dell’invito di Dio all’uomo in tutte le Scritture a seguirlo, ad ascoltarlo [Dio dice a Mosè: “Vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere” (Es 33,23)]. Prima è chiamato pietra di fondazione, poi pietra di scandalo, perché non esiste altro fondamento se non Gesù (cfr. 1Cor 3,11; 1Pt 2).

Quando Gesù spiega ai discepoli che lui ‘dovrà’ molto soffrire, che ‘è necessario’ che soffra molto, non intende illustrare nessuna ragione misteriosa, ma più semplicemente e più direttamente intende implicarli nella rivelazione dell’amore di Dio per l’uomo, intende collocarli nella verità di un’esperienza di amore che viene dall’alto. Per Gesù, che parla secondo la lingua delle Scritture, si tratta di reinterpretare tutte le Scritture in modo globale, si tratta di realizzarle nella loro tensione di rivelazione dell’amore salvatore di Dio per l’uomo in ragione di quel sigillo ultimativo che lui costituisce quanto all’azione di Dio nel mondo. Sarà sulla croce che l’amore di Dio per l’uomo risplenderà in tutto il suo splendore, tanta è la solidarietà con Dio e con l’uomo che Gesù vive e di cui tutti possiamo ricevere la grazia. Non per nulla, il racconto continua con la scena della trasfigurazione con l’apparizione accanto a Gesù di Mosè ed Elia, cioè della Legge e dei Profeti, di cui lui costituisce il compimento. È da dentro questo ‘compimento’ che parla ai discepoli e dice loro che se vogliono gustare la stessa esperienza di amore solidale con Dio e con l’uomo dovranno rinnegare se stessi e prendere la croce. Da parte nostra, la resistenza ad accogliere la portata rivelativa di quel ‘è necessario’, detto da Gesù e aperto ad essere condiviso dai suoi discepoli, indica tutta la distanza tra il sogno di un amore e la concretezza nel viverlo.

Il rinnegamento di se stessi è la rinuncia ad avere qualcosa da difendere (da notare che il verbo è il medesimo che userà l’evangelista quando riferirà del tradimento di Pietro il quale ‘rinnega’ Gesù perché vuole difendere se stesso). Ma la difesa porta sempre sulla nostra vita che temiamo venga oppressa o soppressa dagli altri; porta sempre a un io che si arrocca nei suoi confini per paura, a un io che non si fida della grandezza che gli è offerta da Dio. Il portare la croce, con il vissuto emotivo di vergogna e disprezzo che l’immagine comporta, indica la direzione che assume il rinnegamento, vale a dire: non ci si fa grandi schiacciando gli altri o rendendo gli altri piccoli, ma tenendoli sempre così grandi e degni di onore che posso essere calpestato per non venir meno a quel rispetto. Forse, per la nostra sensibilità, l’immagine più adeguata di quanto vogliono dire le parole di Gesù, è quella del Maestro che si cinge con l’asciugamano e si china a lavare i piedi ai discepoli nell’ultima cena, segno di un’umanità tutta ‘dono per’, di un mistero di solidarietà in umanità dai confini divini (anche là Pietro rifiuta e acconsente solo con la promessa di non essere escluso dalla gioia del suo Maestro). In effetti, solo così si scopre la grandezza secondo Dio, che è la grandezza dell’amore, condivisione dell’esperienza dell’amore di Gesù per noi.

L’anelito del salmo lo esprime a meraviglia: ‘il tuo amore vale più della vita’ e ‘a te si stringe l’anima mia’. A questo alludono le parole di Gesù sul rinnegamento, sul portare la croce. Non è la vita il valore supremo, tanto meno la mia vita, ma l’amore di Qualcuno che attraversa la mia vita e rende la vita degna di essere donata, condivisa, perché la vita possa risplendere in me e in tutti. È quanto mai ‘realistica’ l’affermazione di Gesù: “Chi vuol salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà”. La dinamica del perdere/trovare è essenziale alla vita. La vita che si vuole difendere risulta vuota, fasulla, mentre la vita vera, quella desiderabile e che la fa desiderabile, è soltanto quella ‘donata’, cioè trovata. Dire ‘trovata’ significa alludere a quella gioia della scoperta che rende capaci di lasciare tutto il resto, di vendere tutto, come le parabole del tesoro nascosto in un campo e della perla preziosa rivelano.

Se torniamo ora alla reazione di Pietro, possiamo scorgervi la nostra stessa contraddizione. Per esprimerla con le parole della liturgia di oggi: è vero che nel profondo del cuore diciamo “tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne” (Sal 62) ma è vero anche che, nel concreto delle situazioni e nel nostro animo, preferiamo i nostri pensieri ai pensieri di Dio. Lo esperimenta anche il profeta Geremia in tutta drammaticità: “Mi hai sedotto Signore, e io mi sono lasciato sedurre”, ma davanti alla fatica di star fedeli alla parola del Signore si dice in cuor suo “Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome”. A differenza però del profeta Geremia il quale continua dicendo: “Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo”, noi fin troppo bene riusciamo a 'contenere' quel fuoco, lo mortifichiamo, lo spegniamo e non riusciamo a volte nemmeno più a sentirne la presenza. Ed è per questo che non riusciamo a liberarci dal bisogno di difenderci, impedendoci però di ‘godere’ la vita e impedendolo a tutti.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo Ordinario

 

23a Domenica

(7 settembre 2008)

 

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Ez 33,7-9;  Sal 94;  Rm 13,8-10;  Mt 18,15-20

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Possiamo entrare nella liturgia di oggi dall’affermazione di Paolo: “pienezza della Legge infatti è la carità”, ripresa dell’affermazione precedente: “chi ama l’altro ha adempiuto la Legge”. Dire ‘compimento’, ‘pienezza’, significa alludere non alla punta di una virtù umana, costituita dall’osservanza della legge, ma all’ispirazione divina, alla potenza divina che opera in noi nell’obbedienza alla legge allargando i confini della nostra umanità sulla misura divina che in Gesù diventa accessibile. Paolo dice appunto: ‘chi ama l’altro’, dove altro sta per straniero e non semplicemente ‘chi ama il prossimo’ per allargare l’impostazione della legge che esigeva l’amore del prossimo entro l’appartenenza ad uno stesso popolo (“Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso”, Lev 19,18) e compierne l’anelito di fondo che riguardava la condivisione dei sentimenti di Dio per l’umanità (“Ora, Israele, che cosa ti chiede il Signore tuo Dio, se non che tu tema il Signore tuo Dio, che tu cammini per tutte le sue vie, che tu l' ami e serva il Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l' anima...”, Dt 10,12).

Paolo parla di carità come dell’unico debito da vivere verso gli uomini perché, assolto ogni altro debito di lealtà, di onestà, di onore, sia a livello sociale che personale, verso tutti, resta pur sempre nei loro confronti un debito che non potrà mai essere assolto completamente, il debito appunto della carità. Ma quel debito è percepito tale se la carità riguarda la condivisione del segreto di Dio che vuole gli uomini suoi figli alla sua tavola. Finché qualcuno non gode di quella tavola, finché qualcuno resta escluso, la carità non può darsi pace e farà di tutto perché quel desiderio di Dio, accolto nel profondo del nostro cuore, possa compiersi. È il mistero della riconciliazione, l’amore perdonante e condiviso, in atto nella storia, vera energia di umanità rinnovata.

Il canto al vangelo lo proclama solenne: “Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo, affidando a noi la parola della riconciliazione” (cfr. 2Cor 5,19). Se Dio affida all’uomo il ministero della riconciliazione, vuol dire che ritiene l’uomo suo compagno. Con la rivelazione di Gesù, che svela, mentre compie, questo supremo desiderio di Dio, possiamo scorgere all'opera nel mondo le segrete intenzioni di Dio nei confronti delle sue creature. Noi tutti siamo appunto chiamati a concorrere alla realizzazione di questa 'opera'. In questo senso dobbiamo imparare a giudicare ogni cosa in base alla convergenza verso questo supremo scopo divino. Imparare a diventare coscienti di questa realtà significa passare dal livello psicologico a quello spirituale, diventare compagni di Dio. Per questo ci è affidata la parola della riconciliazione. Non però la parola da dire, ma la parola come fondamento dell’essere, come le ragioni che convincono il cuore della realtà di quella pace ottenuta da Dio che, per sua stessa dinamica interna, tende a coinvolgere tutti e tutto. È la parola come forza d’attrazione, come potenza d’irradiazione, come rivelazione del segreto di quel ‘far grazia di sé’ di Dio a noi, di noi a tutti. È il mistero della carità condiviso.

Il vangelo di oggi presenta la chiesa come comunità di riconciliati, sempre in cerca di riconciliazione, mai stanca di cercarla, di custodirla, di invocarla, per tutti e per ognuno. Il potere di legare e di sciogliere allude al potere di impedire o di accogliere nella comunità, date certe condizioni. Ma può essere inteso: se tu leghi, sarai anche tu legato; se tu sciogli, anche tu sarai sciolto. Proprio come preghiamo nel Padre Nostro: 'rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori'. Dio si muove nei nostri confronti secondo il potere che ci ha accordato. Perdoniamo? Saremo perdonati. Non tratteniamo un'ingiustizia? Anche Dio non la trattiene nei nostri confronti. Siamo generosi con un fratello? Anche Dio lo sarà con noi. Da questo punto di vista, non è importante preoccuparsi di fare bene, ma di non trattenere, di non legare il male di nessuno.

