SECONDO CICLO  C

 

 

 

PRIMA DOMENICA DI AVVENTO, ANNO C

Ger 33,14-16;  Sal 24;  1 Ts 3,12-4,2;  Lc 21,25-36

 

È assai caratteristico: l’anno liturgico finisce e comincia con la stessa lettura evangelica del cap. 21 di Luca. Ciò che si attende per la fine è lo stesso di ciò che si contempla per l’inizio. Ciò vuol dire che tutta la storia è racchiusa, vale a dire riceve senso, a partire da un unico punto: la realtà del Signore Gesù che si colloca all’ inizio della creazione, al centro e alla fine della storia. La liturgia insegna a considerare gli eventi a Lui collegati, che sono così significativi per la vita degli uomini, in una chiave particolare. Ieri, l’ultimo sabato dell’anno, il canto all’alleluia proclamava: “Siate vigilanti, fissate la speranza in quella grazia che vi sarà data al ritorno del Signore Gesù Cristo”. E oggi, prima domenica del nuovo anno liturgico, il canto all’alleluia proclama: “Mostraci, Signore, la tua misericordia e donaci la tua salvezza”. La preghiera coglie così la prospettiva di visione adatta ai nostri cuori davanti al mistero del Signore Gesù: siamo nell’attesa della rivelazione dell’amore di benevolenza del Signore per i suoi figli! Attesa, che non si riferisce solamente al premio finale, ma al desiderio di godibilità, nel tempo, di quella rivelazione, nella quale si incontrano e si consumano due desideri, quello dell’uomo e quello di Dio. Tutto l’invito della liturgia dell’Avvento alla vigilanza (vedi il brano evangelico: “Levate il capo” ... “State bene attenti” … “Vegliate e pregate in ogni momento”) si concentra sulla possibilità di sentire e accogliere proprio quel desiderio che Dio ha dell’uomo e che in Gesù si fa percepibile. Quando accorreremo per adorarlo, a Natale, nella mangiatoia, esulteremo proprio per la grandezza percepita del desiderio di noi che ha mosso Dio a farsi toccare da noi.

La Bibbia finisce con un grido: “Lo Spirito e la sposa dicono: Vieni!... Amen. Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,17.20). Riassume l’anelito di Dio per l’uomo e quello dell’uomo per Dio di cui sono impastate tutte le Scritture. L’incompletezza delle cose e l’insoddisfazione dell’uomo, a qualunque causa si addebitino, portano inscritto l’eco di quel grido. A noi l’udirlo, perché dalle profondità del cuore proviene, eco della promessa del Signore di dare la vita per la quale siamo fatti. Il brano del vangelo, esortandoci alla vigilanza, ci invita a sintonizzarci su quel grido, ad accoglierlo come sussulto davanti all’offerta d’amore del nostro Dio (si veda la prima lettura del profeta Geremia, al cap. 33, vera dichiarazione d’amore di Dio per il suo popolo) che sovrasta e attraversa ogni nostro frastuono o sordità. Il salmo che viene cantato come risposta al brano di Geremia, il salmo 24, apre una finestra di luce proprio sulle intenzioni di Dio che parlano al nostro cuore: “Il Signore si rivela a chi lo teme … gli fa conoscere la sua alleanza”. Il testo ebraico è ancora più eloquente: “Il segreto (l’intimità) del Signore è per chi lo teme…”. Come a dire: le vie del Signore che chiediamo di conoscere sono la verità e la grazia del suo amore, che in Gesù si è reso toccabile, amore che costituisce la sua offerta di alleanza con noi in modo ultimativo, assolutamente definitivo. Non c’è evento nella nostra vita che possa cancellare o soffocare, far desistere il Signore dal suo amore. Temere lui vuol dire non impedire al cuore di vivere di quel suo desiderio di amore per noi.

Quando, con la colletta domandiamo: “O Dio, nostro Padre, suscita in noi la volontà di andare incontro con le buone opere al tuo Cristo che viene perché egli ci chiami accanto a sé nella gloria a possedere il regno dei cieli”, in realtà domandiamo semplicemente di aprire il nostro cuore al desiderio di Lui. E più precisamente, domandiamo che il nostro desiderio di Lui si lasci incendiare dal suo desiderio di noi, perché solo così il bene che si vuole si traduce in opere buone, capaci di far risplendere quel Bene che a Lui rimanda. Se il nostro bene non parla di Lui, vuol dire che il nostro cuore non è ancora conquistato dall’amore e se non è stato conquistato dall’amore come potrà far risplendere il bene?

L’antifona alla comunione riprende un versetto del brano evangelico coniugandolo secondo una certa dinamica: “Vegliate e pregate in ogni momento per essere degni di comparire davanti al Figlio dell’uomo”. Sempre per dire che se il nostro cuore intercetta il desiderio di Dio per noi, allora il Signore Gesù appare davanti a noi come il sigillo e la figura di quell’amore di benevolenza di Dio su cui è costruito il mondo e di cui è intessuta la mia vita. Comparire davanti al Figlio dell’uomo significa riconoscersi destinatari e soggetti di quell’offerta di amore che trasfigura il mondo e rende la vita desiderabile e godibile. La liturgia di oggi insiste semplicemente sul fatto di imparare a intercettare il desiderio di Dio; non pone prerequisiti particolari. Una volta però che il cuore percepisce quel desiderio, diventa capace di percorrere una strada, di sopportare la fatica del cammino che lo condurrà a condividere gli stessi sentimenti di Dio nel Suo desiderio di comunione con gli uomini. Le prossime domeniche illustreranno per dove si snoda quel cammino.

 

 

IMMACOLATA CONCEZIONE, ANNO C

Gn 3,9-15.20;  Sal 97;  Ef 1,3-6.11-12;  Lc 1,26-38

 

         ‘Abbiamo contemplato, o Dio, le meraviglie del tuo amore’: così cantiamo nel ritornello del salmo responsoriale. In una delle visioni riportate nel suo Libro delle rivelazioni, Giuliana di Norwich (+ 1420) riporta le parole che Gesù le avrebbe detto: “Vorresti vedere quanto io l’amo [la sua santa Madre], affinché tu possa rallegrarti con me dell’amore che ho per lei e di quello che ella ha per me? Bisogna capire bene qui che, dicendo questo, nostro Signore si rivolgeva, nella mia persona, a tutti gli eletti. E’ come se avesse detto: “Vuoi vedere nella Madre mia fino a che punto tu sei amato? E’ per amore verso di te che io l’ho fatta così grande, così nobile, così bella. Ne sono felice e vorrei che fosse la stessa cosa per te”. Ogni dono di Dio per ciascuno comporta condivisione per tutti di gioia e di esperienza dell’amore suo. Per la Vergine immacolata questo vale in sommo grado perché il dono di Dio in lei riassume tutta la gioia e l’amore che Dio porta all’umanità da colmare ogni attesa e desiderio. Uno dei titoli più evocativi che la tradizione abbia forgiato per illustrare il mistero della Vergine è senz’altro quello di ‘gioia dell’universo’ perché da lei ha preso carne il Figlio di Dio, motivo della nostra gioia e della nostra pace.

         “Benedetto sia Dio, Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione …” :  come non riferirlo prima di tutto alla Vergine Maria? Lei è la benedizione dell’umanità in cui tutti siamo benedetti perché da lei nasce il Benedetto che ci ha consolati, come la liturgia di tutto l’avvento proclama. Della Sapienza è detto : “ero la sua delizia ogni giorno, dilettandomi davanti a lui in ogni istante; dilettandomi sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo” (Prov 8,30-31). La delizia di Dio tra i figli dell’uomo è proprio lei, la Vergine Immacolata, come d’altronde lei è la delizia degli stessi figli dell’uomo perché in lei possiamo contemplare quanto è grande l’amore di Dio per l’uomo.

         Le scene della Genesi e dell’annunciazione si richiamano. Nel giardino dell’Eden, il tentatore si appressa ad Eva con un annuncio malefico: Eva vuole la ‘sapienza’ e trova la vergogna, condividendo con Adamo illusione e disincanto da non poter più trovare delizia nel giardino di Dio. E la sua nuova condizione di peccato e di dolore sarà vissuta nell’alienazione di cui è segno la violenza dei rapporti. Nella casa di Nazareth, l’angelo Gabriele porta un annuncio misterioso: Maria prova timore, resta umile e trova l’esaltazione, condividendo con l’umanità la grazia e la gioia delle delizie di Dio. La condizione di grazia la fa vivere in piena armonia ed intimità di cui è segno il suo abbandono in Dio. Lei proclama: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”, come a dire: Dio solo sia benedetto, si realizzi la Sua promessa, si manifesti in me, finalmente e compiutamente, il Suo Bene all’umanità! Ma questa è anche la preghiera di ogni credente, di ogni discepolo del Signore: avvenga di me quello che hai stabilito fin dall’eternità, si compia in me quello che dalla fondazione del mondo hai promesso all’umanità, si veda realizzato in me quel Regno che nel tuo Figlio hai fatto venire.

         Non avevo mai riflettuto sul fatto di chiamare ‘nostra Signora’ la Vergine, Madre di Dio. Qual è il significato di questo appellativo? Un passo di un’omelia di Gregorio Palamas è illuminante: “La Vergine è Signora non solo perché è libera dalla schiavitù del peccato e partecipe del dominio divino, ma anche perché è diventata causa e radice della libertà del genere umano” (Omelia 14,8). Così, se l’uomo vuole accedere al regno della libertà, non ha che da guardare a questa sua sorella, al suo mistero, alla sua storia, alle sue emozioni, ai suoi dolori, al suo amore perché in lei ritrova tutto il mistero dell’amore di Dio per l’uomo. E non si può vivere l’amore senza libertà. Nella sua grandezza non cessa di essere sorella nostra, come nella nostra miseria non cessiamo di essere oggetto dell’amore di Dio. Il suo ‘avere’ il Signore con lei è motivo di fiducia per noi di trovarlo, di essere accompagnati a lui, di stare in sua compagnia. ‘Il Signore è con te’ diventa, nella nostra preghiera: ‘tu che hai il Signore supplicalo perché sia anche con noi, ora e sempre!

 

 

SECONDA DOMENICA DI AVVENTO, ANNO C

Bar 5,1-9;  Sal 125; Fil 1,4-11;  Lc 3,1-6

 

La chiesa introduce la testimonianza di un profeta d’eccezione per predisporci ad accogliere la venuta di Gesù: Giovanni Battista. È definito come la ‘Voce che grida nel deserto’, voce per una Parola che ancora deve mostrarsi, ma dalla quale è già conquistato e di cui diventerà testimone.

Il brano del vangelo di Luca, in questo inizio del capitolo terzo, si espande in continue e misteriose allusioni. La storia di Gesù è definita in rapporto a Giovanni Battista e Giovanni Battista è definito in rapporto al popolo di Israele che attende la manifestazione del proprio Dio secondo la sua promessa. La liturgia fa ben vedere tutti questi nessi. Vengono definite le coordinate storiche non secondo i dati della storia di Israele, ma di quella pagana, a indicare la centralità dell’evento per la storia umana. I riferimenti sono legati alle autorità che derivano il loro potere dal beneplacito di Roma: Ponzio Pilato (governatore/prefetto della Giudea tra il 18 e il 36 d.C.), Erode Antipa (che governa tra il 4 a.C. e il 39 d.C.), Filippo (al potere tra il 4 a.C. e il 34 d.C.) e Caifa, sommo sacerdote, che svolge il suo incarico tra il 18 e il 36, dopo che Anna, suo suocero, era stato deposto nell’anno 15. Le coordinate di senso, invece, sono definite in rapporto alla storia sacra d’Israele con allusioni, dirette e indirette, alle Scritture per far comprendere sia la vicenda del Battista che il compimento delle promesse di Dio al suo popolo. Il Battista è definito con un riferimento diretto al profeta Isaia 40,1-5 e con un’allusione alla vocazione di Geremia 1,1 e alla promessa di Dio in Osea 2,16-22. A questi brani la liturgia aggiunge il testo di Baruch, essenziale a cogliere il grido del Battista.

Partiamo dalla vocazione del Battista. Giovanni Battista viene presentato come profeta, profeta per eccellenza e ultimo profeta, colui che introduce alla ‘presenza’ di Colui che tutti i profeti avevano annunziato, come sapremo dal seguito del racconto. Tutti i riferimenti alle Scritture seguono il testo greco dei LXX. Quello che noi leggiamo in Luca: “la parola di Dio scese su Giovanni” (oppure, secondo altre versioni: “la parola di Dio fu rivolta a Giovanni”), corrisponde all’inizio del libro di Geremia. Il testo greco però non dice semplicemente che la parola di Dio fu rivolta a, ma che la parola di Dio venne su di, che la parola di Dio fu su di (che il latino rende con ‘factum est verbum Dei’), usando gli stessi termini che nel libro di Geremia. La cosa straordinaria da notare è che la stessa espressione viene usata da Giovanni nel suo prologo per indicare la creazione ad opera del Verbo e la nascita del Verbo come carne. Queste allusioni sottolineano l’estrema densità di quell’evento che avviene per il Battista, ma che è avvenuto fin dall’inizio e si è ripetuto per tutti i profeti: la Parola di Dio entra con forza e si impone, opera quello che esprime, è capace di dar forma, di dare essere, di fare quello che dice. E qui sta tutto il senso della storia di Israele, che è storia sacra per tutta l’umanità, di cui tra breve, nel racconto evangelico, Gesù mostrerà tutta la forza e lo splendore, Lui che è appunto la Parola che la voce del Battista proclamerà e di cui si testimonia che è la Parola ‘fatta’ carne, Dio venuto a compiere le sue promesse.

L’allusione alla voce che grida nel deserto riprende il testo di Osea: “Perciò, ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore… Là canterà come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese d' Egitto… ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell' amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore”, dove il brano, reso pudicamente in italiano, ha un connotato molto più realistico: ti sedurrò, parlerò sul tuo cuore, con espressioni tipiche dell’intimità delle relazioni tra l’uomo e la donna; canterà, nel senso della risposta della sposa che si dona a suo marito. Allora, portare nel deserto da parte di Dio allude, sì, allo spogliamento (= penitenza) dei beni e delle cose nei quali ci si è illusi di trovare felicità, ma soprattutto allude a una nuova storia di amore che Dio è pronto a intessere col suo popolo su basi nuove, con una nuova alleanza, perché finalmente il cuore possa godere la vita in modo soddisfacente. Quando il Battista comincia a gridare nel deserto, nella sua voce c’è l’eco di questo desiderio di Dio di venire dal suo popolo, un’eco che non rimbomba più da lontano ma si fa sempre più vicino, fino a tramutarsi nel suono diretto della Parola d’amore che appare in mezzo al suo popolo quando Gesù si manifesterà.

Quando il Battista grida: “preparate la via del Signore”, l’allusione è al brano del profeta Baruch, che costituisce il contesto in cui comprenderla. Là il profeta aveva proclamato: Poiché Dio ha stabilito di spianare ogni alta montagna e le rupi secolari, di colmare le valli e spianare la terra perché Israele proceda sicuro sotto la gloria di Dio”. Non è l’uomo a spianare la strada al suo Dio, ma è lo stesso Dio che spiana la strada. L’invito alla conversione è dunque l’invito a ‘vedere’ la venuta di Dio che viene incontro al suo popolo, è l’apertura di cuore a riconoscerlo nella sua offerta di alleanza, nella sua proclamazione di amore. Il Battista chiama la gente alla conversione nel deserto per imparare a percepire la nuova opportunità di salvezza che viene da Dio, mentre Gesù, che di quella salvezza è l’attore e il portatore, andrà lui dalla gente per farla gustare e rinnovare così i cuori tanto che ‘ogni creatura potrà vedere la salvezza’, cioè vedere in Lui quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini (= vedere la gloria) e disporre tutti a vivere lo stesso mistero di amore perché Dio sia celebrato ovunque. Sarà uno degli esiti della gioia del Natale.

 

 

 

III DOMENICA AVVENTO, ANNO C

Sof 3,14-18;  Sal: Is 12,2-6;  Fil 4,4-7;  Lc 3,10-18

 

Gioisci, figlia di Sion, esulta, Israele, e rallegrati con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme!”; “Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi”. Così la liturgia, oggi, accoglie i fedeli: li chiama alla gioia, insistentemente. Per quale motivo? Con quali ragioni? Se non si coglie la portata di questo invito, nemmeno si può cogliere la portata delle parole e della testimonianza del Battista secondo il racconto del vangelo.

Il ritornello del salmo responsoriale definisce il nostro Dio come ‘Dio della gioia’. L’espressione va intesa in due sensi: Dio è pieno di gioia per noi (= noi siamo la sua gioia) e Dio è fonte di gioia per noi (= Dio è la nostra gioia). Se il cuore non vede mai, non percepisce mai come Dio cerchi la sua gioia in noi, come Dio non si dia pace finché noi vediamo quanto è contento di poter stare con noi, come potremo fare esperienza che Dio è la nostra gioia, che i suoi comandamenti sono la gioia del nostro cuore? Il profeta Sofonia lo dice chiaramente: è Dio ad esultare di gioia per noi; è lui a revocare la nostra condanna, è lui che salta dalla gioia operando la nostra salvezza, come non potesse essere felice senza di noi. La cosa è tanto singolare che la nostra psicologia interiore non riesce a produrre una sensazione del genere. Eppure, la percezione della gioia di Dio per noi è la radice della nostra dignità. Quella percezione è frutto della ‘conversione’, vale a dire della impossibilità di negare che Dio viene a noi con gioia, gioia che è frutto del suo amore per noi che conquista il nostro cuore. È l’esperienza della fede: Dio viene incontro a noi e noi lo riconosciamo nel suo agire per noi. Riconoscere la sua gioia la procura anche a noi. Quando Giovanni Battista riconosce in Gesù l’Inviato di Dio lo riconosce appunto come riflesso della gioia che quella visione, quell’incontro, gli procura. Fin dal grembo di sua madre, Giovanni ha esultato di gioia alla presenza di Gesù. Da adulto, ormai al termine del suo cammino, di sé dice: “Ma l’amico dello sposo sta in piedi ad udirlo e si riempie di gioia alla voce dello sposo” (Gv 3,29) : godeva non tanto perché gli era dato predicare e parlare ma perché poteva ascoltare. Così, quando Luca deve descrivere la premura di Dio per gli uomini, non ha di meglio che narrare la parabola del figlio ritrovato, della pecorella e della dramma ritrovate (Lc 15) dove la rivelazione del cuore di Dio si fa evidente proprio attraverso la sua gioia per noi. Ciò vuol dire ancora che la nostra gioia non può derivare dalla nostra innocenza, perché davanti a Dio suonerebbe solo come una pretesa di giustizia, mentre deriva dal suo amore per noi.

Così il motivo della gioia della liturgia di oggi è la proclamazione che il Signore è in mezzo a noi come un salvatore potente, dove potente significa ‘capace di dare letizia’ e salvatore ‘pieno della gioia che arriva anche a noi, capaci finalmente di condividerla’. In tal senso il brano evangelico ha un’allusione misteriosa. Giovanni chiama Gesù ‘uno che è più forte di me’ e mette in relazione quella forza allo Spirito Santo nel quale Gesù battezzerà. Come riporterà Luca più avanti, cap. 11, v. 22, il definire Gesù ‘il più forte’ significa riconoscergli la dignità di Messia. E la forza del Messia sta nel fatto che fa vedere Dio presente, che fa vedere il Regno che si compie. Ma il Regno che si compie è proprio l’amore di Dio che diventa condiviso, apertamente e fraternamente condiviso con tutti gli uomini, nello Spirito, cioè nella letizia che non viene più tolta. E la letizia che non viene più tolta (= la perfetta letizia di s. Francesco) è proprio quella che custodisce la gioia di Dio per noi perché il suo amore ormai risplende senza farsi più turbare o distrarre da altro. È la letizia come segno del Regno che viene, come l’opera di Dio che si fa manifesta. Per questo insieme allo Spirito Santo viene nominato il fuoco. È l’altra faccia della medaglia: condividere la gioia di Dio per l’uomo comporta evidentemente il bruciare tutto quello che a quella gioia si oppone o che quella gioia contraddice. E poi scopriamo che ciò che contraddice alla gioia di Dio è la chiusura nei confronti dell’umanità, prima di tutto del nostro Dio e poi di tutti i suoi figli, per cui l’indicazione delle varie opere che il Battista indica come segno dell’incipiente conversione si muove nella prospettiva di una dinamica di solidarietà con gli uomini.

Possiamo ora pregare la colletta in verità: “Guarda , o Padre, il tuo popolo che attende con fede il Natale del Signore, e fa’ che giunga a celebrare con rinnovata esultanza il grande mistero della salvezza”. Oppure, con la preghiera sulle offerte: “Sempre si rinnovi, Signore, l’offerta di questo sacrificio che attua il santo mistero da te istituito, e con la sua divina potenza renda efficace in noi l’opera della salvezza”.

 

 

IV DOMENICA AVVENTO, ANNO C

Mic 5,1-4;  Sal 79;  Eb 10,5-10; Lc 1,39-48

 

La liturgia di oggi si apre con l’antifona tradizionalmente cantata nella novena in preparazione del Natale: “Rorate coeli desuper et nubes pluant justum: aperiatur terra, et germinet salvatorem”; “Stillate dall’alto, o cieli, la vostra rugiada e dalle nubi scenda a noi il Giusto; si apra la terra e germogli il Salvatore” (Is 45,8). Si tratta della versione della Volgata che interpreta messianicamente l’espressione più neutra dell’ebraico e del greco dei LXX: “Stillate, cieli, dall’alto e le nubi facciano piovere la giustizia; si apra la terra e produca la salvezza”. Quel Giusto, quel Salvatore, di cui si invoca la discesa contemporaneamente dall’alto e dalla terra, è colui che di sé dice entrando in questo mondo: “Ecco, io vengo per fare la tua volontà” (Eb 10,7). La sua non è una dichiarazione puntuale, che avviene cioè in un determinato momento sottintendendo che prima non pensava in questi termini, ma è una dichiarazione eterna, frutto del colloquio eterno tra il Padre e il Figlio nell’amore che li lega tra loro e al mondo. L’apparire finalmente di Gesù nella storia umana non riguarda semplicemente la cronaca storica, ma concerne la dimensione eterna della storia umana perché non può esistere storia umana se non nella storia sacra, nella storia dell’alleanza tra Dio e l’uomo. Lui ne è il fulcro, ne è la radice ed insieme il frutto. Si invoca la sua discesa dall’alto: Dio si avvicina all’uomo, non l’uomo a Dio; Dio si fa figlio dell’uomo, non l’uomo Figlio di Dio. Ma si invoca pure dal basso, dalla terra: Dio non sopraggiunge come un meteorite, come importato da fuori, benché dall’alto; Dio, nel suo agire, sempre accondiscende all’uomo e quando si avvicina all’uomo lo fa in modalità umana, da dentro quella storia che ha messo in moto per condividere con l’uomo il suo Bene. Invocare la sua discesa dalla terra è proclamare la santità dell’umanità della Vergine che Dio stesso si è preparato perché finalmente si compia quel ‘volere’ che ha costituito il desiderio di Dio dall’eternità: Dio e l’uomo in uno, tutto Dio per l’uomo e tutto l’uomo per Dio.

A quel ‘volere’ si appella la Vergine con le sue parole all’angelo: “Sono la serva del Signore: avvenga di me quello che hai detto”. Si rivela qui la santità dell’umanità della Vergine che diventa lo spazio per il desiderio di Dio, ritrovando in ciò tutta la sua dignità di creatura e tutto lo splendore nel quale era stata concepita fin dall’inizio della creazione. E non per nulla l’elogio di Elisabetta si appunta proprio su questo: “beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore”. E parafrasando potremmo aggiungere: beata colei che ha fatto esperienza così forte e totale dell’amore di benevolenza di Dio per l’umanità da non ricercare altro nel suo vivere se non che quell’amore di benevolenza avesse tempo e modo di riversarsi su tutto e su tutti, eternamente, su di lei come sul mondo. E’ da tale consapevolezza che sgorgano le parole del magnificat e il canto di esultanza dell’essere che vede lo spazio di vita ormai  totalmente occupato da quell’amore. Anche nella preghiera del Padre nostro, quando invochiamo ‘sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra’ per prima cosa chiediamo di fare esperienza di quell’amore di benevolenza da parte di Dio, amore nel quale siamo stati concepiti e voluti e che costituisce tutto il nostro splendore.

Se si accoglie il Verbo di Dio, se ne accoglie anche la dinamica di amore che l’ha spinto a venire a noi, dinamica che investe il mondo e che costituisce il suo splendore. Ecco perché in quell’ avvenga di me quello che hai detto c’è anche l’impeto di carità che muove la Vergine ad andare da sua cugina Elisabetta. Le parole del ‘magnificat’ alludono anche alla carità che ha investito il suo cuore e del cui splendore il suo agire è ormai testimone, segno della presenza fatta carne del Figlio di Dio. Di quell’amore Lui è il rivelatore per eccellenza perché conoscendo il Padre in verità sa che è amore per noi. E questo è venuto a ‘far vedere’! E in questo sta la nostra salvezza e la nostra pace.

Nel canto responsoriale si proclama: “Fa’ splendere il tuo volto e salvaci, Signore”, a commento del brano del profeta Michea che aveva annunciato la nascita del Messia a Betlemme. Il versetto è ripreso dal salmo 79, versetto che viene ripetuto tre volte nella forma: “Fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi”. Il salmo si appunta sulla proclamazione del Messia come ‘figlio dell’uomo che per te hai reso forte’. Forte da vincere ogni nemico e farci godere la pace, cioè ricondurci all’esperienza dell’amore di Dio così forte da non concepire la vita in altri termini se non nella logica di quell’amore. La pace non è evidentemente assenza di afflizioni, ma condivisione dell’amore, amore che esprime tutto il volere di Dio per l’uomo e da parte sua e da parte nostra. È interessante osservare che l’espressione della lettera agli Ebrei: “Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparatoAllora ho detto: Ecco, io vengo - poiché di me sta scritto nel rotolo del libro - per fare, o Dio, la tua volontà” riprende la versione greca del salmo 40, ma l’ebraico porta: “gli orecchi mi hai aperto”, ad indicare la disponibilità totale al volere di Dio. Ma se Gesù prende un corpo, lo prende non solo per compiere il volere di salvezza di Dio per l’uomo, ma anche per mettersi in condizioni di compiere quella salvezza in termini di splendore di amore e di nient’altro. Non c’è ombra di ‘potenza’ nell’amore che Gesù manifesta nascendo come un bambino, vivendo da uomo e morendo sulla croce; eppure, non c’è potenza più forte di quell’amore che non si fa vincere da nulla. È l’amore che ‘magnifica’ il Signore davanti all’uomo e l’uomo davanti a Dio.

 

 

NATALE DEL SIGNORE

Messa della notte: Is 9,1-6; sal 95; Tt 2,11-14; Lc 2,1-14

Messa dell’aurora: Is 62,11-12; sal 96; Tt 3,4-7; Lc 2,15-20

Messa del giorno:  Is 52,7-10; sal 97; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18

 

         Un poema natalizio di s. Efrem canta: “Sia benedetto Colui che ha consegnato la nostra anima, che l’ha adornata e se ne è fatta la fidanzata! Sia benedetto Colui che ha fatto del nostro corpo una tenda per la sua Invisibilità! Sia benedetto Colui che nella nostra lingua ha tradotto i suoi segreti!... Gloria a Colui che non ha mai bisogno che noi lo ringraziamo. Ma che ha bisogno di tenerci per cari, che ha sete di amarci e che chiede che noi gli diamo perché Lui possa darci ancora di più”.

         Il Natale del Signore sottolinea le mosse di Dio verso l’uomo. Tutta la liturgia, nei suoi tre formulari, non fa che celebrare le ‘avances’ di Dio per l’umanità. In quel Bambino, nato per noi, tutto si illumina, il mondo torna a risplendere, fino a seppellire sotto la sua luce tutto quello che lo deturpa, lo travisa e lo mortifica. Nella liturgia della notte, dentro una luce tutta speciale, echeggia il grido degli angeli: “Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore”. In quella dell’aurora si sente la fretta dei cuori e dei piedi dei pastori che vogliono andare a vedere: “Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere”. Nella liturgia del giorno l’occhio interiore si distende sulla visione agognata: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità”. 

         La luce del Natale rimanda alla Pasqua, come un altro poema natalizio di s. Efrem canta: “Gloria al Nascosto che non potrebbe essere intravisto con l’intelligenza, ma che si è reso palpabile nella sua bontà tramite la sua umanità! La natura che non fu mai toccata, per le mani fu legata e appesa, per i piedi fu fissata e crocifissa: come a lui è piaciuto, ha preso corpo perché lo si potesse prendere”. Proprio a questo, con tutta la potenza di rivelazione che comporta quanto all’amore di Dio per l’uomo, vanno riferite le parole dell’apostolo Giovanni: “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia”. È la luce di tale splendore, fonte della nostra dignità, che rifulge nel Natale. La luce, la gioia, la pace che caratterizzano il clima della festività natalizia, tanto da indurre pressoché tutti a riversarle nelle case, nelle strade, nelle città, hanno a che fare proprio con quel Figlio, nato bambino, che vuol condividere all’uomo il segreto di Dio.

         S. Giovanni, all’inizio del suo vangelo, parla a nome di tutti i discepoli del Cristo, a nome di tutti coloro che nell’incontro con quel Figlio, mandato a noi per la salvezza del mondo, si sono visti cambiare la vita, cambiare gli occhi, cambiare le radici dei sentimenti tanto da fargli dire, con assoluta evidenza, capace di suscitare la stessa reazione in chi l’ascolta: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi e noi vedemmo la sua gloria”. Cosa hanno visto i discepoli, i pastori? Qualcosa che ha a che fare con l’apertura di un orizzonte e la possibilità di una esperienza fino ad allora impraticabili: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato”. Quell’orizzonte e quell’esperienza costituiscono il dono natalizio della pace. E’ la pace che arriva al cuore dell’uomo quando si vede e si sente raggiunto dall’offerta della benevolenza di Dio che non ha limiti, espressi nell’immagine di un bambino avvolto in fasce, portato dalla Vergine, visitato dai pastori, cantato dagli angeli, adorato dai magi. Una benevolenza che risana le ferite della storia, che abilita a costruire un altro tipo di storia, che raggiunge così nel profondo il cuore dell’uomo da imprimergli una libertà intangibile dalle altre ragioni di vita e di comportamento che non procedano da quella stessa benevolenza. E’ l’esperienza che farà dire all’apostolo: se Dio ci ha dato il suo Figlio unigenito, come non ci darà anche tutti gli altri beni? Come a dire: in Lui possiamo trovare tutti i beni ai quali anela il nostro cuore. E’ il perenne annuncio profetico dei credenti in Cristo al mondo.

Per questo, nella preghiera dopo la comunione della messa dell’aurora, la Chiesa supplica: “O Dio, che ci hai radunato a celebrare in devota letizia la nascita del tuo Figlio, concedi alla tua Chiesa di conoscere con la fede le profondità del tuo mistero e di viverlo con amore intenso e generoso”. Preghiera, che è ripresa nella colletta della messa del giorno: “…fa’ che possiamo condividere la vita divina del tuo Figlio, che oggi ha voluto assumere la nostra natura umana”.

 

Buon Natale a tutti!

 

SANTA FAMIGLIA, ANNO C.

1Sam 1,20-28;  sal 83;  1Gv 3,1-2.21-24;  Lc 2,41-52

 

Celebrare la festa della santa famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, è un altro modo di sottolineare la verità e la veridicità dell’incarnazione del Figlio di Dio. Per porre la sua tenda tra di noi, Dio ha assunto la storia di una determinata genealogia (Gesù è ascritto alla discendenza davidica), carica delle promesse divine ma intessuta anche di peccato e di miserie umane ed assume pure la struttura che ha consentito a quella storia di svolgersi, cioè la famiglia. Per l’uomo, venire al mondo significa ritrovarsi in una famiglia senza la quale non si troverebbe garantito nel suo diritto a vivere e a crescere. Anche per Gesù, che è nato da una Vergine, è stato essenziale il contesto famigliare per crescere e scoprire il senso della sua vita. E tutto questo ha attinenza non solo con il bisogno dell’uomo, ma con il mistero di Dio. Voglio dire che il fatto che Gesù abbia avuto una famiglia non significa solo che Dio abbia voluto assumere la realtà umana della famiglia, ma ancor più che la famiglia nella sua realtà umana parla di Dio. Con tutti i misteri che comporta.

Nel racconto del ritrovamento al tempio di Gesù da parte dei suoi genitori ne abbiamo un indizio rivelatore. A suo padre e a sua madre che lo cercavano angosciati Gesù non teme di rispondere: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. Altre volte nel vangelo Gesù risponderà con questo tono a sua madre. Quando gli dicono che lo cercano sua madre e i suoi fratelli, egli dichiara: “Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 8,21). Oppure, a Cana, durante il banchetto di nozze, a sua madre che lo sollecitava ad intervenire risponde: “Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora” (Gv 2,4). Gesù rimanda continuamente, da dentro gli affetti familiari, ad una dimensione ancor più profonda che costituisce la radice stessa di quegli affetti e la garanzia più sicura. Rimanda cioè a quel ‘Padre’, di cui ogni affetto parla, al quale ogni affetto rimanda e nel quale ogni affetto trova la sua radice più appropriata ed il termine verso il quale ogni affetto anela. Significa allora allargare gli orizzonti, un continuo andare oltre la cronaca e la ‘materialità’ degli eventi, ma nello stesso tempo comporta la necessità e la difficoltà di un superamento continuo di quello che si pensava ovvio, di quello che si credeva. Tutti i genitori conoscono questa ambivalenza nella crescita dei figli: fanno tutto per i figli e la loro gioia sta in questo, ma sanno che i figli sono chiamati a realizzare un loro progetto, spesso senza poterlo condividere, almeno all’inizio. Ma corrisponde al progetto di Dio sia la premura dei genitori che la libertà dei figli e se entrambi, genitori e figli, sono consapevoli di questa unità di progetto in Dio, tutti e due trovano la loro gioia, misteriosamente. Diventa così essenziale, per i genitori e per i figli, la consapevolezza della verità di questo rimando. La comprensione non è immediata, ma è assicurata. Della Vergine si annota nei vangeli: “Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore”. Non comprendere subito il piano di Dio non significa non accoglierlo. Trattenere perciò eventi e parole, misteriose, che vengono da Dio, significa accogliere in cuore il suo piano in attesa di comprenderne il senso. E questo vale soprattutto negli affetti, negli affetti famigliari in particolare, quando la forza del legame farebbe valere il legame tra madre e figlio, a volte in senso perfino ricattatorio e  non invece con Colui che di quel legame è la Sorgente ed il Criterio di verità. Se un legame non sta aperto ad un progetto superiore rischia di soffocare.

Forse non è inutile sottolineare che la prima e l’ultima parola di Gesù nel vangelo di Luca è una evocazione del Padre. Nel tempio, quando è ritrovato dai suoi genitori: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”; sulla croce, prima di morire: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46); oppure, prima dell’ascensione: “E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso…” (Lc 24,49). Gesù fa vedere come in tutto ciò che vive, in tutto ciò che possiamo vivere noi, quello che è essenziale è scoprire e far valere la radice di vita, di senso, di sentimenti, che è il Padre dei cieli, Colui dal quale ogni bene riceviamo e verso il quale porta ogni bene vissuto. Senza questo ‘sconfinamento’, da dentro i legami degli affetti, l’uomo si insacca su se stesso e non trova più slancio e passione per un progetto grande di vita. In altre parole, non ritrova più lo Spirito donato da Gesù. Lo dice assai bene la seconda lettura tratta dalla prima lettera di s. Giovanni: “Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio ed egli in lui. E da questo conosciamo che dimora in noi: dallo Spirito che ci ha dato”. In altri termini, osservare i comandamenti risulta possibile in forza dello Spirito che ci fa una cosa sola con Gesù, nel quale abita la pienezza della divinità. E lo Spirito è Colui che continuamente tiene aperti gli orizzonti verso il Padre, tanto in Gesù quanto in noi perché il desiderio di comunione di Dio con gli uomini si compia finalmente. Così è stato per la santa famiglia di Nazareth, così è stato per Gesù e così è per noi tutti. E solo così gli uomini possono vivere i loro affetti senza sottrarre loro quel vigore e quello slancio che li apre ad aneliti sempre più profondi e veritieri, dentro un’umanità così larga di orizzonti da sentire tutti della stessa famiglia.

 

 

MARIA SS. MADRE DI DIO, ANNO C

Nm 6,22-27;  sal 66;  Gal 4,4-7;  Lc 2,16-21

 

         Nel calendario liturgico, l’ottavo giorno dopo il Natale del Signore fu consacrato a onorare la Vergine Maria, Madre di Dio. A partire dal 1969, l’antica festività di “Maria Santissima Madre di Dio” venne ripristinata in tutta la sua solennità il 1° gennaio, con la chiesa che continua a sottolineare la verità e la veridicità dell’incarnazione del Figlio di Dio, Salvatore, ricordando, da una parte, la gloria della madre nella sua divina maternità, ‘madre del Cristo e di tutta la chiesa’, come recita la preghiera dopo la comunione espressamente voluta da papa Paolo VI e, dall’altra, il rito della circoncisione e dell’imposizione del nome al bambino nell’ottavo giorno. Consacrando poi la giornata all’intercessione per la pace, la chiesa annunzia al mondo che in Cristo è fatta pace tra cielo e terra e che la pace tra gli uomini ne è come il riverbero, lo splendore di benedizione.

         Con lei, la Vergine Madre, che ha dato alla luce il Salvatore, si è compiuta in tutta la sua estensione l’antica benedizione di Israele: “Ti benedica il Signore e ti protegga…”. Come devono risplendere gli occhi di Dio guardando questa sua umile ancella! Dante, nell’ultimo canto del Paradiso, dopo aver innalzato una lode sublime alla Regina del cielo, di lei dice: “Gli occhi da Dio diletti e venerati …”. Chi ha provato l’estasi di uno sguardo amoroso sa a quale intimità si allude, quale ‘benedizione’ si riceve e quale gioia ciò procura. Il mistero grande è il fatto che anche Dio è rapito dallo splendore dello sguardo della Vergine tanto è puro e sconfinato, specchio limpidissimo dell’amore di Dio per lei e per tutta l’umanità. Sì, perché la bellezza della Vergine è in funzione della bellezza, resa visibile, del Figlio Unigenito, nostro Salvatore, il cui amore per noi lo renderà disposto a perdere ogni ‘bellezza d’uomo’ per ridare a noi quella bellezza che attira il suo sguardo. In questo sguardo di Dio su di lei si concentra tutto il senso della sua intercessione allo scopo di ottenerci la suprema benedizione che si risolve nel voler vedere Dio, vedere il volto di Dio che risplende su di noi.

‘Il nome di Dio è ormai posto su di noi’: non c’è più motivo di paura e se la paura non fa più presa sui cuori, allora vengono meno anche la violenza e l’ingiustizia che di quella paura sono gli strumenti di offesa per autodifesa. Quel nome di Dio, pur nel suo mistero, ha un volto, risponde a un nome che è stato scelto umanamente, anche se dietro suggerimento angelico, che definisce il figlio della Vergine Maria, Gesù. Quel ‘Gesù’, che ora adoriamo bambino nella stalla di Betlemme  – questa è la bella notizia per il mondo intero! – è ormai la benedizione e la protezione di Dio per gli uomini, è il volto di Dio che risplende benevolo e misericordioso, è il sigillo della pace di Dio sugli uomini, come la solenne preghiera di benedizione israelita profetizzava: “Ti benedica il Signore e ti protegga. Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace”. Ora possiamo vedere che il Signore ha effettivamente benedetto, ha rivolto il suo volto e ci ha concesso la sua pace. È un bambino ‘nato da donna’, a sottolineare che è veramente figlio, contemporaneamente suo e del Padre, motivo per cui coloro che come tale lo riconosceranno, a loro volta saranno chiamati figli di Dio. Ma chi sono coloro che sono chiamati figli di Dio? Coloro che lo Spirito Santo guida, coloro che lo Spirito Santo governa, coloro che in forza di quello Spirito saranno operatori di pace (‘beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio’). Nella lettera ai Galati s. Paolo scrive: “… Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio”. Operare la pace da figli, non da schiavi! Non schiavi di nessuno e di nessuna ideologia, non schiavi per comodo o per paura, non schiavi di beni, esteriori o interiori, che non procedano da quell’unico Bene, che è Cristo stesso, pace di Dio, il cui godimento sorpassa ogni intelligenza e custodisce cuori e pensieri (cfr. Fil 4,7). Anche la pace si può cercare da schiavi. Favorirà violenze ancora più terribili, non custodendo la dignità di nessuno. La pace che viene da Dio non tollera mascheramenti o ambiguità, perché porterà tutti a riconoscere la stessa dignità condivisa che deriva dall’unico Padre, l’unico che è Giusto perché Misericordioso. Il Figlio, Gesù, che fa risplendere il suo volto tra gli uomini, ha fatto vedere come sia possibile declinare la pace di Dio nella storia degli uomini. Coloro che vogliono vivere e gustare la sua eredità non hanno che da seguirlo e, a loro volta, far risplendere il suo volto tra gli uomini: è il dono più bello che possono regalare ai loro fratelli, come la Vergine che, dandoci il Verbo di Dio, ha fatto il regalo più bello all’umanità. Così la preghiera non può che essere quella della colletta: “ Padre buono che in Maria, vergine e madre, benedetta fra tutte le donne, hai stabilito la dimora del tuo Verbo fatto uomo tra noi, donaci il tuo Spirito, perché tutta la nostra vita nel segno della tua benedizione si renda disponibile ad accogliere il tuo dono”, cioè la pace del tuo Cristo e nulla resti fuori.

