Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo di Natale

 

Battesimo del Signore

(13 gennaio 2008)

 

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Is 42,1-7;  Sal 28;  At 10,34-38;  Mt 3,13-17

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La liturgia del battesimo di Gesù fa parte ancora del ciclo natalizio. La Chiesa celebra, nel battesimo al fiume Giordano, la manifestazione di Gesù al suo popolo e il mistero di salvezza che ne deriva, collegato alla visita dei Magi e al primo miracolo a Cana di Galilea, come canta l’antifona al Benedictus: "Oggi la Chiesa, lavata dalla colpa nel fiume Giordano, si unisce a Cristo suo Sposo; accorrono i magi con doni alle nozze regali e l'acqua cambiata in vino rallegra la mensa". Il mistero è contemplato nell’ottica dell’invocazione: "Dio onnipotente ed eterno, che nel Natale del Redentore hai fatto di noi una nuova creatura, trasformaci nel Cristo tuo Figlio, che ha congiunto per sempre a sé la nostra umanità" (colletta, sabato 12 gennaio).

Nel battesimo di Gesù, che la Chiesa legge a partire dal mistero della nascita a Betlemme, si preannuncia il compimento della Pasqua. L'immagine di fondo è quella delle nozze: Dio sposa l'umanità. A Betlemme il Figlio di Dio si fa uomo, Dio assume l'umanità, ma quello che ha comportato tale assunzione si fa manifesto con il Battesimo di Gesù quando, confuso con i peccatori, Lui, l'Innocente, solidarizza con l'umanità reale e a questa umanità reale dona il suo riscatto. L'evento è però solo proclamato, sigillato, in attesa di compierlo definitivamente con la sua morte-risurrezione. Con l'adorazione dei magi questo mistero è rivelato essere eredità di tutte le genti e con la trasformazione dell'acqua in vino a Cana viene celebrata la gioia messianica dell'umanità. Oramai l'umanità appartiene in proprio a Dio, oramai l'umanità, pur con tutto il suo carico di paure e ferite, è carne del Figlio di Dio, che se l'è assunta nella sua realtà, integralmente. Non si può più parlare di umanità senza che sia Dio ad esserne toccato. Non si può più gemere sull'umanità senza aver compassione di Dio. Non c'è più motivo di temere questa umanità perché tutta parla di Dio, del Suo amore e della Sua sofferenza.

“Appena battezzato, Gesù uscì dall' acqua: ed ecco, si aprirono i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire su di lui. Ed ecco una voce dal cielo che disse: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto»”. Questi due versetti celano molti misteri. Notiamo intanto che Gesù viene al battesimo di Giovanni nella sua natura di servo e proprio in questa forma riceve la consacrazione dello Spirito Santo e la testimonianza del Padre. Lo Spirito riempie non tanto il Figlio di Dio, ma il Figlio di Dio fatto uomo, lo riempie nella sua umanità; il Padre esprime il suo compiacimento non semplicemente sul Figlio, ma sul Figlio nella sua umanità. Così il particolare dei cieli che si aprono assume un significato molto denso: non si tratta semplicemente della rivelazione della divinità di Gesù, ma del fatto che il cielo e la terra si specchiano perfettamente, del fatto che Dio è in comunione con l’umanità riconciliata, che l’umanità può entrare nei cieli. Quando Matteo, descrivendo gli eventi dopo la morte di Gesù in croce, riferisce: “Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo” (Mt 27,51) allude proprio a questa ‘apertura’ dei cieli. Il particolare che Marco, nel suo vangelo, usa lo stesso verbo ‘squarciare’ per indicare i cieli aperti al battesimo e il velo del tempio che si lacera, conferma l’accostamento.

Il battesimo mostra anticipatamente quello che si compie alla Pasqua: il velo del tempio (per l’esattezza, del Santo dei santi) che si squarcia, significa, tra l’altro, che ciò che è riposto nel seno del Padre, il suo Verbo, germoglia dall’interno della terra ove è stato riposto con la morte-risurrezione, aprendo, per l’umanità intera, l’accesso al Santo dei santi: la vita intima del Padre. Quando Gesù dirà che lui è la porta vuole riferirsi a questa medesima realtà: in Gesù l’umanità entra nel cielo e il cielo si apre sull’umanità. L’immagine della colomba sembra riferirsi alla stessa realtà, almeno secondo certe interpretazioni patristiche: lo Spirito annuncia al mondo la misericordia di Dio, che in Gesù risplende piena e assoluta.

La voce del Padre è quella di cui Gesù dirà: “Io sono nel Padre e il Padre è in me” (Gv 14,10); “Io dico quello che ho visto presso il Padre” (Gv 8,38); “Io invece lo conosco” (Gv 8,55); “Faccio quello che il Padre mi ha comandato” (Gv 14,31). L'aggettivo prediletto, proclamato dalla voce del Padre, non dice soltanto tutta l'intimità goduta tra il Padre e il Figlio, ma illustra anche  lo sconfinato amore per l'umanità che i due condividono. Prediletto fa pensare ad Abramo, pronto ad immolare il figlio Isacco (Gen 22,2). Rimanda al figlio della parabola dei vignaioli omicidi (Mc 12,6). Prediletto ha attinenza con “Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16), ha attinenza al mistero dell'amore del Padre per l'umanità di cui il Figlio è il rivelatore, lui che è il Volto visibile del suo splendore. È il prediletto perché il Suo Amore di Padre in Lui è perfetto nel senso che in Lui si compie perfettamente il Suo volere di benevolenza per l'umanità e Lui non ha altro volere che quello di compierlo perfettamente: “Mio cibo è fare la volontà del Padre” (Gv 4,34). È prediletto perché non solo il Suo Amore si volge verso di lui , in lui si posa, ma anche si riposa, sta soddisfatto, ne ottiene la risposta più piena.

Il risvolto tutto speciale del mistero allude però a qualcos’altro. Lo sguardo di predilezione del Padre sul Figlio non concerne più oramai solo la persona del Verbo, ma il Verbo nella sua umanità, il Capo con le sue membra. La lettura del profeta Isaia riguarda proprio l’identificazione di Gesù come il servo, l’identificazione del Messia nella sua natura di servo. Non dimentichiamo che questo brano di Isaia ricorre nella liturgia del lunedì della settimana santa, a sottolineare la dimensione pasquale di quell’identificazione. In quella natura di servo siamo noi, nella nostra umanità, ad essere considerati. Non dobbiamo perciò pensare che lo sguardo di compiacimento del Padre attenda a posarsi su di noi allorquando saremo capaci di seguire Cristo in una vita santa; è esattamente il contrario. Potremo impegnarci in una vita santa solo se sentiremo sulla nostra umanità peccatrice, ferita e piena di paure, questo sguardo di compiacimento perché Dio ama per primo, perché a Lui apparteniamo, perché siamo la sua stessa carne. Ed è proprio perché la nostra fede squarcia l’orizzonte per introdurci in questa visione che possiamo pregare, come citavo all'inizio: " ... trasformaci nel Cristo tuo Figlio, che ha congiunto per sempre a sé la nostra umanità".