Non solo, ma la potenza della preghiera è vincolata essenzialmente alla realtà di un perdono impetrato e condiviso, senza il quale essa perde totalmente di efficacia. “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome” non allude alla preghiera, ma al perdono scambievole, alla riconciliazione accolta che testimonia proprio la presenza di Cristo non solo in noi, non solo in mezzo a noi, ma nel mondo, perché l'evento della riconciliazione parla direttamente al mondo della presenza di Dio. Così, anche l'espressione precedente: “Se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa” non si riferisce in primo luogo alla preghiera, ma alla riconciliazione, a quella pace fra fratelli, data e accolta, che costituisce l'unica condizione di sincerità della preghiera e quindi del suo esaudimento. In realtà, null'altro abbiamo da domandare che di vivere 'perdonati', di vivere nella capacità di perdonarci, come segno di quell'amore misterioso, potente, prepotente, che ci è venuto da Dio ed ha cambiato radicalmente tutta la nostra vita. Solo a partire da qui la proclamazione iniziale dell’antifona di ingresso risulterà vera per il nostro cuore: “Tu sei giusto, Signore, e sono retti i tuoi giudizi: agisci con il tuo servo secondo il tuo amore” (Sal 118,137.124). Diversamente, resteremo in balia delle nostre rivendicazioni e dei nostri tormenti, di cui faremo pagare le spese ai nostri fratelli, rifiutando di diventare compagni di Dio.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Solennità e feste

 

Esaltazione della Santa Croce

(14 settembre 2008)

 

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Nm 21,4-9;  Sal 77;  Fil 2,6-11;  Gv 3,13-17

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L’origine di questa festa va ricercata nell’antica adorazione della croce il venerdì santo, descritta dalla pellegrina Egeria che visitò i luoghi santi nel IV secolo. È come se la chiesa sentisse il bisogno di celebrare l’adorazione della croce in toni gloriosi, cosa che non poteva fare nei riti della settimana santa. L’oggetto della festa è proprio la croce, non il crocifisso. Il rito centrale della liturgia bizantina è l’innalzamento della croce ai quattro punti cardinali con la solenne benedizione del mondo, accompagnata da 500 invocazioni: Kyrie eleison. La liturgia, soprattutto quella bizantina, acclama la croce ‘arma di pace, che ci ha dato la bellezza, davanti alla quale la creazione gioisce e fa festa, per la quale è stata donata al mondo la misericordia e noi siamo stati attratti a Dio mentre la morte è stata inghiottita’. In particolare, un’immagine colpisce per la sua potenza: se Adamo è stato ingannato a partire da un albero, anche satana è stato adescato da un legno. Vale anche per il demonio la legge delle passioni umane: più la passione è esercitata senza freni, più ci si allontana dall’obiettivo che si voleva ottenere. Così il demonio si è trovato ingannato con le sue stesse azioni: la morte inflitta a Gesù si è trasformata in vita per tutti, in splendore di amore dove la morte non ha più alcun potere.

L’immagine dell’esaltazione della croce comporta però una terribile ambiguità. Quando Gesù parla della necessità per lui di essere innalzato, allude al supplizio della croce. Come poter tenere insieme sofferenza e gloria? Perché l’innalzamento per noi non è mai percepito nell’umiliazione? Perché la croce, celebrata gloriosa, a noi fa paura?

Due particolari delle letture di oggi possono illustrarci il mistero. A Nicodemo Gesù dice: “Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo ... Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”. Domando: si può salire al cielo senza scendere? L’immagine è quella dell’essere innalzato, ma la realtà è quella del discendere. Forse, l’aspetto più maestoso della gloria di Gesù sta nel suo chinarsi a lavare i piedi ai discepoli. Quel suo chinarsi allude al suo scendere, al perdere ogni parvenza di grandezza per assumere la vera grandezza dell’amore, che è il segreto di Dio e per se stesso e per noi uomini. Il discendere allude all’abbassarsi nel servizio di tutti perché tutti abbiano la vita e godano dello stesso segreto di Dio, il quale non accresce la sua grandezza (Egli è l’Altissimo) se non abbassandosi. Quel movimento è la legge della vita perché l’uomo è fatto a immagine di Dio. Occorre però partecipare al segreto: è l’amore che dà vita.

Gesù può proprio parlare di ‘innalzamento’ quando allude alla sua morte in croce perché non fa che esprimere in termini visibili ciò che costituisce l’intimità del movimento d’amore di tutta la Trinità. Nessuna delle tre Persone si possiede, ma si riceve eternamente. Lo spazio dell’amore e per l’amore è proprio quella dimensione di ‘spossesso’ che fa vivere dell’altro e per l’altro. Quello che il Figlio rivela vivere nell’amore per gli uomini, Dio lo vive in se stesso. Così, quando Paolo dice che Gesù “svuotò se stesso assumendo una condizione di servo ... umiliò se stesso facendosi obbediente fino a una morte di croce” non fa che rivelare in termini umani ciò che avviene all’interno della stessa Trinità. Non per nulla il segno di croce è abbinato alla proclamazione delle tre Persone della Trinità. È del resto caratteristico che Gesù dica che, una volta innalzato, attirerà tutti a sé (cfr. Gv 12,32). Ma è il Padre che attira a Gesù (cfr. Gv 6,44) e attira proprio a guardare colui che è stato trafitto (cfr. Gv 19,37, eco della profezia di Zc 12,10). Ed è opera dello Spirito Santo far ‘vedere’ (cfr. Gv 6,40) nel senso di far ‘riconoscere’, ‘contemplare nella fede’, che il trafitto è il Salvatore, il testimone dello splendore dell’amore del Padre. Lo scopo diretto della fede non può che essere quello di ‘godere la vita’, vita che procede da un amore che niente e nessuno può rapirti.

A questo punto ha senso parlare della gloria della croce di Cristo, come ripete l’antifona di ingresso: “Di null’altro ci glorieremo se non della croce di Gesù Cristo, nostro Signore”. Il che significa che non potremo certo gloriarci della nostra giustizia, ma solo dell’esperienza dell’amore perdonante di Dio che tende a inglobare tutti, senza riserve. E quando l’anima accoglierà senza riserve l’intima logica di quella esperienza nella fede, allora scoprirà lo splendore di un’umanità sulla misura di Dio. Il segno che quell’esperienza sta radicandosi nell’anima lo si può intravedere dalla misura di amabilità che il movimento dell’abbassarsi ottiene sul nostro cuore. Allora si può scoprire la croce come colei che ci ha dato bellezza, come ripete la liturgia.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo Ordinario

 

25a Domenica

(21 settembre 2008)

 

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Is 55,6-9;  Sal 144;  Fil 1,20-27;  Mt 20,1-16

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La liturgia di oggi illustra un paradosso che vive il nostro cuore: è proprio vero che i pensieri di Dio non sono i nostri pensieri (basta osservare i nostri pensieri segreti nelle afflizioni quotidiane), eppure il nostro cuore è modellato sui pensieri di Dio. Come a dire: se non accogliamo i pensieri di Dio il nostro cuore non trova felicità. La domanda allora che sorge è la seguente: cosa non permette ai nostri cuori di fidarci di Dio?

Quello che il salmo 144 proclama: “Giusto è il Signore in tutte le sue vie e buono in tutte le sue opere” rivela il frutto di un cammino consumato alla scoperta del nostro Dio; non indica la condizione di partenza. Non per nulla la verità della bontà di Dio è tema di rivelazione: la si può scoprire solo accettando di relazionarsi al proprio Dio, secondo quella radicalità di rapporto che una relazione d’amore comporta. E come in tutte le relazioni d’amore, il mondo interiore viene rivoluzionato. Senza accettare questa ‘rivoluzione’ non si vive l’amore e non si troverà il senso del vivere.

La parabola di Gesù è costruita proprio per sorprendere gli operai della prima ora nei loro pensieri segreti. Se il fattore avesse cominciato a pagare gli operai dai primi, non sarebbero stati svelati quei pensieri. Si sarebbero conosciuti solo quelli degli ultimi. Ma la parabola insiste proprio sui primi; il che significa che in quei ‘primi’ siamo compresi tutti noi, per un verso o per l’altro. Dal punto di vista ecclesiale, si può interpretare la parabola come un avvertimento agli israeliti (gli operai della prima ora) rispetto ai pagani (gli operai dell’ultima ora), ai giudeo-cristiani rispetto agli ellenisti, ai pastori rispetto ai fedeli, ecc. La parabola però ha un’estensione molto più larga e allude agli atteggiamenti dei cuori nei confronti di Dio. Tutti vengono pagati nella stessa misura: è proprio questo che urta la nostra sensibilità. Notiamo subito che il padrone della parabola non manca di giustizia perché ai primi dà esattamente quello che avevano pattuito. Semplicemente, non si attiene solo a quella giustizia e dà anche agli altri la stessa paga. Dove sta allora la malizia dei pensieri dei primi?