 

 

 

EPIFANIA DEL SIGNORE, ANNO C

Is 60,1-6; sal 71; Ef 3,2-6; Mt 2,1-12

 

            Epifania vuol dire manifestazione. La festa di oggi ingloba tre momenti della manifestazione del Signore: la manifestazione di Gesù alle genti con la venuta dei magi; la manifestazione del Signore all’inizio della sua carriera messianica con il battesimo al fiume Giordano; la manifestazione del Signore con il primo miracolo alle nozze di Cana.  Recita l’antifona al Magnificat: “Tre prodigi celebriamo in questo giorno santo: oggi la stella ha guidato i magi al presepio, oggi l’acqua è cambiata in vino alle nozze, oggi Cristo è battezzato da Giovanni nel Giordano per la nostra salvezza”. E l’inno ai Vespri canta: “I magi vanno a Betlem e la stella li guida: nella sua luce amica cercan la vera luce. Il Figlio dell’Altissimo s’immerge nel Giordano, l’Agnello senza macchia lava le nostre colpe. Nuovo prodigio a Cana: versan vino le anfore, si arrossano le acque mutando la natura”. Ma ancora più significativa è l’antifona al Benedictus: “Oggi la chiesa, lavata dalla colpa nel fiume Giordano, si unisce a Cristo, suo Sposo; accorrono i magi con doni alle nozze regali e l’acqua cambiata in vino rallegra la mensa”.

Lasciando da parte ogni considerazione sul battesimo di Gesù, la cui festa ricorre domani, immergiamoci nel racconto dell’adorazione dei magi.  Da notare la differenza degli atteggiamenti dei vari personaggi in questione. I magi non sanno ma il loro cuore si è mosso tanto che, pur non sapendo bene di che cosa si trattava, si mettono in viaggio, arrivano a Gerusalemme, chiedono, cercano. Invece la Gerusalemme colta, gli scribi e gli anziani, sa le cose ma non si muove. Se Erode sembra muoversi lo fa solo per paura di perdere il potere e quindi in realtà non si muove per cercare in verità. Sono i possibili atteggiamenti che può assumere l’uomo davanti al mistero ed alla storia di Dio. I magi sono la figura della manifestazione di Dio alle genti; portando i loro doni, si aprono al mistero di Dio (con l’oro riconoscono la regalità misteriosa di quel ‘bambino nato per noi’, con l’incenso riconoscono la sua divinità, con la mirra la sua umanità pronta a soffrire la passione per la nostra salvezza) e permettono al loro cuore di vedere la gloria di Dio tanto che fanno ritorno a casa loro per altra strada, come a dire che chi si apre all’adorazione di Dio riscopre la casa propria in altro modo, con altro sguardo, sotto altri orizzonti. Questo mi induce a due osservazioni: 1) se il Messia è promesso alle genti, di che cosa siamo noi credenti debitori al mondo? Siamo debitori proprio della conoscenza del Signore. E questo debito pende sulla nostra testa. Qui si ricollega la responsabilità della testimonianza dei credenti di fronte al mondo; 2) se il Messia è promesso alle genti, vuol dire che fin tanto che tutte le genti non l’hanno conosciuto, la nostra stessa conoscenza del Messia è manchevole, resta limitata. Come in un’amicizia: fin tanto che non ho trovato qualcuno che voglia bene a me, io non potrò scoprire quello che sono in verità, quello che porto e di cui sono capace. Così è con Dio. Fin tanto che tutti non l’hanno conosciuto, Dio non ha ancora avuto modo di manifestarsi in tutta la sua ricchezza. Attendere questa manifestazione, nel cuore di tutti, rende umili e adoranti e risponde al comandamento dell’amore verso tutti, anche verso i nemici, finché la gloria di Dio si manifesti compiutamente.

Quanto al mistero della trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana (cfr. Gv 2,1-10), simbolo delle nozze del Signore Gesù con l’umanità nostra, anche questo ha a che vedere con la manifestazione della gloria di Dio nella nostra vita.  Quando siamo acqua e quando siamo vino? Essere acqua significa accettare sì i comandamenti del Signore, ma limitarsi all’esecuzione esteriore. Passare dall’essere acqua al diventare vino significa passare dalla volontà di osservanza del comandamento al gusto del frutto che il comandamento comporta. La promessa nascosta in ogni parola di Dio è questa: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Come a dire: ogni comandamento ha un’ispirazione; senza cogliere tale ispirazione non potremo mai gustare la promessa che è nascosta dentro ogni comandamento, la promessa della conoscenza ‘cordiale’ del Signore, la promessa del gusto della sua compagnia. Come in un rapporto d’amore. Non basta fare delle cose, neanche farle per l’altro; se non si coglie l’ispirazione che muove il cuore ad agire, se non si coglie l’effetto che il nostro agire ha sul cuore dell’altro, se non ci viene rimandata la gioia dell’altro che coglie il movimento del nostro cuore, si resta acqua. Il vino invece, dice la Scrittura, rallegra il cuore dell’uomo. E nel gustare quel vino, il cuore si apre alla conoscenza della gloria del Signore. Quello che i magi hanno sperimentato, quello che gli apostoli hanno testimoniato, quello che i credenti in Cristo ‘debbono’ al mondo che aspetta tale manifestazione.

 

 

BATTESIMO DEL SIGNORE, ANNO C

Is 40,1-11;  Tt 2,11-14; 3,4-7;  Lc 3,15-22

 

         Con la festa del battesimo di Gesù si chiude il ciclo natalizio. L’Avvento si era aperto con l’invocazione del profeta Isaia: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 63,19). I cieli si sono effettivamente squarciati lasciando ‘piovere il Giusto’, come oggi  la scena del Battesimo di Gesù fa intravedere: “Quando tutto il popolo fu battezzato e mentre Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e scese su di lui lo Spirito Santo in apparenza corporea, come di colomba, e vi fu una voce dal cielo: “Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto”. I cieli che si aprono non preludono ad una visione del mondo celeste, ma alla discesa sulla terra dei beni divini, beni che dovevano caratterizzare il popolo di Dio dell’era messianica ed il cui bene principale è proprio lo Spirito Santo, effuso su tutti, attraverso quel Figlio che lo possiede in pienezza. Così il simbolismo della colomba allude al carattere escatologico della visione che indica in Gesù il Messia e il punto di partenza della comunità messianica. Ricorda la colomba del Cantico dei Cantici, sposa di Yahvé e Giovanni Battista potrà poi esclamare: “Chi possiede la sposa è la sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo” (Gv 3,29). Vedendo lo Spirito discendere su Gesù sotto forma di colomba (è soltanto il Battista che vede, la gente ode solo la voce!) comprende che Gesù aveva la missione di far apparire la ‘colomba’, cioè il nuovo popolo di Dio animato dallo Spirito Santo.

         Noi preghiamo che il Signore si degni squarciare i nostri cuori perché anche a noi appaia, finalmente, in tutta la Sua bellezza, il volto del Figlio di Dio, testimone supremo dell’amore di Dio per gli uomini. E come dice Paolo a Tito “…nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo”, noi aspettiamo la manifestazione del Signore al nostro cuore in ogni circostanza della nostra vita, in ogni azione e non soltanto alla fine della vita. Come se pregassimo: “fa’ che possiamo vedere il volto del tuo Figlio, fa’ che il nostro cuore sia rapito dalla Sua bellezza, apri il nostro cuore alle Sue parole perché venga rivelato al nostro cuore il Suo amore e possiamo venire risanati, facci fare l’esperienza viva del Suo perdono perché possiamo vivere un corpo solo e un’anima sola con tutti, nel suo Spirito, ormai popolo nuovo”.

         Al momento del battesimo di Gesù gli astanti sentono solo la voce: “Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto”. E’ la funzione della parola di Dio che dà testimonianza al Figlio, come dirà lo stesso Gesù: Voi scrutate le Scritture credendo di avere in esse la vita eterna; ebbene, sono proprio esse che mi rendono testimonianza” (Gv 5,39). E la testimonianza sta tutta in quel ‘Figlio prediletto’ da scoprire, da accogliere, da incontrare, da incollarvisi. Ci sono altri due passi nelle Scritture dove si parla di ‘figlio prediletto’: a proposito del figlio di Abramo, Isacco, in Gen 22,2, quando Dio chiede ad Abramo il sacrificio del figlio prediletto; e ancora, nella parabola dei vignaioli assassini, in Mc 12,6, quando il padrone della vigna pensa al suo figlio prediletto da mandare ai vignaioli che non vogliono consegnare il raccolto e che poi lo mettono a morte. Se quell’aggettivo ‘prediletto’ rivela la radicalità della fede di Abramo che davanti al suo Dio accetta di sacrificare il suo cuore, rivela a maggior ragione la radicalità dell’amore di Dio per l’umanità essendo disposto a mandare il suo Figlio a coloro che ne faranno scempio. Ma i pensieri del Signore sovrastano i nostri pensieri …. L’aggiunta “in te mi sono compiaciuto” rivela tutta la profondità del mistero. Si può tradurre: ‘in te il mio Amore è perfetto’, nel senso che tutto l’Amore del Padre è per il Figlio e tutto l’Amore del Figlio è per il Padre. ‘In te’, però, non è più solo rivolto al Figlio nella sua divinità, ma al Figlio, Dio fatto uomo. In quel Figlio, Dio-uomo, l’Amore del Padre è perfetto perché in Lui si può contemplare  tutta l’estensione e la profondità di quell’Amore che realizza compiutamente il suo sogno sulla creazione e sull’umanità. Così, in quel ‘perfetto’ è già compreso anche tutto quello che la nostra umanità, unita a quella del Signore Gesù, compirà (cfr. Col 1,24-29). Ma si può anche tradurre: ‘in te la mia volontà si compie, perfetta’. E la volontà di Dio non è che l’amore per l’uomo ed in Gesù questo amore risplende nella sua radicalità e totalità. E se noi stiamo in Cristo, allora anche in noi la volontà del Padre si compie, perfetta, perché anche in noi il Suo amore risplenderà. E questo risplendere del suo amore non deriva forse dall’essere mossi e guidati dallo Spirito di cui Gesù è ricolmo e che ci ha effuso nella Pentecoste? Come s. Francesco dice della perfezione o della santità: ciò che devono  desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”.

 

 

TO II, C2

Is 62,1-5;  Sal 95;  1 Cor 12,4-11;  Gv 2,1-12

 

         Il canto al vangelo riassume bene il senso del brano evangelico di oggi: “Alle nozze di Cana Gesù trasformò l’acqua in vino; egli manifestò la sua gloria e i discepoli credettero in lui”. Non costituisce solo il senso del brano delle nozze di Cana, ma diventa la chiave di lettura dell’insieme del vangelo di Giovanni. Gesù incomincia a manifestare la sua gloria con la trasformazione dell’acqua in vino a Cana, ma la sua gloria sarà pienamente mostrata nel suo splendore di rivelazione quando, ormai morto sulla croce, dal suo fianco squarciato usciranno ‘sangue e acqua’ e si realizzerà la profezia: ‘Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto’ (Gv 19,37). E quando Giovanni, alla fine del suo vangelo, spiegherà perché l’ha scritto, riferendosi ai ‘segni’ che ha descritto nella sua narrazione dirà: ‘Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome’ (Gv 20,31).

         Ora, il primo dei ‘segni’che viene descritto perché si creda in quel ‘Figlio di Dio’, che è stato mandato perché gli uomini abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (cfr Gv 10,10), è proprio il miracolo di Cana. Gli eventi che intercorrono dal riconoscimento di Gesù da parte di Giovanni Battista al Giordano fino alle nozze di Cana sono racchiusi nello spazio di una settimana, la settimana della nuova creazione, in riferimento alla settimana della creazione narrata dalla Genesi. L’episodio di Cana segue il riconoscimento di Gesù da parte di Natanaele, il quale segue quello da parte di Andrea e Giovanni, i quali seguono quello di Giovanni Battista. Per cogliere la portata del miracolo di Cana, bisogna percepire la densità di quel ‘andarono e videro’ di Andrea e Giovanni, i quali svelando a Pietro tutta l’emozione che li abitava riferiscono la loro scoperta in questi termini: ‘abbiamo trovato il Messia’. E ancora, bisogna intuire la sorpresa di Natanaele, che risiedeva proprio a Cana, quando Gesù gli si rivolge con quelle parole: ‘vedrai cose maggiori di queste’. Tutti i ‘segni’ che Gesù compie sono collocati nella scia di questo ‘vedere cose maggiori’ fino alla rivelazione suprema, con la morte e risurrezione di Gesù, allorquando le ‘cose maggiori’ sono ormai le ‘cose ultime’, definitive, supreme, a partire dalle quali tutto prende senso e splendore. La sua ‘gloria’ finalmente è svelata in tutto il suo splendore, la gloria del suo amore per gli uomini.

         In tale prospettiva, la preghiera dopo la comunione coglie la dinamica essenziale dei ‘segni’ di Gesù: “Infondi in noi, o Padre, lo Spirito del tuo amore, perché nutriti con l’unico pane di vita formiamo un cuor solo e un’anima sola’, scopo supremo dell’agire divino, resi partecipi della stessa vita di Dio.

         Il racconto delle nozze non ruota attorno alla figura degli sposi novelli, di cui non sappiamo nulla, ma attorno all’intervento di Gesù e dei suoi discepoli. Gesù, il Messia, viene invitato alle nozze, simbolo dell’antica alleanza. Ma manca il vino, quello che solo il Messia avrebbe portato, il vino simbolo dell’amore e della gioia, compimento delle promesse di Dio al suo popolo. Se ne accorge sua madre, che appartiene all’antica alleanza, ma la cui fedeltà a Dio la rende capace di vedere in Gesù il Messia, per cui si rivolge fiduciosa ai servi: “Fate quello che vi dirà”. L’antica alleanza poteva sperare nell’acqua purificatrice, che non  poteva togliere il peccato ma liberava almeno dall’oppressione della colpa. Gesù, che fa riempire d’acqua le giare e fa attingere e portare in tavola, realizza il passaggio dall’antica alla nuova alleanza con il dono del vino che simboleggia l’esperienza diretta e personale, nella gioia e nell’amore, della relazione tra Dio e l’uomo: “Perché la legge fu data per mezzo di Mosé, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1,17). Quello che la legge prometteva, Gesù lo rende possibile in sovrabbondanza; quello a cui anelava il cuore dell’uomo ora diventa vivibile, gustosamente esperibile: l’uomo vive finalmente la pace con il suo Dio, in un amore ritrovato e condivisibile. E questo si vedrà proprio nella sua ‘ora’ quando dalla croce risplenderà il suo amore infinito, amore che con il dono dello Spirito Santo diventa radice di vita e di azione nel suo discepolo e segno di Dio per il mondo intero.

Il miracolo di Cana con la trasformazione dell’acqua in vino nel contesto di celebrazione delle nozze, mentre allude al passaggio dalla Legge alla Grazia, allude anche al mistero dell’intelligenza delle Scritture e al mistero nuziale della comunione di Dio con l’uomo. Tutte le Scritture parlano di Lui (‘Voi scrutate le Scritture credendo di avere in esse la vita eterna; ebbene, sono proprio esse che mi rendono testimonianza. Ma voi non volete venire a me per avere la vita’, Gv 5,39-40): tutte le parole alludono alla Parola fatta carne. E quando si incomincia a intravedere questa tensione profonda che percorre tutta la Scrittura, allora si passa dal bere l’acqua al gustare il vino. Così come nel compiere i comandamenti di Dio: un conto è praticarli materialmente, un conto è praticarli cogliendo l’ispirazione e la rivelazione di vita che comportano. Le nozze alludono anche al compimento dei desideri del cuore ormai abitati dal desiderio di Dio che ci è venuto incontro, che ci ha guadagnati al suo amore e che ci ha conquistati al suo splendore.

         Quest’ultimo aspetto è ben delineato nel brano di Isaia che descrive Dio come lo Sposo che gioisce della sua sposa, la quale passa da una percezione di angosciosa solitudine, di ‘abbandonata’ e ‘sola’ all’emozione di essere svelata a se stessa in una dolcezza di riposo perché abitata, ‘mio compiacimento’ e ‘sposata’ ( forse, meglio: ‘abitata in dolcezza’). La percezione di quella nuova realtà, di cui è indegna, ma di cui gode nell’intimo, grata e consegnata, costituisce il contenuto del nome nuovo con la quale è chiamata. ‘Acqua’ e ‘vino’ diventano così le due modalità con cui è possibile agire nella vita: tutto si può fare essendo acqua e tutto si può fare essendo vino. Per questo è detto che il vino rallegra il cuore dell’uomo (cfr sal 104,15) e che il regno di Dio è definito con l’immagine della gioia delle nozze.

 

 

TO III, C2

Ne 8,2-10;  sal 18;  1 Cor 12,12-31;  Lc 1,1-4; 4,14-21

 

         Luca assegna un significato emblematico alla predicazione di Gesù a Nazaret. La pone all’inizio della sua missione, benché l’avvenimento sia descritto con particolari che chiaramente fanno riferimento ad eventi successivi, come vedremo domenica prossima, allorquando verrà descritto l’esito drammatico di quella predicazione. Oggi invece la liturgia accentra la sua attenzione sul fatto in sé, sulla coscienza di Gesù di presentarsi come l’Inviato tanto atteso. Pieno di Spirito Santo, Gesù era stato condotto nel deserto per esservi tentato; ora, con la potenza dello Spirito, ritorna e va a Nazaret e annuncia di essere colui sul quale lo Spirito riposa: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l' unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore”. Aveva letto solennemente in sinagoga il passo di Isaia e se l’era attribuito: “Lo spirito del Signore Dio è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l' unzione; mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione [=il bagliore, allusione al vedere la luce venendo dall’oscurità delle prigioni] dei prigionieri, a promulgare l' anno di misericordia del Signore, un giorno di vendetta per il nostro Dio, per consolare tutti gli afflitti, per allietare gli afflitti di Sion, per dare loro una corona invece della cenere, olio di letizia invece dell' abito da lutto, canto di lode invece di un cuore mesto”.

         Il commento di Gesù è lapidario: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura”. Più volte risuona nel vangelo di Luca quell’ ‘oggi’: lo dicono gli angeli ai pastori a Betlemme, lo dice Gesù a Zaccheo e al buon ladrone. È l’oggi della liturgia eucaristica, l’oggi dell’offerta perenne di salvezza da parte del Signore, l’oggi dell’esperienza dell’amore del Signore per noi. Se ci ritroviamo tra quei ‘ciechi e oppressi’ (la cecità e la schiavitù sono le coordinate dell’esistenza nel peccato, nell’oppressione dei rapporti) di cui parla Isaia, allora ci ritroveremo anche noi con gli occhi fissi e le orecchie attente, il cuore sveglio, davanti a quel Maestro che dice qualcosa che sicuramente parla al nostro cuore perché si presenta come Colui capace di compiere le promesse di Dio. Non che il cuore subito accoglie (l’esito del racconto lo sta a dimostrare), ma il cuore resta affascinato. Gesù incomincia così a fornire le ragioni di quel fascino.

         E le preghiere della liturgia di oggi mostrano sia le ragioni del fascino sia la difficoltà di viverlo nel tempo. La colletta ci fa pregare: “O Padre, tu hai mandato il Cristo, re e profeta, ad annunziare ai poveri il lieto messaggio del tuo regno, fa’ che la sua parola che oggi risuona nella chiesa, ci edifichi in un corpo solo e ci renda strumento di liberazione e di salvezza”. Non ogni ansia di liberazione è buona, ma solo quella che è abbinata al fatto di venire edificati in un corpo solo. Ciò significa che l’ansia di liberazione per noi che non si traduca in corrispondente ansia di liberazione per i fratelli non ci farà ritrovare la libertà, ma si ridurrà in una sorta di più raffinata schiavitù e perderemo il Cristo e noi stessi. La visione e la libertà che il Cristo ci ottiene non è che la visione e la libertà che provengono da un amore accolto e condiviso, l’amore di Dio per noi che diventa radice di vita e di azione. L’antica colletta faceva pregare: “Dio onnipotente ed eterno, guida i nostri atti secondo la tua volontà, perché nel nome del tuo diletto Figlio portiamo frutti generosi di opere buone”. Se la sua volontà è appunto quella di renderci un cuor solo e un’anima sola, allora guiderà i nostri atti nel senso di conquistare a tal punto il nostro cuore a quell’amore che da lui proviene da renderlo unico motore e scopo dell’agire. Solo così si realizza l’invito di Neemia al popolo dopo la lettura della Legge: “Non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza”. La gioia è il frutto di un amore manifestato, provato, che è arrivato a toccarti il cuore, che ti ha conquistato. Quella gioia cela un’energia potente, che viene descritta dal salmo 18 leggendo le espressioni in significato intensivo: “la legge del Signore è perfetta”, cioè rende integri e perciò rinfranca l’anima; “la testimonianza del Signore è verace”, cioè rende veritieri e ti fa partecipe della sapienza dall’alto; “gli ordini del Signore sono giusti”, cioè rendono retti e gioiosi; “i comandi del Signore sono limpidi”, cioè rendono l’uomo luminoso, dallo sguardo pulito e bello… Si può leggere anche così: la giustizia del Signore, il contenuto cioè della parola di Dio, è quella di portare gioia al cuore e questa gioia è quella che consente al nostro cuore di vivere secondo la sua giustizia, cioè di manifestare la sua presenza con il prendermi cura di ognuno fino a dare la vita perché l’altro possa averla abbondante. Solo il Messia poteva rivelare che consisteva in questo la manifestazione del Signore e che in questo risiedeva e il compimento del desiderio dell’uomo e la felicità di Dio. Tutti i frutti dello Spirito  “amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22) sono espressione della cura per l’uomo e chi più li possiede più si prende cura. E più ci si prende cura più il volto di Dio è rivelato nella sua verità e la letizia riempie il cuore dell’uomo. Non c’è nulla di più affascinante di tale mistero e nello stesso tempo nulla di più rischioso nella vita degli uomini.

 

 

TO IV, C2

Ger 1,4-5.17-19;  sal 70;  1 Cor 12,31-13,13;  Lc 4,21-30

 

         La scena è la medesima della domenica precedente: Gesù predica nella sinagoga di Nazaret. Interessa però sottolineare l’esito di quell’evento: un fiasco! Ma Luca, che ne ha fatto l’immagine emblematica della predicazione di Gesù, annota molti particolari che introducono alla comprensione della figura di quel profeta singolare. Se viene fatto conoscere il rifiuto di Gesù da parte dei suoi concittadini, la sottolineatura si deve al valore ‘profetico’ di quel rifiuto, che l’evangelista Giovanni descriverà come Venne fra la sua gente, ma i suoi non l' hanno accolto” (Gv 1,11). Oltre ad alludere alla passione di Gesù, allorquando il rifiuto comporterà la sua messa a morte, allude anche all’universalità di quella morte che toglierà il muro di separazione tra Israele e Gentili, aprendo Israele ai Gentili, pena l’esclusione del dono di grazia. In quella prospettiva Gesù si applica il proverbio riferito al medico, che suonava ironico sulle labbra dei suoi concittadini, ma che lui realizzerà in verità: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati” (Lc 5,31).

La richiesta dei miracoli da parte dei suoi concittadini era forse una supplica? Evidentemente no, come non sarebbe suonata supplica la richiesta “E' il re d' Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo” (Mt 27,42). Si supplica se si apre il proprio cuore perché oppresso, malato, afflitto. Diversamente, si provoca. Può compiersi un miracolo dietro provocazione? Lo scopo del miracolo è proprio quello di aprire il cuore al Signore che mi è venuto incontro e mi può guarire. Ma se il cuore non è disposto ad aprirsi, quale miracolo si può vedere? Non per nulla, il brano in Matteo termina con “E non fece molti miracoli a causa della loro incredulità” (Mt 13,58) e in Marco con “E non vi potè operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità” (Mc 6,5-6).  È la meraviglia del profeta che non si capacita della insensibilità dei cuori degli uomini che davanti all’apertura del cuore di Dio tengono chiusi i loro.

         Gesù non si era limitato a constatare la diffidenza dei suoi concittadini. Ne trae uno spunto profetico e allarga l’evento di cronaca alla storia di Israele perché i cuori si rendano conto di cosa sia in gioco. Il passaggio è segnalato da un parlare solenne con le formule ‘Amen, in verità vi dico’. Vi invito a guardare più nel profondo, a rendervi conto di cosa vi giocate. E anche quando riferisce il proverbio del profeta che non è ben visto in casa propria, usa un termine che si riferisce al brano del profeta Isaia che aveva appena letto all’assemblea: il Servo di Dio avrebbe proclamato l’anno di grazia del Signore. Quello che traduciamo con ‘di grazia’ in greco corrisponde a ‘gradito, bene accetto’, termine che Gesù si applica come profeta. Ora, è accogliendo un profeta che si può accogliere il messaggio di grazia che porta, la grazia che porta. La liturgia rinforza questa comprensione con l’annuncio della prima lettura dove viene presentata la vocazione del profeta Geremia. Quel testo descrive il contenuto di quell’essere pieno dello Spirito, come Gesù si era presentato a Nazaret. Il profeta è scelto/conosciuto da Dio, gode cioè di una intimità grande con Dio; è inviato alle nazioni, cioè ha il compito di togliere il muro di separazione nell’umanità; è come un muro di bronzo davanti a coloro che lo contrastano, cioè è pronto alla passione, perché lo splendore dell’amore di Dio conquisti i cuori. Così la ‘buona novella’ che Gesù annuncia come profeta non consiste semplicemente in buone parole o in determinati miracoli, ma rimanda a quella passione/morte/risurrezione in cui risplende in tutto il suo splendore l’amore di Dio all’uomo, rendendo l’uomo capace di muoversi verso i suoi simili da dentro quello stesso amore.

         Per questo la comprensione della ‘buona novella’, che è lo stesso Signore Gesù, è ben suggerita dal canto al vangelo: “Benedetto sei tu, o Padre, Signore dei cieli e della terra, perché ai piccoli hai rivelato i misteri del regno dei cieli”. Non c’è comprensione se non a partire da quella benedizione che rivela ai cuori quanto si è piccoli davanti allo splendore dell’amore di Dio per l’uomo, manifestato in Gesù, con l’aprirli alla gratitudine della grazia. Nella preghiera dopo la comunione diciamo: “O Dio, che ci hai nutriti alla tua mensa, fa’ che per la forza di questo sacramento, sorgente inesauribile di salvezza, la vera fede si estenda sino ai confini della terra”. Preghiamo per diventare partecipi della potenza di quell’amore che ci è fatto conoscere in Gesù e di cui tesse l’elogio s. Paolo nel suo inno alla carità. Non c’è conoscenza che tenga, non c’è fede che conti, non c’è generosità che salva: solo la carità esprime lo splendore che deriva dalla fede in Gesù. Quando Paolo dichiara che senza la carità non sono nulla, non dice semplicemente che io non conto nulla davanti a Dio senza la carità, ma che tutte le cose eccelse, senza la carità, non hanno alcun valore presso Dio. E se non l’hanno presso Dio, vuol dire che non possono costituire strumenti di comunione tra gli uomini. La sapienza evangelica è radicale, ma consona al cuore dell’uomo, se si accoglie la buona novella del profeta di Nazaret.

 

TO V, C2

Is 6,1-8;  sal 137;  1 Cor 15,1-11;  Lc 5,1-11

 

         Luca descrive i primi passi della predicazione di Gesù e si premura subito di indicare come Gesù si sia associato alcuni discepoli, quelli che lo seguiranno ovunque, nonostante le loro manchevolezze e che verranno a loro volta inviati (=apostoli) come testimoni del loro Signore. Il brano di oggi evidentemente verte sulla ‘vocazione’ di Pietro, Giacomo e Giovanni: “Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono”. La pesca miracolosa è funzionale al racconto della vocazione dei discepoli. Solo Luca, a differenza di Marco e Matteo, riferisce della pesca miracolosa. Ritroviamo quel racconto anche nel vangelo di Giovanni, al cap. 21, quando Gesù, risorto, si manifesta agli apostoli. Si tratta di due episodi diversi o della diversa interpretazione di uno stesso episodio? Nella prospettiva degli evangelisti la domanda è del tutto secondaria. La domanda principale è la seguente: cosa ha comportato per i discepoli la manifestazione di Gesù? O, ancora più precisamente: cosa ha comportato per i discepoli la decisione di Gesù di manifestarsi a loro? Perché di questo essenzialmente si tratta: Gesù si manifesta e ‘succede’ qualcosa. Sia agli inizi della vita pubblica di Gesù sia dopo la risurrezione l’evento è della stessa natura.

         C’è un particolare assolutamente eloquente che si richiama nei due racconti di Luca e di Giovanni. Davanti all’evento prodigioso della pesca abbondante Pietro è colto da profonda emozione: “Al veder questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: "Signore, allontanati da me che sono un peccatore”. L’apparizione della ‘gloria’ di Dio suscita sempre timore. Ma il contenuto di quel ‘sono peccatore’, nel cuore di Pietro, si cristallizza attorno al suo rinnegamento, che Gesù, dopo la sua risurrezione, evoca dolcemente al suo apostolo quando gli chiede per la terza volta se lo ama. Al gesto di gettarsi alle ginocchia di Gesù e di stringerle mentre dice di non essere degno di stare così alla sua presenza, corrisponde il sussurro di Pietro, addolorato:  Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene” (Gv 21,17).

         Se è vero, allora, che il racconto di Luca tende a presentare la vocazione degli apostoli, il contesto che giustifica tale vocazione è però la ‘manifestazione’ di Gesù ai discepoli con l’episodio della pesca miracolosa. La liturgia correla i due aspetti facendoci leggere, come prima lettura, il brano della vocazione del profeta Isaia. Il profeta si trova nel tempio, ha una visione ‘esaltante’ e ‘terribile’: partecipa alla liturgia celeste davanti al trono di Dio (le parole udite da Isaia sono quelle che ripetiamo ancora oggi nella liturgia eucaristica: “Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria”) e si sente perduto perché peccatore, ma viene purificato (la tradizione ha visto nell’immagine del carbone ardente che purifica la realtà della comunione eucaristica) e successivamente inviato: “Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti”.

La domanda di fondo che sorge può essere questa: perché la manifestazione della gloria di Dio ha sempre a che fare con una missione? ‘Vedere’ Dio non può non comportare la partecipazione ai suoi segreti, i quali non sono che i segreti dell’amore suo per gli uomini. ‘Vedere’ Dio non può non comportare allora l’invio agli uomini perché la sua promessa di Bene e di Vita sia condivisa da tutti e la Sua gioia sia piena. I passaggi sarebbero perciò questi: Dio manifesta la sua gloria - l’uomo confessa il suo peccato e viene purificato – si è inviati ai fratelli. La tensione interiore della missione, allora, è direttamente proporzionale all’intensità della ‘visione’ di Dio. E la ‘visione’ di Dio è direttamente proporzionale alla confessione del proprio peccato. Questo perché l’azione dell’uomo risulti pulita e non si appropri la gloria di Dio. E’ per questo che il segnale della fedeltà all’opera di Dio, tra gli uomini, non sarà costituito dal fatto che i cuori si convertono, ma dal fatto che un uomo non si allontana dalla carità anche quando viene oltraggiato e messo a morte. La missione comporta la condivisione di un ‘compito’ di intimità col proprio Signore finché la sua gloria risplenda e si manifesti. Quando la liturgia ci fa pregare: “Dio di infinita grandezza, che affidi alle nostre labbra impure e alle nostre fragili mani il compito di portare agli uomini l’annunzio del Vangelo” ci invita non tanto ad essere pieni di zelo da andare in tutto il mondo, ma a ripetere l’esperienza di Isaia e di Pietro che ‘vedono’ la gloria del Signore e non possono non disporsi all’opera di Dio, in modo tale che un’esperienza del genere risulti così radicale e fondante per la vitalità del nostro cuore da diventare unica sorgente del nostro agire. Di questa ‘esperienza’ la missione vive e gli uomini ne attendono gli effetti.

 

TO VI, C2

Ger 17,5-8,  Sal 1;  1 Cor 15,12-20;  Lc 6,17-26         

 

         Nel racconto di Luca, subito dopo la scelta degli apostoli, Gesù si presenta con loro alla folla e guarisce molti. E poi parla ai discepoli mostrando loro la posta in gioco nel fatto di seguirlo: annuncia le sue ‘beatitudini’. C’è qualcosa di assolutamente affascinante, ma paradossale nelle parole di Gesù, come del resto gli stessi discepoli noteranno anche quanto alla vita e al comportamento del loro Maestro. Su che cosa si potevano basare per potergli credere? In cosa consisteva quella ‘beatitudine’ che Gesù prometteva loro? E perché Gesù, qui come altrove in seguito, collegava la ‘beatitudine’ alla ‘persecuzione’? Sono le domande che ci possono ottenere punti di luce per entrare nella dimensione evangelica.

Possiamo partire dall’osservazione immediatamente precedente al nostro brano: “Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che sanava tutti” (Lc 6,19). Gesù è posseduto da una ‘potenza’ che guarisce. I suoi gesti sono ‘potenti’, le sue parole sono ‘potenti’. Vale a dire: procurano guarigione, colmano i cuori. Proprio come sottolinea il canto al vangelo citando un passo di Matteo 11,28: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò”. Quella capacità di dare ristoro (= dare riposo, nel senso di guarire, di colmare i desideri e procurare gioia e pace al cuore) è l’elemento di fascino che attira verso Gesù; è ciò che dà potenza al suo annuncio; che rende le sue parole accoglibili, sebbene misteriose. Le guarigioni che ha operato gli permettono di far vedere dove la sua potenza è efficace, dove è capace di realizzare quel che annuncia: chi lo segue sarà ‘beato’. E la beatitudine che si proverà sarà direttamente proporzionale all’intensità e radicalità della sua sequela. Questo è il contenuto delle beatitudini. Dove sta allora il segreto della felicità? Qui ogni evidenza viene meno. In gioco è solo la fede nella promessa di Dio che agisce in Gesù. Dove è perfetta letizia, si chiederà s. Francesco? La risposta è la medesima di quella del Maestro: “Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v' insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell' uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli”.

         S. Gregorio di Nissa commentando la prima beatitudine scrive: “Siccome tutti gli uomini sono abitati dalla superbia, il Signore comincia le beatitudini, eliminando il male iniziale dell’orgoglio e invitando a imitare il vero Povero volontario che è beato in verità, in modo da rassomigliargli, secondo quanto sta nelle nostre possibilità, attraverso una povertà volontaria per aver parte alla sua beatitudine”. E dopo aver descritto l’ascesa di tutte le beatitudini, commentando l’ottava, dice: “Qual è lo scopo che perseguiamo? Quale la ricompensa? Quale la corona? Mi sembra che ogni oggetto della nostra speranza non è nient’altro che il Signore stesso… è lui l’eredità ed è lui che ti dona la tua parte; è lui che arricchisce ed è lui la ricchezza; è lui che ti mostra il tesoro e che è il tuo tesoro…”. La beatitudine allora è vivere quella comunione con Colui che è l’Amato del tuo cuore. E quando tale amore risalterà in tutto il suo splendore? Quando tutto e tutti cercheranno di rapirtelo e tu non cederai a niente e a nessuno. La cosa strana sarà che ti accorgerai che non te lo farai rapire quando lo custodirai per tutti, senza separarti da nessuno proprio a causa di quell’Amore. È quanto di più paradossale possa succedere a un uomo, ma è proprio questa la verità di Dio per il cuore dell’uomo.

         Lo conferma il profeta Geremia con le sue dichiarazioni taglienti: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, che pone nella carne il suo sostegno e dal Signore allontana il suo cuore… Benedetto l’uomo che confida nel Signore e il Signore è sua fiducia”. La felicità che viene dall’uomo ti unisce a qualcuno e ti separa da altri e se poi questa diventa la ricerca della vita si risolverà in affanno e tribolazione. La felicità che viene da Dio scaturisce invece dall’impedire che tu possa goderla per te stesso e in forza di te stesso, che possa attingerla a partire da te stesso, ma solo ricevendola e condividendola con il tuo Signore che l’ha fatta consistere nello splendore del Suo amore. Per questo, il desiderio di felicità degli uomini pesca assai più profondamente di quanto sembri; allude alle energie di grazia che impastano il cuore dell’uomo. Quando Gesù parla della ricompensa grande nei cieli non allude semplicemente alla felicità del paradiso, ma alla natura della felicità che proviene dall’eterno, che partecipa dell’eterno e che si esprime nella nostra storia con uno splendore che ha a che fare con l’eterno. Parla di quella ‘vita eterna’ che Lui ha svelato e comunicato nel suo Spirito; parla della conoscenza del Figlio dell’uomo, del Volto di Dio contemplato dagli uomini. La beatitudine allora comporta, come dice ancora s. Gregorio di Nissa: “Qualunque cosa sia, la beatitudine comprende una vita innocente, il bene ineffabile e imprendibile, la bellezza indescrivibile, la fonte della grazia, la sapienza e la potenza, la luce vera, la sorgente di ogni bene, la forza che tutto domina, ciò che merita di essere amato senza che venga mai meno, una gioia sempre effervescente, un giubilo ininterrotto di cui si potrà dire qualsiasi cosa ma non che dipenda dal nostro merito”.

 

 

TO VII, C2

1 Sam 26,2-23,  sal 102;  1 Cor 15,45-49;  Lc 6,27-38

 

         Gesù continua a parlare ai suoi discepoli illustrando la potenza e l’estensione della dinamica che l’incontro con lui ha messo in moto. Fa vedere la qualità di vita per coloro che possono godere della beatitudine loro promessa: “Amate i vostri nemici … fate del bene a coloro che vi odiano …”. In questo brano c’è però un problema di traduzione. Così come lo leggiamo nel testo italiano qualcosa ci sfugge e qualcosa di essenziale. Rilevo alcuni particolari.

L’espressione ‘fate del bene a coloro che vi odiano’ suonerebbe piuttosto ‘agite in modo che risplenda il bene per coloro che vi odiano’, dove ‘bene’ non è complemento oggetto ma avverbio.

Benedite coloro che vi maledicono’ andrebbe più semplicemente resa con ‘dite bene di quanti vi maledicono’, per non perdere questa sfumatura di senso: portate in pace la maledizione che vi viene dagli uomini senza scadere nella vendetta delle parole, mantenete il cuore nella pace senza corromperlo con la rabbia di parole insolenti, non ricambiate con parole amare chi vi amareggia, con parole irose chi vi ferisce, né in voi stessi né in presenza d’altri, custodendo l’onore per la persona che l’ha calpestato.

E ancora: ‘pregate per coloro che vi maltrattano’ andrebbe reso: ‘pregate per coloro che vi calunniano’ (come l’antica versione latina riportava: orate pro calumniantibus vos) ad indicare la risposta al male più subdolo che produce tristezza. È l’ultima tentazione contro la carità: si può sopportare l’attacco diretto del nemico, si può tacere di fronte a chi ti insulta, ma resistere alla tristezza che ti invade quando sei calunniato per malevolenza e invidia (questo è infatti il significato del verbo greco usato da Luca) sembra sovrumano; allora, solo la preghiera sincera può salvare il tuo cuore.

