Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo Ordinario

 

29a Domenica

(19 ottobre 2008)

 

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Is 45,1-6;  Sal 95;  1Ts 1,1-5;  Mt 22,15-21

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La visione di Isaia e la massima di Gesù riportata nel brano di vangelo di oggi si richiamano e si sostengono a vicenda. La liturgia ce ne schiude la porta di accesso con il ritornello responsoriale: “Grande è il Signore e degno di ogni lode” (Sal 95,4). Ma quando una simile confessione risulta vera? Quando prorompe dal fondo di un cuore che a lungo ha invocato, come dice l’antifona di ingresso: “Io ti invoco, mio Dio: dammi risposta, rivolgi a me l’orecchio e ascolta la mia preghiera. Custodiscimi, o Signore, come la pupilla degli occhi, proteggimi all’ombra delle tue ali” (dal salmo 16). E perché l’uomo è ‘costretto’ a invocare il suo Dio se non perché la storia è drammatica e l’uomo rischia di perdersi? La cifra del dramma della storia è ben espressa dalla massima di Gesù: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Ma Gesù parla di quel Dio che ha una provvidenza di salvezza da dispiegare, che continuamente intesse la storia della sua provvidenza di salvezza, come ben rivela la visione di Isaia quando descrive Ciro, il Cesare dell’impero che aveva fagocitato Israele, nell’atto di apprestarsi a ridargli quello spazio un tempo negato, compiendo così il disegno di salvezza del Dio di Israele. Senza riconoscere la via di salvezza offerta dal Signore nella sua provvidenza, come vivere la confessione del salmista: “Grande è il Signore e degno di ogni lode”?

È appunto tenendo insieme la visione di Isaia e la dichiarazione di Gesù che la storia sta aperta all’eternità: se ne può intravedere la finalità di salvezza, dentro uno spazio di libertà che permette di rispondere alla domanda di senso. Il brano evangelico può essere letto da più angolature e io vorrei suggerirne una soltanto. La vita di Gesù volge al termine e i suoi avversari stanno cercando un pretesto per riuscire a metterlo fuori gioco. Lo provocano sulla questione del tributo da pagare all’occupante romano. Si tratta della tassa pro capite (in latino, census) che i romani esigevano da tutti gli abitanti (uomini, donne e schiavi) di Giudea, Samaria e Idumea, dai 12/14 anni fino ai 65. La tassa versata corrispondeva a un denaro d’argento, l’equivalente della paga giornaliera di un operaio, pagata con una moneta speciale che portava l’immagine dell’imperatore Tiberio (14-37 d.C.) con l’iscrizione: TIBERIUS CAESAR DIVI AUGUSTI FILIUS AUGUSTUS PONTIFEX MAXIMUS (Tiberio Cesare, augusto figlio del divino Augusto, sommo sacerdote).

Il tranello consisteva nel costringere Gesù a prendere posizione o pro o contro l’obbligo del pagamento della tassa: se rispondeva a favore del pagamento, lo si poteva accusare di antipatriottismo; se rispondeva contro, poteva essere accusato di sedizione contro l’autorità costituita.

La risposta di Gesù, come sempre, allarga la questione e ne fa diventare una questione di discernimento per non fallire il senso della vita. Tutto il brano acquista uno spessore assolutamente speciale e tutti i particolari possono essere letti nell’ottica di quello spessore.

La domanda è posta con malizia. Ma gli eventi della storia sono immersi tutti nella malizia di quella domanda: la storia non si apre automaticamente alla salvezza. Occorre saper distinguere, occorre tener distinti i piani, occorre esercitare la responsabilità adeguata secondo i piani nei quali siamo confrontati. La storia tutta può diventare storia sacra, ma non automaticamente e non confusamente.

Così, l’elogio che viene tributato a Gesù (“Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno”) non risponde solo alla cattiva intenzione dei suoi accusatori, ma esprime anche la condizione per poter discernere. Diversamente, la storia soffoca o esalta, ma non si apre alla salvezza. Aprirsi alla salvezza, alla fin fine, vuol dire sfuggire alla malizia del potere che vuole tutti ‘soggetti’, senza sapere bene in nome di che cosa. L’aspetto straordinario e straordinariamente potente della posizione indicata da Gesù, che costituisce davvero la ‘buona notizia’ per gli uomini nella storia, è dato dal fatto che Gesù è proclamato come non soggetto a nessuno, quindi sovranamente libero e tuttavia, lui, di se stesso, si proclama sottomesso a tutti (pensiamo all’immagine di lui che si cinge il grembiule e lava i piedi ai discepoli), servo di tutti perché l’amore del Padre conquisti tutti. La libertà che gli è attribuita gli deriva dalla perfetta comunione con il Padre, che vuole tutti salvi e che lo abilita a vivere la vita nel servizio di questa straordinaria provvidenza di amore per l’umanità. Quando Gesù dice di dare a Dio quello che è di Dio allude proprio a quel Padre da cui lui proviene, che lui conosce, di cui testimonia l’amore e di cui mette anche noi in condizione di essere in comunione. Di qui scaturisce quella libertà che, non rendendoci soggetti alle cose, è capace di aprire gli spazi adeguati perché gli eventi si schiudano all’eternità, cioè a quella dimensione del vivere un amore nella storia perché tutti si possa dire: “Grande è il Signore e degno di ogni lode”.