Il padrone si definisce ‘buono’ e allude alla definizione di buono che solo a Dio compete, come era stato detto in precedenza: «Egli rispose: “Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono”» (Mt 19, 17). Come intendere la bontà di Dio? La lettura del profeta Isaia ce ne fornisce la chiave. Il cap. 55 chiude la seconda parte del libro di Isaia e contiene la promessa del nuovo esodo da Babilonia agli esiliati. Quando il profeta proclama: “Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie - oracolo del Signore”, si riferisce alla larghezza del perdono che Dio accorda: “Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino. L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona”. Per cogliere la portata di queste parole bisogna leggere in quel ‘Dio perdona largamente’ tutto ciò che si riferisce alla sua provvidenza nei nostri confronti: le vite degli uomini sono diseguali, la sua provvidenza è misteriosa, la conoscenza di lui è misteriosa, le nostre sorti sono diverse, le gioie e le sofferenze sono amministrate nella nostra vita in modo così diverso gli uni dagli altri. Perché tutto questo? Porci questa domanda significa rapportarci agli altri e non a Dio. Non è certamente una domanda maliziosa, ma rivela la difficoltà di cogliere la bontà di Dio e per ciò stesso rivela la natura del nostro rapportarci a Dio in rivendicazione. Ma la rivendicazione esprime gelosia, come dice il padrone della parabola ai primi operai. Il segno della purità di cuore è proprio la mancanza di gelosia, vale a dire la gioia della felicità altrui. La punta segreta di questa gioia non sta però nella generosità di cuore che esprime solidarietà verso i fratelli nonostante la nostra mancanza (cosa del resto pressoché impossibile!), bensì la confidenza nel proprio Dio di cui si spera il godimento della promessa fatta a noi. Così, nonostante le diseguaglianze delle nostre vite, nulla ci manca se Dio è con noi.

E proprio questo è ciò che si acquisisce con il cammino spirituale. In effetti, il problema per noi è indicato dall’antifona alla comunione: “Siano diritte le mie vie nell’osservanza dei tuoi comandamenti”. Non è sufficiente osservare i comandamenti (il lavorare nella vigna); occorre che siano retti i cuori nel farlo (lavorare nella promessa del compenso da parte del padrone e grati di poterlo fare). La ‘giustizia’ è condizione necessaria ma non sufficiente. L’invito a scoprire e gustare la bontà di Dio salva i cuori dai confini angusti e li libera da ogni forma di rivendicazione in modo da partecipare ai sentimenti di Dio che vuole tutti suoi amici.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo Ordinario

 

26a Domenica

(28 settembre 2008)

 

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Ez 18, 25-28;  Sal 24;  Fil 2,1-11;  Mt 21,28-32

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Gesù è appena entrato trionfalmente in Gerusalemme, ha scacciato i venditori dal tempio, ha guarito ciechi e storpi e in seguito alla discussione sull’origine della sua autorità (“Con quale autorità fai questo? Chi ti ha dato questa autorità?”) racconta la parabola dei due figli, tipica del vangelo di Matteo. Chi compie la volontà del padre? Chi acconsente ma poi non fa o chi alla fine fa anche senza aver acconsentito prima? Non è un invito all’obbedienza in generale, ma una riflessione profetica sulla storia che va dritta al cuore degli ascoltatori. Era morto da poco Giovanni Battista e Gesù ne aveva raccolto l’eredità. Aveva predicato un battesimo di penitenza e chi gli aveva creduto? I pubblicani e i peccatori, coloro che di fronte alla sua predicazione si erano ricreduti quanto alla loro vita, avevano sentito l’invito di Dio che a loro si appressava e avevano visto all’opera in lui l’azione di Dio. I capi e i farisei si sentono invece dire da Gesù: “Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli”. Da notare che in questo caso, il verbo ‘pentire’ è espresso con un termine che significa ‘ricredersi’, ‘cambiare parere’, ‘rivedere le cose nella loro verità’. È come se Gesù dicesse: avviene con me come per il Battista. Voi vedete le cose meravigliose che compio, ma non volete vedere l’agire di Dio che compie la sua opera di salvezza. Voi l’aspettate da un’altra parte e resterete sulla vostra fame.

Ritorna l’eco della domanda del profeta Ezechiele: “Non è retto il modo di agire del Signore?... Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?”. Il passaggio dal male al bene è sempre possibile, come d’altronde è possibile l’inverso, dal bene al male. Chi fa il bene vivrà di quel bene e non morirà per i mali compiuti prima. Siccome però non è evidente per l’uomo riconoscere il bene, ecco la preghiera del salmo: “Fammi conoscere, Signore, le tue vie”, a cui tiene dietro la certezza: “insegna ai poveri la sua via”. Se le vie del Signore sono le vie della vita, allora significa che per avere la vita uno si debba presentare povero. “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,3). Povertà, che la lettera ai Filippesi descrive come condivisione dei sentimenti di Gesù: “rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù ...”.

Dire ‘avere gli stessi sentimenti di Cristo Gesù’ e dire ‘la volontà del Padre’ è dire la stessa cosa. Se l’apostolo ci invita ad avere gli stessi sentimenti di Gesù è perché solo in quel modo possiamo riconoscerci nella volontà del Padre, possiamo acconsentire a quella volontà e goderne lo splendore di amore che ci viene riversato e che ci spinge a riversarlo su tutti. Gesù costituisce quel punto di incandescenza nella storia dove la volontà del Padre muove l’umanità e questa risplende per l’amore che l’investe e di cui si capacita.

Le parabole delle domeniche successive dicono fino a che punto l’umanità di Gesù vive la volontà di salvezza per gli uomini da parte del Padre, allorquando il dramma si consuma. L’accento però non è posto sulla sofferenza che dovrà subire, ma sullo splendore di amore di cui si fa testimone. Avviene per i discepoli come per Gesù: se il Figlio, secondo le parole di Paolo ai Filippesi, ‘svuotò se stesso assumendo una condizione di servo’, lo può fare perché gode di un amore. Quello ‘svuotamento’ è la condizione perché l’amore si compia e trascini tutti nello stesso movimento. Ci si può svuotare dei propri peccati come delle proprie sicurezze; ciò che conta è svuotarsi perché quell’amore torni a splendere, perché Dio possa essere adorato come il Salvatore, ricco di misericordia per noi. Quello che i capi del popolo e i farisei, interlocutori di Gesù, non avevano potuto capire. E lo svuotarsi attira la grazia perché assimila al movimento che Gesù ha vissuto e che Dio vive in se stesso. L’obbedienza ha a che fare con la percezione di questo mistero di amore che porta vita, la vita che viene da Dio e che attraversa la storia perché tutti ne possano gustare lo splendore. Ed è per questo che la colletta prega: “ ... il tuo Spirito ci renda docili alla tua parola e ci doni gli stessi sentimenti che sono in Cristo Gesù”.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo Ordinario

 

27a Domenica

(5 ottobre 2008)

 

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Is 5,1-7;  Sal 79;  Fil 4,6-9;  Mt 21,33-43

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Forse, più che una parabola, il brano evangelico di oggi esprime un’allegoria profetica. Ciò rende ancora più drammatico il contesto narrativo, come la conclusione, tirata dagli stessi ascoltatori, capi dei sacerdoti e anziani del popolo, lascia perfettamente intendere. Avviene come nel caso di Davide, dopo il peccato di adulterio e assassinio, il quale si condanna con le sue stesse parole rispondendo all’apologo del profeta Natan (cfr. 2Sam 12,1-13). L’intensità emotiva dello scontro non deriva però dall’ira, ma da una passione d’amore, la stessa passione d’amore di Dio per il suo popolo per il quale non si stanca mai di tornare alla carica.

Il testo di Matteo si dovrebbe leggere in parallelo con quello corrispondente di Luca 20,9-19 dove alcuni particolari risultano particolarmente illuminanti. Si veda, ad esempio, nel testo di Luca, come i vignaioli percuotono, insultano, feriscono i servi ( = i profeti) mandati dal padrone della vigna, ma solo del figlio del padrone si dice che lo uccidono; il figlio è presentato come il figlio dilettissimo. Come non cogliere il valore profetico di questi particolari applicati a Gesù stesso, lui, il Figlio prediletto, come viene testimoniato dalla voce al battesimo e alla trasfigurazione?

Il tono d’insieme della parabola, nonostante l’asprezza delle espressioni, è dato dalla citazione del profeta Isaia dell’inizio, ripresa dalla prima lettura. L’immagine dell’uomo che pianta una vigna, la circonda di cure e si attende di raccoglierne i frutti è l’immagine di Dio che, preso d’amore per il suo popolo, stabilisce un’alleanza con lui, vuol condividere con lui il suo Bene. Il legame è così profondo che l’immagine assume sfumature ‘coniugali’ ad indicare la profondità e la totalità di questa passione d’amore. Così, quando il popolo si ribella e non lo segue, Dio si sentirà ferito non solo nel suo diritto e nella sua proprietà, ma nei suoi affetti, nel suo cuore. Gesù sfrutta questa immagine celebre del profeta Isaia che canta per Dio l’inno d’amore per il suo popolo.

Non per nulla, il canto al vangelo introduce il brano con l’espressione giovannea: “Io ho scelto voi, perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16). In quel scegliere occorre ravvisare tutta la passione d’amore di Dio per l’uomo; Dio sceglie (= pianta la vigna del suo regno, manda a lavorare nella vigna, offre la stessa paga a chiunque accetti di andarvi a lavorare) per raccogliere il frutto, che è la sua conoscenza in intimità; il frutto rimane nel senso che quella conoscenza è l’eredità di tutti, vissuta in solidarietà con tutti, finché tutti possano riconoscere e vivere dell’amore di Dio per l’uomo.