L’espressione però caratteristica dell’intero brano è un’altra: ‘Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete?’ Così tradotta la frase non esprime la rivelazione che comporta sulle labbra di Gesù. In effetti, l’espressione andrebbe resa con ‘se amate quelli che vi amano, quale grazia avete?’ oppure ‘…qual è la vostra grazia?’ (come sottolinea l’antica versione latina, fedele al testo greco: ‘quae vobis est gratia?’). L’espressione è ripetuta tre volte nel testo e costituisce la discriminante tra il discepolo di Cristo e il pagano. Ma la discriminante di che cosa? Questo è il punto. Ed è l’interrogativo di fondo di tutto il brano: quale grazia risplende nel vostro agire? Grazia rivela un tipo di esperienza, quella che procede dalla beatitudine promessa da Gesù e che il discepolo condivide con Lui. Quella di chi, incontrando l’Inviato di Dio, riconoscendo in lui la prossimità di Dio per l’uomo, ne è rimasto folgorato, come dirà Giovanni: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo…” (1 Gv 1,1-4). È l’esperienza, in Gesù Salvatore, della benevolenza di Dio per l’uomo, della gratuità del perdono ricevuto, della dignità ritrovata per l’amore che ci ha rifatti dal di dentro. Esperienza che ha segnato così alla radice il nostro cuore da non poter più vivere se non nella dinamica di essa. Ma così vivendo non si fa che condividere la stessa vita del Figlio di Dio, rivelatore del Padre ricco in misericordia. È da dentro quell’esperienza che scaturisce l’energia di un amore che non si lascia limitare o soffocare da niente e da nessuno. E quando quell’amore risplende non si può non domandare: “quale grazia rivela? Di quale grazia è l’espressione?”. Le situazioni limite addotte da Gesù (amare i nemici, benedire chi ti maledice, pregare per chi ti maltratta…) rivelano la ‘normalità’ di un cuore ormai conquistato alla dinamica divina e per questo significative del discepolo di Cristo.

Così, anche quando Gesù invita a non giudicare per non essere giudicati, a perdonare per essere perdonati, ad usare una misura abbondante per i fratelli (gli aggettivi ‘pigiata, scossa e traboccante’ alludono alla misura di capacità quando il recipiente, riempito fino all’orlo, è schiacciato e scosso per farcene stare ancora un po’ e aggiungerne fino a ottenere un piccolo colmo in superficie) per ricevere con abbondanza a nostra volta in cambio da Dio, non fa che riprendere la logica di quella stesa dinamica: nessuna cosa, sia oggetto o affetto, sia motivo di divisione e di tristezza con i nostri fratelli perché su tutto prevalga l’amore che il Signore ci ha fatto conoscere in Cristo Gesù. Allora la richiesta insistente a Dio, nella preghiera della chiesa, non è tanto quella di avere un cuore generoso, di avere un amore per tutti, ma piuttosto quella che il Suo Volto si riveli al nostro cuore per essere attratti a vivere nello splendore di quell’amore che ci ha toccati.

 

 

MERCOLEDI’ CENERI, ANNO C.

Gioele 2, 12-18; Sal 50; 2 Cor 5, 20 - 6, 2; Mt 6, 1-6.16-18.

Inizia la Quaresima, ecco il rito delle ceneri: "Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai". Certamente ognuno di noi tende a sentirsi e a comportarsi come immortale e non è male che in qualche occasione ci si ricordi che la realtà non segue i nostri sogni. Ma il senso del rito celebrato in chiesa ha tutta un'altra portata. Ritorniamo al racconto della creazione di Adamo, quando Dio prese della polvere della terra, la plasmò e con il suo soffio la rese essere vivente. Nel salmo 50 si dice che Dio gradisce un cuore contrito. Il termine contrito, dal latino 'conterere', allude proprio a questo rendere polvere il cuore. Quando ci sentiamo afflitti, quando subiamo un'offesa, un'ingiustizia, quando subiamo una prova, senza ribellarci o adirarci, è come se il nostro cuore venisse pestato fino ad essere ridotto in polvere. E' reso polvere quando non ha più diritti da avanzare, da rivendicare. Allora, come polvere della terra, Dio lo può plasmare di nuovo ed il nostro cuore rinasce come essere nuovo, capace di sentimenti nuovi, più umani e divini allo stesso tempo. E' il senso appunto della penitenza quaresimale: riconsegnare il nostro cuore a Dio perchè possa essere di nuovo modellato da Lui. Come ci avverte il profeta Gioele: sarà possibile convertirsi al Signore senza spogliarsi delle vanità e illusioni del vivere quotidiano? Cercheremmo il Signore se potessimo soddisfarci con le nostre vanità e con i nostri soprusi? Ricordarci allora della nostra finitudine significa intravedere la possibile dignità della vita che scaturisce dall’incontro con il Dio vivente. In effetti, se impariamo a percepire il senso del mistero che viviamo, il cuore scoprirà nuove energie per viverlo fino in fondo e troverà finalmente quella gioia che cerca, nonostante non manchino i tormenti.

La prima parola della liturgia di quaresima suona: "Tu ami tutte le tue creature, Signore, e nulla disprezzi di ciò che hai creato; tu dimentichi i peccati di quanti si convertono e li perdoni, perché tu sei il Signore nostro Dio " (antifona d'ingresso). In questa professione di fede e di amore si innesta l'invito alla penitenza, tipica del tempo quaresimale. Salta agli occhi il contrasto tra l'austerità del cammino penitenziale quaresimale e la levità a cui la Chiesa esorta sulla base delle parole di Gesù ai suoi discepoli: "quando digiunate, non assumete aria malinconica ... tu invece profumati la testa e lavati il volto ...". E' il contrasto tra penitenza secondo gli uomini e conversione secondo Dio. Quale la ragione? La conversione è il ritorno ad un'intimità, ad un percepire sempre più intensamente la presenza di quel Dio che ci ha amati e che ci chiama al Suo amore; è un imparare a vedere le cose a partire da questa intimità con Dio. Scompare la 'scena' sia esteriore che interiore. C'è scena dove non c'è intimità, dove non si riesce mai ad entrare nella camera segreta, a stare in compagnia di Dio senza servirci di tale presunta compagnia per altri scopi. La penitenza ha lo scopo appunto di toglierci da questa scena, di toglierci questa scena. E se non produce intimità vuol dire che non raggiunge lo scopo.

Il brano evangelico descrive l’atteggiamento penitenziale in tre ambiti: elemosina, preghiera e digiuno. La dimensione negativa è stigmatizzata nell'ipocrisia, mentre la dimensione positiva risulta sottolineata dalla capacità di relazionarsi al prossimo (l'elemosina, oltre che una sorta di restituzione, è un atto fraterno, una condivisione, un riconoscimento del prossimo come nostro fratello) e a Dio (la preghiera è abolizione del 'teatro', cioè del fare le cose per essere visti sia dagli altri che da se stessi; il digiuno serve come sostegno alla preghiera, all'agire interiore pulito e retto, contrassegnato dalla gioia del cuore che va incontro al proprio Dio e di conseguenza è libero di incontrare i suoi fratelli). L'ipocrisia è la deviazione dello scopo di un'azione (la faccio per me piuttosto che per Dio) con l'aggravante del bisogno di fare teatro (faccio un'azione davanti agli uomini piuttosto che al cospetto di Dio). L'ipocrisia può essere soggettiva, vale a dire che perseguo scopi meschini e interessati nel compiere un'azione buona oppure semplicemente oggettiva, nel senso che io sono in buona fede, ma mi limito all'azione esteriore senza coinvolgere la conversione del cuore. Una penitenza di questo tipo non solo non porta frutti secondo lo Spirito, ma macchia il cuore nel senso che lo rende insensibile al mistero di Dio e dell'uomo. L'elemento che suggerisce meglio la corrispondenza dell'azione esteriore con la conversione interiore del cuore è appunto la gioia, quel senso di levità, di non seriosità con cui si compiono le buone opere lontani da quel dannato senso di importanza che ci diamo o da quell'ottuso bisogno di affermazione presso gli altri che ci divora. E' significativo che la chiesa, all'inizio del cammino quaresimale, ricordi proprio questa condizione di levità con cui occorre compiere tutte le opere di penitenza. E' il modo più autentico per far rimarcare come le opere di penitenza non riguardino che la conversione del cuore e la conversione del cuore non consista in altro che in una capacità di 'fare incontro' con Dio, con il prossimo, con noi stessi. La ricompensa promessa non ha nulla a che fare con la paga dovuta al lavoro fatto; riguarda solo la rivelazione e la pienezza che gusta il cuore quando viene incontrato da Qualcuno di cui porta il desiderio, quando si apre alla vita di una relazione che trasforma totalmente il suo modo di vedere e di sentire.

C’è ancora un aspetto della penitenza sottolineato dall'esortazione di Paolo ad essere collaboratori di Dio, collaboratori al mistero della riconciliazione perché gli uomini possano fare esperienza dell'amore di Dio. Fare le opere davanti agli uomini significa privare gli uomini dell'occasione di porsi davanti a Dio. Fare le opere davanti a Dio significa porsi dentro questo mistero di riconciliazione  con tutto il bisogno dei nostri cuori di essere perdonati e di scambiarsi il perdono vicendevolmente, come segno dell'amore di Dio arrivato fino a noi. Ogni tipo di penitenza gradita a Dio ci ottiene l'inserimento in questo mistero di riconciliazione, dove, per la verità dell'amore provato, non c'è più spazio per la 'scena', nemmeno in noi stessi.

 

 

PRIMA DOMENICA QUARESIMA, ANNO C

Dt 26,4-10;  Sal 90;  Rm 10,8-13;  Lc 4,1-13

 

Il cammino quaresimale, iniziato con il mercoledì delle ceneri, mostra subito tutta la sua drammaticità: se Gesù è tentato dal diavolo, che ne sarà di noi? Ma in che cosa il diavolo tenta? Cosa cerca di ottenere? La liturgia suggerisce varie porte di accesso alla comprensione di quella esperienza misteriosa.

Nell’orazione dopo la comunione si proclama: “Il pane del cielo che ci hai dato, o Padre, alimenti in noi la fede, accresca la speranza, rafforzi la carità, e ci insegni ad aver fame di Cristo, pane vivo e vero e a nutrirci di ogni parola che esce dalla sua bocca”. Ecco il punto: ‘aver fame di Cristo’, come ‘Cristo ha fame di noi’. Proprio nella sua ‘fame di noi’ Gesù è tentato. Il testo dice: “In quel tempo, Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano e fu condotto dallo Spirito nel deserto dove, per quaranta giorni, fu tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni; ma quando furono terminati ebbe fame”. Le tentazioni seguono l’esperienza di una pienezza, quella del battesimo, con la manifestazione dello Spirito che riposa su Gesù, come se lo zelo per il Signore che muove Gesù nel suo compito messianico potesse risultare equivoco. Il diavolo lo tenta non nel senso di distoglierlo da Dio inducendolo al male, ma di suggerirgli che c’è un modo molto più diretto ed efficace per arrivare al suo scopo. L’inganno starebbe nel fatto di fargli fare qualcosa in nome di Dio senza condividere il segreto di Dio, senza il compiacimento di Dio.

L’offerta del diavolo è un’offerta di potere: conquistare gli uomini, ma assoggettandoli. Conquistarli facendoli strabiliare; servirsi di Dio piuttosto che servire Dio. Il diavolo riconosce che Gesù è Figlio di Dio. “Se tu sei Figlio di Dio” significa: dato che tu sei Figlio di Dio, allora puoi… hai il potere di trasformare le pietre in pani; hai il potere di buttarti giù e restare indenne. Quando gli offre la gloria del mondo, è consapevole che Gesù è inviato al mondo, ma il diavolo non conosce i segreti di Dio né desidera averne parte, per cui tratta Gesù da par suo ed è disposto a passare in sordina davanti al mondo, per bearsi del fatto che chi conquista il mondo riconosca che lo deve alla sua nefasta liberalità.

Nella vita, la dinamica essenziale in gioco è questa e vale in generale: se tu vuoi assoggettare qualcuno a te, vuol dire che tu sei assoggettato a qualcun altro. Se hai bisogno di dominare, è perché già sei dominato da qualcosa. Se vuoi esercitare un potere, è perché tu sei schiacciato da un altro potere. Vale a dire: non è buono il potere, ma l'obbedienza; non vale il potere, ma l'amore. Nell'obbedienza (Gesù non aveva altro nutrimento che quello di fare la volontà del Padre; non aveva altra libertà se non quella di godere dell'intimità col Padre al punto da fare sempre quello che Lui vuole) e nell'amore (Gesù non aveva altro potere sull'uomo se non quello dell'amore assoluto e non si illude mai di sostituirlo con qualcosa che soltanto gli possa assomigliare ma non lo è) trovi tanta libertà da non aver bisogno di dimostrare mai nulla né di esercitare dominio mai su nessuno. Allora anche il nostro agire sarà divino. Sia l'amore che la realizzazione dell'amore hanno bisogno di provenire da Dio. Per Gesù, il suo essere Figlio di Dio ed il suo compito di Messia inviato da Dio, sono un tutt'uno. Nel compimento umano del compito ricevuto mantiene la modalità divina e rifiuta ogni illusione del potere.

La penitenza quaresimale è appunto diretta contro l'illusione del potere esercitato in tutte le sue forme. Tutte le forme perverse del potere derivano dall’illusione di scegliere Dio senza stare dalla parte degli uomini o di scegliere l’uomo senza stare dalla parte di Dio. Le risposte di Gesù frantumano l'illusione con la quale il diavolo irretisce per impedirci di essere liberi e veritieri. E lo scopo del vincere l'illusione lo rivela assai bene s. Francesco nel commentare il Padre Nostro: "sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra: finché ti amiamo con tutto il cuore, sempre pensando a te; con tutta l'anima, sempre desiderando te; con tutta la mente, orientando a te tutte le nostre intenzioni e in ogni cosa cercando il tuo onore. E con tutte le nostre forze, spendendo tutte le nostre energie e sensibilità dell'anima e del corpo a servizio del tuo amore e non per altro; e affinché amiamo il nostro prossimo come noi stessi, trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo amore, godendo dei beni altrui come dei nostri e compatendoli nei mali e non recando offesa a nessuno". E' l'illusione infranta, la libertà acquisita, lo spazio nuovo dell'umanità da riempire.

Il diavolo si serve delle parole del salmo 90 per tentare Gesù. Tutto il salmo è stato letto dalla tradizione come profezia delle tentazioni di Gesù. Quando il diavolo suggerisce le parole:Egli darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutti i tuoi passi. Sulle loro mani ti porteranno perché non inciampi nella pietra il tuo piede”, i Padri notano che tace il versetto successivo: “Camminerai su aspidi e vipere, schiaccerai leoni e draghi”, perché in realtà è diretto contro di lui, come riporterà Luca 10,19: “Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra i serpenti e gli scorpioni e sopra ogni potenza del nemico; nulla vi potrà danneggiare”. La potenza dell’Altissimo custodisce l’umanità del Figlio proprio dandole il potere di calpestare ogni potenza del nemico e custodendola nella sua fedeltà all’intimità col Padre nel suo amore per gli uomini. È il preludio alla vittoria sulla morte nel tempo della passione. Se confrontiamo il salmo col passo di Luca 10,17-24 scopriamo cose insospettabili. All’esultanza, drammatica, dell’Uomo che proprio quando sarà schiacciato confessa tutta la fedeltà nel suo Dio, partecipe del suo segreto fino in fondo, corrisponde l’esultanza traboccante di Gesù davanti ai discepoli, predicatori-testimoni della sua parola di salvezza che vince il diavolo, in quanto anch’essi hanno parte agli stessi segreti suoi, perché così è piaciuto al Padre. “Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete” dirà Gesù. E quella beatitudine diventerà gustabile dai discepoli quando i loro sguardi sapranno cogliere i segreti di Dio nel volgersi a Colui che per loro sarà trafitto. Tutto il cammino porta là, alla Pasqua, come prega la colletta: “O Dio, nostro Padre … concedi a noi tuoi fedeli di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e di testimoniarlo con una degna condotta di vita”.

 

 

SECONDA DOMENICA QUARESIMA, ANNO C

Gen 15,5-18;  Sal 26;  Fil 3,17-4,1;  Lc 9,28-36.

 

L’antica colletta ci fa supplicare: “purifica gli occhi del nostro spirito perché possiamo godere la visione della tua gloria”, mentre il canto al vangelo proclama: “    Questi è il mio Figlio prediletto: ascoltatelo”. Viene così delineato dalla liturgia di oggi l’intero arco del percorso del discepolo di Gesù: ascoltarlo, conoscerne il mistero e vederne la gloria. Tutto il cammino quaresimale è teso a questo obiettivo. Perché essenzialmente di questo si tratta in quanto tutto qui si riassume: "Questi è il mio Figlio prediletto:ascoltatelo". La tensione del mostrarsi di Dio all'uomo converge verso questo unico punto: conoscere il suo Figlio prediletto, vedere il suo Volto. Ma anche la tensione del cuore dell'uomo, che cerca vita e vita che duri, in questo unico punto trova compimento. Ascoltarlo significa allora percepire che la vita consiste in questo immergersi e ritrovarsi nello splendore del suo Volto, significa vedere se stessi, le cose, il mondo, la storia, da dentro il rapporto, accettato, con questo Figlio prediletto. Così, prima di ritrovarci immersi nel dramma della passione e della morte, la liturgia ci 'consola' con la visione della trasfigurazione, preludio alla risurrezione, allo scopo di insegnarci a vedere nel volto martoriato e insanguinato il Volto del Signore della gloria. Se gli apostoli si sono ritrovati confusi e smarriti nel momento del dolore, loro che la visione l'hanno goduta con i loro propri occhi, vuol dire che anche per noi le cose non andranno diversamente.

A quale condizione possiamo essere ammessi alla visione? Solo chi dal fondo del cuore, nonostante le sue resistenze e confusioni, dice con il salmista: “Di te ha detto il mio cuore: "Cercate il suo volto"; il tuo volto, Signore, io cerco” potrà intuire l’esperienza dei tre discepoli sul monte della trasfigurazione. Qualcosa della bellezza di quel Volto ha ferito allora i cuori dei discepoli, come del resto ogni nostro cuore aspetta di esserne ferito. Intervengono gli occhi, ma sono guidati dagli orecchi: la contemplazione del Signore avviene nello spazio creato nel cuore dalla voce misteriosa di cui gli occhi ne vedono i contorni di bellezza. Già al battesimo era stata udita la voce dal cielo, che proclamava Gesù come il Figlio prediletto, ma ora, per i discepoli, viene aggiunto anche l’ “ascoltatelo!”. I discepoli ancora non possono sapere tutta l'estensione di quell’ “ascoltatelo!”, fin dove li porterà l'ascoltare il loro Maestro e ancora non possono conoscere tutta la profondità di quell'espressione “Figlio mio prediletto”, come poi si rivelerà alle loro coscienze e ai loro occhi con la passione-morte-risurrezione di Gesù e con la testimonianza della loro vita, resa capace di portare quello stesso amore di Dio, visto in Gesù e da lui partecipato, in se stessi e per tutti gli uomini. Anzi, tutta la scena della trasfigurazione sembra abbia lo scopo, nella narrazione evangelica, di segnare i cuori dei discepoli in vista della prova della croce. Così non può che seguire la consegna del silenzio, perché l'evento divino, ancora misterioso al loro cuore, non si trasformi in un motivo di vanto o di confusione.

Alla fine della vita Pietro ricorderà la potenza singolare di quella strana visione: “Infatti, non per essere andati dietro a favole artificiosamente inventate vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli ricevette infatti onore e gloria da Dio Padre quando dalla maestosa gloria gli fu rivolta questa voce: "Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto". Questa voce noi l' abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte” (2Pt 1,16-18). E Giovanni, ancora più avanti nel tempo, ricorderà: “e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14) come anche scriverà nella sua lettera: Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita…” (1Gv 1,1).

Ma quando i discepoli seguono Gesù sul monte tutto è ancora confuso. Si notino i particolari: i discepoli sono oppressi dal sonno, si svegliano come per un attimo, sono impauriti e ammutoliti – le uniche parole che pronuncia Pietro, sembra non abbiano alcun senso, se non quello di rivelare il rapimento dei loro cuori! Confusione, quindi, che contrasta con la luce sfolgorante della visione, che la narrazione evangelica annota espressamente essere avvenuta dopo l’annuncio ai discepoli da parte di Gesù della sua passione. Con un dettaglio misterioso: “In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non morranno prima di aver visto il regno di Dio". Circa otto giorni dopo questi discorsi, prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare…”. La trasfigurazione ha a che fare con il ‘vedere il regno di Dio’. Cosa significa? L’espressione è fortemente misteriosa. Si può vedere il regno di Dio? E dove? Equivale a domandarci: si può vedere la gloria di Dio? E dove? La gloria di Dio è lo splendore dell’amore di Dio che rifulge in Gesù, morto e risorto per noi. Per questo il colloquio di Mosè e Elia con Gesù non può che concernere la sua morte e risurrezione, centro della storia del mondo e motivo della rivelazione di Dio da sempre, come per mostrare che tutte le Scritture non hanno altro mistero da svelare se non quell’amore, svelato e sigillato in Gesù, che riconcilia gli uomini con Dio. Amore che ha un volto, il Volto del Signore Gesù. Amore, che dà a sua volta un volto a chi se ne lascia penetrare. E chi scopre il suo volto splende a sua volta dello stesso amore. È l’esito della sequela del Signore Gesù che i discepoli lasciano intravedere e di cui impariamo a rilevare le tracce nel corso del nostro cammino.

 

 

TERZA DOMENICA QUARESIMA, ANNO C    

Es 3,1-15;  Sal 102;  1 Cor 10,1-6.10-12;  Lc 13,1-9

 

Il canto al vangelo dà il senso preciso della odierna liturgia e di tutto il cammino quaresimale, rilanciando il grido di Gesù che attraversa tutta quanta la sua predicazione: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (a volte viene tradotto: ‘Fate penitenza’!). Tutto il capitolo 13 di Luca è come un ‘grido’ di Gesù che esercita una pressione sui cuori: ‘convertitevi’! La forza è tale che possiamo domandarci: da dove gli deriva quell’urgenza? Sarà da mettere in relazione alla sua morte prossima? È lo zelo per il suo compito messianico? Tutto il capitolo tende a dirigere gli sguardi su quello che avverrà a Gerusalemme, sulla rivelazione che comporterà la sua ‘passione’ a Gerusalemme: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che sono mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina la sua covata sotto le ali e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa vi viene lasciata deserta! Vi dico infatti che non mi vedrete più fino al tempo in cui direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!”. Quando Gesù sollecita i cuori alla conversione, la posta in gioco è proprio la possibilità della visione di Dio, la possibilità di partecipare ai segreti di Dio che si svelano al mondo, la possibilità di un’esperienza di umanità ritrovata e guarita nell’accoglienza dell’ amore salvatore di Dio che in Gesù ha appunto il suo sigillo ultimativo. La cosa è così essenziale per la vita dell’uomo che non è più possibile tergiversare, non è più possibile far finta, pena la rovina.

Quando la gente cerca di ottenere da Gesù la conferma di un senso plausibile alle crudeltà della storia (vedi l’esempio dei Galilei uccisi da Pilato e degli altri periti in un incidente di vita quotidiana), si sente ributtata nell’assurdo. I ragionamenti umani non possono superare l’assurdo. In effetti è assurdo pensare che, se io sono risparmiato dal dolore, significa che ho Dio dalla mia parte! L’uomo non ha alcun potere su Dio e quindi è perfettamente inutile che cerchi di avere Dio dalla sua parte. Dio è già dalla sua parte, ma in un modo che non è scontato vedere e vivere. L’esempio di Gesù è lì a evidenziarlo. Lui è l’Inviato di Dio, Lui è la rivelazione dell’amore di Dio. Da come accogliamo Lui, accogliamo la vita. Gesù è tutto teso a quel ‘gridare’: ‘convertitevi!...’. Senza la conversione all’alleanza di Dio, di cui Lui costituisce il sigillo, periremo tutti, sia perché non potremo saziare il desiderio del nostro cuore e verremo lasciati in balia delle nostre ossessioni sia perché, oppressi da quelle ossessioni, ci renderemo la vita impossibile gli uni contro gli altri.

Ora, la conversione si gioca proprio nell’accogliere la rivelazione di Dio, nello scoprire chi sia Dio per noi. Il grido di Gesù sale dalla profondità del mistero di Dio rivelato a Mosè nel roveto ardente, che il salmo responsoriale, il salmo 102, modula in mille sfumature. Dio confessa a Mosé: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto …conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo …”. In quel ‘conosco le sue sofferenze’ si rivela tutta la partecipazione dell’amore di Dio per le sue creature, tutta la sua prossimità all’uomo, tutta l’accondiscendenza che lo muove nei confronti dell’uomo. Gli antichi commentatori ebraici spiegano così i sentimenti di Dio: ‘io pure soffro come soffrono loro … le loro pene mi riguardano; vedo anche le pene che non dicono, ma che opprimono i loro cuori…’. E quando Mosè chiede a nome di chi dovrà presentarsi, Dio risponde: “Io sono colui che sono! …il Signore, il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi”. Il Nome di Dio esprime ciò che l’uomo di Lui può sperimentare quando lo invoca, quando, avendolo invocato, ne coglie la vicinanza e la sua potenza di liberazione e di favore. L’espressione, misteriosa nella sua disarmante semplicità ‘Io sono colui che sono’ può voler dire allora: ‘Io sono colui che sarò’; ‘Io sono là con voi come voi vedrete’; ‘io sono colui che tu vedrai quando invocandomi io ci sarò’; ‘chi io sia voi lo saprete da quello che farò per voi’. Il nome di Dio non rinvia semplicemente all’essere di Dio, ma al suo essere per noi. Tanto che Dio è sempre Dio di: Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, Dio di Israele, Dio di Gesù Cristo, Dio di noi… Così il popolo fa parte del nome di Dio, come Dio, El, fa parte del nome del popolo, Isra-El. ‘Nostro’ o ‘mio’ ed ‘unico’ in rapporto a Dio stanno sempre insieme. Tale è l’alleanza di Dio con l’uomo. Tanto che, secondo la bellissima espressione di Origene,  in questa alleanza che si rivela nel Nome di Dio è sottesa tutta la dinamica della nostra crescita spirituale:Magari venisse concessa anche a me l’eredità di Abramo, Isacco, Giacobbe e divenisse mio il mio Dio allo stesso modo che è diventato Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, in Cristo Gesù, Signore nostro (ORIGENE,  Omelie su Giosué, Omelia XVIII,3).

Se il salmo 102 lo mettiamo in bocca allo stesso Mosè, quante sfumature di senso si potrebbero cogliere! Lui può comprendere quello che Gesù dice di sé nelle parole di benedizione dei credenti che lo riconoscono come l’Inviato: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”. La nostra lode al Signore è l’eco di quella benedizione:Benedici il Signore, anima mia, quanto è in me benedica il suo santo nome. Tutto il mio intimo lo benedica; la benedizione di Lui salga dal mio cuore, dalla mia storia, dal mondo che per quella benedizione vive. Quando proclamiamo: “Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue malattie…Buono e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore”, noi intendiamo esprimere la scoperta del Nome di Dio per il nostro cuore che ha cambiato tutta la nostra vita, ce l’ha fatta apparire sotto tutta un’altra luce, trasfigurandola. Proprio alla scoperta del Nome di Dio che si rivela in Gesù ci rimanda l’invito evangelico: “Convertitevi!”.

 

 

QUARTA DOMENICA DI QUARESIMA, ANNO C      

Gs 5,9-12; sal 33;  2 Cor 5,17-21;  Lc 15,1-3.11-32

 

Le parabole, prima che di noi, parlano di Dio, di Dio in rapporto a noi. Siamo a metà del cammino quaresimale e la chiesa si interroga: come Dio agisce con i peccatori? Possono i peccatori trovare salvezza?

La risposta è nello stesso annuncio evangelico, che Gesù sintetizza splendidamente con la parabola del figlio prodigo, parabola che sarebbe meglio chiamare del padre misericordioso. L’antifona di ingresso della liturgia ne esalta subito l’esito parafrasando un passo del profeta Isaia: “Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa quanti la amate. Sfavillate di gioia con essa voi tutti che avete partecipato al suo lutto. Così succhierete al suo petto e vi sazierete delle sue consolazioni; succhierete, deliziandovi, all' abbondanza del suo seno” (Is 66,10-11). L’immagine è di un bambino ingordo che succhia al seno della mamma e se ne sazia beato. È l’immagine dell’uomo peccatore che, pentito, torna al suo Dio e ne scopre la tenerezza. Non è però un’immagine usuale per la fantasia religiosa dell’uomo. L’uomo preferisce distinguersi dai suoi simili, peccatori, esibendo una parvenza di giustizia, senza tener conto dei sentimenti di Dio. Ed è  proprio questo che rende la sua ‘giustizia’ non gradita perché non solidale con i sentimenti di Dio.

Gesù è indotto a raccontare la parabola a causa delle lamentele, che diventano perfino accuse, da parte dei farisei di fronte al suo agire: I farisei e gli scribi mormoravano: "Costui riceve i peccatori e mangia con loro” (Lc 15,2). Non si davano pena dei sentimenti di Dio come rivela il profeta Isaia: “Sion ha detto: "Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato". Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai” (Is 49, 14-15) O dell’altro passo: “In un impeto di collera ti ho nascosto per un poco il mio volto; ma con affetto perenne ho avuto pietà di te, dice il tuo redentore, il Signore” (Is 54,8). Non si ricordavano più il rimprovero che Dio aveva rivolto al profeta Giona per la sua irritazione a causa della pianta di ricino seccata (cfr Gio 4, 10-11).

Di fronte alla parabola del figlio prodigo potremmo farci una domanda a proposito dei sentimenti dei figli tra loro e verso il loro padre. È chiaro che la comunione con il padre resta il segreto della felicità dei due figli. Ora, cosa sarebbe successo se il figlio minore, ritornato pentito, si fosse stizzito per l’atteggiamento del fratello maggiore che non poteva accettare quel trattamento di riguardo del padre a suo favore? Se avesse preteso comprensione anche dal fratello maggiore, sarebbe stato sincero nel suo pentimento verso il padre? E se il figlio maggiore si fosse sentito solidale con il padre nella sua gioia, avrebbe potuto rivendicare qualcosa per sé? Evidentemente non si è mai trovato, insieme al padre, durante tutto il tempo dell’assenza del fratello, a dire: “speriamo ritorni … speriamo non gli capiti qualcosa di irreparabile…”. Il punto è esattamente questo allora: stare solidali con il padre, con la sua premura e la sua angoscia per poter godere della sua gioia. È questa la comunione con il padre, il segreto della felicità dei figli. È Gesù a rivelare a quale livello di intimità si situa il segreto della felicità nella comunione con il Padre: “Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie” (Gv 17,10), come esattamente il padre della parabola dice al figlio maggiore. Quando i figli saranno capaci di dire con le parole del salmo: “Chi altri avrò per me in cielo? Fuori di te nulla bramo sulla terra” (Sal 73,25) allora saranno nella pace e godranno la fraternità.

Se s. Paolo proclama che il ministero della chiesa è la riconciliazione, come riporta la seconda lettura, vuol dire che l’esperienza fondamentale dell’uomo è l’accoglienza del perdono di Dio, in Cristo, esperienza così fondante della ‘nuova’ umanità a noi donata in Cristo, che tutta la vita umana assume la tensione di estendere a tutto e a tutti il perdono ricevuto, nella condivisione comune. E se, come si legge nella stessa lettera: “Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione”, 2Cor 5,18), Dio affida all’uomo il ministero della riconciliazione, vuol dire che ritiene l’uomo suo compagno. "Siamo infatti collaboratori di Dio" (1Cor 3,9). Con la rivelazione di Gesù, che svela, mentre compie, questo supremo desiderio di Dio, possiamo scorgere all'opera nel mondo le segrete intenzioni di Dio nei confronti delle sue creature, come la stessa parabola di Gesù rivela. Parlare di redenzione, di salvezza, di grazia, significa alludere a questa opera di riconciliazione in atto nella storia, come dice Gesù:  «Il Padre mio opera sempre e anch'io opero» (Gv 5,17). Opera appunto la riconciliazione in Gesù, nostra pace ("Egli infatti è la nostra pace", Ef 2,14). Noi tutti siamo chiamati a concorrere alla realizzazione di questa 'opera'. In questo senso dobbiamo imparare a giudicare ogni cosa in base alla convergenza verso questo supremo scopo divino. Così si fa esperienza di essere solidali con i sentimenti di Dio, perché in questo consiste la letizia dell’uomo, la cui porta di accesso è il pentimento, come per il figlio che rientra in se stesso e pensa a suo padre decidendo di ritornare a casa, nonostante la sua vergogna. Dal pentimento si sviluppa la conversione, l’incontro con Dio e la possibilità di vivere una ‘nuova’ fraternità, partecipi della gioia del padre che invita alla festa.

 

 

QUINTA DOMENICA DI QUARESIMA, ANNO C

Is 43,16-21;  sal 125;  Fil 3,8-14;  Gv 8,1-11

 

Con quale sincerità e intensità sarebbero risuonate sulla bocca di quella donna spiata, scoperta, strattonata, minacciata, giudicata e poi lasciata sola perché potesse essere perdonata da Gesù, le parole del salmo: “Grandi cose ha fatto il Signore per noi, ci ha colmati di gioia” (Sal 126,3)! È da dentro questa gioia inattesa, confusa, che si apre per il cuore uno spazio di intimità tutto nuovo, secondo quella novità di cui parla il profeta Isaia: “Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43,19). È lo spazio di una ritrovata dignità, che si percepisce dal tono dolce con cui ci viene rivolta la parola in quella intimità di benevolenza con cui veniamo accolti e che ci guarisce dal di dentro: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”.

All’inizio, dopo il perdono del nostro peccato, non riusciamo ancora a sentire l’amore che ci viene donato. Tutto resta ancora assai confuso, ma emerge subito chiaro il senso di una dignità ritrovata. Tutto ciò che di male abbiamo commesso, quando siamo davanti al Signore Gesù, resta scritto sulla polvere. Soltanto però il male riconosciuto, quello che non viene taciuto o giustificato, resta scritto sulla polvere. Quello che non è riconosciuto, quello che non è espresso, quello che si mantiene nascosto, resta in cuore e impedisce la scoperta della benevolenza di Dio. Tutti gli accusatori della donna se ne devono andare perché, effettivamente, non sono così stupidi da immaginare di essere senza peccato. Non avevano quel peccato di cui accusavano la donna, ma ne avevano altri. Ma loro non hanno fatto esperienza della benevolenza di Dio. La donna, invece, scoperta in flagrante adulterio, non potendo nascondere nulla, resta davanti a Gesù: non si scusa, non rivendica, e ritrova la dignità del suo cuore nella benevolenza di Gesù. Una volta confermati in quella dignità e in quella benevolenza, il cuore incomincia a sentire l’amore che ci ha toccati, incomincia a sentire il desiderio di rispondere a quell’amore fino a modellare tutta la sua vita su di esso e in esso. Ma se prevalessero le nostre rivendicazioni, le voci del passato, delle sofferenze passate, come ritrovare la dignità?

La logica interiore di quella esperienza è ben descritta da s. Paolo, nella lettera ai Filippesi: “Tutto io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore … perché io possa conoscere lui, la potenza della sua resurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze … mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo… dimentico del passato e proteso verso il futuro…”.  Di fronte a quella ‘carità’, che vorremmo riempisse tutta la nostra vita, tutto è reputato una perdita. Non puoi non tendere a ciò  da cui è venuto per te il senso della tua dignità e la scoperta della benevolenza di Dio verso gli uomini. Non puoi più stare riverso sul tuo passato, ormai abbandonato alla polvere: non puoi che guardare al futuro di Dio che viene a te nella condivisione del suo progetto di bene e di salvezza per gli uomini.

L’inganno che può ancora nascondersi nelle pieghe dell’anima resta ormai quello di ‘dimenticare’ il proprio peccato e perdere così la solidarietà con i nostri fratelli peccatori. Il segno di tale dimenticanza è ravvisabile nel momento in cui mi difendo dai miei fratelli, rivendico qualcosa da Dio contro i miei fratelli. Ciò significherebbe che la benevolenza di Dio è diventata per me un diritto, perdendo tutta la profondità dell’intimità con cui mi era stata rivolta.

S. Cipriano ricorda, nel suo commento al Padre Nostro, che all’invocazione ‘rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’, la prima cosa che domandiamo non è la generosità per essere capaci di perdonare, ma la coscienza di essere peccatori, bisognosi noi di misericordia. Sentendoci peccatori, non abbiamo diritti e possiamo sperimentare in tutta la sua dolcezza il perdono di Dio, perché siamo solidali con tutti i nostri fratelli, non avendo alcun motivo di rivendicazione nei loro confronti e quindi non separandoci da loro per nessun motivo. E così facendo restiamo nella carità di Dio per gli uomini.

 

 

DOMENICA DELLE PALME, ANNO C

Lc 19,28-40// Is 50,4-7;  sal 21;  Fil 2,6-11;  Lc 22,14-23,56

 

La liturgia di oggi dà inizio alle celebrazioni della Settimana Santa. Accompagneremo Gesù nel suo cammino di passione, allorché il sentimento che occupa la scena è sgomento, dolore, confusione, imparando a stare solidali con Colui che votò la sua vita a stare solidale con i peccatori, dalla parte di Dio. Un sentimento di esultanza, di euforia quasi, introduce agli avvenimenti pasquali: Gesù entra trionfalmente in Gerusalemme acclamato da ali festanti di discepoli. Assai presto, molto presto quell’euforia cederà il passo alla paura, alla vergogna, alla confusione, al tradimento e all’accusa. E quando tutto sarà compiuto, quando tutto sembrerà ormai definitivamente cancellato nel silenzio della morte che tutto sigilla nell’oblio, risuonerà ancora un grido di gioia la domenica di Pasqua, ma questa volta senza nessuna euforia, come strappato a forza, trasfigurante nella sua assoluta imprevedibilità. Sarà il grido, non che vince la morte, ma che l’attraversa, che l’assume, che la libera dai suoi confini mondani aprendola allo splendore del mistero di Dio.

Nel racconto di Luca Gesù aveva puntato diritto a Gerusalemme nel corso del suo ministero. E’ ormai alle sue porte, sta per entrarvi perché sa che è giunta la sua ora e non si sottrae più all’acclamazione festosa dei discepoli. Loro forse pensano altra cosa rispetto a quello che ha in mente Gesù, ma sottolineano comunque la sua realtà di Messia liberatore, di Inviato di Dio per il suo popolo, la Benedizione che rappresenta per loro tutti da parte di Dio. Ma appena terminata la processione, quando ha inizio la liturgia eucaristica, il tono muta profondamente: emergono allora i pensieri di Gesù, quelli che i discepoli non potevano leggere, si intravedono i pensieri di Dio sul suo Figlio venuto a rivelare l’amore del Padre per gli uomini. Subito la colletta fa pregare: “Dio onnipotente ed eterno, che hai dato come modello agli uomini il Cristo tuo Figlio, nostro Salvatore, fatto uomo e umiliato fino alla morte di croce …”. Non c’è più nemmeno l’ombra dell’esultanza di prima. Viene letto il terzo canto del Servo del Signore del profeta Isaia: “Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi…”. Si canta il salmo 21: “… hanno forato le mie mani e i miei piedi, posso contare tutte le mie ossa. Si dividono le mie vesti, sul mio vestito gettano la sorte”. Se sentissimo proclamare per la prima volta queste parole scritte molti secoli prima di Gesù e pensassimo agli eventi della sua passione-crocifissione resteremmo folgorati! Tutto è descritto nei minimi dettagli! Incredibile. E s. Paolo canta la figura di Gesù nella sua passione d’amore per gli uomini: “…spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce …”. E viene poi annunciato solennemente il racconto evangelico della passione di Gesù.

Su questo Gesù la chiesa invita a fissare gli sguardi, in tutta la sua consistenza umana e storica, in tutta la potenza della sua rivelazione di quanto Dio ama gli uomini, di quanto gli uomini sono preziosi per Lui, di quanto venga rivoluzionata la vita se vissuta dentro e a partire dal Suo amore. Come stupendamente ci ricorda la lettera agli Ebrei: “tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede. Egli in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia, e  si è assiso alla destra del trono di Dio. Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo” (Eb 12,2-3).

Quando la colletta ci propone Gesù come modello intende sì porci davanti agli occhi il Gesù fatto uomo e umiliato, e fino a che punto umiliato!, ma non per suggerirci un modello di umanità sofferente. Gesù resta modello perché se vogliamo realizzare la nostra vocazione all’umanità, se vogliamo vivere la nostra umanità in tutta l’estensione della sua potenzialità, non possiamo non rifarci a Lui che di questa umanità ha svelato tutta la bellezza nel suo stare fedele in comunione con Dio, dalla parte degli uomini ed in comunione con gli uomini, dalla parte di Dio. E la sua bellezza traspare proprio nel momento in cui, sfigurato dal dolore e calpestato, non rinnega l’alleanza di Dio ed apre, per lui e per tutti, la promessa di una vita inattaccabile dalla morte. Ed è la sua bellezza a generare speranza, quella di cui il mondo oggi, come sempre, ha tremendamente ed urgentemente bisogno.

 

 

TRIDUO PASQUALE.

 

Le celebrazioni del triduo pasquale del giovedì, venerdì e sabato santo con la veglia di risurrezione costituisce come un tutt’uno e si può intravedere come un’unica linea di sviluppo che le attraversa, carica del mistero di cui siamo chiamati ad assumere la verità.