Così, quando Gesù, applicandosi il sal 118,22-23 (“La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d’angolo; dal Signore è stato fatto questo ed è mirabile agli occhi nostri”) esprime il suo giudizio: “Perciò vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare”, non intende certo escludere gli israeliti dal suo regno (che passione d’amore sarebbe per il suo popolo!) e darlo ai pagani, alla chiesa dei gentili, ma intende far prevalere la logica della rivelazione di tutte le Scritture: l’elezione è in vista di portare la conoscenza di Dio nel mondo perché tutti godano dello stesso amore. Gesù è colui che questa elezione vive nella sua carne al massimo grado possibile e perciò costituisce, dalla parte di Dio e dalla parte dell’uomo, colui che ne mostra lo splendore di amore che l’ha originata e di cui ne sostiene la dinamica.

La frase possiede anche un’altra sfumatura. La vigna del Signore porterà comunque frutto, come a dire: il regno di Dio sazierà, ma io posso restarne privo; la promessa di Dio non resterà vana, ma in me potrebbe risultare inefficace. Il fatto è che ci saranno sempre ascoltatori fedeli, testimoni santi che illustreranno la potenza della promessa di Dio, che ce la faranno gustare e desiderare: non verrà mai meno il popolo santo. Ma io accetterò di farne parte?

Il dramma dell’uomo si può intravedere proprio nel rispondere a quella domanda. Nella parabola si leggono tra le righe aspetti che suonano tragici. Il ragionamento dei vignaioli alla vista del figlio mandato dal padrone ‘costui è l’erede; venite, uccidiamolo, e avremo noi l’eredità’ ne è un esempio. Ma se proprio il Figlio è stato inviato per metterci in possesso della nostra eredità (cfr. Gal 4,4-7), come possono questi illudersi di ottenere diversamente quello che già era stato loro destinato? Spesso ci si ritrova nella vita in tale posizione: volere a tutti i costi un certo risultato, senza immaginare nemmeno che ci verrebbe dato in dono se solo lo sapessimo accogliere dalle mani di Dio! I nostri desideri di gioia, di felicità, di fraternità, non sono forse così spesso disattesi dai nostri comportamenti? Il nostro guardare al Figlio non è forse così spesso appiattito sulle pretese che avanziamo senza poter mai aver sentore della bontà di quell’amore che in Lui ci viene donato? L’amore di Dio non risponde al buon senso, non è contenuto nei limiti del giusto; è proprio folle, folle come quel padrone che, dopo aver visti picchiati e scacciati i suoi servi, non teme di mandare il suo unico figlio. Lui, almeno, lui sì che non deluderà le sue attese, Lui sì resterà sempre testimone di quell’amore folle proprio nel subire la morte e poter riscattare, con la sua risurrezione che lo rende pietra angolare per tutti, la malvagità di quei vignaioli, la nostra malvagità di uomini peccatori.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo Ordinario

 

28a Domenica

(12 ottobre 2008)

 

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Is 25,6-10;  Sal 22;  Fil 4,12-20;  Mt 22,1-14

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La parabola evangelica di oggi si situa nel solco e nello sviluppo di quelle delle domeniche precedenti. Compaiono gli stessi elementi: il re (il padrone) ed il figlio; i servi ripetutamente inviati, respinti e uccisi; ira del re e dramma finale; invito rivolto ad altri. Il tutto però è espresso con accenti e sfumature diverse. La parabola si sviluppa in due tempi: un tempo dell’azione e un tempo del giudizio; il tempo, l’attuale, degli inviti e il tempo, finale, del giudizio definitivo.

In rapporto al giudizio, che suscita sgomento, risuona l’antifona di ingresso della liturgia: “Se consideri le nostre colpe, Signore, chi potrà resistere? Ma presso di te è il perdono, o Dio di Israele” (Sal 130,3-4). In rapporto agli inviti si canta il versetto dell’alleluia tratto dalla lettera agli Efesini, il cui passo completo suona: “il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui. Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti secondo l’efficacia della sua forza che egli manifestò in Cristo…” (Ef 1,17-18). È la finestra di luce nella quale guardare al contenuto della parabola: possa davvero il nostro cuore aprirsi al dono di speranza e di gloria che il Signore ha preparato per noi! Quello che il passo dice ai nostri orecchi, l’icona della Trinità di Rublev lo fa vedere ai nostri occhi: i tre angeli in dolce colloquio, uniti nell’amore all’uomo per il quale il Padre celebra le nozze del Figlio e invita tutti, nella forza dello Spirito, a partecipare alla sua gioia. Sulla mensa giace l’Agnello immolato, simbolo e mistero di questo infinito amore che siamo tutti invitati a gustare. Tre sono i particolari che vorrei sottolineare.

Primo: le nozze del Figlio. Lo proclama Giovanni Battista: “Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta. Egli deve crescere e io invece diminuire” (Gv 3,29-30). Il Figlio, Gesù, sposa l’umanità: è l’evento centrale della vita del mondo, il fondamento e l’esito finale di tutta la storia. Tanto profondo e misterioso che passa inosservato, spesso negletto dagli stessi credenti. Dio e l’uomo ritornano compiutamente uniti, dove tutto di Dio si rivela nella sua gloria e grandezza e dove tutto dell’uomo acquista compimento. È per partecipare a queste nozze, a questa festa, a questa gioia, che Dio chiama. L’Eucarestia celebrata è il talamo dove questo mistero si realizza, nella cui forza tutta la vita ritorna ad avere poco a poco lo splendore divino.

Secondo: gli invitati, i vocati. Ogni vocazione, in senso profondo, non è che la chiamata ad una nuova relazione, ad una intimità personale con Colui che personalmente ci raggiunge, come dice il profeta: “Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni. Se dovrai attraversare le acque, sarò con te, i fiumi non ti sommergeranno; se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai, la fiamma non ti potrà bruciare; poiché io sono il Signore tuo Dio, il Santo di Israele, il tuo salvatore... Non temere, perché io sono con te” (Is 43,1-5).

Buoni e cattivi sono chiamati. L’invito non è in funzione dei nostri meriti, ma semplicemente dell’amore suo. Sarà il godimento di questo amore che potrà essere in funzione della nostra risposta, ma non l’offerta di tale amore. Così, tutti sono come costretti, ad indicare la sollecitudine e la pazienza di Dio che non smette mai di insistere con il nostro cuore, comunque si trovi, perché acconsenta alla sua gioia. È importante quell’annotazione ‘buoni e cattivi’. Quante pie illusioni costringono il nostro cuore all’oppressione e tutto perché immaginiamo di essere più importanti di Dio stesso!

Terzo: la veste nuziale. Di quale veste si tratta? Paolo proclama: “poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo” (Gal 3,27). E ancora: “Vi siete infatti spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore. Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti. Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi” (Col 3,10-13).

La veste nuziale sono i segni distintivi dell’appartenenza a Cristo, dell’essere simili a Cristo. E come essere trovati così, se Cristo stesso non ci assimilasse a sé? È appunto il mistero della comunione eucaristica, farmaco di immortalità: ricevere il Cristo per essere trovati in Lui. L’accento non è posto su quanto l’uomo fa per il Cristo, ma sul fatto che l’uomo può accogliere il Cristo e ritrovarsi nella gioia del Padre che l’ha inviato perché tutti godano lo splendore del suo amore. La sua veste nuziale allude proprio all’accoglienza che l’uomo è chiamato a dare all’invito di Dio e l’invito di Dio è il suo stesso Figlio. Gli uomini, fin tanto che sono ancora nella storia terrena, non possono distinguersi in eletti o meno perché a tutti l’invito di Dio è rivolto. Se varrà un giudizio, è solo quello di Dio che conosce i cuori. La temibilità del giudizio allude al fatto che all’invito non consegue automaticamente l’elezione; l’uomo è chiamato a rispondere.

Alle nozze del Figlio fa riscontro la nostra gioia, non la nostra perfezione. Ma la gioia dice l’apertura del nostro cuore all’invito del Padre, nonostante la nostra patente indegnità. In questo contesto suona strana la dichiarazione finale della parabola: ‘molti sono chiamati, ma pochi eletti’. Di tutta la moltitudine che riempiva la sala, solo uno è stato trovato senza la veste appropriata! Se non è un invito alla speranza questo, a fidarci dell’amore di Dio!!!

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo Ordinario

 

29a Domenica

(19 ottobre 2008)

 

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Is 45,1-6;  Sal 95;  1Ts 1,1-5;  Mt 22,15-21

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La visione di Isaia e la massima di Gesù riportata nel brano di vangelo di oggi si richiamano e si sostengono a vicenda. La liturgia ce ne schiude la porta di accesso con il ritornello responsoriale: “Grande è il Signore e degno di ogni lode” (Sal 95,4). Ma quando una simile confessione risulta vera? Quando prorompe dal fondo di un cuore che a lungo ha invocato, come dice l’antifona di ingresso: “Io ti invoco, mio Dio: dammi risposta, rivolgi a me l’orecchio e ascolta la mia preghiera. Custodiscimi, o Signore, come la pupilla degli occhi, proteggimi all’ombra delle tue ali” (dal salmo 16). E perché l’uomo è ‘costretto’ a invocare il suo Dio se non perché la storia è drammatica e l’uomo rischia di perdersi? La cifra del dramma della storia è ben espressa dalla massima di Gesù: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Ma Gesù parla di quel Dio che ha una provvidenza di salvezza da dispiegare, che continuamente intesse la storia della sua provvidenza di salvezza, come ben rivela la visione di Isaia quando descrive Ciro, il Cesare dell’impero che aveva fagocitato Israele, nell’atto di apprestarsi a ridargli quello spazio un tempo negato, compiendo così il disegno di salvezza del Dio di Israele. Senza riconoscere la via di salvezza offerta dal Signore nella sua provvidenza, come vivere la confessione del salmista: “Grande è il Signore e degno di ogni lode”?

È appunto tenendo insieme la visione di Isaia e la dichiarazione di Gesù che la storia sta aperta all’eternità: se ne può intravedere la finalità di salvezza, dentro uno spazio di libertà che permette di rispondere alla domanda di senso. Il brano evangelico può essere letto da più angolature e io vorrei suggerirne una soltanto. La vita di Gesù volge al termine e i suoi avversari stanno cercando un pretesto per riuscire a metterlo fuori gioco. Lo provocano sulla questione del tributo da pagare all’occupante romano. Si tratta della tassa pro capite (in latino, census) che i romani esigevano da tutti gli abitanti (uomini, donne e schiavi) di Giudea, Samaria e Idumea, dai 12/14 anni fino ai 65. La tassa versata corrispondeva a un denaro d’argento, l’equivalente della paga giornaliera di un operaio, pagata con una moneta speciale che portava l’immagine dell’imperatore Tiberio (14-37 d.C.) con l’iscrizione: TIBERIUS CAESAR DIVI AUGUSTI FILIUS AUGUSTUS PONTIFEX MAXIMUS (Tiberio Cesare, augusto figlio del divino Augusto, sommo sacerdote).

Il tranello consisteva nel costringere Gesù a prendere posizione o pro o contro l’obbligo del pagamento della tassa: se rispondeva a favore del pagamento, lo si poteva accusare di antipatriottismo; se rispondeva contro, poteva essere accusato di sedizione contro l’autorità costituita.

La risposta di Gesù, come sempre, allarga la questione e ne fa diventare una questione di discernimento per non fallire il senso della vita. Tutto il brano acquista uno spessore assolutamente speciale e tutti i particolari possono essere letti nell’ottica di quello spessore.

La domanda è posta con malizia. Ma gli eventi della storia sono immersi tutti nella malizia di quella domanda: la storia non si apre automaticamente alla salvezza. Occorre saper distinguere, occorre tener distinti i piani, occorre esercitare la responsabilità adeguata secondo i piani nei quali siamo confrontati. La storia tutta può diventare storia sacra, ma non automaticamente e non confusamente.

Così, l’elogio che viene tributato a Gesù (“Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno”) non risponde solo alla cattiva intenzione dei suoi accusatori, ma esprime anche la condizione per poter discernere. Diversamente, la storia soffoca o esalta, ma non si apre alla salvezza. Aprirsi alla salvezza, alla fin fine, vuol dire sfuggire alla malizia del potere che vuole tutti ‘soggetti’, senza sapere bene in nome di che cosa. L’aspetto straordinario e straordinariamente potente della posizione indicata da Gesù, che costituisce davvero la ‘buona notizia’ per gli uomini nella storia, è dato dal fatto che Gesù è proclamato come non soggetto a nessuno, quindi sovranamente libero e tuttavia, lui, di se stesso, si proclama sottomesso a tutti (pensiamo all’immagine di lui che si cinge il grembiule e lava i piedi ai discepoli), servo di tutti perché l’amore del Padre conquisti tutti. La libertà che gli è attribuita gli deriva dalla perfetta comunione con il Padre, che vuole tutti salvi e che lo abilita a vivere la vita nel servizio di questa straordinaria provvidenza di amore per l’umanità. Quando Gesù dice di dare a Dio quello che è di Dio allude proprio a quel Padre da cui lui proviene, che lui conosce, di cui testimonia l’amore e di cui mette anche noi in condizione di essere in comunione. Di qui scaturisce quella libertà che, non rendendoci soggetti alle cose, è capace di aprire gli spazi adeguati perché gli eventi si schiudano all’eternità, cioè a quella dimensione del vivere un amore nella storia perché tutti si possa dire: “Grande è il Signore e degno di ogni lode”.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo Ordinario

 

30a Domenica

(26 ottobre 2008)

 

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Es 22,20-26;  Sal 17;  1Ts 1,5-10;  Mt 22,34-40

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Per cogliere la portata della risposta di Gesù la liturgia di oggi ci offre varie porte di accesso. Il brano evangelico risponde a due grosse domande che serpeggiano nel nostro cuore: 1) che tipo di amore Dio ci richiede se ci comanda di amare? È possibile in verità comandare di amare? 2) dato che il comandamento riguarda l’agire, interiore e esteriore, allora cosa cerchiamo con il voler osservare il comandamento?

Notiamo anzitutto le due novità nella formulazione evangelica di Matteo. Era usuale nell’ambiente rabbinico la domanda attorno al comandamento grande, a quale fosse il primo comandamento, come del resto era generalmente accettata la risposta di Gesù che si basava su Dt 6,5 e Lv 19,18 (cf. anche i passi paralleli, nel contesto più cordiale di Mc 12,28-34 e Lc 10,25-28). La prima novità di Gesù sta nel raccordare i due comandamenti, dichiarando il secondo simile al primo. L’altra novità consiste nell’uscire dallo schema di riferimento usuale per le Scritture con il porre i Profeti sullo stesso piano della Legge, con l’allusione all’unità delle Scritture che in lui trova ormai la sua chiave di lettura.

L’allusione a un nuovo modo di accostarsi alle Scritture, come il raccordo tra i due comandamenti, hanno a che fare con la rivelazione che da lui procede, che attraverso di lui si compie. C’è una tensione di compimento dietro le sue parole, tensione che la liturgia insegna a intravedere con il canto di ingresso, il salmo responsoriale e il canto al vangelo. Di quale Dio ci si fa comando di amare? È il Dio dell’alleanza, per la gioia che ci procura e per la forza che ci infonde, come canta l’antifona di ingresso: “Gioisca il cuore di quanti cercano il Signore. Cercate il Signore e la sua potenza, cercate sempre il suo volto”, presa dal salmo 104, che può essere definito la celebrazione della fedeltà di Dio. I comandamenti si accolgono perché si è sperimentato come Dio sia la nostra forza. Recita il ritornello del salmo responsoriale: “Ti amo, Signore, mia forza”, dal salmo 17, con il quale si canta l’amore di Dio per noi che dall’alto ci tende la mano e che si abbassa a noi per farci grandi. I comandamenti hanno dunque a che fare con l’esperienza di una storia sacra, di una nostalgia vicendevole tra Dio e l’uomo; non sono imperativi categorici o religiosi, ma alludono alla possibilità per noi di vivere e gustare quell’alleanza che ci precede e ci accompagna (cf. la prima lettura, tratta dal codice dell’alleanza). I comandamenti rimandano ad un’esperienza gioiosa, che la colletta interpreta facendoci pregare: “O Padre, che fai ogni cosa per amore e sei la più sicura difesa degli umili e dei poveri, donaci un cuore libero da tutti gli idoli ...”.

Ma la novità di Gesù fa intravedere una dimensione ancora più misteriosa e più potente. Il brano evangelico è introdotto dal canto al vangelo tratto da Gv 14,23: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui”. Il comandamento allude a una possibile rivelazione, la rivelazione del volto di Dio al nostro cuore. Ma la rivelazione è data dalla osservanza o da altro? L’abbinamento del passo di Giovanni al brano di Matteo vuol significare che non è la pratica a produrre la rivelazione, ma l’amore che presiede alla pratica e che alla pratica conduce. Perché? Nella risposta a questo interrogativo si cela anche la ragione dell’abbinamento dei due comandamenti nella sequenza che dà Gesù: Dio, prima e il prossimo, dopo, sebbene non ci sia alcuna distanza tra i due.

La frase di Gv 14,23 costituisce la risposta di Gesù alla domanda dell’apostolo Giuda: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?”. Una manifestazione che procede da un amore è ravvisabile da chi non partecipa a questo amore? Poco prima Giovanni aveva scritto: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama” (14,21). Frase che si contrappone all’altra, a conclusione del discorso di Gesù: “... viene il principe del mondo; contro di me non può nulla, ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre” (14,30). Purtroppo la traduzione italiana non fa cogliere la contrapposizione, che è essenziale per comprendere il ragionamento di Gesù. La contrapposizione riguarda la frase: ‘chi ha i miei comandamenti...’(v. 21) e l’altra: ‘in me non ha nulla’ (v. 30). Chi ha l’esperienza dell’amore del Padre, chi fa l’esperienza dell’essere amato dal Padre, non ha bisogno di nulla e nulla cerca per sé: pratica i comandamenti che sono l’espressione di questo amore nel tempo e nello spazio e niente e nessuno gli può sottrarre questo amore. Solo in Gesù questo si compie assolutamente, ma la promessa di Gesù è che la stessa cosa varrà per i discepoli, se stanno in lui. Così i comandamenti hanno a che vedere con il fatto che ‘bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre’. Vale a dire: la pratica dei comandamenti è in funzione del fatto che il mondo possa scoprire l’amore del Padre e così vivere la dimensione della fraternità nella sua radicale luminosità.