Introduce alle celebrazioni la messa del crisma, che sottolinea l’unità della chiesa attorno al suo vescovo che consacra il sacro crisma di cui i battezzati e cresimati verranno unti, come dice la preghiera: “Quest’unzione li penetri tutti e li santifichi, perché, non più soggetti all’eredità del male, spandano il profumo di una vita santa e divengano tempio della tua maestà divina. Si compia in essi il disegno misterioso del tuo amore …”.  Eco delle parole dell’apostolo:“Siano rese grazie a Dio, il quale ci fa partecipare al suo trionfo in Cristo e diffonde per mezzo nostro il profumo della sua conoscenza nel mondo intero! Noi siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo fra quelli che si salvano e fra quelli che si perdono…” (2 Cor 2,14-16). Come credenti in Cristo siamo chiamati a diffondere lo splendore del nome di Cristo, a rendere desiderabile, con la testimonianza della nostra vita, la conoscenza del Signore Gesù, profumo gradito al cuore dell’uomo.

La cena del Signore del giovedì santo celebra l’istituzione dell’eucaristia e del sacerdozio e contemporaneamente il sacramento del servizio attraverso il rito della lavanda dei piedi. Qual è la virtù specifica dell’eucaristia, si chiede Agostino? E’ quella di produrre unità, di essere ciò che riceviamo, cioè un corpo unico, noi che siamo le sue membra. L’amen che rispondiamo al ‘Corpo di Cristo’ proferito dal sacerdote al momento della comunione significa: sì, riconosco di far parte di quel Corpo e accetto di vivere in modo da non ferire mai l’unità di quel corpo. E’ il mistero della comunione con Dio e tra gli uomini diventato lo scopo supremo dell’agire del cuore. Per questo il sacramento del servizio espresso dalla lavanda dei piedi non è in funzione di una solidarietà o di una generosità umana, ma in funzione dello splendore del mistero di Cristo, profumo della conoscenza del Cristo. Qui riceve tutta la sua potenza il comandamento dell’amore al prossimo.

La proclamazione della passione del Signore e l’adorazione della croce il venerdì santo rivelano l’intimità e la tenacia dell’amore di Gesù per gli uomini colte nel mistero della sua obbedienza fino alla morte, e alla morte di croce. L’obbedienza del Figlio di Dio, che non gli ha fatto preferire nulla a noi, nemmeno la sua gloria divina, in ciò condividendo con il Padre e lo Spirito Santo la passione d’amore per noi uomini, suoi figli, induce noi a non preferire nulla a Lui, e in ciò condividendo la sua obbedienza all’amore senza ricercare altra contropartita. Di qui scaturisce quella salvezza che risana i cuori e li abilita alla vita in Dio, alla vita non più soggetta alla morte, cioè non più dominata da tutto ciò che attiene alla morte.

Tutto il sabato santo trascorre nel silenzio liturgico in attesa della veglia pasquale che annuncia la restituzione ai discepoli del loro Signore, il Vivente, con i segni indelebili nel corpo della sua passione salvatrice. Se viva è stata la compassione per l’Uomo dei dolori, prorompente sarà la gioia per la notizia della risurrezione del Signore. E’ una notizia certa, ma non evidente. E’ una notizia vera, ma non apodittica. Perché quella notizia ha bisogno di tempo per apparire in tutta la sua potenza, per convincere i nostri cuori e scoprir loro la sorgente di gioia inesauribile che costituisce. Ha bisogno di spazi per espandersi, ha bisogno di condivisione per rafforzarsi, ha bisogno di testimonianze per risplendere. Sono i tempi della chiesa, gli spazi dell’umanità, la condivisione e le testimonianze dei credenti, perché i nostri cuori finalmente si convincano a ‘vedere’ e a ‘riconoscere’ il Signore Gesù in tutta la sua bellezza, morto e risorto per noi.

E la gioia della sua conoscenza profumi la nostra vita e ne manifesti lo splendore.

 

 

DOMENICA DI PASQUA

RISURREZIONE DEL SIGNORE

 

Un’antifona del sabato santo introduce al mistero della risurrezione del Signore: “Cristo per noi si è fatto obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. Per questo Dio lo ha innalzato e gli ha dato un nome che è sopra ogni altro nome”. E così esulta la chiesa nell’inno pasquale: “Irradia sulla tua Chiesa la gioia pasquale, o Signore, unisci alla tua vittoria i rinati nel battesimo”. La gioia, quella vera, stabile, agognata, non può che essere pasquale; non solo nel senso che ci deriva dall’evento della Pasqua del Signore, che rende nota al cuore dell’uomo la motivazione inconfutabile della possibilità ritrovata di essere nella gioia, ma anche nel senso che la gioia è strettamente correlata al dramma, alla fatica, alla fedeltà di un amore che svela il mistero stesso della vita e che si esprime nel suo rivelare la potenza d’intimità con il Padre, autore della vita. Gioia che per noi si risolve nel dolce perdono che Gesù ci riversa: “Tu, o Cristo, sei il nostro dolce perdono. Fa’ che di Te in ogni istante io mi sappia rivestire e non abbia potere su di me la miseria con cui mi vedo e mi sento. Con le tue ferite risanami, che io respiri e viva del tuo sguardo verso il Padre. Nelle tue piaghe nascondimi, che il sentimento della mia malinconia non si erga a obiezione della tua grandezza. Lasciami entrare nel tuo cuore, che io mi avvolga della sua benevolenza e mi faccia rinascere, finiti i terrori della notte, al mattino della tua presenza”.

Il racconto della risurrezione di Gesù, come viene letto nel cap. 20 di Giovanni, cela una eccezionale ricchezza teologica ed è percorso da una tensione fortissima che proviene dal fatto di avvicinarci alla frontiera che delimita questo mondo dall’altro mondo, le cose di quaggiù dalle cose di lassù, ciò che si vede da ciò che ci viene mostrato soltanto. Le prime parole suddividono il tempo e tutto il capitolo, che narra gli eventi del giorno della risurrezione, giorno uno e ottavo, resta così suddiviso: l’alba, la tomba vuota (20,1-10); il mattino, Gesù appare a Maria (20, 11-18); la sera, Gesù si mostra ai discepoli (20, 19-23); il sigillo dell’ottavo giorno, l’apparizione a Tommaso (20, 24-29); la conclusione, la finalità del vangelo (20, 30-31).

Il primo giorno, il giorno uno della settimana, dischiude un tempo completamente diverso, un tempo nel quale tutto ciò che è stato compiuto fino ad ora si rivela come novità. Il primo personaggio che ci conduce alla soglia di questa novità è Maria Maddalena. A differenza dei sinottici, Giovanni non aveva menzionato per la circostanza della sepoltura la presenza delle donne. La mistura di mirra e aloe era stata portata da Nicodemo e Giuseppe di Arimatea. I sinottici narrano dell’arrivo al sepolcro, all’alba, delle donne con gli oli per completare l’unzione del corpo di Gesù. Giovanni sorvola su tutto questo. Parla solo di Maria Maddalena e l’accento è posto sulla motivazione profonda, interiore, della sua presenza al sepolcro. Essa vive un’angoscia personale, un sentimento di assenza irrimediabile; per lei oramai il Signore è l’Assente; non può che sentirlo che così. Per prima vede la pietra del sepolcro tolta via e corre ad avvertire i discepoli: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove lo hanno posto”. Dall’angoscia dell’assenza passa all’angoscia dell’incertezza. Ma Giovanni parla della pietra tolta via dal sepolcro per sottolineare, in questo Giorno della Risurrezione, che viene tolto l’ultimo impedimento alla ‘vista’, alla ‘visione’, come poi il brano dirà a proposito di Giovanni entrato nel sepolcro. L’episodio dei due discepoli che corrono al sepolcro lo conferma in una tensione crescente per giungere, alla fine, alle straordinarie parole: “Allora entrò anche l’altro discepolo …e vide e credette”. È come una richiesta che viene sussurrata al cuore dei possibili lettori del vangelo, la richiesta di avanzare nella conoscenza del mistero, di salire fino all’intelligenza della risurrezione che viene svelata poco a poco: “Vide e credette”. La tensione del racconto punta qui. Ma cosa ‘vide’ Giovanni? Anzitutto, a quel ‘vide’ non arriva tramite deduzione logica, tramite ragionamenti. Si tratta di una percezione folgorante che contemporaneamente fa comprendere l’evento e tutto ciò che l’ha preceduto, tutte le Scritture che a quello si riferivano. Non è un capire, ma un ricevere una rivelazione per la quale tutto si illumina e tutto prende luce. Possiamo farci un’idea del come e del perché il discepolo che Gesù amava, entrando nel sepolcro, abbia potuto ‘vedere e credere’? Si è cercato di rintracciare, anche a livello esegetico, quel ‘qualcosa’ che dentro il sepolcro ha indotto Giovanni a credere. Avrebbe visto le fasce e il lenzuolo funerario abbassate, non disciolte e il sudario, che era posto sul capo, non con le fasce disteso, ma al contrario avvolto in una posizione unica, cioè in una posizione diversa: invece che essere disteso sulla pietra sepolcrale con le fasce, era rialzato e avvolto, come inamidato da quella luce e calore che dovettero prosciugare di colpo gli aromi che impregnavano le tele.

Comunque sia spiegato l’evento, è chiaro che la risurrezione di Gesù era del tutto inconcepibile per i suoi discepoli. L’esperienza della tomba vuota situa ormai l’intelligenza del mistero di Dio in una luce assolutamente particolare e apre all’uomo l’accesso di un tempo ‘eterno’ in cui situare la storia e gli eventi, attraversati così dallo splendore del corpo glorioso di Cristo, in attesa che quello splendore riempia gli occhi e investa il cuore.

L’augurio della gioia pasquale allude proprio al dono di quella luce che inonda gli occhi e il cuore per farci vivere nella presenza del Signore che ci trascina nel regno del Padre suo.

Il Signore è risorto! E’ davvero risorto!

 

 

 

SECONDA DOMENICA DI PASQUA, ANNO C

At 5,12-16;  sal 117;  Ap 1,9-19;  Gv 20,19-31

 

Una domanda risuona insistente nella liturgia bizantina di oggi a proposito dell'audacia di Tommaso: come poté toccare e non restare bruciato? “O straordinario prodigio! Il fieno ha toccato il fuoco ed è rimasto indenne. Tommaso ha infatti messo la mano nel costato igneo di Gesù Cristo Dio e non è stato bruciato da questo contatto…”; “Chi impedì che la mano del discepolo si fondesse quando l’accostò al fianco infuocato del Signore? Chi le diede l’ardire e la forza di tastare ossa fiammeggianti? Fu il costato stesso che egli toccò. Se quel costato non avesse trasmesso il potere a una destra di fango, come avrebbe potuto toccare il segno dei patimenti che avevano scosso le regioni superiori e inferiori?”. La liturgia drammatizza un evento per mostrarcene il mistero. Da parte di Tommaso non si tratta di un semplice ‘riconoscimento’, come da parte nostra non si tratta di un semplice riconoscere vera la risurrezione di Gesù. Il coinvolgimento è molto più profondo e misterioso.

Tommaso non è un pavido, un insicuro. Le altre due volte che il vangelo di Giovanni parla di Tommaso ce lo presenta come un uomo generoso, pronto ad andare a morire con Gesù. Semplicemente, non vuole  illudersi. Il suo dubbio procede da un cuore che ha preso molto sul serio la vicenda di Gesù. Quando Gesù, ricomparendo, gli dice di mettere la mano nel costato e nelle cicatrici, non ha bisogno di ricredersi, di scusarsi: è tutto teso a quel Signore che ha sempre voluto seguire e che ora riconosce per davvero "mio Signore e mio Dio", la più solenne professione di fede del vangelo di Giovanni e, nello stesso tempo, la più intima delle professioni. In quel 'mio' c'è tutto l'anelito del suo cuore, la sua appassionata esperienza di Lui; in quel 'Signore e Dio', c'è tutta la rivelazione di Gesù al suo cuore, l’intelligenza di tutte le Scritture, come tutti i racconti di risurrezione annotano: ‘aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture’. Lì Tommaso ha compreso le parole di Gesù: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l' ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15). È diventato amico perché ha conosciuto i suoi segreti. Da dentro questa conoscenza deriva anche a noi la possibilità della stessa esperienza: “Attingendo ricchezza dall’inviolabile tesoro del tuo divino costato trafitto dalla lancia, Didimo ha riempito il mondo di sapienza e conoscenza”. La valenza simbolica del suo mettere la mano nel costato di Gesù è la medesima del reclinarsi di Giovanni sul petto di Gesù nell’ultima cena: “O straordinario prodigio! Giovanni ha riposato sul petto del Verbo, Tommaso ha ottenuto di toccare il suo costato: e l’uno ne ha tremendamente tratto l’abisso della teologia, mentre l’altro è stato reso degno di iniziarci all’economia, perché chiaramente ci presenta le prove della sua risurrezione, esclamando: O mio Signore e mio Dio, gloria a te”. Se da parte di Gesù, il suo rivolgersi ai discepoli e poi a Tommaso con il mostrare le sue cicatrici significa: ‘sono proprio io, colui che per voi, per te, ha patito’, il riconoscimento da parte dei discepoli significa: ‘Dio ha proprio amato il mondo, le nostre vite hanno solo senso come risposta a quell’amore che in Gesù ha svelato il vero volto di Dio pieno di accondiscendenza per gli uomini, solo l’amore che da Lui deriva e a Lui si volge sazia il cuore fino alla letizia di vedere che tutti i cuori si possano di Lui saziare.

La pace che Gesù risorto dona è appunto la pace che scaturisce dal vedere il suo Volto, dal vederLo con tutti i segni di quell'amore che fa riposare il nostro cuore, gli fa trovare casa, gli fa trovare la sua casa finalmente. Non è un dono particolare, un dono in più: è la conseguenza del vederLo, del suo stare con noi in atto di mostrarsi a noi, dello schiudersi del nostro cuore alla visione di Lui. E' quanto ogni amore desidera e da qui, da questa profonda intimità che ne deriva, proviene tutta la nostra forza. I discepoli sono arrivati gradualmente alla conoscenza di questa verità. All'inizio li hanno aiutati dei 'segni': la tomba vuota, il racconto delle donne, degli altri discepoli; poi hanno potuto vedere loro stessi Gesù il quale si è fermato con loro, ha mangiato con loro, li ha istruiti, ma senza ancora poter avere la forza di testimoniare con la loro vita questa sconvolgente verità. Per ultimo, con l'invio dello Spirito Santo, hanno sentito che la verità di tutta la loro vita e la verità della vita degli uomini fosse tutta in quel Figlio di Dio, morto e risorto, 'nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza' (Col 2,3) per il quale solo valeva la pena di buttare la propria vita, nel desiderio che tutti finalmente potessero godere di quei tesori di sapienza e di scienza, fino alla fine del mondo. L'esito della missione: che il mondo intero risplenda dell'amore di Dio, rivelato in Cristo, in tutti i cuori.

Se la liturgia pasquale proclama insistentemente: “eterna è la sua misericordia”, ciò significa non soltanto che Dio sarà eternamente fedele alla sua misericordia, che la sua misericordia durerà per sempre, ma soprattutto che, essendo la sua misericordia dall’eternità, si trova alle origini del nostro mondo, ne racchiude il senso e il mistero fino alla fine, finché il mondo sussisterà. Gesù rivela la verità di questa realtà e Tommaso si situa in quella verità con la sua sussurrata e potentissima confessione di fede: mio Signore e mio Dio.

 

 

 

TERZA DOMENICA PASQUA, ANNO C

At 5,27-42;  sal 29;  Ap 5,11-14;  Gv 21,1-19

 

La liturgia celebra evidentemente la Parola in funzione nostra: la Parola è per noi. Ora, se potessimo riassumere in una espressione la vicenda degli apostoli descritta dalla liturgia pasquale, dovremmo citare il passo: “Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù” (At 4,33). Da dove deriva loro quella forza, quella ‘potenza’ dell’essere e dell’agire? Quella forza, che la stessa celebrazione vuole comunicare anche a noi?

In modo insolito, possiamo oggi partire dal brano di vangelo per spiegare le altre letture. Lì rinveniamo la radice di quella ‘potenza’ che la lettura degli Atti degli apostoli e dell’Apocalisse mostrano in azione. Gesù sembra scegliere, per manifestarsi dopo la sua risurrezione, gesti usuali, già noti, in modo che i discepoli possano riconoscerlo e comprenderne il mistero in tutta la sua densità. Viene narrata una pesca miracolosa, un convenire a mensa, un colloquio assolutamente speciale. Fermiamoci solo sul colloquio con Pietro. Il discorso tra Gesù e Pietro, come tra Gesù e l’anima, è tutta una questione di toni. Gesù non accusa Pietro; glielo aveva predetto che l’avrebbe rinnegato e subito l’aveva perdonato perché sapeva che il suo cuore voleva stare con lui. Pietro non si era giustificato, aveva pianto e avrebbe desiderato forse parlare ancora a Gesù, protestargli il suo amore, ma non aveva più potuto. Questa è la prima volta che ritorna sull’argomento, dolcemente invitato dallo stesso Gesù. Il tono di Gesù è pacato, gli parla dopo aver mangiato insieme e gustato un’intimità sognata. E anche Pietro, tutto preso da quell’intimità, non se ne accorge quasi e risponde tranquillo: “Certo, Signore, tu lo sai che ti amo”. La seconda volta, forse con lo stesso tono, si mostra ancora tranquillo: “Certo, Signore, tu lo sai che ti amo”. Ma la terza volta, il tono non è più lo stesso. Pietro ha capito, si fa piccolo, torna alla sua mente la scena del tradimento, il pianto, lo sguardo di Gesù e, con un filo di voce, appena sussurrando: “Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo”. Signore, non sono degno del tuo amore, e del mio non posso fare gran conto, ma tu conosci il mio cuore, tu sai che ti ama. Quando un uomo professa il suo amore come balbettando, appena sussurrando, vuol dire che il suo amore va oltre ogni forma di orgoglio o di pretesa: in quell’amore c’è tutto il suo cuore perché si fida totalmente dell’accoglienza dell’altro. E non ha da esibire altro di sé. E quando l’amore è di tal fatta, allora può assumere il compito pastorale in nome del Signore: “Pasci le mie pecorelle”. A tutti verrà inviato, di tutti si prenderà cura, e di gran cuore, perché tutti e ciascuno appartengono a quel Signore, il cui amore l’ha conquistato e l’amore per il quale costituisce il vero obiettivo del suo interessamento per tutti perché tutti lo riconoscano e trovino riposo. Gesù può predirgli tranquillamente il suo martirio: l’intimità goduta non sarà più insidiata, come è avvenuto per Gesù.

Il brano degli Atti degli Apostoli mostra in atto gli effetti di quella rivelazione di intimità. Ne dice la condizione e ne fa vedere il segno inequivocabile. Anzitutto la condizione: l’obbedienza. “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At 5,29); “E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a lui” (At 5,32). Nel testo greco i termini ‘obbedire’ e ‘sottomettersi’ sono espressi dallo stesso verbo. Si tratta di un accogliere la rivelazione di Dio in totale apertura di cuore, riconoscendo l’amore suo per l’uomo che in Gesù si manifesta in tutta la sua radicalità. Significa riconoscere che in Gesù il Padre compie il suo disegno di amore per l’uomo. La sottolineatura non è tanto sull’obbedire, ma sull’intimità di un’obbedienza che è vissuta dentro un legame di vita inscindibile, nel dono di un amore per il quale non ci si sente assolutamente degni ma di cui si riconosce la letizia che porta al cuore. E la letizia è proprio il segno inequivocabile dell’agire in potenza nello Spirito. Si tratta di quella letizia di cui parla Giacomo: “Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove” (Gc 1,2); quella che qui viene descritta: “lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù” (At 5,41). A dire il vero, l’ultima frase andrebbe resa più precisamente: ‘lieti di essere resi degni di essere oltraggiati’, con l’allusione al fatto che la letizia nella persecuzione rivela la dignità ottenuta dall’anima, dignità che si esprime nel suo splendore quando gli altri la calpestano e non viene meno.

La lettura dell’Apocalisse, con la scena dell’adorazione dell’Agnello in atto di aprire il libro sigillato, rivela il perché di quella letizia: “Cantavano un canto nuovo” (Ap 5,9). Chi è capace di un canto nuovo può disporre di quella letizia perché ormai partecipe dell’unica e definitiva rivelazione degna del cuore dell’uomo: Dio ha salvato i suoi figli tramite Gesù. Quella rivelazione svela la dignità dell’uomo davanti a Dio, la nuova dignità, quella dei tempi nuovi. Il che non significa ‘dei tempi che verranno’, ma del tempo di Dio che entra nella nostra storia e la rende aperta al suo Regno. È il tempo celebrato nella Liturgia. In effetti, quando si celebra l’Eucaristia è come udire il Signore che invita: “Venite a mangiare”. E nessuno gli chiede “Chi sei?” perché tutti sanno bene che è il Signore, per quanto questo ‘sapere’ a volte sia così sbiadito che non sembra parlare al nostro cuore. Ma se potessimo udire, di fronte alle infedeltà che non possiamo dimenticare nei suoi confronti, il suo invito, come a Pietro: “Simone di Giovanni, mi ami?”, il cuore avrebbe ancora un soprassalto e potrebbe ricevere la predizione della sua fedeltà fino alla testimonianza suprema della vita, vivere cioè della dignità e della letizia dei tempi nuovi.

 

QUARTA DOMENICA DI PASQUA, ANNO C

At 13,43-52;  sal 99;  Ap 7,9-17;  Gv 10,27-30

 

Dal riconoscimento del Risorto l’attenzione si sposta sui discepoli che lo riconoscono, sul fatto che i discepoli costituiscono la comunità del Risorto. Queste ultime domeniche del tempo pasquale sono tutte incentrate sulla comunità dei discepoli unita attorno al suo Signore, testimone del suo amore, pervasa dalla gioia dello Spirito Santo, in missione apostolica nel mondo fino alla fine dei tempi.

         La liturgia di oggi ruota attorno all’immagine del gregge e del suo pastore. Il canto al vangelo ne definisce il nucleo: “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”, frase ripresa da Gv 10,14. Come Gesù descrive le ‘sue’ pecore? “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano”. Gesù sta rispondendo a coloro che stentano a riconoscerlo e che alla fine gli daranno dell’impostore. Il suo ragionamento, sulle prime, ci appare strano. È come se dicesse: voi non credete a me perché non siete mie pecore e non siete mie pecore perché non credete, eco di altri simili ragionamenti presenti nelle Scritture (ad es., Is 29,9: siete ciechi e non potete vedere, ma il Signore vi ha accecati perché non vediate). Che significa? Gesù descrive le sue pecore in tre passaggi: 1) le mie pecore sono quelle che ascoltano la mia voce. Non semplicemente che ascoltano quello che dico, ma che riconoscono che quello che dico viene da Dio, come lui stesso confermerà poco dopo dicendo che lui e il Padre sono una cosa sola. Le sue pecore sono quelle che, ascoltando la voce di Dio, riconoscono in lui l’Inviato, il Testimone, l’Agnello e perciò sentono nelle sue parole la Parola di Dio, anzi, riconoscono che la sua parola e la sua vita confermano tutte le parole della Scrittura e ne svelano il mistero; 2) ‘io le conosco’: vedendo l’intimità tra lui e il Padre, le pecore si sentono ‘conosciute’, cioè amate e cercate da lui, perché le mette a parte dei segreti di Dio. Ma questo movimento di amore di Dio per l’uomo riguarda tutti e perciò quel ‘io le conosco’ comporta questa sfumatura di senso: io conosco tutti, ma di quella conoscenza che rende condivisibili i segreti di Dio e fa godere l’intimità con lui sono capaci solo quelle pecore che si lasciano raggiungere, portare in spalla, come la parabola della pecorella perduta dirà. È conosciuto chi si lascia portare in spalla. Ne consegue che chi non accetta questo, si trova come escluso dalla sua conoscenza e proprio perché escluso non può farsi conoscere; 3) ‘esse mi seguono’: anche qui occorre cogliere la sfumatura di senso data dal fatto che le pecore possono seguire il pastore perché lui dà loro la vita, che è la sua (il suo Spirito) e non possono che andare dietro a lui in quanto solo lui può mostrare il segreto di Dio in tutta la sua estensione e bellezza. In gioco è sempre la disponibilità alla fede e la fede si gioca nell’accogliere il mistero di accondiscendenza di Dio per l’uomo in Gesù, rivelatore del Volto del Padre. Il che non significa rendere Dio più comprensibile (Dio custodisce tutta la sua trascendenza e inafferrabilità) ma dire Dio senza allontanarsi dall’uomo.

         Ma c’è di più. Quando le pecore non fanno come gli ascoltatori che ricevono il rimprovero di Paolo e Barnaba: “Era necessario che fosse annunziata a voi per primi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco noi ci rivolgiamo ai pagani”, si ritrovano nel gregge di Dio. Ognuno, singolarmente preso, si gioca il destino nel non ritenersi ‘indegno’ del dono di Dio, ma la vita in Dio si gioca insieme. Il mistero dell’amore di Dio rivelato in Gesù è quello di riunire insieme i figli di Dio dispersi (cfr Gv 11,52): insieme, nel senso di una cosa sola con Gesù e nel senso di un corpo solo con Gesù. Il che vuol dire che la confessione di fede nel Signore Gesù non può farsi che coralmente, fraternamente, come canta il salmo responsoriale: “noi siamo suo popolo, gregge che egli guida”. Evidentemente, non significa solo che noi siamo semplicemente quelli che lui guida individualmente, ma che siamo coloro che hanno in Lui una stessa vita e fanno risplendere la fraternità nel mondo come espressione della rivelazione del Padre ai loro cuori.  Il salmo 99 lo proclama in acclamazione: “Riconoscete che il Signore è Dio; egli ci ha fatti e noi siamo suoi, suo popolo e gregge del suo pascolo”. In quel ‘egli ci ha fatti’ c’è tutta la nostra ‘dignità’, quella dignità che è riservata a tutti e che tutti condivideranno nel regno dei cieli, ma che qui, nel mondo, i discepoli del Signore custodiscono per sé e difendono in tutti. La dignità dell’uomo non è basata sull’uomo, ma chi ne ha conosciuto per esperienza di fede il segreto, in Gesù, è chiamato a custodirla per tutti finché a tutti venga svelata. Il gregge del Signore che noi siamo ha la responsabilità, in questo mondo, di far risplendere la bellezza di questa dignità.

 

QUINTA DOMENICA DI PASQUA, ANNO C.  

At 14,21-27; sal 144; Ap 21,1-5;  Gv 13,31-35

 

         Il salmo responsoriale proclama: “Benedirò il tuo nome per sempre, Signore”, a scandire il salmo 144 che commenta ed esprime la vicenda pasquale di Gesù in favore degli uomini. La benedizione è quella del riconoscimento, da parte della prima comunità cristiana formata da ebrei, dell’insondabile mistero di Dio nel suo amore agli uomini che ha voluto aprire anche ai pagani la porta della fede (cfr. At 14). Si realizza così quella ‘gloria’ di cui aveva parlato Gesù a proposito del suo sacrificio pasquale: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32) e che il vangelo di oggi richiama con l’espressione: “Ora il Figlio dell' uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito”. Nella nuova Gerusalemme, secondo la visione dell’Apocalisse, non ci sarà più alcuna distinzione tra gli uomini ma tutti saranno il suo popolo: “Udii allora una voce potente che usciva dal trono: ‘Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il "Dio - con – loro’”. L’unica differenza tra quaggiù e lassù è costituita dal fatto che quaggiù le lacrime abbondano mentre lassù ogni lacrima verrà asciugata.

Un particolare è assolutamente rivelatore di quello che Gesù intende parlando della sua pasqua. Lo possiamo notare con una domanda: perché Gesù abbina il comandamento dell’amore alla menzione della sua gloria? Il capitolo 13 di Giovanni è il capitolo della lavanda dei piedi nell’ultima cena. Gesù ha lavato i piedi anche a Giuda e tutti hanno sentito la spiegazione di Gesù: “Vi ho dato infatti l' esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (Gv 13,15). Gesù ha chiara la percezione dell’imminente tradimento e sa quel che fa, a differenza dei discepoli che non comprendono, ma che comprenderanno in seguito. Solo quando Giuda se ne è andato e Gesù vede tutto quello che gli accadrà può aggiungere: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri”. Come a dire: l’amore di cui vi faccio comando comprende la disponibilità a lavarvi i piedi gli uni gli altri, senza distinzioni di sorta tra buoni o cattivi, perché in gioco è la rivelazione del segreto di Dio che mi è stato affidato e di cui vi rendo partecipi: la ‘gloria’ del suo amore deve risplendere in tutta la sua bellezza. Tra l’altro, è singolare che Gesù non faccia mai comando ai discepoli di amare lui, mentre il comando di amare Dio e amare il prossimo è diretto. Quando allude all’amore per lui, lo suggerisce attraverso le espressioni: ‘se mi amate, osserverete i miei comandamenti’; ‘rimanete nel mio amore’. Verso di lui invece il comando diretto è: ‘credete in me’. Perché? Credo che qui si comprenda il nocciolo dell’amore di cui Gesù ci fa comando. L’amore vicendevole non rivela la generosità dei cuori, ma l’esperienza dell’incontro con Gesù; l’amore vicendevole parla di Dio che ha toccato il cuore dell’uomo e non dell’uomo che è diventato buono e perciò è in rapporto diretto all’esperienza della fede, quella fede di cui Gesù ci fa comando nei suoi confronti. Le tribolazioni che la lettura degli Atti ci ricorda essere necessarie nel nostro cammino riguardano la fede e non l’amore o, meglio, l’amore nel suo radicamento nella fede: “è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio. Così l’azione dell’uomo deve parlare di Dio e non di se stesso; solo allora la sua ‘gloria’ risplende e il cuore dell’uomo sarà saziato da quella gloria che allora esprimerà tutta l’intimità di amore che lega l’uomo al suo Dio.

Possiamo allora anche comprendere in cosa consista la novità del comandamento dell’amore annunciata da Gesù in funzione di tre cose. Anzitutto in funzione della radice che lo origina. L’amore di Gesù deriva dalla intimità della vita, del volere e dei sentimenti con il Padre. Quell’amore di cui ci fa comando deriva dalla partecipazione a quella stessa intimità. Il suo sigillo sta nel fatto di lavare i piedi ai discepoli per renderli partecipi del suo segreto con il Padre, segreto che a nessuno è dato di cogliere se non a coloro che credono nel Figlio. Circondarsi la vita con l’asciugatoio è l’immagine dell’umiltà come vestito della divinità, mistero di quell’accondiscendenza di Dio che raggiunge l’uomo nel suo cuore più segreto, là dove l’uomo può imparare la lingua stessa di Dio. In secondo luogo è in funzione della potenza che lo sottende, la potenza cioè dello Spirito Santo che da Gesù ci verrà effuso sulla croce. Quell’amore non è che l’accoglimento dell’azione dello Spirito Santo nei nostri cuori, esito di tutto l’impegno ad agire bene che ad altro non conduce se non a poter essere degni dei misteri di Dio. Perché l’opera specifica dello Spirito Santo è la costruzione della fraternità, come stupendamente dice la terza preghiera del canone eucaristico: “e a noi, che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito”. Ed infine è in funzione della dinamica che lo anima e che lo muove verso un unico punto di convergenza, contemporaneamente termine e scopo della storia stessa: che il regno di Dio si sveli in tutta la sua bellezza e in tutto il suo splendore, per tutti i cuori, per tutto il mondo, per tutti i tempi, regno che altro non è se non la condivisione dell’amore di Dio, in Cristo, fino a che sia partecipato a tutti.

 

SESTA DOMENICA DI PASQUA, ANNO C

At 15,1-2.22-29; sal 66; Ap 21,10-23; Gv 14,23-29

 

         La liturgia di oggi predispone due piste per accedere alla rivelazione che comportano i testi scritturistici. Se partiamo dalla colletta, vediamo che essa riassume la tensione della preghiera della chiesa in questa dinamica: ‘testimoniare nelle opere il memoriale della Pasqua che celebriamo nella fede’, dinamica che trova la sua ragione nel canto all’ingresso: ‘il Signore ha liberato il suo popolo’. La liberazione che si attua nel memoriale della Pasqua di Gesù, che celebriamo nell’eucaristia, per testimoniarla nella vita, è caratterizzata dalla letizia, così tipica dell’annuncio pasquale. Ma la letizia è per la comunione. Una letizia che non si traduca in ansia di comunione non risponde alla liberazione pasquale. La prima lettura mostra quella letizia in ansia di comunione alle prese con gli imprevisti della storia. I credenti provenienti dalla tradizione mosaica, pur accogliendo la fede in Gesù, temono di mancare alla santità di Dio non obbligando anche gli altri alle stesse leggi. Nessuno ha la scienza infusa: si decide dunque di studiare la cosa con il collegio degli apostoli. La modalità di approccio e il contenuto della decisione che scaturisce sono ambedue frutti dell’azione dello Spirito Santo, azione alla quale i credenti si sottomettono per poter mantenere la sua gioia, tutti insieme. Se si osserva più da vicino, la decisione apostolica ribadisce la fede di tutti: oramai c’è un unico popolo di salvati, circoncisi e incirconcisi e l’invito ai pagani sembra soltanto quello di non essere fonte di disagio  per i fratelli circoncisi trovandosi alla stessa mensa. La liberazione è per la gioia e la gioia è per la comunione: questa è la dinamica pasquale.

         Se partiamo dal canto al vangelo (‘Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui’), un altro scenario ci appare. Le parole di Gesù sono incentrate attorno alla questione della ‘rivelazione’ del Messia. Siamo nel cap. 14 di Giovanni. Gesù ha appena invitato i discepoli ad osservare la sua parola perché in quella osservanza godranno l’amore del Padre e la sua manifestazione. Interviene Giuda, non il traditore, con una domanda niente affatto scontata: “Come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?”. Il brano evangelico di oggi riprende la risposta di Gesù a quella domanda, aggiungendo alle parole dette in precedenza sull’osservanza della sua parola la specificazione: “… verremo e prenderemo dimora presso di lui”. L’opera di Dio non appare evidente, non sconvolgerà nessuno nel senso di strabiliarlo e farlo restare attonito. Soltanto a chi mette in pratica la sua parola, il suo Regno gli si potrà rivelare. Perché? Perché la sua parola è una parola di amore e chi non accoglie quell’amore non può capire la sua parola. La sua parola cela la potenza di amore del Padre per gli uomini e soltanto quando gli uomini si decideranno ad ascoltarla (come un bambino ascolta sua mamma facendo quel che lei gli dice) la parola rilascerà la potenza che essa racchiude, potenza che costituisce la radice della comunione con tutti perché a tutti quella parola è diretta. La sottolineatura nelle parole di Gesù, però, è data dal fatto che accogliendo la sua parola si partecipa ad una intimità di vita; meglio, si condivide l’intimità di vita che corre tra il Padre e il Figlio nello Spirito, che proprio da Gesù ci è stato effuso e che proprio di Gesù ci fa vedere la verità di testimone dell’amore del Padre per gli uomini. Così la crescita spirituale sottende sempre un radicamento nell’intimità di un rapporto che permette ai cuori di schiudersi, di percepirsi nell’amore, di vedere le cose in verità. In effetti, quando Gesù dice ‘mi manifesterò’, in realtà vuol dire, non solo che lo riconosceremo, ma che tutto parlerà di lui, tutto splenderà per lui e quindi che la vita svelerà il suo segreto.

Più avanti, continuando il suo discorso, Gesù parlerà di vite e tralci e dirà: “rimanete nel mio amore”. Il che significa, non solo che dobbiamo stare fedeli alla sua parola, ma soprattutto che, accogliendo la sua parola, godremo dell’amore che lega il Padre a Lui e Lui al Padre, cosa inaudita per un orecchio umano, ma supremo desiderio del cuore. Quando al battesimo e alla trasfigurazione la voce dal cielo aveva proclamato su Gesù: “Questi è il Figlio mio prediletto”, il significato non è semplicemente da riferire a Gesù ma anche a tutti noi, vale a dire: tutti noi, credendo a quel Figlio, Inviato dal Padre, e accogliendo la sua parola per metterla in pratica, entreremo nella benedizione di quell’amore di predilezione nel quale il Padre vuole inglobare tutti. La rivelazione di Dio è sempre per noi perché non c’è rivelazione che non parli dell’amore di Dio per l’uomo. E se nel Padre nostro chiediamo: ‘sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra’, non chiediamo prima di tutto di poter stare fedeli alla sua volontà, ma più direttamente di poter sperimentare la sua volontà di amore per noi nella nostra vita, tanto da godere della comunione con Lui al di sopra di tutto. Questo ci otterrà l’azione dello Spirito Santo, che ci farà memoria viva del Signore Gesù in questo mondo.

 

 

 

ASCENSIONE, ANNO C

At 1,1-11;  sal 46;  Eb 9,24-28; 10,19-23;  Lc 24,46-53.

 

         La liturgia ci introduce nel mistero dell’ascensione del Signore Gesù servendosi dei racconti di Luca (Atti e vangelo) e di Matteo (canto al vangelo). Luca aveva introdotto la scena dell’ascensione ricordando come Gesù, dopo la sua risurrezione, fosse apparso più volte ai discepoli parlando loro del Regno di Dio e promettendo l’invio dello Spirito Santo. Ora, questo parlare del Regno di Dio corrisponde a quello che lo stesso Luca riporta della percezione dei discepoli di Emmaus quando si dicono l’un l’altro: ‘non ci ardeva il cuore quando ci spiegava [ci apriva] le Scritture?’, insieme al passo che precede immediatamente il racconto di oggi: “Allora aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture e disse…”. Aprire le Scritture al cuore e aprire il cuore alle Scritture è far entrare nel regno di Dio. L’aspetto però caratteristico è dato dal fatto che questa doppia apertura non riguarda semplicemente la vicenda di Gesù, come se si trattasse semplicemente di riconoscerlo nelle Scritture, ma anche la predicazione a tutte le genti della conversione e del perdono dei peccati. I discepoli sono testimoni di tutto questo. Il senso della festa di oggi si colloca proprio in quello spazio di testimonianza che l’ascensione inaugura. Gesù è sottratto agli sguardi dei discepoli, ma i discepoli se ne tornano a Gerusalemme ‘con grande gioia’. Come mai? La sparizione di una persona cara non è fonte di gioia! Spiega Agostino: “Disparve agli occhi mortali perché noi ritornassimo al cuore e trovassimo il Cristo”. In effetti i discepoli hanno visto il fenomeno fisico dell’ascendere al cielo di Gesù (il testo usa il verbo greco ‘blepo’) ma hanno anche intravisto la portata mistica del fenomeno (il testo usa il verbo ‘theaomai’). Il che significa che lo sparire di Gesù dalla vista dei loro occhi permetteva di coglierlo presente nel loro cuori, come Lui stesso aveva promesso: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”, versetto con il quale si chiude il vangelo di Matteo.

         Il rimprovero degli uomini in bianche vesti: “perché state guardare il cielo?” significa che il cielo non è il cielo fisico, ma il luogo dove lui abita nella sua santità. E dove abita se non nei cuori, dove può essere adorato? Così, per il cuore, ormai le cose stanno in questi termini: dove bisogna guardare? Alla fraternità (il testo annota che se ne tornarono con grande gioia e che stavano insieme). È ai fratelli che bisogna guardare se si vuole trovare il Cristo. Ma che cosa si deve vedere? Il Cristo, che ha fatto risplendere l’amore di Dio per gli uomini e che ingloba anche noi nella rivelazione di quell’amore lungo la storia fino a che tutto di noi e tutti con noi possiamo godere della stessa gioia. La predicazione alle genti non riguarda semplicemente l’annuncio di ciò che Dio ha operato per gli uomini, ma anche il far vedere, il mostrare che tale annuncio si è tradotto in splendore di vita e che torna a essere bella la vita che gode della presenza con noi del nostro Dio. Questo significa la ‘conversione e il perdono dei peccati’ che deve valere prima di tutto per chi annuncia.

         Tutto questo però ha a che fare con ‘una potenza dall’alto’, con una ‘gioia dall’alto’, con una ‘forza’ che non proviene dall’uomo. Ecco allora la promessa di Gesù: ‘sarete rivestiti di potenza dall’alto’, la promessa dello Spirito Santo, il cui invio celebreremo domenica prossima con la festa della Pentecoste. È caratteristica, nel racconto degli Atti, la menzione dello Spirito Santo insieme al frutto della gioia. La gioia è la forza di un amore, esperito a tal punto di intimità e profondità, che nessun evento e nessun avversario ti può smorzare; è partecipazione alla vita di Gesù, il Vivente, contro il quale la morte non ha alcun potere. La tensione apostolica della testimonianza e della missione, che vive sotto il segno della benedizione che Gesù costituisce per l’umanità, respira di quella gioia e di quell’amore. Il vangelo di Luca termina con l’annotazione di quel Gesù benedicente che si sottrae allo sguardo fisico dei discepoli. Se gli occhi non vedranno più la mano benedicente, sentiranno però nel cuore la potenza di quella benedizione perenne che Lui costituisce, sigillo ultimativo della volontà di bene di Dio per l’uomo. Volontà, nella quale si radica tutta la dignità dell’uomo e il suo impegno di responsabilità di fronte al mondo.

 

 

DOMENICA DI PENTECOSTE, ANNO C

At 2,1-11; sal 103;  Rm 8,8-17;  Gv 14,15-26

 

Nella settimana che precede la festa, la chiesa ha fatto pregare: “Venga su di noi, o Padre la potenza dello Spirito Santo perché aderiamo pienamente alla tua volontà per testimoniarla con amore di figli” (colletta lunedì) e “Venga, o Padre, il tuo Spirito e ci trasformi interiormente con i suoi doni; crei in noi un cuore nuovo perché possiamo piacere a te e cooperare alla tua volontà” (colletta giovedì).

L’invocazione allo Spirito Santo è finalizzata all’adesione alla volontà di Dio. Perché e cosa significa questo? Ce lo rivela Gesù nel vangelo: lo Spirito “vi guiderà alla verità tutta intera… dirà tutto ciò che avrà udito”. Lo Spirito, ottenutoci dalla passione gloriosa di Gesù, svelerà al nostro cuore il colloquio eterno tra il Padre e il Figlio a proposito della salvezza dell’uomo, il colloquio tra il Padre e il Figlio che vive la sua umanità nell’amore per gli uomini. Tutto questo ‘colloquio’ lo Spirito ha udito e ce ne renderà partecipi. Così conosceremo la verità, vale a dire la grandezza dell’amore di Dio per l’uomo, che in Gesù si è fatto ‘evidente’, a noi accessibile, per la fede in lui. Ci farà gustare la promessa di Gesù: “Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15).

Delle due immagini caratteristiche della Pentecoste, le lingue che compaiono sul capo degli apostoli e il fuoco di cui si prega “Vieni, santo Spirito, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore”, il fuoco esprime appunto la cifra di quel colloquio, la condivisione di un segreto capace di far ardere il cuore. Collegare l’invio dello Spirito alla volontà di Dio significa far percepire che quella volontà è essenzialmente una volontà di bene per l’uomo, significa ridare al cuore dell’uomo la percezione della verità del fuoco dell’amore di Dio che a lui arriva tramite Gesù. Significa poter conoscere il mistero del Signore Gesù in tutta la potenza di rivelazione dell’amore di Dio per l’uomo, nella condivisione del suo segreto. Se tale è la percezione del cuore, allora il cuore non potrà che vivere nell’onda di quell’amore e estenderlo a tutti, fino ai confini della terra. Qui si collega la responsabilità della testimonianza, che non sarà più vissuta tanto come impegno o dovere ma come sovrabbondanza: lo Spirito riempirà di Gesù i cuori fino a che tutta la sua verità risplenda e conquisti, me come tutti. La testimonianza è in funzione di uno splendore, non di un impegno!

Qui si innesta anche la comprensione dell’immagine delle ‘lingue’. E’ un fatto assolutamente evidente sulla faccia della terra: gli uomini sono tra loro diversi, sono dispersi in ogni angolo e parlano lingue differenti. E’ un bene o un male? La Scrittura dà del fatto due spiegazioni: una, positiva: dopo il diluvio Dio ha voluto che gli uomini abitassero la terra secondo la loro diversità (Gen 10); una, negativa: Dio ha condannato gli uomini alla diversità per evitare che si coalizzassero contro di  Lui (Gen 11, racconto della torre di Babele). Ci sono due modi per far fronte alla diversità, percepita come una minaccia: o quello di esercitare un dominio da rendere irrilevante la diversità, e questo corrisponde alla volontà dell’uomo, che genera però schiavitù (l’esperimento di Babele comportava la costituzione di un dominio del più forte contro tutti gli altri per assoggettarli e Dio sarebbe stato negato come Padre); o quello di aprire la diversità alla comunione, lasciando alla diversità la sua consistenza e invitando ogni diversità a dare il proprio apporto a un mondo comune (e questo corrisponde alla volontà di Dio, che di tutti è Padre). Lo Spirito di Dio è definito così “Lo Spirito del Signore ha riempito l’universo, egli che tutto unisce, conosce ogni linguaggio” (Sap 1,7). Quando, a Pentecoste, compaiono sul capo degli apostoli le lingue, la proclamazione evidente è: ormai tutti possono percepire che è l’opera di Dio a unire gli uomini. E l’opera di Dio è la verità del suo amore per gli uomini che in Gesù si è fatto visibile e accessibile. Il miracolo che a Pentecoste acquista una rilevanza fisica tanto che ognuno sente proclamare l’opera di Dio nella sua lingua nativa (=ogni lingua, ogni uomo, nella sua diversità, è chiamato a proclamare la stessa ed unica cosa), è lo stesso miracolo che è operato nei cuori dallo Spirito quando li convince a muoversi nella carità, aprendo la diversità alla comunione e facendo esperienza che così viene proclamato l’amore di Dio che riempie i cuori. Riconoscere, assecondare, favorire tale dinamica, significa aver ricevuto e agire nella potenza dello Spirito Santo. E lo Spirito Santo non può che condurre alla conoscenza del mistero del Signore Gesù che dell’amore di Dio per gli uomini è il testimone per eccellenza. Quando gli apostoli, davanti ai persecutori, preferiscono la carità di Gesù, non scelgono solo di stare dalla parte di Gesù, ma anche dalla parte degli uomini che della sua carità devono poter vedere lo splendore in atto.

 

 

SANTISSIMA TRINITA’, ANNO C

Pro 8,22-31;  sal 8;  Rm 5,1-5;  Gv 16,12-15

 

  L’antifona di ingresso definisce bene la prospettiva nella quale accostare il mistero della Trinità: “Sia benedetto Dio Padre, e l’unigenito Figlio di Dio, e lo Spirito Santo: perché grande è il suo amore per noi”. Se possiamo accedere al mistero di Dio è perché Dio si è rivelato come ‘amore per noi’. È però il Padre che è indicato come amore, di cui il Figlio è rivelatore e testimone e della cui vita d’amore lo Spirito è donatore. Gesù, che pur rappresenta per noi l’espressione stessa dell’amore (“li amò sino alla fine”, Gv 13,1), non si definisce mai come amore, termine che invece è riservato al Padre, come la preghiera stessa della Chiesa lo sottolinea. Ad esempio, nel saluto del celebrante all’inizio della liturgia eucaristica: “La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo sia con tutti voi”; oppure, nella colletta della festa odierna: “Ti glorifichi, o Dio, la tua Chiesa, contemplando il mistero della tua sapienza con la quale hai creato e ordinato il mondo; tu che nel Figlio ci hai riconciliati e nello Spirito ci hai santificati, fa’ che nella pazienza e nella speranza possiamo giungere alla piena conoscenza di te che sei amore, verità e vita”, dove ‘amore’ fa riferimento al Padre, ‘verità’ al Figlio, ‘vita’ allo Spirito Santo.

  Se lo Spirito è detto 'Consolatore, Spirito di verità', lo è in rapporto alla verità che è Gesù, cioè farà vedere il vero volto di Dio nella persona di Gesù, rivelatore del Padre, pieno di amore per gli uomini. Non per nulla Gesù ‘emise’ lo Spirito dalla croce rivelando quanto è grande l’amore di Dio per l’uomo e abilitando l’uomo a vivere del suo stesso Spirito. Lo splendore di quell’amore manifestato da Gesù diventa così, per la potenza del suo Spirito, radice di vita in coloro che ne accolgono la testimonianza. Come dice Giovanni nel prologo del suo vangelo: “A quanti però l' hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1,12-13). E quando Gesù dice che lo Spirito guiderà alla verità tutta intera non allude tanto alla comprensione dei vari aspetti del mistero di Dio ma piuttosto al fatto che quella verità di rivelazione del vero volto di Dio di cui Lui è il Testimone risplenda in tutto il suo splendore, che quella verità conquisti i cuori interamente, che quella verità convinca i cuori della grandezza dell’amore di Dio, che l’esperienza di quell’amore ci sveli i suoi segreti. Segreti, che attingono all’origine stessa della creazione, di cui ne costituiscono il fondamento e lo scopo, come la lettura del capitolo 8 del libro dei Proverbi suggerisce. Un’espressione è particolarmente suggestiva: “…allora io ero con lui come architetto ed ero la sua delizia ogni giorno, mi rallegravo davanti a lui in ogni istante; mi ricreavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo”. Il Padre trovava delizia nel Figlio, la Sapienza (possiamo rammentare le espressioni evangeliche al battesimo e alla trasfigurazione di Gesù: ‘questi è il Figlio mio prediletto…’) e il Figlio trovava delizia nei figli dell’uomo. Come a dire che il colloquio eterno tra il Padre e il Figlio verte sulla salvezza dell’uomo, per il quale il mondo è creato, colloquio che lo Spirito svelerà al nostro cuore rendendocene partecipi (anche a questo allude la promessa di Gesù: lo Spirito vi guiderà alla verità tutta intera…). E la partecipazione avverrà stando sottomessi a tutti nel nome di Cristo, che rivela l’amore di Dio, perché la sottomissione ha a che fare con la ‘delizia’ della Sapienza che presiede alla creazione per amore dell’uomo.

Se è Gesù che rivela compiutamente il desiderio di comunione con gli uomini da parte di Dio e compie il desiderio di comunione con Dio da parte degli uomini, allora ne deriva che la fonte della nostra dignità procede proprio dal fatto che Dio ha reso l’uomo degno dei suoi misteri. Il salmo 8 proclama: “Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi?”. In cosa consiste la cura di Dio per l’uomo? Nel passo parallelo del salmo 144, v. 3, le antiche versioni greca e latina riportano: ‘Signore, che cos’è l’uomo, perché ti sia a lui fatto conoscere?’ (Domine, quid est homo, quoniam innotuisti ei?). La tradizione ha colto bene in cosa consiste la cura di Dio per l’uomo: Dio l’ha elevato alla sua conoscenza. Lo ricorda l’antifona alla comunione: “Voi siete figli di Dio: egli ha mandato nei vostri cuori lo Spirito del Figlio suo, che grida: ‘Abbà, Padre’ ”. Non viene detto in generale: siamo tutti figli di Dio. Lo si proclama in senso ‘speciale’, secondo il significato del vangelo di Giovanni: A quanti però l' hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio. Allude all’essere trovati in Cristo; allude a coloro che sono stati resi partecipi della ‘delizia’ della Sapienza. E se tutti gli uomini sono figli di Dio lo sono in quanto tutti sono chiamati alla stessa esperienza, tutti sono destinatari della stessa offerta, tutti portano la ‘vocazione all’umanità’ secondo quel Figlio di Dio, che riceve tutte le compiacenze del Padre perché in Lui tutti siano riuniti nella stessa delizia.

 

SS. CORPO E SANGUE DI CRISTO, ANNO C

Gn 14,18-20;  sal 109;  1 Cor 11,23-26; Lc 9,11-17

 

         La colletta della festa di oggi esprime assai bene il timbro eucaristico di tutta l’esperienza cristiana: “Dio, Padre buono, che ci raduni in festosa assemblea per celebrare il sacramento pasquale del Corpo e Sangue del tuo Figlio, donaci il tuo Spirito, perché nella partecipazione al sommo bene di tutta la Chiesa, la nostra vita diventi un continuo rendimento di grazie, espressione perfetta della lode che sale a te da tutto il creato”. Il mistero dell’eucaristia, dal punto di vista della chiesa che la celebra, si colloca al centro della sua azione e della sua tensione, della sua origine come del suo destino. Più la nostra vita diventa un continuo rendimento di grazie perché trova sempre più il suo senso nella comunione con Dio e con tutti, del cui splendore l’eucaristia è la celebrazione stessa, più il desiderio di vita che ci abita e ci muove trova il suo fondamento e la sua realizzazione nella tensione al convito eterno, di cui l’eucaristia è l’anticipazione. Lo dice la preghiera dopo la comunione, quando chiede che l’intimità di vita con il Signore e l’unità con i fratelli siano godute finalmente in pienezza, senza ombre: “Donaci, o Signore, di godere pienamente della tua vita divina nel convito eterno, che ci hai fatto pregustare in questo sacramento del tuo Corpo e del tuo Sangue”.

L’eucaristia ci implica nella dinamica stessa del Signore Gesù, che io riassumerei in questo modo. Poco prima della sua passione, nel racconto di Giovanni, Gesù è definito come colui che ha il compito di ‘riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi’ (Gv 11,52), mentre di se stesso dice: ‘viene il principe di questo mondo; egli non ha nessun potere su di me, ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato’ (Gv 14,30-31). Ma perché il demonio non ha alcun potere su di lui, se proprio contro di lui esercita tutto il suo potere? Il demonio non ha potere su Gesù perché in lui non trova nulla che leda o impedisca l’unità dei figli di Dio dispersi. È questa la volontà del Padre e Gesù si muove secondo questa volontà: riunire i figli di Dio dispersi, mostrando quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini che li vuole commensali alla mensa del suo amore. Ma è dall’eternità che questa volontà presiede a tutta la creazione. Nel libro dell’Apocalisse si trova un versetto assai misterioso. Si tratta di Ap 13,8, che la versione CEI rende: “…fin dalla fondazione del mondo nel libro della vita dell’Agnello immolato”, ma il testo greco è reso dalla Volgata: “in libro vitae agni qui occisus est ab origine mundi”. È l’immagine dell’icona della Trinità di Rublev: sulla mensa, nel calice, l’agnello immolato, che sovrasta la creazione del mondo, è il tema del colloquio eterno tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Se si unisce quel versetto al versetto di Pro 8, 27.31-32: “quando fissava i cieli, io ero là…ed ero la sua delizia ogni giorno, dilettandomi davanti a lui in ogni istante; dilettandomi sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo”, la comprensione della nostra storia acquista una profondità insospettata. Su tutto sovrasta, non semplicemente il Verbo di Dio, ma la figura dell’Agnello Immolato, potenza e sapienza di Dio, testimone glorioso dello splendore dell’amore di Dio per l’uomo, di cui l’eucaristia è il sacramento.

         La natura di questo ‘sacrificio’ è prefigurata dall’offerta di pane e vino di Melchisedek (re di giustizia), sacerdote del Dio Altissimo e re di Salem (re di pace). Il sacerdozio di cui Gesù è investito, come recita il salmo 109, ripreso da Eb 7, è ‘secondo l’ordine di Melchisedek’, non secondo l’ordine di Aronne, come a dire: Dio non vuole più vittime, dal momento che la vittima è Lui. Un bellissimo inno di Efrem canta: “L’Agnello di verità sapendo rigettati gli antichi sacrifici diviene il sacerdote e il principe dei sacrificatori. Il nostro sacrificatore, fattosi vittima, abolisce le vittime col suo sacrificio, lui stesso sacerdote e vittima”. Con l’indicazione del pane e del vino si allude non tanto al sacrificio, quanto al convito, ma si tratta del convito in cui l’Amore si è sacrificato perché l’energia della sua vita passasse agli uomini e diventassero tutti suoi commensali. Il miracolo della moltiplicazione dei pani per sfamare la folla nel deserto, con tutte le allusioni all’Israele sfamato nel deserto dalla manna, guidato e sorretto dal suo Dio che gli rinnova il suo amore, è preceduto dal parlare di Gesù del Regno, dalla sua potenza di guarigione che indica la vicinanza del Regno e dal ‘mistero del convito’ ancora incompreso. Gesù sa che la gente non comprende il senso di quel suo gesto, ma lo comprenderà poi, a dramma concluso, quando i cuori si apriranno alla conoscenza del mistero della sua persona. Quando celebreranno l’eucaristia e lasceranno che la loro vita sia inglobata in quel movimento di rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini, uniti al ‘sacrificio di amore’ del loro Signore, allora non potranno che vivere favorendo con tutto se stessi quella rivelazione perché a tutti arrivi e tutti insieme si renda grazie finalmente per la benedizione che quella rivelazione comporta.

 

SS. CUORE DI GESU’, ANNO C

Ez 34,11-16;  sal 22;  Rm 5,5-11;  Lc 15,3-7

 

         I testi della liturgia di oggi parlano della ‘immensa carità’ del Cuore di Gesù, alludendo evidentemente al ‘cuore trafitto’ che il prefazio (‘dalla ferita del fianco effuse sangue e acqua’) e l’antifona alla comunione (‘un soldato trafisse il costato con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua’) esaltano. I brani delle letture invece illustrano l’amore divino secondo l’immagine del pastore, un pastore che raccoglie le sue pecore, che le conduce in ottime pasture, che le fa riposare, che cura quella malata, che non trascura quella forte, e soprattutto che riconduce in spalla la pecora smarrita. Un bellissimo commento di s. Ambrogio spiega: “Rallegriamoci, dunque, perché quella pecora, che in Adamo era andata perduta, in Cristo è sollevata in alto. Le spalle di Cristo sono le braccia della Croce. Là ho deposto i miei peccati, sul capo di quel nobile patibolo ho trovato riposo… Egli è dunque un pastore ben provvisto, perché tutti noi siamo la centesima parte della sua proprietà. Ma Egli possiede le greggi innumerevoli degli Angeli, possiede quelle degli Arcangeli, delle Dominazioni, delle Potestà, dei Troni e di tutti gli altri che ha lasciato al sicuro sui monti. E poiché sono creature spirituali, non a torto gioiscono per la redenzione degli uomini”.

Il mistero della parabola riguarda non semplicemente l'amore di Dio, ma l'esperienza che fa il nostro cuore dell'amore di Dio. Con le sue parabole Gesù vuol rispondere alle mormorazioni del cuore dell'uomo che non è più capace di onorare i suoi fratelli perché non sa più riconoscere il mistero di Dio, non riesce più a percepire il cuore di Dio. Per noi, in effetti, si tratta solo di 'riconoscere' e 'credere' a questo amore di Dio che viene a cercarci, ad usarci premura, a fare dono di Sé a noi, a perdonarci, noi, la sua gioia! Ma il nostro cuore, irretito nelle illusioni del peccato, è più aspro di quello di Dio; crede di salvare una specie di nobiltà teorica condannandosi, rinchiudendosi in una condanna sfiduciata. Non è che manchino nella vita motivi di sfiducia, ma la vita dell’uomo si gioca proprio nella fiducia a Qualcuno che è riconosciuto come Colui che ‘si perde’ per noi e ci ridà dignità. È vero che Dio può far nascere altri figli perfino dalle pietre, ma è ancora più vero che, per quanto indegni e ribelli, i figli che Dio preferisce sono quelli in carne ed ossa, quelli che siamo, che rimprovera ma di cui continua ad avere premura. Gesù, morto e risorto per noi, è il sigillo ultimativo di quella Volontà e il suo ‘Cuore trafitto’ è l’emblema più suggestivo di quella Volontà di Bene per noi.

L’antifona d’ingresso cantava: “Di generazione in generazione durano i pensieri del suo Cuore, per salvare dalla morte i suoi figli e nutrirli in tempo di fame”, eco del salmo 32 là dove proclama: “Il Signore annulla i disegni delle nazioni, rende vani i progetti dei popoli. Ma il piano del Signore sussiste per sempre, i pensieri del suo cuore per tutte le generazioni”. Il piano del Signore è la determinazione all’amore per l’uomo senza lasciarsi vincere dalla sua diffidenza e dalla sua cattiveria. Il Cuore di Gesù svela questo ‘piano’ e lo rende noto a tutti i cuori, perché è da sempre, ancor prima della fondazione del mondo, anzi, motivo della stessa fondazione del mondo, perché è perenne, definitivo, sempre nuovo, perché risponde al desiderio e alla gioia di Dio e perché risponde al desiderio e al riposo dell’uomo.

La cosa straordinaria è che Dio fonda la sua giustizia nel condividere la sua gioia.  "Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione" (Lc 15,7). Ora, tutti i nostri pensieri di autocondanna, di paura, di disprezzo di noi e degli altri, feriscono l'amore di Dio perché gli rendono impossibile la gioia. Ogni autocondanna è una incomprensione di Dio. Ogni condanna, di sé e degli altri, è un'incomprensione profonda del cuore di Dio: come non sapere quello che gli procura gioia? Il buon ladrone che non pretende la misericordia, ma riconosce in pace la sua pena di fronte al Giusto crocifisso e chiede, per grazia, un posto nel regno, è un esempio eloquente della misteriosa convergenza in Dio di giustizia e di misericordia, gioia Sua e gioia della creatura.

Del resto, chi sono i giusti? Nell'interpretazione spirituale dei Padri i novantanove giusti lasciati sui monti sono gli angeli. Ma sono anche coloro che, come gli angeli, adorano e lodano e gioiscono con Dio. Sono cioè coloro che gioiscono con Dio quando un peccatore ritorna, quando un uomo si pente. Di qui il criterio di discernimento della bontà, che ci rende 'sim-patici' di Dio, vale a dire degli stessi sentimenti di Dio: un cuore è buono quando gioisce del bene del fratello. Gioire della virtù di un fratello più che per la propria è segno di un cuore puro, ormai conquistato dalla bontà di Dio. Gioire per un altro rende intimi di Dio. E se l'uomo è invitato a riconoscere come agisce Dio, come 'sente' Dio, è perché è chiamato ad imitarlo. E l'imitazione consiste nell'impegnare la propria carità fino alla gioia, senza pretenderla comunque per sé. Non che la cosa risulti ovvia, ma se il nostro cuore si è sentito trafitto guardando al Cuore trafitto dalla lancia del soldato, allora qualcosa dei segreti di Dio si comunica a noi e proprio questo rende capaci di vivere nello splendore di quella rivelazione.

 

 

TO XI, C2

2Sam 12,7-13; Sal 31; Gal 2,16-21; Lc 7,36-8,3

 

         Sono due gli episodi narrati nei vangeli che riguardano una unzione di Gesù da parte di una donna: quello di Luca, nella casa di un fariseo, per mano di una donna peccatrice che piange sui piedi di Gesù e li asciuga con i suoi capelli e li cosparge di olio profumato insieme ai suoi baci e quello narrato dagli altri evangelisti, a Betania, poco prima della passione: Matteo e Marco riferendo di una donna che versa sul capo di Gesù un olio profumato in casa di Simone il lebbroso;  Giovanni, invece, riferendo di Maria, sorella di Lazzaro, che unge con nardo genuino i piedi di Gesù, suscitando la reazione dei discepoli, che gridano allo spreco.

         Fermiamoci sull’episodio narrato da Luca; le sue accentuazioni sono assolutamente particolari. Diciamo subito che quello che è avvenuto nel cuore di quella donna non possa essere meglio descritto se non con le parole di Paolo: “Questa vita che vivo nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). La peccatrice perdonata non avrebbe potuto ancora esprimersi così, ma l’esperienza del cuore là la conduce. A tal punto l’amore ha toccato il cuore da non consentirgli più di vivere se non dentro quell’amore. Non però dell’amore che procede dalla donna o da Paolo, ma dell’amore che a loro è stato mostrato, al quale hanno acconsentito, del quale si sono lasciati inondare. In effetti, il centro della scena non è dato dalle espressioni di amore della donna, pur così tenerissime e espresse come se il mondo attorno non esistesse nemmeno tanto era rapito il suo cuore, ma dal comportamento di Gesù che accoglie quelle manifestazioni, le difende, le interpreta e ne svela il dinamismo segreto. Il centro è data dalla grazia dell’ amore ricevuto, dell’ amore risanante, dell’ amore di Gesù che non disdegna nessun gesto affettuoso della donna peccatrice perché espressioni di un anelito che Lui stesso aveva suscitato, come dice il canto al vangelo: “Dio ci ha amati per primo e ha mandato il suo figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10). Ma proprio questo è la scoperta della vita! La donna peccatrice ne ha fatto esperienza viva e tutti i suoi gesti, semplici e splendidi, rivelano proprio quell’esperienza.

Gregorio Magno annota che quella donna non doveva avere alcuna vergogna esteriore tanto era assorta nella sua vergogna interiore. Il fariseo non interviene per allontanarla perché non infastidisca l’ospite, in quanto si è reso conto dell’accondiscendenza silenziosa e mite di Gesù verso di lei. Lei non vede nessun altro se non Gesù, anzi, vede solo i suoi piedi, si è rannicchiata ai suoi piedi, piange e asciuga e bacia e unge di profumo i suoi piedi. In quei gesti passa tutta la sua anima; non ha bisogno di alcuna parola, di alcun sguardo: sente il cuore di Gesù come Lui sente il suo. La scena è così potente che s. Ambrogio può interpretarla come immagine della Chiesa che risponde all’amore del Cristo. Nell’offerta del suo amore la Chiesa è peccatrice non perché ‘semper reformanda’, ma perché come Cristo assume l’aspetto del peccatore, così la Chiesa prende la figura della peccatrice. Così è la Chiesa che ama in quella donna; è la Chiesa che ama in Paolo, che ama in Pietro, che ama nei suoi santi.

Quando Gesù racconta la sua parabola per illustrare al fariseo l’agire di Dio, è come se ricordasse che l’uomo non può dare in cambio a Dio qualcosa per saldare il suo debito. Non può dare nulla, ma il suo amore sì. E l’amore è più grande tanto più grande è la coscienza del proprio debito, perché Dio condona proprio tutto il debito. Tra l’altro, l’episodio sembra rispondere all’accusa verso Gesù che è ‘un beone e un mangione, amico dei pubblicani e dei peccatori’. Sì, si tratta di quel ‘beone e mangione’ ma che conosce i segreti di Dio, che attende i cuori al varco e che svela a tutti la misericordia perdonante di Dio, perché questa è la sua gloria: vedere l’uomo riconciliato con Lui, convinto dal suo amore. L’esperienza appare sicuramente desiderabile, ma non è affatto scontata, tanto è vero che i pensieri del cuore degli uomini sembrano muoversi in altre direzioni. Tutto il racconto del vangelo mostra la difficoltà per gli uomini di accogliere la via di Dio. Ma non esiste un’altra via di Dio; la via è proprio Gesù, perché svela in verità il volto di Dio, dandoci la Sua vita, che è tutta la nostra vita.

Vale la pena di raccogliere ancora un’altra suggestione di s. Ambrogio. Solo l’episodio raccontato da Luca riporta il particolare delle lacrime: “Proprio per questo , forse, Cristo, non ha lavato i propri piedi, affinché noi glieli laviamo con le lacrime. Lacrime benedette, che non soltanto possono lavare la nostra colpa, ma anche bagnare i piedi del Verbo celeste, affinché i suoi passi abbondino dentro di noi”. Le lacrime non parlano soltanto della vergogna del nostro peccato, ma del desiderio di Dio che ha toccato il nostro cuore; parlano della bellezza del nostro cuore che è fatto per Dio e per rispondere al suo amore. Quando il mondo scompare, quando anche l’io non è più ingombrante, allora il cuore sta solo con il suo Signore e sa che può star lì perché il Signore si è fatto solidale con la nostra umanità peccatrice. Ed è per questo che quando ritorna alla vita quotidiana, un cuore siffatto non custodisce semplicemente in sé la grazia dell’incontro, ma si fa memoria vivente di quell’amore misericordioso per il mondo.

 

 

NATIVITA' DI S. GIOVANNI BATTISTA (24 GIUGNO)

Is 49,1-6; Sal 138; At 13,22-26; Lc 1,57-66

 

Giovanni Battista è l'unico santo di cui la Chiesa festeggia, come per Gesù e la Vergine Maria, la nascita in questo mondo. La festa dei santi commemora il giorno della loro 'nascita' al cielo ossia il giorno della morte. Invece, per il Battista, nella tradizione si danno addirittura tre feste: la festa della sua concezione (23 settembre), la nascita (24 giugno), il martirio o la decollazione (29 agosto). Evidentemente la Chiesa riconosce qualcosa di assolutamente speciale nella figura del Battista, il Precursore, Colui che indica ormai venuto tra gli uomini il Salvatore.

Il nome Giovanni significa 'il Signore fa grazia' : indica il dono fatto ai genitori con  questa nascita, il dono dello Spirito che riempie Giovanni fin dal seno della madre, il dono accordato ai figli di Israele di essere ricondotti al Signore loro Dio tramite la sua predicazione, il dono della grazia fatto al mondo intero tenendo conto che in Giovanni usciamo dal cerchio  della semplice discendenza carnale di Abramo ed entriamo in quello che la Promessa aveva di universale : "e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra" (Gen 12,3). Il nome di Giovanni allude a tutta la grazia dell'economia del Vangelo che lui avrebbe annunciato, indicando la presenza nel mondo dell’Agnello, del Figlio di Dio, per il quale fu donata al mondo questa grazia, come richiama l’evangelista Giovanni nel prologo del suo vangelo.

La definizione più espressiva del mistero della sua nascita l’ascoltiamo dalla bocca di suo padre, Zaccaria, il quale, sciolto dai vincoli che l’avevano imprigionato per la sua incredulità all’annuncio dell’angelo, proclama a gran voce: “E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell' Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati, grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio, per cui verrà a visitarci dall' alto un sole che sorge” (Lc 1,76-78). ‘Darà al suo popolo la conoscenza della salvezza’: non si tratta solo di ‘far sapere’ che il Salvatore è venuto, che Dio ha fatto visita al suo popolo. La conoscenza di Dio non si risolve semplicemente nella conoscenza di certi eventi, ma nella conoscenza del senso della nostra storia con Dio, della nostra vita e delle nostre persone. Si tratta di una conoscenza che ‘impegna’ la vita come risposta alla rivelazione di senso del nostro destino in una storia più grande di noi. La straordinaria ‘potenza’ di questa conoscenza si vede dalla vita stessa del Battista, che però non viene narrata dai vangeli ma che noi vediamo riassumersi nella forza trascinante della sua predicazione potente: ‘il regno dei cieli è vicino, convertitevi!’. La sua persona stessa si era fatta eco vivente di quella ‘Parola fatta carne’ di cui si era rallegrato fin nel seno materno quando Maria, che portava in grembo Gesù, saluta sua mamma. Nel deserto, quando predica, lui è la voce, ma la Parola è un altro. E la grandezza di Giovanni, elogiata da Gesù, sarà proprio quella di dar voce alla Parola, di prestare la lampada alla Luce.

E Gesù, quando Giovanni si avvede che non si muove come lui si sarebbe aspettato e gli manda a dire se si deve aspettare qualcun altro, pone la firma in calce alla vita ed alla persona del Battista con l'affermazione 'beato chi non si scandalizza di me'. Effettivamente, conferma Gesù, Giovanni Battista è il più grande fra i nati di donna. Nell'ordine della grandezza della rivelazione di Dio, il Battista non è più solo un profeta, il cui compito è quello di annunciare. Lui è più che un profeta perché ha indicato presente fra gli uomini Colui di cui tutti gli altri profeti avevano annunciato il mistero e la venuta. Ma Colui che doveva mostrare l'estensione e la profondità di tale mistero è Gesù, il più piccolo nel Regno dei Cieli, che risulta più grande di Giovanni Battista. Gesù, l'Inviato, Colui che 'pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio...' (Fil 2,6-8), proprio per la sua 'piccolezza' ha mostrato tutta la grandezza dell'amore di Dio per l'uomo facendone vedere il suo vero Volto. Ma il Volto di Dio lo vedono coloro che non si scandalizzano della sua 'piccolezza' quando, ormai sfigurato sulla croce, allorché nemmeno d'uomo aveva più l'aspetto, accolgono tutto il mistero di Dio nel suo amore agli uomini, vedono cioè la sua scelta di essere Dio per gli uomini, non di sembrarlo soltanto. Ilario di Poitiers così commenta: “Il Signore manifesta tutta la gloria di Giovani dicendo che lui era più che un profeta perché a lui solo fu permesso sia di annunciare che di vedere il Cristo. E come si può pensare che non conoscesse il Cristo uno che è stato inviato con la potenza di un angelo a preparare la sua venuta e che tra i nati da donna è il più grande profeta che sia mai sorto? Però con questa eccezione che colui che è più piccolo di lui e cioè colui che viene interrogato, al quale non si crede, al quale neppure le sue opere danno credito, questi è più grande nel regno dei cieli” (Commento al vangelo di Matteo, 11,6).

Quando l’evagelista Giovanni, nel suo prologo, risale alla storia eterna dell’amore di Dio per gli uomini: “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio…” per arrivare ad annunciare: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,1.14), il Battista è il primo testimone di quella ‘gloria’ che via via apparirà anche agli apostoli, a tutti i discepoli e ai seguaci loro, fino a noi, fino alla fine del mondo. La sua testimonianza è ancora tesa a dissipare le incertezze, i dubbi: ‘io non sono…’. Il Battista non è né il Messia né Elia né il Profeta. Condivide con la gente l’attesa del Messia, senza poter specificare oltre ma avrà la ‘capacità’ profetica di riconoscerlo presente nel mondo. Toccherà allo stesso Messia dire poi chi sia, mostrarsi nel suo mistero; sarà Lui ad amministrare appunto il battesimo in Spirito, mentre il Battista, con il suo battesimo di acqua, ne prepara solamente la manifestazione. Ma è esattamente il suo titolo di grandezza, per il quale la Chiesa lo celebra al di sopra degli angeli e dei santi.

 

 

TO XIII, C2

1 Re 19,16-21;  sal 15;  Gal 5,13-18;  Lc 9,51-62

 

Con il brano evangelico di oggi inizia la lunga sezione della salita di Gesù a Gerusalemme (9,51-19,28). Nella descrizione di Luca il momento è così rivelativo del mistero della persona di Gesù che la narrazione assume toni solenni e del tutto speciali anche nel linguaggio. Noi leggiamo: “Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, si diresse decisamente verso Gerusalemme e mandò avanti dei messaggeri … non vollero riceverlo, perché era diretto verso Gerusalemme”. Letteralmente invece suona: “Mentre si compivano i giorni della sua assunzione (termine che può indicare sia la morte che l’ascensione di Gesù), indurì il suo volto per incamminarsi verso Gerusalemme e mandò davanti al suo volto degli angeli … non vollero riceverlo, perché il suo volto stava seguendo il cammino verso Gerusalemme”.

Per Gesù è arrivato il momento di salire a Gerusalemme per dare compimento alla sua missione. Aveva già preannunciato ai discepoli la sua passione; li aveva come consolati con l’evento della trasfigurazione, sapendo che non avrebbero retto allo scandalo della sua condanna; aveva cercato di istruirli sui misteri di Dio che con lui si compivano. Ora è venuto il momento di portare a compimento il disegno di Dio, come non sopportasse più alcuna dilazione. Il racconto di Luca fa risuonare le parole del profeta Isaia: “Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso” (Is 50,7) e quelle del profeta Malachia: “Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore, che voi cercate; l' angelo dell' alleanza, che voi sospirate, ecco viene, dice il Signore degli eserciti” (Ml 3,1).

È singolare che, nel cammino di Gesù verso Gerusalemme, il primo rifiuto venga dai samaritani, proprio loro che avevano accolto e creduto a quel profeta (cfr Gv 4,39-42), proprio loro che, nelle parabole di Gesù, sono sempre considerati con un occhio di riguardo. Evidentemente i discepoli, che avevano preso la decisione di Gesù di andare a Gerusalemme come l’inizio di una marcia di ‘conquista’ per l’instaurazione del regno di Dio, mal sopportano che il loro Maestro venga trattato in quel modo e vorrebbero dar loro una lezione. La risposta di Gesù a Giovanni e Giacomo è la medesima che a Pietro (cfr. Mt 16,23), netta e tagliente: non capite nulla, venitemi dietro e basta, altrimenti non vi troverete dalla parte di Dio. Chi cerca di cambiare la via di Dio assomiglia a Satana, fa il gioco di Satana. Il ‘rimprovero’ che Gesù rivolge ai discepoli è dello stesso tono del rimprovero che indirizza ai demoni (cfr. Lc 9,42). Quello che Luca più avanti dirà del Figlio dell’Uomo che è venuto per salvare (cfr. 19,10) equivale a quello che Matteo dice di Gesù definendolo mite e umile di cuore (Mt 11,29). Se questa è la via di Dio, allora scegliere altre vie significa allontanarsi da Dio. Dire che Gesù ‘indurì la sua faccia’ significa sottolineare la totale fedeltà di Gesù al volere del Padre, che così, con quel che avverrà a Gerusalemme, con la passione e la croce, ha voluto mostrare tutto il suo amore agli uomini. Fedeltà così ‘dura’, cioè incrollabile, da non lasciarsene distogliere da nulla e da nessuno.

Se le cose stanno così per Gesù, possono stare diversamente per i discepoli? Quando Gesù esige dai discepoli certe condizioni per seguirlo, non fa che trasmettere loro il principio della sua stessa fedeltà che si fa urgenza di annunciare il regno di Dio ormai giunto, cioè urgenza di svelare il suo segreto, il segreto stesso di Dio (perché in questo consiste la missione degli apostoli). Di fronte alla scoperta di tale segreto, non c’è bene o valore umano che possa prevalere.  La condizione prima è accettare il modello di Gesù che si definisce come Figlio dell’uomo che non ha dove posare il capo. Una bellissima espressione di s. Chiara di Assisi commenta: “Cristo non ha dove posare il capo e quando lo reclinò sul suo petto, fu per rendere l’ultimo respiro” (FF 2864). Come a dire: chi cerca il suo riposo altrove, non segue Cristo; chi cerca il suo riposo prima di dare la sua anima, non segue Cristo; chi cerca invece il suo riposo nel vivere di quell’annuncio del segreto di Dio è beato, perché partecipa alla stessa fedeltà di Gesù. L’unico luogo di riposo del capo di Cristo è il volere del Padre e il volere del Padre è l’amore sconfinato agli uomini. Dello splendore che deriva da quell’amore manifestato da Gesù parla l’urgenza che attraversa il brano di oggi, che la liturgia richiama con il canto al vangelo: “Io sono la luce del mondo, dice il Signore; chi segue me avrà la luce della vita”. Non si tratta semplicemente della luce della verità, ma della verità che è vita e della vita che è splendore di amore.

Così, l’espressione del salmo: ‘sei tu il mio Signore, senza di te non ho alcun bene’, va letta come dichiarazione di un amore: posso avere tante cose, ma se non ho te, che vale la vita? L’antica versione latina cantava: ‘bonum mihi non est sine te’. È il senso profondo della vita come relazione, come amore, amore che costituisce il valore di riferimento e di criterio per tutti i beni della vita, il segreto condiviso tra Dio e l’uomo. Se l’amore è esigente, lo è in proporzione della potenza e della qualità di vita che dischiude, nella fedeltà di un agire che non si lascia più distogliere dal perseguirlo sempre e comunque perché tutti ne godano e finalmente ci si possa riposare.

 

 

TO XIV, C2

Is 66,10-14;  sal 65;  Gal 6,14-18;  Lc 10,1-20

 

         Il profeta Isaia aveva annunciato la ‘prosperità’ di Gerusalemme, aveva descritto l’invasione di consolazione che l’avrebbe sommersa, eco del salmo 65: “Stupende sono le tue opere”. Ma di quale consolazione parlava? Quella che annuncia il canto al vangelo: “Dio ha riconciliato il mondo in Cristo, affidando a noi la parola della riconciliazione” (cfr. 2Cor 5,19). ‘Ha riconciliato il mondo’: i discepoli inviati sono settantadue (o settanta, secondo alcuni codici), il numero delle nazioni secondo la tradizione ebraica.

Il brano evangelico di oggi è la continuazione del testo della scorsa domenica. Chi sono quei settantadue discepoli che il Signore invia davanti a sé nel suo cammino verso Gerusalemme? Sono coloro che, avendo incontrato Gesù, al pari di Lui, non fanno riposare il loro capo se non nel volere di Dio che cerca la salvezza degli uomini; sono coloro il cui riposo consiste nella pace che portano nel nome del Signore. Non per nulla Gesù li invia due a due e non individualmente. Come possono annunciare la pace del Regno se non la fanno vedere come compiuta nella loro relazione fraterna? Come possono invitare a condividere insieme a loro la pace del Signore che si fa nostro prossimo se quella pace non è diventata radice di benevolenza tra loro, segno dello splendore di Dio in mezzo a loro? In effetti, quello che traduciamo con ‘affidando a noi la parola della riconciliazione’, letteralmente andrebbe reso: ‘ponendo in noi la parola della riconciliazione’. Non però la parola da dire, ma la parola come fondamento dell’essere, come le ragioni che convincono il cuore della realtà di quella pace ottenuta che, per sua stessa dinamica interna, tende a coinvolgere tutti e tutto. È la parola come forza d’attrazione, come potenza d’irradiazione, come rivelazione del segreto della felicità nel godere quel ‘suo far grazia di Sé a noi’ in modo da renderci capaci, ormai solidali con i suoi sentimenti, di estendere a tutti la condivisione di questo ‘segreto’.