Così il senso dell’amore al prossimo sta tutto nel fatto di far ‘sapere al mondo’ che l’amore del Padre è per loro. Per questo, se il primo comandamento esprime la radice di un’umanità che ha scoperto l’amore del Padre, il secondo ne segnala l’orizzonte di tensione, perché l’amore del Padre è per il mondo. E in questo possiamo abbozzare la risposta anche alle prime due domande: il comando dell’amore procede da un’intimità e dalla ‘reazione’ a un’offerta al cui fascino non ci si può sottrarre; lo scopo della pratica del comandamento non è in funzione della mia perfezione, ma dello splendore dell’amore del Padre che a tutti è rivolto e di cui posso ammirare l’accondiscendenza per noi.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Solennità e feste

 

Tutti i Santi

(1 novembre 2008)

 

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Ap 7,2-14;  Sal 23;  1Gv 3,1-3;  Mt 5,1-12

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Le preghiere e le letture di oggi mostrano in cosa consiste la gioia della santità: godere dello splendore dell’amore di Dio per noi. E tutti gli sguardi si accentrano sulla figura dell’Agnello glorioso e immolato ‘fin dalla fondazione del mondo’ (Ap 13,8). Il mondo è uscito dall’amore di Dio, di esso è intessuto e percorso, di esso parla, ma quanta tenebra ne impedisce la visione! Ebbene, oggi la chiesa mostra al mondo la sua visione: è l’Agnello che attira gli sguardi e gli uomini si ritrovano uniti nella stessa visione e possono risplendere della santità di Dio, che è splendore di amore immolato.

L’antifona di ingresso e la preghiera dopo la comunione fanno come da cornice alla visione aperta dalle letture della festa di oggi. “Rallegriamoci tutti nel Signore in questa solennità di tutti i santi: con noi gioiscono gli angeli e lodano il Figlio di Dio”. È motivo di gioia la santità perché non può esserci gioia se non a partire da un amore accolto e condiviso. E la santità, come proclamano i beati davanti al trono dell’Agnello, è questo amore accolto e condiviso. Perché anche gli angeli sono implicati nella stessa gioia? E perché tutto si risolve nella lode del Figlio di Dio? La gioia degli angeli esprime il mistero del loro essere in adorazione: adorano un Dio che è pieno di amore per gli uomini, non per loro. L’amore di Dio per gli uomini l’ha indotto a farsi uomo come loro, di modo che l’uomo potesse, nella sua umanità, essere come il Figlio di Dio. Ne scaturisce una conseguenza: se l’amore che gli uomini si portano non parla di questo amore di Dio lodato dagli angeli, allora vuol dire che non si è più capaci di adorazione, cioè della gioia di vedere splendere l’amore di Dio per tutti gli uomini, non si è più figli di Dio. Un amore che non allude all’adorazione di Dio diventa tiranno.

Nella preghiera dopo la comunione diciamo: “... fa’ che raggiungiamo anche noi la pienezza del tuo amore”. Non preghiamo semplicemente per arrivare anche noi in paradiso, ma preghiamo perché quell’amore costituisca l’orizzonte della nostra vita. La proclamazione dei santi, come viene descritta nella prima lettura, non si riferisce ad un futuro dopo la storia, ma esprime la verità della nostra storia, verità che non passerà e riempirà tutto del suo splendore. Ma quello splendore costituisce già il senso della nostra storia, anche se spesso i nostri occhi sono così velati da non accorgercene più. Sarebbe il senso della preghiera: renderci accorti di quella verità.

La lettura della prima lettera di Giovanni parla di noi come dei ‘figli di Dio’, di cui il brano di vangelo, con le beatitudini, mostra la dinamica profonda di vita. Dice Paolo in Rm 8,14: “tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio”. Se ci chiediamo verso dove ci guida lo Spirito di Dio, non possiamo che rispondere: al Figlio di Dio, il quale ci ha riconciliato con Dio (cf. 2Cor 5,18; Ef 4,32). La santità parla di quel mistero di riconciliazione in atto nella storia, nella carne della propria vita, perché risplenda per tutti la possibilità della visione dell’amore di Dio per l’uomo.

È caratteristico che l’antifona alla comunione, riprendendo la serie delle otto beatitudini proclamate nel vangelo, le riduca a tre: puri di cuore, operatori di pace, perseguitati a causa della giustizia. La purità di cuore capace di vedere Dio è quella che scaturisce dall’esperienza della compassione, della misericordia, così tipica della santità di un cuore che consola e conforta, che accoglie in benevolenza e solidarietà, che rimanda a tutti quello che lui stesso riceve, cioè il perdono rigenerante del suo Signore, che viene così conosciuto come il Salvatore, come l’Amore che ti sottrae all’abisso. La purità però, intrisa di gioia, è solo quella che si traduce in un agire che porta pace a tutti, che rende capaci i cuori di pace, che si fa dono di pace, capace di far grazia di sé come il Figlio di Dio che fa dono di sé perché l’amore di Dio risplenda. E la pace donata è a prova di persecuzione, perché niente è più caro al cuore di colui che gli ha restituito la dignità di uomo e di figlio di Dio. L’amore a prova di persecuzione procede dal fatto di sentire la mia dignità sullo stesso piano della dignità di tutti. Dire che di questi è il regno di Dio significa proclamare che il cuore dell’uomo non può saziarsi che della verità di quell’amore che giunge sanante e potente, sebbene ora si sia sempre nell’occasione di perderlo di vista, di impedirci di goderlo, di impedire agli altri di farne esperienza. Eppure, così proclama tutta la liturgia di oggi, quella verità è la verità del mondo come dei cuori. È la verità di felicità per il cuore dell’uomo, che intravede nelle beatitudini evangeliche le coordinate precise per non fallirla.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Solennità e feste

 

Commemorazione di tutti i fedeli defunti

(2 novembre 2008)

 

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Gb 19,23-27//Is 25,6-9//Sap 3,1-9

Sal 26//24//41

Rm 5,5-11//Rm 8,14-23//Ap 21,1-7

Gv 6,37-40//Mt 25,31-46//Mt 5,1-12

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Se ieri, festa di tutti i santi, la chiesa guardava al mistero dell’amore di Dio per l’uomo dal cielo, oggi, commemorazione di tutti i defunti, lo guarda dalla terra. Ieri, lo sguardo emanava la gioia della lode; oggi, emana la fiducia della supplica. Un versetto lega idealmente le due liturgie più di tutto: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28), versetto che costituiva il canto al vangelo della liturgia di ieri e che fa da sfondo a tutta la liturgia di oggi.

L’Apocalisse definisce gli ‘adoratori della bestia’, coloro che rifiutano l’esperienza dell’amore salvatore del Signore, come coloro che “non avranno riposo né giorno né notte” (Ap 14,11). Le letture di oggi invece definiscono i salvati come ‘nel riposo’ di Dio e si prega perché i defunti, coloro che ci hanno preceduto nel regno di Dio, godano il ‘riposo’ di Dio.

Quel ‘riposo’ allude al compimento di un atto di creazione particolare. Nel primo racconto della creazione, nel libro della Genesi, il testo dice che, dopo aver creato tutte le cose: “Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto”. Se i sei giorni precedenti non sono bastati a completare il lavoro, che cosa allora è stato creato il settimo giorno? La ‘menuchà’, la tranquillità, la serenità, la pace e il riposo”, rispondono gli antichi rabbini (cf. Gen Rabbà, 10, 9). È lo stato in cui non vi è contesa né lotta, né paura né diffidenza; è felicità, pace e armonia; vita del mondo futuro, vita eterna.

Quella che Gesù promette quando dice:“Venite a me, voi tutti, che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”.

Quella che corrisponde all’invito che il re rivolge a quelli alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo”. Con il ricevere il regno che è preparato fin dalla fondazione del mondo, finalmente è svelato il senso del mondo, come la risurrezione di Gesù svela il senso della sua vita e della nostra. Ciò che da sempre ha mosso il cuore di Dio ora, finalmente, si vede realizzato. In effetti, il riposo allude anzitutto alla condivisione dei sentimenti di Dio, al riposo dell’amore suo che tanta pena si è dato per convincere e conquistare; è il ristoro che segue l’incontro tra il desiderio di Dio e quello dell’uomo.

La particolarità della liturgia di oggi è data dal fatto che la chiesa supplica il suo Signore perché quel riposo sia partecipato da tutti i suoi figli, che intercede presso di lui per tutti loro, fiduciosa nella misericordia immensa di Dio che si è dato pena per i suoi figli, nessuno escluso. La supplica procede dalla fiducia nella promessa di Dio che vuole con sé i suoi figli, ma anche dal desiderio, pieno di speranza, che finalmente potrà avverarsi, come dice Giobbe: “Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro”. Se questo desiderio alberga in ogni cuore, la chiesa supplica perché tutti possano vederlo realizzato, possano sentirlo finalmente come la verità del loro cuore.