Se questo è vero, vuol dire che Dio ritiene l’uomo suo compagno ("Siamo infatti collaboratori di Dio", 1Cor 3,9). È una cosa straordinaria! Con la rivelazione di Gesù, che svela, mentre compie, il supremo desiderio di Dio di stare dalla parte degli uomini, possiamo scorgere all'opera nel mondo le segrete intenzioni di Dio nei confronti delle sue creature. Parlare di annuncio evangelico, di redenzione, di salvezza, di grazia, significa alludere a questa opera di riconciliazione in atto nella storia, come dice Gesù:  «Il Padre mio opera sempre e anch'io opero» (Gv 5,17). Opera appunto la riconciliazione in Gesù, nostra pace ("Egli infatti è la nostra pace", Ef 2,14). I discepoli di Gesù sono chiamati a concorrere alla realizzazione di questa 'opera'. In questo senso dobbiamo imparare a giudicare ogni cosa in base alla convergenza verso questo supremo scopo divino. Tra l’altro, imparare a diventare coscienti di questa realtà significa passare dal livello psicologico a quello spirituale, diventare compagni di Dio.

Il segnale della partecipazione a quell’opera, è la letizia, come annota il vangelo a proposito dei discepoli tornando dalla loro missione. Essi credono di attribuire la loro letizia al fatto di aver soggiogato i demoni, ma Gesù li corregge e conferma la loro gioia perché “i vostri nomi sono scritti nei cieli”. Come a dire: non rallegratevi di aver potuto fare cose straordinarie, impensate e impensabili fino ad ora, ma rallegratevi di godere del segreto di Dio, di stare solidali con il suo sentire, di godere la letizia del Regno. L’annuncio si gioca infatti sulla potenza del contagio della letizia di cui fanno esperienza i discepoli e di cui Gesù svela la vera ragione: i vostri nomi sono scritti nei cieli, avete parte al ‘far grazia di Sé all’uomo da parte di Dio’, partecipate al suo amore per gli uomini che non si dà pace finché tutti e ciascuno non ne possano godere, per sempre. I discepoli impareranno l’estensione e la natura di quella letizia nel seguire il loro Maestro che sta andando a Gerusalemme dove subirà la passione. Lo ricorda s. Paolo nella seconda lettura di oggi quando proclama: “Fratelli, quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). La letizia evangelica è una letizia esigente. Ma la vera radice di quella letizia è rivelata da Gesù quando firma la gioia dei discepoli con la sua esultanza: “Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così a te è piaciuto” (Lc 10,21). ‘Così è piaciuto a te’: l’uomo può solo accogliere e ritrovarsi nell’offerta di Dio. È a quella esperienza, all’intimità di quella rivelazione che il discepolo attinge per fondare le ragioni di un vivere che funzionino come radici di umanità nuova. Potesse l’anima essere ancora toccata dalla benevolenza persuasiva delle parole di Gesù: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno” (Lc 12,32)!

 

 

TO XV, C2

Dt 30,10-14;  sal 18;  Col 1,15-20;  Lc 10,25-37

 

Il brano di vangelo conferma l’affermazione del Deuteronomio: “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te….Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica”. La parola del Signore, il suo comandamento è “vicino” a noi. Vuol dire due cose: è accessibile a noi, non è qualcosa di complicato o assurdo o inarrivabile; nello stesso tempo, è adatto a noi, corrisponde al nostro cuore, nel senso che fa vivere il cuore, ne compie gli aneliti profondi. Ma allora perché facciamo così resistenza al suo comandamento nella nostra vita?

Già il testo del Deuteronomio lo sottolinea: la parola del Signore ti è vicina, “perché tu la metta in pratica”. Vale a dire: il comandamento non rivela il suo segreto se non praticandolo. Non lo puoi praticare se non lo accogli da dentro un’alleanza col tuo Dio, ma non lo puoi comprendere se non praticandolo e così cogliere il gusto di quell’alleanza con Dio che si era prima appena percepita.

Il brano di vangelo riprende lo stesso concetto. Il testo di Luca, come quello parallelo di Matteo, pone la domanda del dottore della legge sotto un’angolatura negativa. Il dottore della legge vuole mettere alla prova Gesù. Il brano parallelo di Marco invece sottolinea la buona fede del dottore della legge. Noi possiamo interpretare così. Ammettiamo che la domanda del dottore della legge: “Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?” nasconda un tranello per Gesù. Comunque la domanda è ben posta. Non si può chiedere: che cos’è la vita eterna? La comprensione segue sempre la pratica. Quando però Gesù fa dire a lui stesso in cosa si riassuma la Legge, lo scriba risponde bene: amerai Dio e il tuo prossimo. Allora lo scriba rincalza: e chi è il mio prossimo? Visto che non ha potuto cogliere in fallo Gesù con la prima domanda, ne pone una seconda. Ma questa volta la domanda è posta male e tradisce la sua cattiva intenzione. Chiedere chi sia il prossimo vuol dire ammettere che l’uomo può fare distinzioni, che l’uomo si pone al di sopra di Dio e così facendo non potrà più conoscere in verità il volto di Dio. Ammettiamo invece che la domanda del dottore della legge sia posta in buona fede. La prima domanda è sempre posta bene. Ma quando Gesù gli fa rispondere che la legge consiste nell’amare Dio e il prossimo, lui si chiede: ma allora perché non gusto ancora quella vita eterna che cerco? Cosa mi manca? Non agisco ancora secondo l’ottica di Dio? E pone la seconda domanda: chi è il mio prossimo? Domanda posta male, ma per conoscere in verità ciò che Dio pensa. E Gesù narra la sua parabola, la parabola del buon samaritano. La conclusione della parabola restituisce al dottore della legge l’ottica giusta, quella di Dio: non si tratta di sapere chi sia o non sia il prossimo meritevole del mio amore, ma agire da prossimo con chiunque, anche con i nemici o gli avversari. “Va’, e anche tu fa’ lo stesso”, come il buon samaritano che si è mosso a compassione vedendo un uomo ferito sulla strada.

La parabola però non finisce qui, almeno quanto al suo significato. Ogni parabola è un’illustrazione dell’agire di Dio, una raffigurazione dei sentimenti e dell’agire di Gesù, venuto a rivelare l’amore di Dio agli uomini. Il buon samaritano è Lui stesso, che ha lasciato le 99 pecore (gli angeli) al sicuro ed è venuto a cercare la pecora (l’uomo) perduta. Così, l’agire in compassione fa ereditare la vita eterna perché assimila a Dio, rende simili al Cristo e ne svela al nostro cuore la bellezza. L’esito del comandamento dell’amore al prossimo non è semplicemente di far star bene il prossimo, se possibile, ma di ottenerci la rivelazione del volto di Dio, compimento dei desideri del nostro cuore.

Qui sta anche racchiusa la legge dell’intelligenza spirituale delle Scritture. La parola di Dio non è pronunciata perché la si capisca, ma perché la si metta in pratica. Sarà la pratica a portare quella conoscenza che il cuore desidera. La parola suggerisce una possibilità di pratica che porterà alla comprensione, la quale poi farà ritornare con più desiderio alla parola per vedervi nuove possibilità di pratica e così via. Così, davanti alla parola, al comandamento, è mal posta la domanda: cosa vuol dire? Dovremmo dire: qual è il mistero che nasconde di cui diventare partecipe mettendola in pratica? E allora comprenderemmo dal di dentro la benedizione di Gesù per i discepoli che immediatamente precede il nostro brano: “Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Vi dico che molti profeti e re hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, ma non lo videro, e udire ciò che voi udite, ma non l’udirono”. E’ la benedizione per chi cerca la vita eterna e la gusta. Allora le parole del salmo 18 suoneranno con un’intensità tutta nuova: ho scoperto che la legge del Signore è perfetta perché rende perfetti rinfrancandoci, che è verace perché rende veri in sapienza, che è giusta perché ci fa giusti in letizia, che è limpida perché rende puro il cuore e gli occhi luminosi, ecc.

 

 

TO XVI, C

Gen 18,1-10; sal 14; Col 1,24-28; Lc 10,38-42

 

         La lettura della Genesi ed il brano di Luca sono accomunati da un atteggiamento di fondo caratteristico: la sollecitudine. Abramo 'corre incontro', 'va in fretta', 'corre' per onorare i suoi ospiti; Marta, presa dalla stessa sollecitudine, è tutta indaffarata nei molti servizi per un'ospitalità degna dell'illustre Ospite, mentre Maria, con lo stesso atteggiamento di sollecitudine anche se in modalità differente dalla sorella, è tutta presa dall'Ospite dal quale non stacca occhi e orecchi.

Da dove scaturisce quella sollecitudine? Senza cogliere la radice di quella sollecitudine, difficilmente possiamo avvertire il mistero che questi testi illustrano. Partiamo dal brano evangelico. Gesù intesse l’elogio di Maria per rimproverare Marta? Dopo l’intervento della sorella e la risposta di Gesù, Maria avrà continuato a stare ai piedi di Gesù? La finale del brano riporta: “Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta”. Cosa significa: ‘non le sarà tolta’? Semplicemente, che Gesù l’avrebbe lasciata stare ai suoi piedi e non l’avrebbe comunque importunata invitandola ad aiutare la sorella nel servizio? Il vangelo non riporta semplici annotazioni di cronaca quotidiana. In effetti, tutto il ‘peso’ dell’episodio sta appunto in quel ‘non le sarà tolta’, in quanto rivela la ragione del fatto che la scelta di Maria è migliore (nel testo: ‘Maria ha scelto la parte buona’). L’allusione è al desiderio profondo del cuore dell’uomo che è fatto per Dio e di cui brama vedere il Volto. Ciò che sazia il cuore dell’uomo è la ‘conoscenza’ del suo Dio. L’elogio di Gesù si riferisce ad un tempo in cui sarà Lui stesso a servire i suoi discepoli (cfr. Lc 12,37). Ciò che non verrà mai meno e di cui si potrà godere in assoluto, quello è la parte buona, l’unica cosa necessaria, quello di cui c’è bisogno. In primo piano c’è Dio che viene incontro all’uomo, Dio che compie i desideri dell’uomo, Dio che ristora l’uomo. La figura di Maria ai piedi di Gesù apre a quella visione. Ma quella visione è percepibile se il cuore avverte la natura del suo ‘ascoltare’, tutto teso a godere la verità dell’amore del suo Dio che la nutre e la ristora. Così, la sua figura è figura di ogni discepolo, la figura di ogni lettore/ascoltatore della Parola di Dio.

         Quando Gesù fa l’elogio di Maria, rivela la natura vera del servizio di Marta. L’unica cosa necessaria non è l'opera migliore fra tante altre; è di altra natura: il possesso di quell'unica cosa necessaria rende 'fruttuosa' ogni opera di servizio. Fruttuosa, vale a dire capace di far sbocciare l'opera eseguita in frutto di intimità. Come a dire, ancora, che il frutto dell'agire bene non è semplicemente la virtù, ma la visione: aprire gli occhi del cuore alla conoscenza del Signore, all'unione con il Signore che davvero ristora il nostro cuore. E se il cuore è ristorato, allora, nel suo servizio ai fratelli, lascerà intravedere 'quanto è buono il Signore', quanto è desiderabile il suo possesso. In realtà, il senso stesso della sollecitudine del servizio consiste nel permettere agli altri di desiderare l’intimità col Signore, che di quel servizio è motivo e scopo.

         Quando di Abramo si descrive la sua sollecitudine per gli ospiti, in primo piano non sta la sua virtù, ma la promessa di Dio che viene incontro all’uomo e lo rende degno della sua accondiscendenza. Quello che il testo vuol far vedere è l’accondiscendenza di Dio per il suo servo, capace di tener fede alle sue promesse e di garantire al suo servo la verità della sua conoscenza, per lui e per i suoi discendenti. Le antiche leggende ebraiche non fanno che sottolineare questo aspetto nella fantasia dei particolari del racconto. Abramo è visitato da Dio il terzo giorno dopo la sua circoncisione, segno dell’obbedienza al suo Dio, quando è ancora sofferente. Il caldo era insopportabile perché nessun viandante passasse a disturbare Abramo. Ma la cosa aveva reso Abramo molto triste perché se non capitava nessuno non avrebbe potuto esercitare alcuna ospitalità.  Dio stesso decide allora di fargli visita e non vuole che nemmeno si alzi per venirgli incontro perché era sofferente, dicendogli, anzi, che i suoi discendenti, già all’età di quattro o cinque anni, staranno seduti nelle scuole e nelle sinagoghe dove Lui dimorerà. Ma quando arrivano gli angeli in veste di uomini, Abramo supplica il Signore di permettergli di andare loro incontro per offrire ospitalità, preferendola alla compagnia stessa della Sua Presenza. Tutti particolari che rivelano l’estrema accondiscendenza di Dio, percepita come la benedizione perenne sul popolo che da Abramo prende discendenza.

         La colletta della liturgia di oggi coglie bene la natura della sollecitudine che fa da radice sia all’agire che all’ascoltare: “Padre sapiente e misericordioso, donaci un cuore umile e mite, per ascoltare la parola del tuo Figlio che risuona ancora nella Chiesa, radunata nel suo nome, e per accoglierlo e servirlo come ospite nella persona dei nostri fratelli”. Poter avere un cuore umile e mite significa poter partecipare all’umanità di quel Figlio che di sé dice: ‘Venite a me voi tutti… che sono mite e umile di cuore’ (cfr. Mt 11,29). E partecipare alla sua umanità significa poter godere dell’intimità del Figlio con il Padre e poter esprimere nel proprio agire tutta l’accondiscendenza di Dio per l’uomo, radice della nostra sollecitudine per i fratelli. Così, quando nella preghiera sulle offerte, diciamo: “…e ciò che ognuno di noi presenta in tuo onore giovi alla salvezza di tutti” si sottolinea lo stesso mistero: ciò che è gradito a Dio è solo ciò che porta alla salvezza di tutti. Il che equivale a dire: quando sono rapito nell’ascolto, incontro il Dio che vuole la salvezza di tutti, non solo mia; quando sono indaffarato nel servizio, incontro il Dio che si fa accondiscendente a tutti, perché da tutti Lui sia conosciuto e benedetto. Marta e Maria costituiscono così le due facce della stessa sollecitudine per la conoscenza del Signore, supremo Bene del cuore dell’uomo.

 

 

XVII TO, C2

Gen 18,20-32;  Sal 137;  Col 2,12-14;  Lc 11,1-13

 

         Oggi la liturgia introduce al mistero della preghiera. Nel brano evangelico non è detto espressamente, ma è volutamente sottolineata la concomitanza della preghiera di Gesù e la richiesta dei discepoli: “Signore, insegnaci a pregare”. Cosa hanno visto i discepoli in Gesù che pregava? Cosa li ha affascinati tanto da indurli a desiderare anche per loro lo stesso tipo di preghiera? Se Gesù risponde con l’insegnamento della preghiera del Padre Nostro, allora vuol dire che ciò che rendeva ‘singolare’ la preghiera di Gesù era l’intensità di intimità con quel ‘Padre’ di cui custodiva i comandamenti, di cui annunciava la prossimità, di cui svelava il volto, di cui mostrava la verità nell’amore all’uomo e di cui suscitava la nostalgia in questo mondo.

La profondità di tale rivelazione è svelata dalla preghiera di intercessione di Abramo, che osa intervenire presso il suo Signore pur sentendosi polvere e cenere. Evidentemente, la possibilità di intervento di Abramo presso il Signore non dipende tanto dalla sua giustizia, ma dall’alleanza che il Signore ha stabilito con lui. Il tipo di ‘confidenza’ di tale alleanza, che mostra tutta l’accondiscendenza di Dio per Abramo e per quanti da lui discenderanno, è messa in risalto dal modo di pensare di Dio stesso: “Devo io tener nascosto ad Abramo quello che sto per fare, mentre Abramo dovrà diventare una nazione grande e potente e in lui si diranno benedette tutte le nazioni della terra?”. Abramo si fa avanti osando richiamare il Signore alla sua dignità di giustizia e di misericordia, come a lui si era rivelato. Abramo sapeva che non erano bastati otto giusti per salvare l’umanità dal diluvio (al tempo del diluvio, si  salvano nell’arca Noè e quelli della sua famiglia, che sono appunto otto). Abramo perciò nella sua intercessione si ferma a dieci giusti: se ci fossero dieci giusti nella città, come potrà il Signore distruggerla, proprio per riguardo a quei dieci? Ma l’umanità non ha dieci giusti, ne ha uno solo: quel Figlio di Dio fatto uomo, l’unico Giusto. Sarà per riguardo a Lui che Dio non distrugge l’umanità. Per riguardo a quel Giusto Dio abbandona la sua ‘giustizia’ per mostrare la sua ‘misericordia’. Ogni preghiera si fa forte presso Dio per la forza di quel Giusto che costringe Dio alla misericordia. Sarà quel Giusto a mostrare il volto di misericordia del Padre.

Nella Tradizione si sottolinea costantemente che se una nostra richiesta a Dio non può essere ricondotta ad una domanda del Padre Nostro, non sarà esaudita. E tutte le richieste confluiscono in una sola, come la conclusione della spiegazione di Gesù mostra chiaramente: “Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!” Oppure, in altra traduzione: “… a coloro che lo pregano”. Cosa dunque cercare nella preghiera? Una cosa sola: lo Spirito Santo. Raramente abbiamo coscienza nella nostra preghiera che questa è la domanda essenziale. Probabilmente, perché non abbiamo né coscienza dell’urgenza che ci agita dentro né della confidenza di cui ci è dato l’accesso. Gesù conclude la sua parabola dicendo: “vi dico che, se anche non si alzerà a darglieli per amicizia, si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua insistenza”. Il termine che si traduce per ‘insistenza’, in realtà significa ‘svergognatezza’: non avere alcun ritegno, alcuna vergogna. È l’atteggiamento della donna Cananea, che alla fine è lodata per la sua fede (cfr. Mt 15). A quell’atteggiamento si riconduce la vedova che importuna il giudice disonesto (cfr. Lc 18,1-8), passo che andrebbe letto insieme al brano odierno. Dire che Dio esaudisce ‘prontamente’ le suppliche dei suoi eletti, quando la verità della storia è lì a provare il contrario, come tutti ne facciamo amaramente esperienza, significa riconoscere che solo la richiesta di Spirito Santo sarà esaudita. Vale a dire, sarà esaudito l'anelito del cuore che non si accontenta delle cose che provengono da Dio, ma che cerca proprio Dio, l'incontro, l'intimità con Lui. Sarà esaudita la fede in Lui. E la fede è volontà di compagnia di Dio, come tutta la preghiera del Padre Nostro insegna. Allora, per le cose di cui abbiamo bisogno, prima che di richiesta, si tratta di affidamento. Non possiamo pregare se non da dentro quell’alleanza di benevolenza di cui ci è stato fatto dono. Fare la volontà di Dio significa prima di tutto fidarsi del proprio Dio, dare credito al suo amore e cercare di stare con Lui, non di avere i suoi doni. Se la preghiera è questo, allora non c'è preghiera che non venga esaudita. Dio cerca adoratori e amici, non semplicemente 'consumatori', 'utenti', 'fruitori', 'clienti', termini che ben si addicono a quanti ricercano prima di tutto le cose. Così, la logica della preghiera è questa: non, ottieni ciò che chiedi, ma se chiedi; non, trovi quello che cerchi, ma se cerchi. La drammaticità di tale logica, che è la drammaticità di una relazione d’amore, della vita stessa, è espressa proprio dalla preghiera del Figlio, di quel Giusto di cui viene detto: “Proprio per questo nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l' obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,7-8). È per tale drammaticità che Gesù, quando insegna a pregare, lo fa per sottolineare la necessità di pregare sempre. Senza preghiera non si può vivere o perlomeno non si può vivere l’alleanza con Dio.

 

 

XVIII TO, C2

Qo 1,2; 2,21-23;  Sal 94; Col 3,1-5.9-11; Lc 12,13-21

 

         La risposta di Gesù all’uomo che gli chiedeva di usare la sua autorità per ottenere giustizia da sua fratello in una questione di eredità svela l’intenzione nascosta di tante nostre domande: posso ottenere giustizia? Come devo fare per ottenere giustizia? Tale domanda è una domanda evangelica? È fin troppo evidente che non si può vivere bene senza giustizia, ma quale ‘giustizia’ assicura il vivere bene? La riflessione sapienziale della prima lettura, tratta dal libro del Qoelet, lo evidenzia molto bene: tutto è vanità. Proprio tutto?

         Come sempre, le risposte di Gesù fanno riformulare le domande al cuore dell’uomo in modo più pertinente. Che tipo di giudizio formula? Il suo giudizio non riguarda questo mondo, ma il mondo futuro, che però si gioca in questo mondo, come illustra anche la seconda lettura. L’uomo cerca i beni di questo mondo per vivere bene, ma – ricorda Gesù – il vivere bene non dipende dai beni di questo mondo. La parabola dell’uomo ricco che aveva accumulato molti beni, nel suo significato più immediato, è chiara. Corrisponde al senso di molti altri passi evangelici: che giova all’uomo guadagnare il mondo se poi rovina se stesso o muore? (cfr Lc 9,25). Più o meno risponde a quel buon senso che, se pure è necessario per vivere, non è però sufficiente ad assicurare quella ‘pienezza’ di vita che il cuore dell’uomo cerca. In questo, non viene dato nessun giudizio sui beni di questo mondo. La discriminante è altrove. Non si tratta di scegliere tra la povertà evangelica e la ricchezza, ma tra la cupidigia o l’avarizia e la solidarietà o la generosità: “Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio”. Ecco la domanda meglio posta: come arricchire davanti a Dio? Che ne nasconde un’altra, più misteriosa, ma ancor più rivelativa delle parole di Gesù: chi è il ricco?

         Per cogliere il senso del brano in tutta la sua profondità andrebbe letto fino al v. 32. La rivelazione di Gesù procede per due passaggi: prima risponde alla folla, poi ai discepoli. Rispondendo alla folla indica come la discriminante per la giustizia in questo mondo gradita a Dio risulti dal fatto di essere solidale con l’umanità. Alla domanda: come ci si arricchisce davanti a Dio, la Scrittura dà una risposta univoca: dando al povero. Si leggano i passi di Pr 3,27 e Is 58,7. La solidarietà con chi è nel bisogno renda la vita ‘degna’ di essere vissuta. Allora chi è il ricco? È colui che assomiglia a Gesù “il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini…” (Fil 2,6-7). Dietro l’ammonizione di Gesù, si nasconde questa rivelazione.

         Gesù continua a spiegarsi con i discepoli e aggiunge: perché affannarsi per i beni di questo mondo? “Non cercate perciò che cosa mangerete e berrete, e non state con l' animo in ansia: di tutte queste cose si preoccupa la gente del mondo; ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. Cercate piuttosto il regno di Dio, e queste cose vi saranno date in aggiunta”.  È ciò che suggerisce il canto al vangelo: ‘il regno dei cieli è vicino, convertitevi e credete al vangelo’. Dietro questo invito sta la domanda: qual è la radice della confidenza nella vita? Sta forse nei beni di questo mondo? No! Sta nell’alleanza con Dio, la cui fruizione permette quel ‘vivere bene’ che il nostro cuore cerca, a volte troppo affannosamente solo nei beni di questo mondo. Se prima si sottolineava che i beni vanno condivisi, adesso si sottolinea che il bene che permette ai beni di questo mondo di farci godere la vita è l’accoglienza del desiderio di prossimità all’uomo da parte di Dio, che in Gesù si fa manifesta. Cercare prima di tutto il Regno è volere prima di tutto la compagnia di Dio.

         Il segreto di questa rivelazione, però, è svelato nel v. 32: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno”. La possibilità della felicità non è conquista umana, ma accoglienza, intimamente condivisa, di questa offerta amorosa: a Lui è piaciuto così! Lo annuncia il salmo responsoriale quando ci fa ripetere: ‘Fa’ che ascoltiamo, Signore, la tua voce’. È la voce che dice: al Padre è piaciuto darvi il regno! Tutte le parole di Gesù sono l’eco di questa rivelazione: al Padre è piaciuto darvi il regno. Qui si radica quella ‘confidenza’ capace di aprire la vita, capace di aprirci alla vita. Qui si radica l’opposto di quella cupidigia e avarizia che scardina il cuore dell’uomo e che rende la vita una battaglia persa per la felicità. Qui si concentra tutta la consolazione per il cuore dell’uomo. Così, prima di ascoltare le parole di quella voce, occorre imparare a percepire la tenerezza con cui quella voce risuona. Come a dire: il cuore dell’uomo cerca una pienezza che nessuna delle ragioni del mondo soddisfa. Le ragioni del mondo non riescono a dare ragione delle ragioni del cuore. Solo in quella ‘voce’ quelle ragioni trovano quiete.

 

XIX TO, C2

Sap 18,3-9; sal 32; Eb 11,1-19; Lc 12,32-48

 

Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno”: è il punto di verità che costituisce la rivelazione di Gesù e la consolazione del nostro cuore. Rivelazione e consolazione che la colletta fa pregare perché si compia per ciascuno di noi: “Dio onnipotente ed eterno, che ci dài il privilegio di chiamarti Padre, fa’ crescere in noi lo spirito di figli adottivi, perché possiamo entrare nell’eredità che ci hai promesso”. E che il salmo 32 sottolinea con le espressioni potenti: “beato il popolo che appartiene al Signore… beato il popolo che si è scelto… che spera nella sua grazia”. La ragione? “Ma il piano del Signore sussiste per sempre, i pensieri del suo cuore per tutte le generazioni”, come ripete nel v. 11 sempre il salmo 32. Quei pensieri che valgono per tutte le generazioni si riassumono proprio nel versetto evangelico: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno”. Esso aveva costituito l’orizzonte di senso rispetto al problema dell’uso dei beni di questo mondo, come nel brano di domenica scorsa. Oggi si aggiunge un particolare ancora: i beni di questo mondo, non solo vanno condivisi, nell’ottica di quella ‘confidenza’ con Dio che è caratteristica dell’annuncio evangelico, ma è anche possibile lasciarli del tutto, distribuirli, cederli. L’esperienza della possibile ‘consolazione’ del Regno può risultare così significativa per il cuore da indurlo a lasciare tutto per vivere di quel Regno, seguendo Colui che lo rivela, perché tutti ne possano condividere la consolazione. È la logica della scoperta della perla preziosa, del tesoro nascosto, per cui non ci si perde più dietro alcun altro bene né proprio né altrui, che anzi si danno via per tenersi soltanto e far gustare a tutti quell’unico Bene.

Le parabole sulla vigilanza rimandano a quell’esperienza, che è tipica degli apostoli. La vigilanza evangelica parla del mistero che ha toccato il cuore nella rivelazione del Figlio di Dio: se al Padre è piaciuto darvi il suo regno nel Figlio che lo rivela, allora tutto va giudicato in funzione di quella verità. E tanto più quella verità parla al cuore, tanto più il cuore vivrà di quella verità. Come a dire: tanto più il cuore vedrà la bellezza del Figlio di Dio, tanto più la vedrà nei figli degli uomini per cui si metterà a servirli. Gesù proclama ‘beata’ la vigilanza dei suoi discepoli perché la vigilanza è espressione della ‘beatitudine’ del cuore che vede, che sente, che è rapito dalla presenza del suo Signore che viene. In tal senso, le parabole non servono a istillare la vigilanza per quando il Signore verrà come giudice alla fine dei tempi; le parabole alludono più direttamente al mistero della rivelazione del Figlio di Dio che si compie nella storia, alludono al Signore che viene a preparare tavola ai suoi, a condividere i suoi segreti quanto all’amore di Dio per l’uomo, motivo di beatitudine per il cuore dell’uomo. Il fatto di presentare una parabola con la figura di un padrone che si mette a servire i suoi servitori, cosa che non ha nulla di usuale nella vita, allude proprio alla singolarità della rivelazione di Gesù, alla condivisione del segreto di Dio. Non è possibile non pensare al gesto di Gesù di lavare i piedi ai discepoli nell’ultima cena, come non è possibile non riferirsi al versetto di Giovanni “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Quel gesto, quella volontà del Signore nei nostri confronti, è ben sottolineata dal versetto iniziale del brano di oggi: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno”. E corrisponde, nella ricostruzione della vicenda del popolo di Israele che esce dall’Egitto, secondo il libro della Sapienza, all’annotazione: “Quella notte fu preannunziata ai nostri padri, perché sapendo a quali promesse avevano creduto, stessero di buon animo”. La fede, che diventa  ‘una colonna di fuoco, come guida in un viaggio sconosciuto’, nel viaggio cioè della nostra vita, sta tutta nella percezione di quel “al Padre vostro è piaciuto”, scoperto in Cristo. In quella volontà assoluta di benevolenza per l’uomo, volontà manifestata in Gesù, sta il segreto della vigilanza evangelica, come anche della fatica apostolica.

A ricordarci che non si tratta di una beatitudine ‘beata’, ma ‘angosciosa’, ‘lavorata’, ‘paziente’, sta l’esempio di Abramo riportato nella seconda lettura. È vero che, se Abramo ha potuto vedere solo di lontano i beni promessi, noi possiamo dire di averli conseguiti, avendoli visti realizzati in Gesù. Ma per noi, come per lui, se la promessa è certa, l’attuazione è precaria. Professare che in Gesù le promesse si compiono non significa ancora che si compiono in verità in noi. Non per nulla le parabole sulla vigilanza parlano della responsabilità dell’agire dei discepoli, con l’insidia dell’illusione sempre alle porte, con l’insidia della durezza di cuore rispetto all’attesa del padrone e al trattamento dei fratelli. L’accento però, nell’esperienza evangelica, non è più posto sulla funzionalità dell’agire (faccio bene per avere una ricompensa) ma sulla qualità della vigilanza (sono così desideroso del mio padrone che mi preoccupo di tutti i suoi servi). È l’attesa di Qualcuno, di Qualcuno che si sveli al mio cuore che informa ormai la qualità dell’agire.

 

 

ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA,     15 agosto

Ap 12,1-10; Sal 44;  1 Cor 15,20-26;  Lc 1,39-56.

 

Cosa proclamiamo nella festa di oggi riguardo alla Madre di Dio? Che è stata assunta alla gloria celeste col suo corpo e con la sua anima e dal Signore esaltata come Regina dell’universo, partecipando in modo singolare alla risurrezione del suo Figlio e anticipando quella che sarà la risurrezione di noi tutti. Della sua morte si dice soltanto che non ha patito la corruzione della tomba. Il nome antico della festa è ‘Dormizione della Vergine’ con l’evidente allusione al mistero del suo transito. Un bellissimo tropario della liturgia bizantina canta: “Nella tua maternità hai conservato la verginità, nella tua dormizione non hai abbandonato il mondo, o Madre di Dio; hai raggiunto la sorgente della Vita, tu che hai concepito il Dio vivente e che con le tue preghiere libererai le nostre anime dalla morte”. E un altro tropario canta: “ Tomba e morte non hanno trattenuto la Madre di Dio, sempre desta con la sua intercessione e immutabile speranza con la sua protezione: quale Madre della vita, alla vita l’ha trasferita colui che nel suo grembo semprevergine aveva preso dimora”.

La liturgia latina, più sobria, mostra in certo modo le ragioni della potenza di intercessione della Vergine, celebrata come Regina del cielo, Regina dell’universo. La dignità speciale della Vergine risiede tutta nella sua divina maternità: ha dato alla luce il Figlio di Dio fattosi figlio dell’uomo. Ora, i doni di Dio sono totalmente gratuiti e questa grazia speciale per lei rivela l’estremo amore di Dio per gli uomini che ha mandato il suo Figlio Unigenito nel mondo perché essi abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza. Ma se è vero che i doni di Dio sono gratuiti, non sono però elargiti a caso. La lode della donna in mezzo alla folla che esalta la mamma di Gesù: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte”, fa rispondere a Gesù: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano”, come proclama il vangelo della vigilia della festa. Il vangelo della festa riprende quella lode e la mette in bocca ad Elisabetta: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore”. Elisabetta proclama beata Maria perché 'ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore" dette a lei. Ascoltare e osservare la Parola non è semplicemente un mettere in pratica quello che Dio dice. E' assai di più. Significa permettere alla promessa di Dio racchiusa nella sua parola di compiersi, di rivelarsi finalmente al cuore e al mondo. Significa acconsentire al desiderio di Dio di compiersi, significa fare in modo che il desiderio che Dio ha di incontrare l'uomo finalmente trovi compimento. Ora, da dove deriva la vita all'uomo se non da un incontro d'amore? Sia in senso fisico, un figlio, sia nel senso di procurare vitalità, gioia di vivere, visione di speranza, forza ed energia. Più questo consenso da parte dell'uomo è totale, più la vita che deriva da Dio è fluente e incontenibile. Vince la morte. Per sempre.

La Vergine è beata perché, avendo accolto la parola di Dio in modo così radicale e totale, ha generato nella sua anima il Verbo di Dio ed ha permesso alle promesse di Dio per i figli degli uomini di compiersi finalmente. E’ la sua fede nella promessa di Dio che permette alla potenza di Dio di rivelarsi, di tradursi in opera, di farsi prossimità di amore per gli uomini nel suo figlio Gesù. E quando lei stessa magnifica il Signore non fa che esaltare la grandezza e la misericordia infinita per gli uomini che si celava nelle promesse di Dio e che in lei si sono compiute. La festa di oggi fa vedere tutto l’arco di sviluppo di quelle promesse in favore degli uomini ed è sempre la Vergine colei che ne mostra il compimento, in attesa che diventino effettive e compiute anche per noi tutti. Ma in questa attesa la Vergine è colei che più di tutti e sopra tutti è la fautrice di quel compimento per ciascuno, intercedendo e proteggendo proprio perché la sua gioia si compia e tutti, come lei ed insieme a lei, possano magnificare i grandi prodigi di Dio.

Nella sua lettera ai Corinzi Paolo ricorda il dato della fede nella risurrezione. Se Cristo non fosse risorto vana sarebbe la nostra fede. E tratteggia tutto il corso della storia fino alla fine del mondo nel senso di una rivelazione progressiva, anche se misteriosa e drammatica, della signoria di Cristo che prevarrà su tutto. Noi siamo nel tempo della sottomissione a Cristo di tutti i nemici di Dio, morte compresa. Il regno di Cristo coincide con la riduzione a nulla di ogni potere della morte. La cosa va vista nel suo 'succedersi' temporale in ciascuno di noi oltre che nella storia. Tutta l'ascesi e la lotta interiore non sono altro che l'espressione di questo 'potere' di Cristo che riduce a nulla il 'potere' della morte che ci assilla e ci impasta. E man mano che questo 'potere' di Cristo prevale, la vita sgorga fluente e incontenibile.

Ora, nella Vergine Maria, tutto questo non è più in fieri, non ha più spazi o dinamiche da conquistare. E' compiuto. E siccome è compiuto, può essere consegnata a Dio Padre, fulgida di tutto lo splendore che la salvezza operata da Dio comporta. Quando i credenti guardano alla Vergine gloriosa, assunta in cielo, non possono non considerarla 'primizia e immagine della Chiesa ... un segno di consolazione e di sicura speranza'. In lei possono magnificare l'amore di Dio per l'uomo, la grandezza della salvezza operata da Dio che anche in noi si dispiegherà a suo tempo, come in lei, che per noi intercede. E a lei rivolti, fiduciosi possiamo pregarla, come le antiche comunità cristiane: "Sotto la tua protezione troviamo rifugio, santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta".

 

 

TO XX, C

Ger 38,4-10; Eb 12,1-4; Lc 12,49-57

 

Il punto focale della liturgia di oggi è costituito dal v. 49 di Luca 12 :"Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!". La luce che si sprigiona da questa parola fa comprendere anche gli altri versetti sulla divisione che Gesù sarebbe venuto a portare e sui segni dei tempi che occorre saper decifrare.

Nei vangeli sono rari i momenti in cui Gesù apre il suo cuore mostrando il suo vissuto interiore. Questa sua frase fa vedere cosa vive dentro di Lui. E' consumato da un fuoco interiore, dal fuoco di quello Spirito di cui era stato mostrato ricolmo al momento del battesimo nel Giordano e in forza del quale si era avviato risoluto a compiere fino in fondo la missione di rivelatore e testimone supremo dell'amore del Padre agli uomini. Lui sa che quel fuoco lo porterà ad un altro battesimo, quello della sua passione e morte e risurrezione, battesimo che otterrà a tutti noi il dono del suo stesso Spirito e che condurrà anche noi ad essere consumati dallo stesso fuoco. Questo fuoco che lo rode dentro è lo stesso che vuole partecipare a noi.

Nel libro del Deuteronomio 4,24 Dio era definito 'fuoco divorante' o, secondo un'altra traduzione 'fuoco divoratore'. La stessa definizione è ripresa dalla lettera agli Ebrei 12,29. Cosa significa?

Una prima spiegazione può essere data da queste parole di Gregorio Magno: "Dio è indicato come fuoco perché da Lui è erosa la ruggine dei peccati. Di questo fuoco la Verità dice: Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e che altro voglio se non che divampi? La terra indica infatti il cuore dei mondani che accumulando in sé senza sosta pensieri malvagi finiscono calpestati dagli spiriti maligni. Il Signore però manda il fuoco sulla terra quando accende col soffio dello Spirito santo il cuore di chi vive secondo la carne. La terra arde quando il cuore di chi vive così, gelido nelle sue voluttà perverse, abbandona le bramosie del secolo presente e divampa nell'amore a Dio" (Omelie sui vangeli, XXX, 5).

E' suggestiva l'immagine del nostro cuore che diventa terra in quanto è calpestato dagli spiriti maligni. La terra calpestata non produce nulla. Il fuoco è come se 'soffiasse' questa terra, la rende di nuovo capace di vita, di accogliere e far fiorire i semi che la parola di Dio vi deporrà.

    Ma c'è un'altra spiegazione che ci introduce più addentro nel mistero del fuoco che è il nostro Dio. Nel vangelo apocrifo di Tommaso si riporta una frase suggestiva che antichi Padri ed esegeti moderni pensano essere propria di Gesù: "Chi è vicino a me, è vicino al fuoco e chi è lontano da me, è lontano dal regno". La spiegazione è data da Origene. L'uomo che, dopo il battesimo, torna a peccare, per essere purificato, deve avvicinarsi a Gesù, il cui amore tormenta il cuore dell'uomo fino a sciogliere con l'ardore del suo fuoco tutto ciò che lo oppone a Lui e ai suoi fratelli. Ma se l'uomo, con il suo peccato, chiuso nella sua vergogna o, per meglio dire, nella sua presunzione, sta lontano da Gesù, allora per lui il Regno risulta inaccessibile e non troverà né libertà né vita.

    Ma c'è ancora un'ulteriore spiegazione. Quando i due discepoli, in cammino verso Emmaus, incontrano Gesù risorto non dicono Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture? ” (Lc 24,32) ? Ed il profeta Geremia, sedotto dal'incontro con il suo Signore, non dice forse "Mi dicevo: “Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome! ”. Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo" (Ger 20,9) ? Anche di questo tipo è il fuoco del nostro Dio. E questo ci aiuta a comprendere più a fondo il fatto che del fuoco di Dio si dice che è 'divorante', 'divoratore'. Dio è geloso, non sopporta di essere preso soltanto in parte, di essere preso in 'coabitazione' con altri. Il fuoco di Dio è divoratore delle divisioni del nostro cuore, divisioni che causano dispersione, duplicità, menzogna, chiusure e quant'altro c'è di cattivo nel cuore che gli impediscono di essere tutto unito e compatto, teso ad un unico desiderio, capace di essere solidale con il suo Dio e con i suoi fratelli, con ogni energia libera per essere impiegata a tale scopo. Il cuore si unifica col fuoco: questa è la verità. E soprattutto questa è la verità del nostro Dio. Lo sperimentiamo anche nella vita psicologica e affettiva: quanto più una passione è forte, più tende a compattare tutto il nostro cuore. Con la differenza che se il cuore si compatta per un desiderio che non sia rappresentativo della totalità e profondità delle nostre aspirazioni più vere, cadrà vittima di quel desiderio e risulterà coartato. Alla fine si sentirà disperso e vuoto.

    Ma tutto questo esige un contraccolpo. Ed è quello che dice Gesù: "Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione" (v. 51). Se il fuoco di Dio distrugge le divisioni nel nostro cuore, allora vuol dire che il cuore non deve più temere le altre divisioni, sebbene dolorose e non volute. Non è possibile tenere insieme tutto. E il cuore deve sentire che, per restare compatto in ciò che ha di più essenziale, non può disperdere tale compattezza in ciò che risulta meno essenziale o addirittura occasionale. E' un discorso duro e non per nulla Gesù parla anche di essere venuto a portare la spada, simbolo appunto delle divisioni. Ma è inevitabile. E' la legge dell'amore, del fuoco che arde dentro. Solo l'esperienza ci farà capire fino in fondo che solo così viene salvaguardata la libertà e la gratuità dell'amore. Come a dire: la carità non equivale ad una buona intesa; è disposizione al martirio. Lo è stato per Gesù, lo sarà di noi. Ed è una legge di vita. Anzi, la divisione che sembrerà opporti agli altri non è che l'esplicitazione della disponibilità al sacrificio, per amore degli altri, ormai partecipi del mistero della carità divina, del fuoco divino. E anche ogni amore umano degno di questo nome resta attizzato da una scintilla di questo fuoco divino.