E le letture tratte da s. Paolo aggiungono che addirittura la nostra stessa carne rifiorirà incorruttibile, addirittura nella nostra stessa carne sperimenteremo l’amore salvatore del Signore che dà la vita. È l’altra caratteristica della liturgia di oggi: la chiesa professa la sua fede nella risurrezione della carne, la sua speranza nella potenza di Dio che esprimerà la vittoria sulla morte nella nostra stessa carne.

Un ultimo aspetto vorrei sottolineare. La liturgia di oggi suscita un grande senso di solidarietà umana. Non si tratta solo di tenere viva la memoria dei propri cari, ma di fare esperienza di una solidarietà in umanità che gli affetti sanno custodire. È qualcosa che rivela la percezione di una realtà misteriosa, ma potente, coinvolgente, insopprimibile. La radice la ravviso nel brano del giudizio finale narrato da Matteo. Con il suo giudizio il re manifesterà il segreto dell’agire di Dio fin dalla fondazione del mondo, lungo tutta la storia. Manifesterà il segreto sul quale si regge il mondo e che ne costituisce la dignità assoluta: Dio ha voluto farsi solidale con l’umanità a tal punto che chi tocca l’uomo tocca Dio, chi onora l’uomo onora Dio, chi disprezza l’uomo disprezza Dio. Tale segreto rifulge nella vita del Figlio dell’uomo, perché è lui che appare davanti agli occhi di Dio in ogni uomo. In un baleno apparirà tutta la verità dell’uomo e, contemporaneamente, tutta la gloria di Dio, che è gloria di amore per noi. La solidarietà negli affetti parla di questo ‘segreto’ di Dio.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Solennità e feste

 

Dedicazione della Basilica Lateranense

(9 novembre 2008)

 

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Ez 47,1-12;  Sal 45;  1Cor 3,9-17;  Gv 2,13-22

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"Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere": così risponde Gesù a chi chiede un segno che dimostri la sua autorità di profeta. Aveva appena scacciato dal tempio mercanti e mercanzie, aveva rovesciato i banchi dei cambiavalute e buttato fuori tutti. Evidentemente, se non l'hanno preso per pazzo, aveva dovuto mostrare una forza, un'irruenza tale da lasciare stupefatti. Nei sinottici, questo passo è situato dopo l'ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, ma in Giovanni si pone all'inizio del ministero di Gesù.

 Il brano evangelico allude al sacrificio del Figlio che sancisce la nuova ed eterna alleanza di Dio con l'uomo e il mistero è colto sotto l'immagine del tempio.

Gesù è appunto il nuovo tempio. Chiaramente, quando Gesù caccia dal tempio, più precisamente dal recinto sacro, i venditori e gli animali, adombra questo aspetto del mistero della sua persona: non ci saranno più olocausti di animali, ma lui stesso sarà la 'vittima sacrificale' a Dio gradita, nella cui immolazione sarà sancita la nuova, definitiva alleanza. I profeti avevano annunciato che sarebbe stato ricostruito il nuovo tempio. Vedi, ad esempio, Is 44,28 o Zac 1,16. E la nuova costruzione sarebbe stata più splendida, come dice Aggeo 2,9: "La gloria futura di questa casa sarà più grande di quella di una volta, dice il Signore degli eserciti; in questo luogo porrò la pace - oracolo del Signore degli eserciti". Michea 4,1-2 estende per tutti i popoli l'alleanza di Dio con Israele: "… affluiranno ad esso i popoli; verranno molte genti e diranno: ‘Venite, saliamo al monte del Signore e al tempio del Dio di Giacobbe’".

Giovanni diceva nel prologo: " ... il Verbo era Dio…E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità". Quel 'venne ad abitare' corrisponde al 'pose la sua tenda, la sua dimora, in mezzo a noi' poiché oramai è in Gesù che dimora la presenza divina. Lui è la pietra scartata che diventa testata d'angolo per la nuova costruzione; da Lui scaturisce la fonte del tempio che risana (cfr. Ez 47), Lui si proclama 'consacrato' proprio nella festa della dedicazione del tempio (cfr. Gv 10,36). Tempio come Dimora di Dio. Le acque che sgorgano da sotto la soglia del tempio, nella visione di Ezechiele, acque che risanano e portano vita ovunque arrivano, alludono all’acqua che zampilla per la vita eterna che dona Gesù effondendo il suo Spirito, all’acqua e al sangue che sgorgano dal suo costato sulla croce.

Quando Gesù dichiara: "Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere" parlando del suo corpo, allude a un duplice mistero:

1) Il tempio, e questa volta non più solo recinto sacro, ma la parte interiore del tempio, il Santo dei Santi, è ormai il suo corpo. In Lui abita la pienezza della divinità, in Lui si trova ogni tesoro di sapienza e scienza, Lui è la via al Padre: tutte espressioni che sottolineano come la Dimora di Dio in mezzo al suo popolo sia oramai Lui stesso. E tale rivelazione avviene nel mistero pasquale, nella sua morte-sepoltura-risurrezione, dove l'amore di Dio per il suo popolo appare così sconfinato e supremo da fondare la nuova, definitiva, permanente alleanza tra Lui e gli uomini tutti. La caratteristica del nuovo tempio è che non c’è più il velo a impedire l’entrata nel Santo dei Santi. Con la morte di Gesù il velo è squarciato; il che significa che l’intimità del Padre è ormai aperta, accessibile, proprio attraverso quella ferita da cui sgorga acqua e sangue, segni della vita nuova, della vita vera, della vita incorruttibile dell’amore di Dio che si comunica all’uomo e lo rende suo intimo.

2) il suo corpo non è soltanto il suo corpo fisico, ma il suo corpo mistico, di cui siamo membra, nel quale siamo innestati e conformati attraverso il battesimo e l'eucaristia. Così, quel Gesù, morto e risorto per noi, dandosi a noi in cibo (cfr. Gv 6), rende anche noi 'dimora' di Dio. Se Lui è la Dimora di Dio, assumendo Lui come cibo eucaristico, diventiamo anche noi Dimora di Dio. E avviene di noi quel che avviene di Lui.

La colletta così fa pregare: “O Padre, che prepari il tempio della tua gloria, con pietre vive e scelte, effondi sulla Chiesa il tuo Santo Spirito …”. Ora, la gloria di cui attendiamo la piena manifestazione e che forma il contenuto della visione nella fede non è che lo splendore dell’amore di Dio per l’uomo che ha in Gesù la sua cifra assoluta. La figura del tempio esprime il luogo di quello splendore, che però non si riferisce a un luogo di pietra, ma a un corpo vivo, alla Chiesa di Dio, a quella comunione viva e di viventi in Cristo. La festa di oggi rivive la dimensione mistica dell’immagine del tempio nella sua valenza ecclesiale. La basilica lateranense, chiesa fatta costruire a Roma da Costantino sotto il pontificato di Silvestro I (314-335), di cui si celebra oggi la dedicazione, è venerata come madre di tutte le chiese, essendo la chiesa cattedrale del vescovo di Roma, segno di unità per tutta la Chiesa. Pietro è colui che conferma i suoi fratelli nella fede, cioè nella visione di quello splendore dell’amore di Dio che in Gesù rifulge e ci viene comunicato con il dono del suo Spirito, Spirito di unità e di comunione.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo Ordinario

 

33a Domenica

(16 novembre 2008)

 

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Pro 31,10-31;  Sal 127;  1Ts 5,1-6;  Mt 25,14-30

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Nelle ultime domeniche dell’anno liturgico la chiesa legge il capitolo 25 di Matteo con le sue tre parabole: quella delle vergini, dei talenti e del giudizio finale. Le parabole rispondono al problema di fondo della comunità credente: dato che dobbiamo aspettare il ritorno del Signore, come predisporsi convenientemente? La parabola delle vergini terminava con l’invito alla vigilanza. Quella di oggi, dei talenti, racconta la modalità del vegliare: si rimane vigilanti attraverso una appropriata operosità. In cosa consista poi concretamente tale operosità sarà il tema della parabola del giudizio finale. Il padrone che distribuisce i suoi beni e parte per un lungo viaggio è il Signore Gesù che con la sua morte-risurrezione-ascensione lascia i suoi discepoli e affida loro i suoi beni, ciò che di più prezioso ha: i misteri del Regno. Il Signore Gesù non solo lascia ai suoi la testimonianza più luminosa dell’amore di Dio per l’uomo, ma infonde in loro la stessa capacità di vivere di quell’amore, come lui stesso è vissuto, nella potenza dello Spirito che ci ha lasciato in eredità. In quell’ amore, nella luce di quell’amore il discepolo gioca la sua vita. Dice Ilario di Poitiers: “Il padre di famiglia è lo stesso Signore. La durata del viaggio è il tempo di pentirsi. Durante il quale sedendo in cielo alla destra di Dio egli ha accordato a tutto il genere umano il potere di credere e operare secondo il Vangelo. Così ciascuno ha ricevuto il proprio talento secondo la misura della fede...” (Commento al vangelo di Matteo, 27,6).

La liturgia incastona l’evento con due particolari illuminanti. Il canto di ingresso riporta un’espressione del profeta Geremia che, rivolgendosi agli esiliati a Babilonia, li invita ad accettare l’esilio senza dare retta ai sogni di quanti predicano una subitanea liberazione, perché i pensieri del Signore sono diversi: “Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – oracolo del Signore, progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza. Voi mi invocherete e ricorrerete a me e io vi esaudirò...” (Ger 29,11-12). La vigilanza si regge sul fondamento della promessa del Signore. Il canto al vangelo indica invece la condizione dell’operosità nella vigilanza: “Rimanete in me e io in voi; chi rimane in me porta molto frutto” (cf. Gv 15,4-5), eco della promessa con la quale si chiude il vangelo di Matteo: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).

Varia è la distribuzione, identica la ricompensa. L’immagine di fondo è quella del giocare la propria vita nella fede del Signore Gesù. In particolare, la contrapposizione tra la fedeltà nelle piccole cose, con cui si gioca la nostra vita e la grandezza incommensurabile della gioia del Regno che ci verrà donata. Lo specifico della parabola risalta dal colloquio tra il padrone e il servo che non ha voluto trafficare il talento e che, volendolo restituire, perde anche quello che aveva. Nell’interpretazione di alcuni Padri l’esempio dei tre servi allude al credente proveniente dall’Israele di Dio che, partendo dai cinque libri di Mosè, li ha raddoppiati con la fede nel Vangelo; al credente venuto dal paganesimo che, confessando nel cuore e con la bocca la fede nel Signore Gesù, li ha raddoppiati per mezzo delle opere; all’uomo israelita che non ha voluto accettare l’estensione della giustificazione ai pagani oppure all’uomo che dedicandosi solo agli affari di questa vita non ha colto la possibilità del Regno: ha voluto vivere come sepolto nel mondo e il mondo l’ha seppellito (in parallelo con l’immagine del sotterrare il talento). Il servo che non traffica il talento si priva di ciò che possiede: gli è data la vita, ma non la spende e così non la gusta; gli è data la fede, ma non gli serve a nulla e così vive invano; gli è fatto conoscere l’amore, ma non se ne avvale per la vita. La ragione? La paura – così almeno dichiarano le sue parole. Ma la ragione profonda è un’altra. Quando l’uomo teme di dare se stesso, come nel caso del servo cattivo, in gioco non è semplicemente la sua ‘pigrizia’ verso gli altri uomini, ma il fallimento della vita perché dietro la sua pigrizia sta il cattivo giudizio sul padrone, come ritenesse il padrone causa della sua paura perché troppo esigente. Ma così ragionando non fa che proclamare che lui non ha mai creduto alla generosità del suo padrone, non ha mai sperimentato l’amore del Signore e soprattutto che rifiuta di vedere nell’agire del padrone l’amore per i suoi servi. E così la vita non assurge mai a quel livello di ‘dignità’ che la rende desiderabile, feconda e fruttuosa. Quest’uomo non ha mai goduto della promessa di Gesù: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni...”; non ha mai gustato quel ‘rimanere’ in Gesù che gli avrebbe consentito di aprire il cuore all’amore del Signore e di provare a viverlo insieme ai suoi fratelli.

È d’altronde caratteristico che la prima lettura, tratta dal libro dei Proverbi, tratteggi l’elogio della donna ‘forte’. In realtà canta la donna ‘operosa’, ma la cui operosità, che riguarda il fatto di costituire la felicità del marito, la prosperità della sua casa e la solidarietà con il povero, deriva dal suo ‘temere il Signore’. Timore, che corrisponde a quello che il canto al vangelo proclama essere la condizione prima della fruttuosità dell’operare: “Rimanete in me e io in voi...”.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo Ordinario

 

34a Domenica

N.S. Gesù Cristo Re dell’universo

(23 novembre 2008)

 

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Ez 34,11-17;  Sal 22;  1Cor 15,20-28;  Mt 25,31-46

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La parabola o, meglio, la visione profetica del giudizio finale, da leggersi in simbiosi con le parabole precedenti delle vergini e dei talenti, risponde alla domanda: qual è il contenuto specifico dell’esercizio della vigilanza? Per la sua assoluta incisività, la rivelazione che la parabola comporta ha come assunto un significato più largo rispetto alla questione della vigilanza, ma dipende pur sempre da quel contesto. La collocazione poi del brano nella struttura della narrazione di Matteo fornisce una luce tutta speciale per la sua comprensione. Alla parabola segue immediatamente il racconto della passione di Gesù. Quel Gesù, di cui si comincia a raccontare la passione e la morte in croce, è lo stesso Figlio dell’uomo che siederà glorioso a giudicare le genti.

Stessa cosa sottolinea la liturgia, che si introduce con la visione dell’Agnello immolato e glorioso (cf. Ap 5,12; 1,6), canta la figura del buon pastore con il salmo 22 a commento del brano di Ez 34, ripete con il canto al vangelo l’osanna della folla che vede la venuta di Gesù a Gerusalemme come il presagio del Regno di Dio che viene (cf. Mc 11,9-10).

Le parole di Gesù non ricalcano i toni delle visioni apocalittiche che abbondano soprattutto nei testi apocrifi. Il suo parlare del giudizio finale, per quanto inappellabile e tremendo, non suscita sgomento o tremore. Comporta una rivelazione che parla al cuore, lo svelamento di un segreto che ha costituito la promessa della vita. Ciò che è detto avvenire alla fine dei tempi non ha lo scopo di ‘curiosare’ sulla fine dei tempi, ma di svelare in quale direzione e prospettiva si vive il tempo presente, in che cosa si gioca la vita. E ciò che è anzitutto sottolineato è la rivelazione del sogno di Dio con gli uomini, con gli uomini tutti e con gli uomini di sempre, indipendentemente dalle loro diversità, anche religiose. In questo senso, le accentuazioni della parabola segnalano un contesto di intimità, di tenerezza di rapporto, di scelta precisa di Dio che si svela agli uomini come la via della realizzazione della loro umanità.

In effetti, il giudizio porta sulla tensione in umanità che dà la misura dell’utilità del nostro vivere (ecco il senso della vigilanza!), tensione che è radicata nel mistero stesso di Dio che vuole confondersi con l’umanità nel bisogno, nei suoi bisogni fondamentali (aver fame, aver sete, essere straniero, essere nudo, essere malato, patire). Chi tocca l’uomo tocca Dio. La cosa più straordinaria sembra essere data dal fatto che la fede in Gesù, più è potente, più cioè fa vedere e fa vivere le cose nella prospettiva di Dio, meno è cosciente del suo merito. Come a dire: più è radicale, più vale come solidarietà in umanità, non distinguendosi in questo da chi assume quella stessa umanità pur senza riferirsi a Gesù. Ciò che, invece, la fede in Gesù fa presagire è la condivisione del sogno di Dio, la percezione di quella ‘promessa di vita’ che costituisce la gioia del cuore dell’uomo.

Se ci si ferma a meditare lungamente sull’espressione del re: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo”, si colgono infinite sfumature, tutte particolarmente eloquenti per il nostro cuore. Il tono con cui la frase è pronunciata è il tono di tutte le Scritture: che il desiderio di Dio si incontri con quello dell’uomo e si possa gioire insieme. L’atto del ‘separare’ le pecore dalle capre riprende l’atto della creazione come compiendola; il ‘venite’ riprende il desiderio dello sposo e della sposa del Cantico dei Cantici, l’anelito dello Spirito e della Sposa alla fine dell’Apocalisse, l’invito di Gesù ai suoi discepoli; ‘benedetti del Padre’ riprende la volontà di benevolenza di Dio per l’uomo di cui Gesù è il Testimone per eccellenza, l’elezione di Israele come un mistero di intimità condiviso ed esteso a tutte le genti; ‘ricevete in eredità il regno’ equivale alla stessa eredità del Figlio (ciò che Gesù vive ci appartiene e ci costituisce) e allo stesso Figlio che è costituito nostra eredità; ‘preparato per voi’ corrisponde alla gioia per la quale Dio si è dato premura, per la quale ha fatto il nostro cuore; ‘fin dalla creazione del mondo’: da sempre, non esiste altro segreto, altra promessa che interessi il cuore dell’uomo. Una tale pienezza non può derivare dall’uomo. Per questo i ‘buoni’ non se ne sentono in diritto, si schermiscono: non si sono mai sentiti superiori ai loro fratelli, non li hanno mai oppressi, li hanno soccorsi, hanno condiviso beni e vita con loro, ma senza valutare la possibile ricompensa. Dio, però, che vede nel segreto, li ricompenserà...

A differenza dei ‘cattivi’, i quali, nemmeno loro hanno valutato la possibile ‘paga’ per il loro agire, ma, siccome non hanno condiviso beni e vita con i loro fratelli, ora non possono godere la gioia di Dio che su quella condivisione è fondata. In effetti, il fuoco non è preparato per gli uomini, ma per i diavoli e se gli uomini faranno esperienza del fuoco è perché condividono la scelta del diavolo di non partecipare alla gioia di Dio, ritenuta inadeguata rispetto alle loro aspettative.

La parabola ha a che fare con la rivelazione della dignità degli atti umani, definiti in rapporto alla prossimità in umanità, di cui l’uomo non coglie mai veramente la portata infinita, perché non può mai cogliere fino in fondo la profondità e l’assolutezza del mistero dell’amore di Dio che si confonde con i suoi figli, mistero che porta il sigillo del Figlio dell’uomo, morto e risorto per noi.