    La stessa cosa vale per il riconoscimento dei segni dei tempi. Non si tratta tanto di discernere dove va la nostra storia, del resto imprevedibile, ma di scoprire la parte di storia sacra nella nostra storia personale. Discernere i segni dei tempi significa scoprire l'azione di Dio nella nostra storia. E se siamo lambiti da quel fuoco divino, come non discernere che ogni evento può essere vissuto come introduzione al Regno, come apertura del Regno?

 

TO XXI, C

Is 66,18-21; Eb 12,5-13; Lc 13,22-30

 

Sembra che il Signore disattenda molte domande degli uomini. Abbiamo letto nel vangelo: “Un tale gli chiese: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?”. Leggiamo negli Atti 1,6  “Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele? ”. Oppure, anche l'altra: “Chi è il mio prossimo?” (Lc 10,29) o ancora, di Pietro a Gesù: “Signore, e lui?” (Gv 21,21). Il fatto è che facciamo spesso domande inutili, devianti, illusorie. Ma il Signore è sempre pronto a ricondurci alla verità del cuore, alla verità del suo insegnamento, alla verità semplicemente.

            Parto dall’espressione finale del brano del vangelo di oggi: “Ed ecco, ci sono alcuni tra gli ultimi che saranno primi e alcuni tra i primi che saranno ultimi”. Se Gesù non risponde a domande mal poste, nemmeno noi dobbiamo cercare di comprendere le sue risposte a partire dalle nostre domande mal poste. L’espressione non si riferisce dunque ai pochi o ai tanti che si salvano né pretende far sapere chi siano i preferiti. Si riferisce invece al fatto che davanti all’offerta di salvezza da parte di Dio non c’è distinzione di persone; tutti siamo ugualmente destinatari di quell’offerta e guai a chi ritiene di avere un titolo speciale da avanzare perché non verrà riconosciuto. In primo piano, all’inizio della nostra storia come alla fine, davanti a me come davanti a tutti, ora e sempre, è lo sconfinato amore di benevolenza di Dio che vuole che ciascuno e tutti siano salvi. Chi si concepisce in riferimento ad altro si condanna. L’espressione è anche da mettere in riferimento alla prima risposta di Gesù: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta”. Se è inutile indagare sul numero degli eletti, se non può valere alcun titolo di pretesa o di rivendicazione, l’unica cosa da sapere è per dove passare e ottenere la salvezza.

            Due sono allora gli elementi da considerare nella risposta di Gesù: il movimento e il punto di passaggio. Lo ‘sforzatevi’ allude a quello che poi s. Paolo chiamerà il combattimento della fede, a quello che i nostri padri chiameranno la lotta spirituale, la battaglia dello spirito. Senza questa ‘tensione’ interiore non si arriva a nulla, non si porta nulla a compimento. Ma di quale compimento in realtà si tratta? Della nostra ‘nascita dall’alto’, per il dono dello Spirito, fino a poter dire con Paolo: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me”  (Gal 2,20). E’ la nascita al Regno, descritto da Gesù come un banchetto, per sottolineare il mistero della pienezza e dell’intimità dell’amore che hanno conquistato il cuore. L’immagine ha una valenza escatologica, non tanto però per indicare quello che avverrà alla fine dei tempi, ma per mostrare che quella ‘fine’ dei tempi è venuta a visitare il cuore e a far assaporare la densità dei misteri di Dio. L’altro elemento è il punto di passaggio, la porta stretta. Quella ‘tensione’ interiore si rivela in tutta la sua potenza proprio nel punto di passaggio che permette l’accesso al regno. E il punto di passaggio non può essere che lo stesso Signore Gesù. Lui è la porta stretta attraverso la quale dobbiamo passare. E’ detta stretta perché ha la preferenza di Dio e non nostra, perché esprime la sapienza che viene dall’alto che è contraria alla sapienza del mondo di cui siamo impastati, rivela il sentire di Dio che si oppone al sentire della nostra carne. Ma è una strettezza che prelude al passaggio della vita, proprio come per un bambino che, per nascere, deve passare per la porta stretta. E non per nulla in Gesù si parla di nuova nascita perché soltanto a partire di lì scopriamo il nostro essere secondo quell’abbondanza di vita alla quale aneliamo sconfinatamente.

            Il luogo di passaggio è indicato anche dal profeta Isaia, sebbene velatamente, là dove dice:”con le loro opere e i loro propositi. Io verrò a radunare tutti i popoli e tutte le lingue”, reso invece, secondo un’altra traduzione: “Io sarò i loro atti e i loro pensieri…”, “Sono io che motiverò i loro atti e i loro pensieri…”, intendendo: quando Dio diventa la fonte di ogni nostro atto e di ogni nostro pensiero, saremo passati attraverso quella porta stretta che conduce al regno della vita. E la strettezza, almeno per il nostro uomo esteriore, è descritta sempre dal profeta così: “Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito, su chi teme la mia parola” (Is 66,2). Ma scegliere l’umiltà ed il cuore contrito significa scegliere il Signore Gesù, che di sé dice: “Venite a me voi tutti che siete affaticati ed oppressi e io vi ristorerò. Imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime” (Mt 11,28-29).

 

TO XXII, C

Sir 3,17-29;  Sal 67; Eb 12,18-24;  Lc 14,1.7-14.

 

            Un invito a pranzo permette a Gesù di aprire orizzonti insospettati per i suoi ospiti. La liturgia fa presagire il clima ‘misterioso’ di quel banchetto introducendo il brano con il canto al vangelo: “Il Signore mi ha mandato ad annunziare ai poveri la buona novella, a proclamare ai prigionieri la liberazione”. L’uditorio in realtà è particolare: sono tutte persone ragguardevoli, con una certa importanza, persone che - annota l’evangelista – lo stavano ad osservare. E a giudicare dall’intervento di uno di loro, lo stavano ad osservare a cuore aperto. Ad un certo punto, un commensale, colpito dalle parole o dal modo di parlare di Gesù, esclama apertamente: “Beato chi mangerà il pane nel regno di Dio!”. Quello che Gesù diceva agli invitati e al suo ospite di riguardo l’aveva indotto a sognare il banchetto messianico. Gesù, rispondendo con la parabola del banchetto disertato dagli invitati e offerto invece ai poveri raccolti dentro e fuori la città, ad indicare Israele e le nazioni pagane, svela il mistero dell’agire di Dio, che costituisce il criterio di riferimento per comprendere le parole dette prima. Così, per cogliere il senso vero del brano proclamato oggi dalla liturgia, cioè Lc 14,7-14, bisognerebbe leggerlo fino al v. 24.

            È appunto il riferimento al banchetto messianico che apre la comprensione del brano. Le parole di Gesù: “Quando sei invitato a nozze da qualcuno non metterti al primo posto …”; “Quando offri un pranzo non invitare i tuoi amici …invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti”, vanno comprese in quell’ottica, sulla base del principio: “chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”. Ma dove sta il valore dell’umiltà? Perché l’umiltà è così determinante agli occhi di Dio? Perché l’umiltà ottiene quello che la grandezza solamente sogna? Due sono i passaggi da notare: primo, in rapporto all’agire dell’uomo e secondo, in rapporto all’agire di Dio. Consideriamo l’agire dell’uomo. In rapporto a chi si pone colui che, invitato, cerca i primi posti? In rapporto all’ospite che l’ha invitato o agli altri commensali? Evidentemente, cerca i primi posti per distinguersi dagli altri, per far valere la sua importanza. Ma così facendo non cerca più l’intimità col padrone di casa che l’ha invitato, motivo vero dell’onore di fronte ai commensali. Così, chi dà un pranzo ai suoi amici, ai suoi pari, non va oltre l’interesse di ricevere altrettanto e sempre nell’ordine di un riconoscimento, esibito e ricercato, di una qualche grandezza condivisa. Il di più della vita va perso, perché non si coglie quello che è in gioco. Solo l’umiltà fa intravedere la posta in gioco della vita. E l’umiltà non consiste nel farsi piccolo per essere riconosciuto poi (sarebbe una furbizia raffinata!), ma piuttosto nel vedere così grande l’invito alla vita da non sentirsene degno. Non mi faccio piccolo ora per essere esaltato dopo, ma sono piccolo perché troppo grande è il dono ricevuto. Più mi sento piccolo, più vuol dire che colgo la grandezza di colui che mi invita. E’ questo l’atteggiamento che apre le porte dei cieli, che attira all’anima i doni celesti, i doni della vita in abbondanza, di cui il banchetto è l’immagine. Quando la vita non è più giocata nel confronto, di nessun tipo, con gli altri e sugli altri, allora vuol dire che il cuore sta saldo nell’intimità con Colui che gliel’ha data, ne percepisce il mistero e si sente piccolo, tanto piccolo. A quella ‘piccolezza’ è aperto il Regno. Di quella piccolezza sono beati coloro che siedono alla mensa di Dio.

La cosa è vera perché corrisponde all’agire di Dio. Dio è tanto grande (nella sua misericordia) che non ha bisogno di elevarsi al di sopra di nessuno, ma la sua grandezza si gioca nell’accondiscendenza verso tutti, nell’offrire a tutti la sua mensa senza che alcuno abbia titolo a qualcosa. Se Gesù esorta il suo ospite a invitare poveri, zoppi, storpi e ciechi è perché Dio fa lo stesso. ‘Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro’… La ragione risiede nella coscienza che davanti a Dio nessuno gode di qualche titolo particolare di rivendicazione, ma tutto dipende dal dono supremo suo, offerto a tutti. La beatitudine deriva proprio dal fatto di godere della sua offerta senza averne titolo e dal fatto di solidarizzare con tutti perché tutti raggiunti dalla stessa offerta.

            E la beatitudine è compresa nei termini che annuncia il brano del Siracide, sebbene occorrerebbe leggerlo secondo l’aggiunta di alcuni manoscritti greci e dell’ebraico che, dopo il versetto: “Quanto più sei grande, tanto più umìliati, così troverai grazia davanti al Signore” proclamano: “Molti sono alteri e gloriosi, ma i suoi segreti li rivela agli umili, poiché grande è la misericordia di Dio, agli umili svela il suo segreto”. E’ il segreto di quella ‘compiacenza’ di Dio per i poveri ed i peccatori che siamo, svelata da Gesù e presagita da quel commensale, perché davanti a Lui non vale distinzione di persona: vale solo il suo amore per noi, la sua misericordia. E se l’uomo si attarda ancora a considerare la distinzione delle persone, rivendicando per sé o esibendo davanti agli altri titoli particolari di dignità, non ha ancora conosciuto l’intimità dell’amore di Dio e può perfino rifiutare l’offerta di Dio. E chi non conosce l’intimità dell’amore di Dio non può ancora dirsi umile. Il superbo è sempre indaffarato in sogni di grandezza che persegue nel confronto con gli altri e non si accorge dell’onore che gli è fatto dalla benevolenza di Dio che a lui si appressa. I sogni di grandezza dell’uomo trovano però compimento solo nei segreti di Dio, che sono svelati agli umili.

Così la preghiera pressante che scaturisce dalla liturgia di oggi non è quella di apprendere la virtù dell’umiltà, come fosse una tra altre, ma quella di imparare a percepire così intensamente la grandezza del mistero di Dio, che in Gesù si accompagna a noi, da disprezzare ogni altra cosa, specie ogni altra nostra grandezza. La conseguenza strana, ma salutarmente evangelica, di tale atteggiamento è che meno ci si preoccupa della propria grandezza, più ci sta a cuore la grandezza di tutti. Perché questi è il giusto: colui che sta contento dei doni di Dio a tutti, colui che si rallegra della gioia di Dio per i poveri e i peccatori, ai quali appunto è stato inviato il Salvatore.

 

 

TO XXIII, C2

Sap 9,13-18;  Sal 89;  Fm 9-17;  Lc 14,25-33

 

Gesù affascina ma non inganna. Le parole del brano di oggi sono inequivocabili: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo”. La liturgia, con il salmo 89, fa pregare: ‘Donaci, o Dio, la sapienza del cuore’, mentre la prima lettura riporta la solenne preghiera di Salomone per ottenere la sapienza.

Emerge allora la domanda: può l’uomo accogliere le parole di Gesù senza che la sapienza dall’alto abbia raggiunto il suo cuore? Perché la sapienza che viene dall’alto comporta proprio l’apertura del cuore al mistero di quel Figlio di Dio che rivela lo splendore dell’amore del Padre per gli uomini. Se il cuore non intravede quello splendore, tutto risulta sbarrato, ostico. Da notare che la sapienza, avendo presieduto alla stessa creazione, conosce i misteri delle creature perché conosce i pensieri di Dio. Così, quando Gesù annuncia la grazia del suo vangelo, non scavalca la natura, ma ne rivela il compimento. Gesù è la verità da parte di Dio (= rivela il vero volto di Dio) e da parte dell’uomo (= conosce il desiderio dell’uomo e ne assicura il compimento). Perché allora il suo parlare, come nel brano di oggi, suona tanto ostico alla nostra natura? Qui si cela il dramma e la gloria dell’uomo: l’uomo desidera il bene, ma non ha in sé il criterio di discernimento del bene. Nessuno, che sia sano di mente, sosterrà che non siano buoni gli affetti familiari (tra l’altro, oggetto di comandamenti precisi!); ma chi può sostenere che gli affetti familiari siano sempre e comunque buoni? “Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono” (Mt 19,17) ebbe a dire Gesù. Gli affetti naturali vanno giudicati in rapporto a quella vocazione all’umanità che è il destino della vita, ma la vocazione all’umanità è definita sullo splendore dell’amore di Dio per gli uomini, manifestato in Gesù. Così, quando Gesù parla di preferire l’essere suo discepolo agli affetti naturali, intende rivelare che la radice della vita è nell’amore di Dio che fa da criterio di discernimento a ogni altra cosa. La cosa non è scontata però per il cuore dell’uomo; comporta una specie di ‘morte a se stessi’ per vivere se stessi in modo pieno. Portare la croce significa morire al mondo per accedere per davvero alla dimensione della fede, diventata radice di vita, in Gesù. La sapienza che viene dall’alto ci è necessaria continuamente per operare questo passaggio, perché conoscere i pensieri di Dio comporta sempre scoprire le radici della vita. E questo è il motivo per cui la ‘scoperta’ della sapienza, del ‘tesoro’ nascosto nel campo, comporta sempre un’intima letizia, letizia che ti abilita a vendere, a lasciare tutto il resto.

In effetti, il brano di oggi termina con l’affermazione: “Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. Delle tre caratteristiche che contraddistinguono il discepolo di Cristo secondo l’evangelista Luca, questa è la prima: il discepolo perfetto rinuncia a tutti i suoi averi (le altre due sono: il discepolo perfetto perdona condividendo la gratuità dell’amore misericordioso di Dio e resta fedele nelle prove, vivendo nella pazienza la pace sperimentata). Gli averi sono tutto ciò che sostenta la vita, beni e affetti, che non sono più vissuti a partire da se stessi, ma nella più totale confidenza con Colui che ne è il Dispensatore. Sottrarre confidenza ai beni significa godere della confidenza nella vita. Non è immediata la costatazione, ma risulta vera: facendo confidenza sui beni, si perde confidenza con la vita; guadagnando confidenza con la vita, si godono i beni. La vita però è quella che Gesù rivela e promette al suo discepolo; è quella che Lui stesso vive e che comunica al suo discepolo; è quella che proviene dal vivere il compimento della vocazione all’umanità che in Lui acquista tutto il suo splendore perché a Dio rimanda e da Dio prende vigore. La sapienza che domandiamo conduce là.

E se è vero che la sapienza fa capolino nel cuore quando ci accorgiamo che non siamo eterni e che passiamo presto, come dice il salmo, può però entrare nel cuore quando risuonano vere per noi le parole: “si manifesti ai tuoi servi la tua opera e la tua gloria ai loro figli”, frase che acquista tutto il suo significato davanti a Gesù, riconosciuto come lo splendore dell’amore del Padre per gli uomini. Alla visione della fede, nel mistero dell’obbedienza, si accorda la sapienza, come suggerisce s. Francesco di Assisi nella sua terza ammonizione: “Dice il Signore nel Vangelo: Chi non avrà rinunciato a tutto ciò che possiede non può essere mio discepolo (Lc 14,33); e: Chi vorrà salvare la sua anima, la perderà (Mt 16,25). Abbandona tutto quello che possiede e perde il suo corpo e la sua anima l’uomo che totalmente si affida all’obbedienza nelle mani del suo superiore, e qualunque cosa fa o dice e che egli stesso sa che non è contro la volontà di lui, purché sia bene quello che fa, è vera obbedienza”. Affidarsi all’obbedienza significa vivere della visione della fede, in quella ‘compagnia’ di vita con Colui di cui abbiamo imparato a riconoscere l’amore salvatore e di cui finalmente ci fidiamo perdutamente.

 

TO XXIV, C2

Es 32,7-14; Sal 50; 1 Tm 1,12-17;  Lc 15,1-32

 

 

Oggi viene proclamato il capitolo 15 di Luca, il vangelo della misericordia in parabole. Le parabole della pecorella smarrita e del padre misericordioso che si rallegra del ritorno del figlio prodigo sono forse tra quelle che più hanno segnato l’immaginario interiore cristiano. In esse la coscienza cristiana ha colto qualcosa di potente dell’assoluta verità di Dio. È evidente che Gesù, con queste parabole, vuol rispondere alle critiche dei farisei sulla sua condotta: «Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: "Costui riceve i peccatori e mangia con loro"». Non si tratta però tanto di giustificare la condotta di Dio verso gli uomini, ma di svelare il mistero della sua Persona, il mistero del suo cuore, sul quale è modellato il mistero anche del nostro cuore.

La liturgia ci introduce in quel mistero con due annotazioni particolari. Il canto al vangelo, riprendendo due versetti della prima lettera di Giovanni (4,16 e 3,20), annuncia sicuro: “Noi abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per noi: se il nostro cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa”. Annuncio, che va abbinato alla supplica della preghiera dopo la comunione: “La potenza di questo sacramento, o Padre, ci pervada corpo e anima, perché non prevalga in noi il nostro sentimento, ma l’azione del tuo santo Spirito”.

I due versetti della lettera di Giovanni sono parole potenti, che fanno intuire la differenza tra una conoscenza per sentito dire e una conoscenza diretta, tra una benedizione solo attesa o rivendicata e una benedizione goduta. Tutta la lettera come del resto tutto il suo vangelo è un inno “all'amore che Dio ha per noi”, ma la sfumatura di significato è la seguente: noi, che abbiamo accolto il Figlio che ci ha rivelato l’amore del Padre, godiamo del suo amore che è diventato in noi radice di dignità e di vita. L’amore di cui parla Giovanni è sempre da mettere in relazione con la conoscenza del Figlio, il quale ci fa vivere per averci infuso il suo amore. È per questo che, per quanto il nostro cuore si ritrovi come schiacciato dai peccati e fatichi a ritrovare la sua dignità, l’amore di Dio, in Gesù, lo sopravanza, lo sovrasta e lo ingloba. Quando la Chiesa supplica il Padre, alla fine della messa, perché in noi non prevalga il nostro sentimento, ma l’azione del suo Spirito, allude proprio a questo mistero dell’amore di Dio che ingloba il nostro cuore, allude alla fede nel suo amore che non si tiene lontano da noi peccatori, ma ci viene a cercare con immensa tenerezza fino a conquistarci.

            Le parabole esemplificano la dinamica tipica dell’amore di Dio che vince ogni resistenza e del presunto giusto e del peccatore perduto. Ciò che le parabole sottolineano, come la ragione convincente per il nostro cuore della fiducia che merita l’amore di Dio, è una cosa sola: la letizia di Dio nel suo essere misericordioso. Gesù non si cura degli angeli (le 99 pecore al sicuro) ma va in cerca dell’uomo peccatore e la sua letizia sta proprio nella compagnia dell’uomo che ha ritrovato tanto da condividerla con gli angeli. Il padre della parabola esprime la sua gioia nel veder il figlio prodigo ritornare al quale fa festa e il desiderio di condividerla con il figlio maggiore. Il mistero a cui alludono queste parabole è l’eterno, solidale, amore di Dio per l’uomo, amore che non può non essere amore di misericordia perché l’uomo si è perso. Su quell’amore è costruito l’universo, in quell’amore consiste la gioia di Dio e non in altro.

            Ne scaturisce una conseguenza ‘terribile’ per la nostra coscienza. Qual è la giustizia gradita davanti a Dio? Qual è il criterio della rettitudine? Il principio di rettitudine è la condivisione dei sentimenti di Dio, è la condivisione della sua letizia nell’amore agli uomini. Come riporta la prima lettura, la grandezza di Mosè come intercessore sta tutta qui. È vero, come dice Gesù: "Dio può far nascere figli ad Abramo anche dalle pietre" (cfr. Lc 3,8). Dio lo proclama a Mosé: “Ho osservato questo popolo e ho visto che è un popolo dalla dura cervice. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li distrugga. Di te invece farò una grande nazione” (Es 32,9-10). Come a dire: è vero che siamo degni di ira, che Dio può far nascere altri figli perfino dalle pietre, ma è ancora più vero che, per quanto indegni e ribelli, i figli che Dio preferisce sono quelli in carne ed ossa, quelli che siamo, che rimprovera ma di cui continua ad avere premura. Qualcuno, però, come Mosè, ha interceduto e Dio ha abbandonato il proposito di nuocere al suo popolo (cfr. Es 32,14). Sembra paradossale che sia Mosè a ricordare a Dio i segreti del Suo cuore! Gesù, morto e risorto per noi, è il sigillo ultimativo di quella Volontà. Così, per noi, si tratta solo di 'riconoscere' e 'credere' a questo amore di Dio che viene a cercarci, ad usarci premura, a fare dono di Sè a noi, a perdonarci, noi, la sua gioia! Spesso, però, il nostro cuore, irretito nelle illusioni del peccato, è più aspro di quello di Dio; crede di salvare una specie di nobiltà teorica condannandosi, rinchiudendosi in una condanna sfiduciata. Allora è il momento di ricordare al nostro cuore che Dio è più grande e se il cuore lo riconosce esce dalla sua solitudine, si umilia e ritrova speranza, perché può consegnarsi fiducioso a quell'amore di misericordia di cui le tre parabole di oggi illustrano il mistero e la tipica realtà di cui siamo invitati a fare esperienza.

 

TO XXV, C2

Am 8,4-7; 1 Tm 2,1-8; Lc 16,1-13

 

Il brano di vangelo odierno, quello dell'amministratore disonesto, lodato dal padrone, sembra a prima vista comportare un messaggio ambiguo. Gesù inviterebbe alla disonestà? Evidentemente, la parabola, raccontata ai discepoli, più volte paragonati nel vangelo ad amministratori, punta ad altro. Ma a che cosa? Fermiamoci sulla lode del padrone:  “Il padrone lodò quell' amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza”. La lode verte sul fatto che è stato scaltro, accorto. Sicuramente non si trattava di un amministratore imbecille, se era stato capace di quel comportamento; piuttosto, era stato avido e l’avidità gli aveva fatto perdere il posto. Se paragoniamo questa parabola a quella del possidente straricco (Lc 12,16-21) ci accorgiamo subito della differenza tra i due: il primo è accorto, il secondo stolto; il primo riesce a organizzarsi secondo i suoi interessi, il secondo vaneggia. Per ambedue la domanda decisiva è la medesima: cosa fare? Mentre lo stolto fantastica, l’accorto dispone. La loro azione si gioca in rapporto al futuro: mentre il primo si immagina cosa fare e resta chiuso in se stesso, il secondo sa cosa deve fare e si apre agli altri. Il punto allora è esattamente questo: ‘sapere cosa fare’ in rapporto al futuro.

La parola di Gesù illustra proprio quel ‘saper cosa fare’ in rapporto alla propria vita. In gioco è l’uso dei beni di questo mondo per ottenere vita piena. Il padrone della parabola è Dio che affida i suoi beni a noi come amministratori, ai quali a suo tempo chiederà conto. Se nessuno di noi è proprietario a titolo assoluto dei beni che usa temporaneamente, la prima conseguenza sarà quella di possederli senza che essi possiedano noi. L’avido, che consacra la sua vita ai beni, scava un fossato incolmabile tra lui e la felicità. Volendo però la felicità, l’accortezza consisterà allora nell’invertire la dinamica perversa che si era instaurata: invece di consacrare la vita ai beni, consacrerà i beni alla vita e ciò avverrà nella condivisione con tutti. In particolare, la scaltrezza si giocherà nel fatto che, non potendo rabbonire direttamente il padrone perché il nostro ammanco sarà risultato insolubile, si cercherà di carpire la sua lode con il condonare i debiti ai fratelli. La parabola può essere letta come un’illustrazione della richiesta del Padre Nostro: ‘rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’.

A questo punto si aprono nuovi livelli di comprensione della parabola, ulteriormente spiegata dalle parole di Gesù sulla distinzione tra ‘proprio’ e ‘altrui’, tra ‘molto’ e ‘poco’. Si tratta di ‘comprare’ ciò che è nostro con ciò che non è nostro; di ottenere il molto con il poco. Tutto ciò che usiamo in questo mondo non è nostro, non ci appartiene; non solo, ma non ha nemmeno importanza seria rispetto a quello che davvero cerchiamo e dunque è calcolato come poco. Eppure, non abbiamo altra possibilità di arrivare a ciò che è nostro se non attraverso le cose non nostre, a patto che le usiamo senza esserne usati, che le condividiamo con tutti e che le godiamo insieme. E che cosa è nostro? Cirillo di Alessandria definisce nostro ‘la santa e mirabile bellezza che Dio forma nelle anime delle persone, rendendole simili a se stesso, in accordo con ciò che eravamo in origine’. Questo è il molto, quello che ci definisce, quello che ci struttura. È nostro l’essere ‘figli dell’Altissimo’, è nostra quella ‘somiglianza’ con il Signore Gesù che è venuto a ristabilire.

Non per nulla il canto al vangelo introduce questa parabola con la citazione di 2Cor 8,9: “Gesù Cristo, da ricco che era, si fece povero, per arricchire noi con la sua povertà”, da raccordare all’altro passo di Fil 2,5-8: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce”. Condividere i beni con i poveri, stare solidali con l’umanità di tutti significa portare a compimento quella vocazione all’umanità che ci appartiene in proprio come figli dell’Altissimo, resi tali da quel Signore Gesù che ha scelto di stare solidale con gli uomini perché gli uomini potessero tornare a godere della comunione con Dio, il loro ‘vero Bene’. Ed è caratteristico che l’espressione di Paolo, riportata dal canto al vangelo, segua l’invito dell’apostolo ai Corinzi a partecipare alla colletta organizzata per la Chiesa di Gerusalemme, non solo perché si stabilisca una certa uguaglianza tra ricchi e poveri, ma soprattutto perché si renda visibile nei frutti della carità la riconciliazione, operata dal Signore Gesù, dell’umanità con Dio, simboleggiata dall’unità nell’unica famiglia di Dio di ebrei e pagani.

Un’ultima osservazione sull’espressione dell’amministratore disonesto lodato. Il suo dire: ‘so che cosa fare’ equivale all’affermazione di Giovanni: “Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell' amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1Gv 4,16). E si contrappone all’espressione che Gesù indirizza al Padre sulla croce a proposito dei suoi crocifissori: ‘non sanno quello che fanno’ (Lc 23,34).

TO XXVI, C2

Am 6,1-7; 1 Tm 6,11-16; Lc 16,19-31.

 

Tutto l’insegnamento di Gesù nel capitolo 16 di Luca riguarda il buon uso delle ricchezze. La parabola di oggi illustra in negativo quello che la parabola dell’amministratore disonesto illustrava in positivo: “Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand' essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne”. Possiamo leggere la parabola a tre livelli:

1) la storia è narrata in chiave speculare a suggerire il ribaltamento delle situazioni. Qui il ricco gode e il povero soffre, ma lassù il povero godrà e il ricco soffrirà. Come qui il povero chiede pietà al ricco ma non la trova, lassù il ricco chiederà pietà ma non la troverà. Quell’abisso che si era stabilito in vita tra il ricco e il povero, ricomparirà, ormai definitivo, tra il povero e il ricco. Come qui il povero ha bisogno del ricco, lassù il ricco avrà bisogno del povero. Il ribaltamento delle situazioni allude al giudizio di Dio che toglierà ogni illusione. Si tratta dell’illusione della ricchezza come garanzia di vita.

Evidentemente, in gioco non è affatto la condanna delle ricchezze e l’esaltazione della povertà. In gioco è la solidarietà nella vita per garantirsi insieme la felicità, donata da Dio ai suoi figli che condividono i suoi sentimenti, i suoi giudizi. Se il ricco è ricco di beni materiali, dovrà arricchirsi presso Dio con il condividerli con i poveri, perché presso Dio la sua ricchezza sarà costituita dai poveri che intercederanno per lui. È come dire che la vita si gioca nell’amore e l’amore risulterà dalla dignità di tutti, custodita e favorita con ogni mezzo.

Se Gesù rivela in questa parabola il giudizio di Dio sull’uomo, intende far conoscere il pensiero di Dio all’uomo perché questi si muova in conseguenza. La forza del racconto non sta nel deterrente di paura (il racconto usa toni pacati e familiari) ma nello svelamento del segreto della vita. In gioco è la fede nel Salvatore che ‘convince’ alla fraternità nella comunione col proprio Dio.

2) la parabola, con particolari precisi, illustra la posta in gioco nella vita e il modo di giocarla bene. Ci sono come dei punti nevralgici nel racconto che ci aprono gli occhi. È sintomatico che il ricco non porti nessun nome, mentre il povero è chiamato Lazzaro, che significa ‘Dio aiuta’. Senza Dio l’uomo si confonde con ciò di cui si serve e che finisce per servire. Non dice il profeta: “Maledetto l' uomo che confida nell' uomo, che pone nella carne il suo sostegno e il cui cuore si allontana dal Signore” (Ger 17,5)? Voler avere la vita dalla ricchezza comporta dimenticare Dio e misconoscere il fratello. Il ricco non è presentato come cattivo, ma più semplicemente e più drammaticamente come uno che nemmeno s'accorge del povero tanto vive nella sua illusione. A tale riguardo, la prima lettura del profeta Amos celebra l'intervento di Dio nella storia come il sopraggiungere del disincanto, come la cessazione dell'illusione. Quella classe nobile che sperperava allegramente i beni del popolo senza curarsi del suo bene verrà spazzata via: la potenza assira conquisterà Israele e tutti saranno ridotti in schiavitù.

Lazzaro, nel paradiso, è descritto con l’immagine del banchetto messianico, nel posto d’onore, a fianco di Abramo. La scena corrisponde al banchetto dell’ultima Cena con Gesù e Giovanni al suo fianco che può reclinarsi sul suo petto. È la traduzione in immagine dell’affermazione: gli ultimi sono i primi.

Ma il particolare che, secondo me, è assolutamente rivelativo è la descrizione del ricco negli inferi che ‘alzò gli occhi e vide’. Non aveva mai ‘alzato’ gli occhi durante la sua vita e perciò non aveva mai ‘visto’ nulla di vero. Esprime lo stesso sentimento del figlio prodigo quando, ormai disilluso, incomincia a vedere la verità della vita: “allora rientrò in se stesso e disse…” (Lc 15,17). Questo particolare esprime il movimento del cuore che prelude al riconoscimento della verità della vita. Quello che viene indicato avvenire là nell’inferno, nel giudizio della parabola, è proprio quello che ci si esorta ad assumere adesso nella nostra vita.

3) Le parole conclusive della parabola lasciano intravedere allusioni misteriose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi”. Lazzaro, fratello di Marta e Maria, sarà poi risuscitato da Gesù, ma il miracolo non risulterà convincente per coloro che erano ostili verso Gesù. Gesù stesso risusciterà, ma di per sé nemmeno questo convincerà. Occorre prima dar credito alla parola di Dio, alla promessa di Dio celata nella sua parola. Declinerei in due tempi la portata di questa affermazione:

a) Dio non si può vedere direttamente. A Lui ci si può aprire accogliendo la sua parola e avendo cura del povero. Non basta però condividere i propri beni; occorre anche aver premura del povero, perché è quella premura che rende preziosa e amabile la condivisione, che risulta così essere segno della fede in Dio, che vuole felici i suoi figli.

b)non si può cogliere la portata del mistero di Gesù, compimento della promessa di Dio per l’umanità, se non riferendosi a tutte le parole della Scrittura, perché tutte di Lui parlano. Da interpretare nel senso dell’espressione di Paolo a Timoteo: “ti scongiuro di conservare senza macchia e irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo…” . Ogni parola va custodita e accolta, integra e viva, perché praticandola ci sveli il volto del Signore che si è fatto nostro prossimo, vicino a noi e raggiungibile nel nostro vicino.

 

DOMENICA XXVII, ANNO C

    Ab 1,2-3; 2,2-4 // 2 Tm 1,6-14  //  Lc 17,5-10

 

Il tema della liturgia di oggi è la fede. Il brano di vangelo ci presenta una serie di insegnamenti di Gesù che a prima vista sembrano assortiti, ma a ben guardare tutti ruotano sulla fede. 

Gli apostoli dissero al Signore: “Aumenta la nostra fede! ”. Non è una richiesta in generale. La circostanza precisa, a partire dalla quale scaturisce la richiesta degli apostoli, è data dai versetti precedenti:  "Se un tuo fratello pecca, rimproveralo; ma se si pente, perdonagli. E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice: Mi pento, tu gli perdonerai”. Così tanto, in modo così nuovo Gesù aveva insistito nella sua predicazione su questo comando divino: 'tu gli perdonerai'! E' alla portata dell'uomo perdonare la prima, la seconda, forse anche la terza volta ad un suo fratello, ma perdonare indefinitivamente, sempre, non appartiene al cuore dell'uomo. Eppure il cuore dell'uomo sa e sente che non può riacquistare l'innocenza perduta se non nella riconciliazione, nel perdono offerto e ricevuto, costantemente. Qui si radica l'esperienza di Dio per ogni cuore: ognuno sente che non potrà avere accesso all'Amato a meno che Lui stesso apra le porte del Suo cuore; che non riuscirà credibile nell'offerta del suo amore se l'amore dell'Altro non lo accoglie prima, non gli riverserà in grembo quella tenerezza che non guarda a meriti o a diritti perché diversamente ci sentiremmo eternamente condannati alla solitudine. L'unica cosa che ci viene richiesta è la schiettezza, il riconoscimento del nostro peccato, la non giustificazione davanti ai nostri peccati, tutti atteggiamenti che rivelano quanto il nostro cuore non ha più paura di Dio. Non ci si illuda: il compito del perdonare, del vivere da riconciliati, se da una parte esige la coscienza viva del nostro essere peccatori, dall'altra comporta l'esperienza della confidenza con Dio e quindi si tratta di un compito dall'estensione divina. Ed è per questo che nel perdonare si gioca la sincerità dell'aver incontrato Dio e dell'esserci percepiti solidali con i nostri fratelli. La difficoltà risiede proprio nel fatto che non è così semplice ritenerci peccatori, assillati come siamo dalla paura di venire respinti e che non è così facile non aver più paura di Dio.

La domanda di fede degli apostoli va in questa direzione. E va osservato che la risposta di Gesù non riguarda la 'quantità' della fede, come se importasse poterne avere poca o tanta. Si basa sulla sua natura, sul fatto di averla 'schietta', 'limpida', 'vitale', 'viva', proprio come un seme che nasconde l'energia di trasformazione per arrivare ad essere albero. “Se aveste fede quanto un granellino di senapa" non vuol dire 'basta che ne abbiate un pochino, grande come un granellino di senapa', ma piuttosto 'è sufficiente quella che avete, basta che sia genuina e viva come un seme, che pur piccolissimo, poi diventa una grande pianta'. Dobbiamo ricordare la parabola di Luca 13,18-19 "Diceva dunque: “A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo rassomiglierò? È simile a un granellino di senapa, che un uomo ha preso e gettato nell’orto; poi è cresciuto e diventato un arbusto, e gli uccelli del cielo si sono posati tra i suoi rami”. Nell'interpretazione dei Padri, gli uccelli che vengono a posarsi tra i suoi rami sono tutti i nostri pensieri che sono attratti e trovano riposo in quella Parola che è stata seminata nel nostro cuore e che alla fine ha inglobato tutto di noi contagiandoci con quell'energia divina, insopprimibile, che racchiudeva.

Anche qui, quello che ci è richiesto, non è il poco o il tanto, ma la sincerità, la schiettezza, la verità del cuore.

A questa schiettezza, sincerità, si attiene il servo e non chiede altro. Quanto è facile cadere nella rivendicazione dei nostri diritti, di quel che è giusto, di quel che ci viene, di quello che ci si deve! Atteggiamento più sbagliato non potremmo assumere! La vita non si allea con chi avanza titoli di pretesa. Il Signore nemmeno, per quanto aspetti alle porte del nostro cuore in attesa che impariamo semplicemente a chiedere e non a esigere, semplicemente a dare e non a pretendere, semplicemente a fare e non ad aspettarci che ci venga fatto. E questo sarà possibile quando ci accorgeremo che non vale la pena cercare qualcosa, ma solo Qualcuno, anzi, che Qualcuno ci ha trovati, è venuto a servirci; che non avremo mai titoli a sufficienza per farci ammirare, ma ci ritroveremo belli solo nella grazia di Chi ci ama; che essere servi, nell'esperienza evangelica, significa non aver più bisogno di dimostrare nulla, di esibire nulla, di imporci in nulla perché avremo trovato quello che il nostro cuore cerca, cioè l'intimità con Chi ci ha amato e ci muove da dentro ad amare a nostra volta. Il vero 'servo' è proprio Gesù, che nella confidenza più totale con il Padre, serve tutti per conquistare tutti a quella stessa confidenza. La forza del suo amore deriva dalla forza di quella intimità. La stessa cosa vale per noi, suoi discepoli, suoi servi. 'inutili' non perché non facciamo nulla, ma perché, per quanto facciamo, non possiamo meritarci la stima e l'amore del Padrone e perché non aggiungiamo nulla alla ricchezza del Padrone. Inutili equivale a 'poveri', 'semplici', 'semplicemente' servi e nulla di più, ma il nostro titolo di gloria e di onore sta proprio qui: non voler essere e avere altro che quello che l'amore del Signore ha voluto per noi. La rettitudine del servizio sta esattamente in questo accogliersi nei confronti del Padrone senza perdersi nei confronti con gli altri servi. Quando il profeta proclama:  "Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede" (Ab 2,4) vuol dire proprio questo: chi non avanza pretese, confida davvero in Dio e non inciamperà nella vita perché non sarà in contesa con gli uomini; l'intimità con Lui lo custodirà nella libertà di un cuore che ormai non ha più bisogno di dimostrare ed esibire nulla perché ha trovato ristoro e diventerà a sua volta fonte di vita per tutti. 

Risuona tremenda, e consolante al tempo stesso, l'affermazione di Paolo ai Romani : "tutto quello, infatti, che non viene dalla fede è peccato" (Rom 14,23), affermazione che potrebbe qui essere ripresa a suggello degli stessi insegnamenti di Gesù. Quello che non deriva dalla confidenza in Dio viene dalla paura e se viene dalla paura è la rivendicazione che avanza, rivendicazione che stoppa il cammino della comunione con se stessi, con gli altri, con Dio, con le cose.

 

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Secondo ciclo

Anno liturgico C (2006-2007)

Tempo Ordinario

 

28a Domenica

(14 ottobre 2007)

 

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2 Re 5,14-17;  Sal 97;  2 Tm 2,8-13;  Lc 17,11-19

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Non è la prima volta che Luca nel suo racconto presenta la guarigione di lebbrosi. In Lc 5,12-14, parallelo a Mc 1,40-45 e a Mt 8,1-4, troviamo che Gesù guarisce un lebbroso che gli si era avvicinato. Ma si tratta appunto solo di un miracolo di guarigione. Il testo non indugia su altro. Nel brano di oggi invece il testo sembra come sorvolare sull’evento del miracolo di guarigione per insistere su altro. Lo rivela il colloquio di Gesù con il samaritano lebbroso guarito che è tornato a ringraziarlo e il contesto in cui il brano è collocato. Tra l’altro, anche il racconto del lebbroso guarito secondo il vangelo di Matteo, è collocato in un contesto assolutamente speciale. Gesù era appena disceso dal monte delle beatitudini sotto l’impressione potente da parte degli ascoltatori che la sua ‘autorità’ di insegnamento fosse unica: costui parla non come gli altri rabbi, parla non semplicemente a nome di Dio, ma direttamente dalla parte di Dio. Appena sceso, guarisce un lebbroso toccandolo, togliendo così la divisione tra puro e impuro come segno della sua missione.

Ritorniamo al brano di Luca e partiamo dal contesto. Gesù è in viaggio verso Gerusalemme e l’annotazione di Luca mette in risalto il fatto che ciò che avviene deve essere compreso nell’ottica di quel viaggio, per lo scopo segreto di rivelazione del mistero di Dio che si compirà. Non solo, ma subito dopo il racconto dei dieci lebbrosi segue la domanda dei farisei sul regno di Dio: “Quando verrà il regno di Dio?”. Ciò che è in gioco nel brano dei dieci lebbrosi è appunto la questione del Regno di Dio che viene. Come non vederlo? Eppure, non sembra così facile vederlo.

Dieci lebbrosi, tormentati dalla malattia che comportava l’esclusione dalla comunità (“gli vennero incontro dieci lebbrosi i quali, fermatisi a distanza, alzarono la voce”, in ottemperanza alla legge di Lev 13,46), gridano al Signore il loro tormento e chiedono di essere guariti. Tutti e dieci sono sinceri e tutti e dieci hanno fiducia in Gesù perché credono alla sua parola e si muovono per andare a presentarsi ai sacerdoti. Lungo il cammino si ritrovano guariti. La loro fiducia è stata premiata. Nove proseguono, uno solo torna indietro per ringraziare Gesù. È qui che il racconto rivela la sua vera portata. Non si tratta del racconto di un miracolo, ma della rivelazione che consegue. I nove che proseguono (effettivamente, sono così obbedienti e devoti che vogliono eseguire fino in fondo il comando di Gesù e non tornano indietro?) non si accorgono di quel che è avvenuto in verità. Non hanno sentito in loro la parola del profeta: “Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43,19). E difatti non fanno nulla degno di menzione; di loro si perdono le tracce, sono paghi di quel che hanno ricevuto. Uno, lo straniero, il samaritano, torna indietro, vuole ritornare a vedere Colui le cui parole sono state così potenti da sanarlo.

Una prima osservazione. Dio non lesina i suoi doni, anche se gli uomini spesso interpretano questi doni come atti dovuti. Se Dio è Dio, perché non mi può dare questo o quest'altro? Me lo deve dare, mi spetta! (quante accuse a Dio di fronte agli eventi della nostra vita!). Ma questo atteggiamento si perde nel nulla, non produce nulla degno di menzione, non viene lodato da Dio. Perché? Perché tutto ciò che riceviamo e abbiamo, tutti i doni di Dio comportano un'intenzione segreta, un appello al nostro cuore da parte di Dio. Il rimprovero che Gesù fa ai nove lebbrosi rivela la sordità di fronte a questo appello, la cecità di fronte a questa intenzione segreta di Dio. L'uomo si confonde con il dono che ottiene e si richiude su di sé. E' rimasto sordo, non ha visto di cosa si trattava realmente.

Quando invece prorompe la lode, la riconoscenza ("tornò indietro lodando Dio ... si gettò ai suoi piedi per ringraziarlo"), il cuore ha percepito l'appello, ha sentito l'intenzione segreta di Dio. L’incontro che seguirà non interesserà più soltanto un bisogno, ma tutto il proprio cuore; non più soltanto una cosa, ma tutta la propria vita. L'incontro fa accedere ad una nuova visione (Alzati: ha scoperto che Colui che l'ha guarito nel corpo, l'ha toccato nel cuore e lo rende capace di sentire le cose in modo diverso) e ad una nuova condotta (e va’ : l'uomo diventa discepolo, tanto che la fede nel Salvatore gli sarà ormai cammino sicuro di umanità, di un'umanità aperta, solidale, trasfigurata).

"La tua fede ti ha salvato" : è il tutto della vita vissuto a partire da un punto, il punto di quell'incontro con il Salvatore che irradierà tutta la vita perché sono state toccate le radici del cuore.

Se nel racconto del miracolo della guarigione dei lebbrosi venivano usati i verbi ‘purificare’, ‘guarire’, ora viene usato il verbo ‘salvare’, ora si fa riferimento alla ‘fede’. Fede, che dà accesso al mistero di Dio che viene in soccorso dell’uomo e lo salva introducendolo nel suo regno che in Gesù si rivela.

Un’ultima annotazione. Quando Gesù accoglie il samaritano che torna a ringraziarlo dice: “Non si è trovato chi tornasse a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?”. ‘Rendere gloria’ è un’espressione semita per ‘dire la verità’. Spesso l’uomo dice cose vere, ma senza dire la verità. Oppure, in altri termini, diciamo di essere sinceri, ma spesso non siamo veri. Il fatto è che la sincerità ha a che fare con il dire quello che sentiamo, mentre la verità ha a che fare con quello che siamo. Ringraziare di un dono ricevuto non significa solo esprimere la propria riconoscenza ma prendere atto della benevolenza dell’altro che ci fa sussistere. Dire la verità implica sempre la responsabilità del nostro essere di fronte a Qualcuno. Questo è mancato ai nove che si sono dileguati, mentre è risultato così determinante per la conversione del samaritano.

 

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Secondo ciclo

Anno liturgico C (2006-2007)

Tempo Ordinario

 

29a Domenica

(21 ottobre 2007)

 

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Es 17,8-13;  Sal 120;  2 Tm 3,14-4,2;  Lc 18,1-8

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La liturgia di oggi risponde a una delle contraddizioni più lancinanti della vita: se Dio è Dio, perché non interviene quando il male devasta il mondo? Il popolo di Israele, provato dalla sete nel deserto, aveva espresso la sua angoscia negli unici termini possibili per dei credenti: “Il Signore è in mezzo a noi sì o no?” ed era seguito il miracolo dell’acqua scaturita dalla roccia che Mosè aveva percossa con il bastone di Dio. Ma subito dopo il popolo corre un altro tremendo pericolo: l’attacco degli  Amaleciti. È il nemico che viene a cercarli; non semplicemente che trovano un nemico sulla loro strada. L’angoscia del popolo, questa volta, sembra sparire dietro alla figura di Mosè, ritto sul monte a pregare per la salvezza del popolo e a quella di Giosuè che è mandato a combattere. Il fatto però che Mosè salga sul monte significa che è visibile a tutti, ai combattenti e al popolo che attende angosciato l’esito della battaglia. Tutto il popolo prega con Mosè; tutto il popolo rinnova la sua fede nel Dio di Israele perché un’altra volta il loro Dio li salvi. E quella preghiera potente non ottiene solo la vittoria in quella battaglia ma soprattutto che Dio dichiari solennemente, a favore del popolo, la sua ostilità perenne nei confronti degli amaleciti fino alla loro completa distruzione (che però non avviene mai completamente, a simboleggiare la perenne presenza dell’irriducibile avversario del giusto in questo mondo).

Tutti i testi salmici di questa liturgia alludono a quella situazione drammatica. La vita dell’uomo non è drammatica semplicemente perché continuamente provata da afflizioni e ingiustizie, ma perché nelle afflizioni e nelle ingiustizie subite si può precludere la visione di Dio. Come a dire: l’aspetto più angoscioso per il cuore dell’uomo è la delusione nei confronti del suo Dio, la perdita di speranza e il tormento di un amore mancato. Il canto di ingresso (sal 16,6.8) descrive la fiducia in Dio ma nella costatazione che gli empi opprimono il giusto; il salmo responsoriale, il salmo 120, allude alla fiducia in Dio ma nel pericolo di un’invasione (‘alzare gli occhi verso i monti’ allude al possibile alleato assiro contro l’attacco egiziano, aiuto che però si tramuterà in schiavitù e allora il salmista invita a fidarsi di Dio); il canto al vangelo (sal 129,5) esprime la speranza come frutto della grazia del perdono, ma davanti all’angoscia per le colpe commesse; l’antifona alla comunione (sal 32) invita alla confidenza in Dio perché il piano del Signore, che è il piano del suo amore per gli uomini, che Gesù mostra nel suo splendore, sussiste per sempre.

Ecco allora il punto: come riconoscere il suo amore? Come fidarsi del suo amore in modo da attraversare le prove senza venir meno nella fede? Non per nulla Gesù parla della pronta risposta di Dio che fa giustizia ai suoi eletti mentre sta salendo a Gerusalemme incontro alla sua ingiusta condanna. La parabola che racconta nasce da due domande precedentemente poste:

1) il regno di Dio si può vedere?   

2) il Figlio dell'Uomo sarà riconosciuto?

Se il regno di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, vuol dire che si dovrà imparare a percepirlo, a sentirlo. Se il Figlio dell’Uomo “è necessario che soffra molto e venga ripudiato”,vale a dire: non si vedrà come ci si aspetta di vederlo, occorrerà imparare a riconoscerlo, a sentirne la presenza, a percepirne la bellezza e la potenza. Ma come? Con la perseveranza nella preghiera. Lo dice espressamente Luca nell'introdurre la sua parabola del giudice iniquo e della vedova che lo importuna fino ad ottenere giustizia: "Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi". I discepoli che subiscono persecuzioni per fedeltà a Cristo si chiedono: perché Dio tarda? Certo Dio farà giustizia, ma quando? Dio mi aiuterà contro il peccato, ma perché si deve fare così tanta fatica? Sarà possibile resistere fino alla fine? Ecco, la parabola risponde a queste domande angosciose.

Se accostiamo la nostra parabola a quella, similare, dell'amico importuno (cfr. Lc 11,5-8), soprattutto alla sua conclusione: "Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!" (Lc 11,13), allora si apre una comprensione più profonda delle parole di Gesù. Dio esaudisce 'prontamente', senza fare aspettare, ogni richiesta di Spirito Santo, vale a dire l'anelito del cuore che non si accontenta delle cose che provengono da Dio, ma che cerca proprio Dio, l'incontro, l'intimità con Lui. Quando un discepolo è afflitto dalla fatica di perseguire il bene, quando non riesce a sopportare un'ingiustizia, quando è tormentato da persecuzioni interiori ed esteriori, anche se Dio tarda a rendergli soddisfazione così come se lo immaginerebbe, subito Dio gli concede lo Spirito del suo Figlio perché il suo cuore non si allontani da Lui comunque, perché non venga meno l'anelito alla Sua compagnia, perché si rafforzi la sua fede, cioè la sua visione di Lui. Come dice Gesù alla fine della parabola: "Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”. Senza quella costante perseveranza nella preghiera la fede non potrà durare. Perché dobbiamo 'pregare sempre'? Perché il regno di Dio non lo vediamo e perché il Figlio non si manifesta secondo le nostre attese. La preghiera o, meglio, la perseveranza costante nella preghiera è l'unica porta che ci fa accedere alla visione del Figlio ed al sentore del Regno. Un’antica tradizione ebraica rileva nelle braccia alzate di Mosè in preghiera sul monte la solenne benedizione sacerdotale di Nm 6,24-27, benedizione che misticamente fa sussistere il mondo.

 

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Secondo ciclo

Anno liturgico C (2006-2007)

Tempo Ordinario

 

30a Domenica

(28 ottobre 2007)

 

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Sir 35,12-18; Sal 33;  2 Tm 4,6-18;  Lc 18,9-14

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Con la parabola del fariseo e del pubblicano Gesù illustra un altro aspetto del mistero della preghiera. Nel tempo della storia, stando davanti a Dio, gli uomini non si possono suddividere tra giusti e peccatori, ma necessariamente soltanto tra quanti presumono di ritenersi giusti e quanti si ritengono peccatori. Il giudizio dei cuori spetta a Dio e la parabola illustra proprio la verità di quel giudizio. Uscendo dal tempio, soltanto il pubblicano sarà ‘giustificato’, vale a dire soltanto la sua preghiera è stata giudicata gradita davanti a Dio. Non è però detto il motivo e se non lo cogliamo resteremo identificati sentimentalmente con il pubblicano, ma in realtà ci muoviamo sempre come il fariseo.

Il brano del Siracide ci offre indicazioni preziose. Il passo tratta delle offerte al tempio e mette in guardia il credente dal presentare al Signore ‘vittime ingiuste’, sottolineando che “il Signore è giudice e non v’è presso di lui preferenza di persone (letteralmente: la gloria della persona non è nulla davanti a lui)”. Uno può offrire ‘vittime ingiuste’ in tre modi: a) praticare il rito dell’offerta materialmente senza impegnare la propria vita convertendosi; b) portare una vittima sottratta al povero, frutto quindi di ingiustizia e oppressione; c) presentare una vittima difettosa. Il Signore, che è giudice, vede i cuori e non si lascia ingannare da nessuna gloria esteriore.

Quando il fariseo proclama la sua ‘giustizia’, non dice cose false, ma non è retto il suo cuore perché interpreta la sua giustizia come una gloria da esibire e Dio, per il quale la gloria delle persone non conta nulla, non può accogliere la sua offerta. Il fariseo offre una vittima difettosa.

Ma la ragione più profonda della non accoglienza della sua preghiera è un’altra. Basta mettere a confronto la preghiera del fariseo: “O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini…”,  con quella di Gesù, che il canto al vangelo fa intravvedere: “Benedetto sei tu, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché ai piccoli hai rivelato i misteri del regno dei cieli” (Mt 11,25). Almeno tre sono le differenze vistose: la preghiera di Gesù prorompe da un'intimità goduta, esprime solidarietà con Dio e con gli uomini, celebra Dio e non l'uomo. Quella del fariseo è appiattita sull'esteriorità esibita, fa rimarcare la separazione, celebra l'uomo e non Dio. Se nella preghiera di Gesù Dio è benedetto come Padre, in quella del fariseo, la caratteristica che manca, è proprio la proclamazione della sua paternità.

Nella preghiera del Padre Nostro, tutte le richieste sono dirette a Dio, eccetto una : " ... come noi li rimettiamo ai nostri debitori". A questa richiesta che ci fa Dio rimanda la frase di Gesù a conclusione della parabola: “chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 18,14). Chi è profondamente consapevole del suo peccato e chiede a Dio il perdono, come dice il pubblicano: "O Dio, abbi pietà di me peccatore", non avverte nemmeno che qualcuno sia in difetto verso di lui. Ed è solo a partire da questa consapevolezza che, risalendo all'indietro nella preghiera del Padre Nostro, chiede di nutrirsi del Pane di vita, accoglie come desiderio  e criterio supremo di condotta del suo cuore il mistero di benevolenza di Dio per gli uomini, si fa guidare dallo Spirito e ne cerca il regno, vive in maniera che il Nome di Dio sia costantemente glorificato ed allora, come Gesù, può chiamare Dio 'Padre'. Questo, il fariseo, non lo può fare. Ma se non fa questo, come può essere gradita la sua preghiera? In realtà la preghiera non tende ad altro se non a far sì che sia rivelata al nostro cuore la verità di Dio, cioè che è 'Padre'. 

Un’ultima considerazione. Il movimento della preghiera non è quello di esibire qualcosa per convincere Dio a venire da noi (questo significa non aver ancora accolto Dio come il nostro salvatore) ma quello di confidare nella sua offerta di salvezza. Un passo del profeta Isaia lo esprime chiaramente: “Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi teme la mia parola” (passo, che la versione greca rende con: “Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e sul mite…” (Is 66,2). E non è Gesù colui che di sé dice: “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime” (Mt 11,28-29)? Così, se Gesù è l’offerta di salvezza da parte di Dio, allora non c’è alcun bisogno di esibire alcunché davanti a Dio; di conseguenza, non c’è più alcun bisogno di separarci dai nostri fratelli, perché possiamo godere insieme la salvezza di Dio. Tanto che, più un uomo si loda e più piccola è l’immagine di Dio che coltiva; più un uomo si distingue e si separa dagli altri, meno conosce la salvezza di Dio.

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Secondo ciclo

Anno liturgico C (2006-2007)

Solennità e feste

 

Tutti i Santi

(1 novembre 2007)

 

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Ap 7,2-14;  Sal 23;  1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12

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L’immagine di fondo che caratterizza la liturgia di oggi è quella della comunità umana unita come famiglia di Dio, nella lode e nell’adorazione dell’unico Dio e Salvatore, in una gioia perfettamente condivisa tra gli uomini, gli angeli e Dio stesso. Lo sguardo della Chiesa non è però attirato come da un punto di fuga situato oltre la storia, come si trattasse di riempirsi gli occhi con una visione consolatoria. La sua visione parla di un’esperienza quotidiana, quella tipica della celebrazione eucaristica in cui, nel Corpo di Cristo presente sull’altare, i fedeli si riconoscono membri della comunione dei santi comprendente tutti coloro che, in ogni epoca, hanno creduto e vissuto in Cristo. Parla di realtà ultima ma vicina, più ‘reale’ delle cose di tutti i giorni: un mondo che interpella e invita con soave insistenza. Parla al cuore degli aneliti che lo assillano, delle radici che lo costituiscono, delle tensioni che lo lavorano, dei desideri che l’abitano.

Penso all’esperienza esaltante degli abitanti di Siena quando l’enorme pala (tre metri per cinque) della Maestà di Duccio da Buoninsegna fu scortata dalla bottega dell’artista alla cattedrale in trionfo, tra gli applausi della cittadinanza e posta sull’altare. La visione di tutti quei santi schierati a destra e a sinistra del trono dove, in Maria, la natura umana viene rivelata come degna dimora dello Spirito, portatrice del Figlio dell’Altissimo, doveva suscitare l’impressione di trovarsi già partecipi della loro compagnia e del loro tripudio. Oggi, forse, non avvertiamo più l’attrazione del cielo allo stesso modo, ma la speranza, di cui era portatrice quell’attrazione, è ancora necessaria per vivere e cogliere il senso della nostra vita.

Per noi, oggi, la comunità dei santi attorno all’Altissimo, riuniti nella stessa lode e nella stessa gioia, fornisce come le coordinate di senso alla responsabilità della vita terrena. Non abbiamo altro modo di sconfinare nell’eterno se non quello di giocare la nostra vita terrena, secondo tutto lo spessore di dignità che comporta. L’immagine chiave di tale dignità è la realtà degli uomini come ‘figli di Dio’: “Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”. Quello che siamo, siamo chiamati a diventarlo: è tutto il senso della vocazione umana. Così, mentre vediamo delinearsi, anche solo per tratti sfumati, la gloria della santità compiuta nel Regno, che la liturgia celebra solennemente, ci accorgiamo che quegli stessi tratti caratterizzano la via per lambire la santità anche qui, nella nostra storia, con il percorso che segue il nostro cuore per arrivare all’evidenza dell’amore di Dio, motivo di purità per il nostro cuore, realtà di pacificazione e di riconciliazione con tutti i nostri fratelli, figli di Dio allo stesso titolo nostro, decisi a non perdere l’amore quando l’afflizione ci opprime. È la santità del Regno che poco a poco conquista il cuore, come l’insieme delle beatitudini mostra:

beati i poveri: beati coloro che non fanno consistere la loro ricchezza che nell'essere figli di Dio, che non hanno nulla di più caro al mondo se non quel Figlio che ha loro manifestato l'amore grande di Dio per l'umanità

beati gli afflitti: beati coloro che non hanno lacrime più amare di quelle versate quando dovessero allontanarsi dall'agire come figli di Dio e, pentiti, ritornano al loro Signore, ritrovando la consolazione della solidarietà con Dio e con gli uomini

beati i miti: beati coloro che con pazienza sopporteranno ogni prova per non venir meno al loro essere ed agire come figli di Dio, fin tanto che la terra del loro cuore sarà tutta diventata cielo

beati quelli che hanno fame e sete della giustizia: beati coloro il cui unico tormento è quello di perseverare nella fedeltà all'essere figli di Dio, fin tanto che il volto di Dio si manifesti al loro cuore e li consoli

beati i misericordiosi: beati coloro che, avendo sperimentato quanto è grande l'amore di Dio che li ha resi figli suoi, per sua sola misericordia, saranno capaci di estendere a tutti la possibilità di tale esperienza aprendo il loro cuore al perdono

beati i puri di cuore: beati coloro che avranno sperimentato la luce dell'amore di Dio in modo da collocare i loro cuori nella luce e poter vedere tutto in questa luce.

beati gli operatori di pace: beati coloro che, come figli di Dio, vivono nella dinamica dell'amore di Dio per gli uomini che vuole tutti riconciliati; beati coloro che non hanno altro scopo nel loro vivere se non di perseguire questa pace ottenutaci dal Figlio di Dio

beati i perseguitati per causa della giustizia: è l'ottava beatitudine, quella che ingloba le altre nel senso che di tutte rappresenta la condizione suprema: qualsiasi cosa abbiate a soffrire , non vi turbi e non vi distolga dalla volontà di vivere da figli di Dio, fiduciosi nella promessa del Signore, nella sua parola che è potente, cioè capace di far vivere quello che indica.

Ci ritroveremo così nel Cristo, nostro ‘riposo’, come canta il versetto al vangelo. Ma quel ‘riposo’ allude alla creazione del riposo da parte di Dio nei giorni della creazione e che Dio riverserà in pienezza alla fine dei tempi. Dopo aver creato tutte le cose, il libro della Genesi dice: “Il settimo giorno Dio terminò la sua opera”. Ma non era più logico attendersi che avesse terminato la sua opera nel sesto giorno? Gli antichi rabbini hanno concluso evidentemente che vi fu un atto di creazione anche il settimo giorno: “Che cosa è stato creato il settimo giorno? La ‘menuchà’, la tranquillità, la serenità, la pace e il riposo” (Cfr Gen Rabbà, 10, 9). È lo stato in cui non vi è contesa né lotta, né paura né diffidenza; è felicità, pace e armonia, vita eterna. Quella che il Signore Gesù farà gustare: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò sollievo” (Mt 11,28).

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Secondo ciclo

Anno liturgico C (2006-2007)

Tempo Ordinario

 

31a Domenica

(4 novembre 2007)

 

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Sap 11,22-12,2;  Sal 144;  2Ts 1,11-2,2;  Lc 19,1-10

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L’ultimo incontro di Gesù, prima di arrivare a Gerusalemme, è quello con Zaccheo, l’esattore delle tasse di Gerico, malvisto e odiato da tutti. La gente, che fa ala al passaggio di Gesù, non gli lascia nemmeno un varco per sbirciare tanto che dovrà correre avanti e salire su di un sicomoro se vorrà vedere che faccia abbia quel famoso maestro. Non poteva certo prevedere l’esito dell’incontro, ma sicuramente il suo cuore era già mosso da un’aspettativa misteriosa. Un uomo della sua importanza non poteva certo esporsi al ridicolo per un motivo futile. Gesù, che guarda ai cuori, ‘sente’ il suo desiderio e gli si fa incontro. Come non si lascia distogliere da nulla nel suo cammino per Gerusalemme, così non si lascia intimorire dal brusio generale di disapprovazione pur di far toccare con mano, a Zaccheo come a tutti, il Regno che viene con la sua presenza.

Il racconto gioca appunto sulle attese dei cuori. Sia Zaccheo che la folla, per motivi diversi, non riescono a vedere ancora Gesù nella sua realtà di Salvatore. Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, aveva scoperto di non poter più restare dov'era; le ricchezze di cui si faceva forte nel confronto con gli altri, per cui gli altri lo temevano, non soddisfano i desideri del suo cuore. Vuole vedere Gesù (motivo, questo, che ricompare diverse volte nei vangeli).  Anche la folla, di curiosi o simpatizzanti, vuole vedere il Maestro ma – i loro pensieri lo rivelano - non sa capacitarsi del mistero di Dio che incontra l'uomo. Questa folla siamo noi quando cerchiamo di fare il bene, senza però che questo bene porti il frutto desiderato, vale a dire la conoscenza del Signore, la comunione di sentimenti e di desideri con il nostro Dio. È un bene esibito, un bene imposto, tirato, rivendicatorio, distante da quell'intimità a cui dovrebbe aprire l'accesso.

Quando nella colletta abbiamo pregato: "... porta a compimento ogni nostra volontà di bene...", è come se avessimo domandato: fa' che il bene che operiamo si risolva nella visione di Te. Desiderare il bene non comporta solo il fatto di muoversi a farlo, ma di farlo in modo tale che si riveli al nostro cuore il Volto di Dio. Fare il bene comporta sempre un incontrare il nostro Dio, che vuole la salvezza di tutti. Così, quando Gesù arriva sotto l'albero dove è salito Zaccheo e lo invita a riceverlo nella sua casa, in realtà non è Gesù che va nella casa di Zaccheo, ma Zaccheo che viene nella casa di Gesù. La decisione di Zaccheo di dare la metà dei suoi beni ai poveri e di restituire quattro volte tanto il maltolto, esprime la gioia di trovarsi ormai nella casa di Gesù, nel mistero cioè di quella fraternità che svela il Volto di Dio agli uomini. Il bene che così si compie non ha più nulla di esibito, di rivendicatorio, di ricattatorio, ma procede e si risolve interamente in quella intimità ritrovata con il proprio Dio. La folla non è ancora entrata nella casa di Gesù, anche se lo accompagna.

L’espressione del libro della Sapienza: “Tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato…” allude allora al Bene di Dio per noi scoperto e sperimentato proprio nel nostro disporci a condividere i sentimenti di Dio nei confronti dei nostri fratelli. Il ritornello al salmo responsoriale: “la gloria di Dio è l'uomo vivente” va completato con il seguito della citazione, presa da Ireneo di Lione (Contro le eresie, lib. IV, 20, 7): “e la vita dell’uomo è visione di Dio”. L’uomo ‘vivente’ non indica semplicemente l’uomo che è in vita, ma l’uomo che vive per Dio condividendo i suoi sentimenti. L’uomo non è figlio di Dio semplicemente perché creatura di Dio, ma perché invitato a godere della rivelazione di Dio, a vedere il Volto di Dio come Padre, nel Figlio suo Gesù Cristo. Figlio, che, come riferisce il canto al vangelo (“Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito”), è dato a me perché possa conoscere il Volto di Dio e scoprire tutto l'amore di Dio per l'uomo. È l'invito a saziarsi di bellezza e di amore in quel Figlio che rivela il Padre così vicino agli uomini e che con il Suo Spirito permette all'uomo di vivere la fraternità con gli uomini come sacramento della paternità di Dio.

E ritornando ancora alla prima lettura, se è vero che “tutto il mondo davanti a te è come polvere sulla bilancia”, allora possiamo pregare: di fronte alla visione di Te, tutto è come polvere, nulla attira i desideri del cuore se non Te solo; se Tu “hai compassione di tutti ...non guardi ai peccati degli uomini”, allora i nostri cuori sono così desiderosi di Te da riferirci a tutti in modo da non separarci dal tuo amore, da non guardare al peccato di nessuno per non essere separati dai nostri fratelli, da amare chiunque perché tutti facciano esperienza di quanto è buono il tuo amore.

E se Gesù dice a Zaccheo: "oggi, devo fermarmi ...", vuol dire che ogni momento della nostra storia è il momento adatto per farla diventare storia sacra, e lo diventa appena si fa strada nel cuore il desiderio di vedere chi sia Gesù. E vuol dire anche che in ogni situazione, in ogni circostanza, in ogni peccato, possiamo sentirci dire "scendi in fretta, perché devo fermarmi". Nulla impedisce al Signore di invitarci nella sua casa e di sciogliere i nostri lacci per vivere finalmente una fraternità che riveli il Volto di Dio.

 

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Secondo ciclo

Anno liturgico C (2006-2007)

Tempo Ordinario

 

32a Domenica

(11 novembre 2007)

 

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2Mac 7,1-14;  Sal 16;  2Ts 2,16-3,5;  Lc 20,27-38

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E non osavano più fargli alcuna domanda” (Lc 20,40): così finisce il brano di vangelo che abbiamo proclamato nella liturgia odierna. Gesù è ormai entrato a Gerusalemme; il rapporto con i capi del popolo, che mettevano in discussione l’autorità di Gesù, si è definitivamente rotto quando questi si sono sentiti implicati nella parabola dei vignaioli assassini;  con la discussione sulla risurrezione futura, che i sadducei, a differenza dei farisei, non ammettevano, si chiude il confronto dei capi con Gesù. Gesù continua a parlare a Gerusalemme, la gente va ad ascoltarlo, ma le sue parole ormai riguardano il giudizio imminente.

Gesù risponde ai sadducei citando il passo di Es 3,6: “Che poi i morti risorgono, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando chiama il Signore: Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per lui”. La nota fondamentale di questa citazione riguarda il nome di Dio che non rinvia mai semplicemente all’essere di Dio, ma al suo essere per noi. Tanto che Dio è sempre 'Dio di': Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe. Ma ora, con la venuta di Gesù e con l’imminente mistero della sua morte e risurrezione, Dio oramai sarà il ‘Dio di Gesù’, il Dio che in Gesù ha sigillato il suo amore per noi nel modo più radicale e definitivo. Non solo ha fatto risorgere Gesù, diventato nella confessione di fede ‘il Vivente’, Colui sul quale la morte non ha più potere, ma ha reso accessibile, in Gesù, il dono della sua vita eterna, quella vita sulla quale la morte non ha potere alcuno di mortificazione. Così, confessare la fede nella risurrezione significa contemporaneamente confessare la risurrezione di Gesù e il dono della vita che da Lui scaturisce.

Siamo invitati a prendere possesso di una eredità, a diventare coeredi di Cristo (Rm 8,17), Lui il Risorto sul quale la morte non ha più potere; a diventare quelli che siamo: figli della risurrezione. La risposta di Gesù ai Sadducei non riguarda semplicemente una verità degli ultimi tempi: i morti risorgeranno. Riguarda la potenza del dono di Dio che rende gli uomini che la accolgono figli della risurrezione. Che significa tutto ciò?

Nelle beatitudini è detto: 'beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio' (Mt 5,9). E Gesù dice che i figli della risurrezione sono i figli di Dio. Allora figli della risurrezione sono i 'pacifici' intendendo: chi vive nella pace e nella concordia, quella che Gesù ci ha ottenuto con il dono del suo Spirito e che Paolo illustra in Ef 4,32 dicendo: "Dio ha perdonato a voi in Cristo", espressione che secondo il verbo greco dovrebbe essere resa con 'Dio ha fatto grazia di Sé a voi in Cristo'. È l'esperienza profonda del suo perdono, di questo suo farsi grazia a me, che rende capace me, a mia volta, di fare grazia di me a tutti nel suo amore, in fraternità.  Ma questa è proprio l'opera del suo Spirito, quello che sulla croce Gesù ha reso al Padre perché venisse effuso su di noi. È quello Spirito che invochiamo nella preghiera eucaristica perché ci renda un unico corpo e uno spirito solo, finché alla fine Dio sia tutto in tutti. Figli di Dio sono allora coloro che lo Spirito governa, coloro che si muovono sotto l'azione dello Spirito e l'unica perfezione desiderabile per l'uomo è appunto quella di lasciarsi penetrare fin nelle midolla da questo far grazia di Sé da parte di Dio agli uomini  in Cristo per la potenza del suo Spirito. Come dice stupendamente s. Francesco, sintesi dell’intera Tradizione: “ciò che devono  desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”.

Ora, essendo i figli di Dio figli della risurrezione, vuol dire che la vita vissuta nel segno di questo fare grazia di Sé a noi in Cristo e di questo fare grazia di noi a tutti in Cristo, è una vita non toccata dalla morte, non più toccata dal veleno della divisione e della separazione. E se il peccato porta la morte, vuol dire che il peccato non è che la resistenza, l'ostacolo, a vivere in totalità la 'fraternità' operata dallo Spirito, ostacolo che ci vela il volto di Dio e ci impedisce di conoscerlo come Padre.

Allora, l'espressione del canto all'alleluia: 'chi crede in me non morirà in eterno' significa: chi vive di me, chi è mosso dal mio Spirito, chi non esce dalla volontà di compiere quel mistero di riconciliazione in atto nella storia, di rispondere all'appello che viene dal desiderio di Dio di essere in comunione con gli uomini, non accorderà il benché minimo spazio all'odio e alla tristezza nei confronti di qualcuno e perciò non uscirà mai dalla vita che proviene da Dio. E il Dio che gli infonde questa vita sarà oramai il suo Dio, proprio come lo è stato di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. La morte è la rinuncia a questa 'proprietà' di relazione con Dio. Si realizzi anche per noi quello che Origene chiede per sé: “Magari venisse concessa anche a me l’eredità di Abramo, Isacco, Giacobbe e divenisse mio il mio Dio allo stesso modo che è diventato Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, in Cristo Gesù, Signore nostro”.

 

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Secondo ciclo

Anno liturgico C (2006-2007)

Tempo Ordinario

 

33a Domenica

(18 novembre 2007)

 

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Ml 3,19-20;  Sal 97; 2Ts 3,7-12;  Lc 21,5-19

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L’anno liturgico volge al termine e la Chiesa si confronta con gli eventi che caratterizzeranno la fine della storia. Le parole di Gesù nel vangelo sembra alludano appunto a quegli eventi quando tratteggiano, in una visione d’insieme volutamente complessa, avvenimenti storici come la distruzione di Gerusalemme, come guerre e catastrofi naturali, come le persecuzioni subite dalla comunità cristiana e avvenimenti metastorici come i segni terrificanti nel cielo che preludono alla fine. L’aspetto però più curioso di questo brano è il contrasto tra i terrori annunciati e la fiducia inculcata, aspetto che la liturgia si premura di sottolineare. L’antifona d’ingresso canta con il profeta Geremia: “Io ho progetti di pace e non di sventura…” (Ger 29,11); l’antica colletta: “Il tuo aiuto, Signore, ci renda sempre lieti nel tuo servizio, perché solo nella dedizione a te, fonte di ogni bene, possiamo avere felicità piena e duratura”; l’antifona alla comunione: “Il mio bene è stare vicino a Dio, nel Signore Dio riporre la mia speranza”.

In realtà, il senso del brano evangelico è un’introduzione al mistero della fedeltà dei credenti, fedeltà che nasce da una sapienza goduta e che si gioca in una vigilanza capace di attraversare le prove e i tormenti della storia. Perché la storia è piena di tormenti, ma i tormenti non sono per la morte, ma perché si svelino i segreti di Dio. Assai istruttiva a tal riguardo è la prima lettura tratta dal profeta Malachia. Il testo di Malachia, secondo la suddivisione dei libri nella Bibbia accolta nella tradizione cristiana, è l’ultimo libro dell’Antico Testamento, quello che fa da cerniera con i vangeli. Il profeta parla del giorno rovente del Signore, ma nell’ottica della salvezza di coloro che hanno fatto memoria della parola del Signore, tanto che si realizza la promessa di Dio: ‘Essi diverranno mia proprietà’, espressione tipica per definire l’elezione del popolo di Israele, da intendersi: finalmente potranno gustare l’alleanza di Dio in tutta intimità e riposo (“Avrò compassione di loro come il padre ha compassione del figlio che lo serve. Voi allora vi convertirete e vedrete la differenza fra il giusto e l' empio, fra chi serve Dio e chi non lo serve”). Tale profezia i vangeli mostrano realizzata in Gesù, per cui la conversione a lui introduce negli eventi della fine, intendendo: in lui è sigillata l’alleanza di Dio godibile per l’uomo, in lui si vede finalmente la differenza tra il giusto e l’empio. E stando in lui (“Come il Padre ha amato me, così anch' io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”, Gv 15,9-11) ci si accorgerà di quello che significa essere ‘proprietà’ di Dio, secondo la definizione del profeta Malachia.

Se ritorniamo ora al brano evangelico, non saremo più colpiti dalle ‘predizioni’ dei tormenti, ma dalla fiducia che ci deriva dall’attraversarli in compagnia di Colui che abbiamo conosciuto essere l’Inviato di Dio e l’attenzione cade su tre frasi assolutamente rivelatrici: “Questo vi darà occasione di rendere testimonianza … Ma nemmeno un capello del vostro capo perirà … Ma con la vostra perseveranza salverete le vostre anime”. In gioco, nella storia, è appunto la fedeltà a Colui che il nostro cuore ha scoperto essere il sigillo della misericordia di Dio per noi, a Colui che per noi è diventato radice di vita e di sentimenti a tal punto da farci conoscere contemporaneamente il riposo e l’angoscia dell’amore, non potendo tollerare che nessuno ne resti privo per causa nostra. Tanto che il modo più sicuro di vivere del riposo dell’amore è quello di non rifiutarlo a nessuno. Di questa ‘tensione’ dell’amore ha a che fare la ‘perseveranza’, che non è semplicemente la durata nel tempo, ma la tenuta di qualità dell’amore nel tempo e nelle prove. Forse, si potrebbe tradurre meglio con ‘pazienza’ intendendo pazienza come l’atteggiamento di chi sta bene in ogni situazione perché è custodito. Nel vangelo di Matteo, l’espressione è resa: “ma chi persevererà sino alla fine sarà salvato” (Mt 10,22) dove ‘fine’ non concerne semplicemente la fine della vita, ma finché il fine della vita non si sveli pienamente al cuore, vale a dire finché non compare al cuore il volto misericordioso del Signore. Così, perseveranza o pazienza ha sempre a che vedere con la presenza del Signore, generatore di letizia, accanto a noi, pur nelle prove. È tale presenza che salva le nostre vite, che ci impedisce di intristire e di fallire nella realizzazione della nostra vocazione all’umanità.

Se nemmeno un capello del nostro capo perirà, non è per invitarci alla speranza, vanesia, che i tormenti non ci toccheranno, ma, al contrario, che nemmeno i tormenti ci ruberanno la confidenza ottenuta e non ci muoveranno ad agire contro il suo amore, come del resto è stato per lui, che non ha agito contro di noi, nella sua passione e morte.

La liturgia di oggi, nel contrappunto alle letture con le varie antifone e preghiere, non ha di meglio per sottolineare la fedeltà a Dio nel tempo da parte dei credenti che di presentarla secondo l’ottica della letizia, della letizia nel servizio. La letizia in effetti parla di un cuore sinceramente convertito a Dio, che ha trovato cioè nel suo Dio la radice del suo vivere e del suo morire.

 

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Secondo ciclo

Anno liturgico C (2006-2007)

Tempo Ordinario

 

34a Domenica

N.S. Gesù Cristo Re dell’universo

(25 novembre 2007)

 

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2Sam 5,1-3;  Sal 121;  Col 1,12-20;  Lc 23, 35-43

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C'era anche una scritta, sopra il suo capo: Questi è il re dei Giudei”: è l’annotazione di Luca dopo il racconto degli scherni sotto la croce da parte dei capi e dei soldati. Scritta, che le generazioni cristiane poi hanno interpretato come Questi è il re della gloria. La liturgia di oggi sovrappone le due ‘visioni’ mostrando come la chiesa contempla il suo Signore crocifisso. L’antifona di ingresso lancia lo sguardo in avanti e vede il suo Signore crocifisso come ‘agnello immolato e glorioso’ al quale tutto è sottomesso (Ap 5,12 e 1,16), immagine che viene ripresa anche dal prefazio. Il canto al vangelo ritorna con lo sguardo indietro e vede il Signore che entra trionfante in Gerusalemme (“Benedetto colui che viene nel nome del Signore, benedetto il suo regno che viene”) quando il tripudio della folla dei discepoli sovrastava ogni cosa e nessuno si accorgeva di cosa si stava preparando. Il vangelo presenta la crocifissione di Gesù secondo i possibili modi di contemplarlo incarnati dai vari personaggi. Troviamo la folla, che l’aveva accompagnato, un po’ in disparte e che alla fine se ne torna via percuotendosi il petto, confusamente consapevole che qualcosa di ingiusto era stato perpetrato in nome della legge che riconoscevano come propria; ci sono i discepoli e le donne che seguono da lontano, impotenti e angosciati. Più direttamente, sotto la croce, ci sono i capi di Israele che avevano esigito la condanna di Gesù e che ora lo scherniscono, coloro ai quali l’evangelista attribuisce la colpa del misfatto perpetrato; ci sono i soldati, che lo prendono in giro crudelmente comportandosi come bambini scanzonati, simbolo della nazione pagana che non può prendere sul serio un re del genere, ad eccezione del centurione che intravede nel comportamento di quel condannato la sua assoluta innocenza. Al centro, ci sono i due malfattori, che riassumono le due possibili ‘visioni’: il malfattore ‘empio’ e il malfattore ‘pio’, uno arrabbiato e l’altro pacificato, uno disperato e ingiurioso, l’altro benevolo e fiducioso.

Cosa ha visto quel malfattore pio, che l’iconografia cristiana rappresenta come colui che in paradiso aspetta l’ingresso di tutti i santi, per indurlo a pregare quel condannato: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno?”. Deve aver visto qualcosa di strano, di assolutamente speciale. Forse lo splendore di un’innocenza che si irradiava da Gesù e che lui, così vicino, poteva vedere bene. Il fatto è che, di fronte a quell’uomo ingiustamente condannato eppur così mite, vede la propria storia rovinosa e senza perdersi in rivendicazioni ormai inutili, crudeli perfino, accoglie in pace la sua sorte perché può aprirla su qualcosa di più grande. Con la sua richiesta e la risposta di Gesù veniamo a sapere che il regno di Dio è splendore di amore che si riversa sull’uomo, che Dio non rinuncia al suo amore perché l’uomo è cattivo, che Dio si manifesta con il volto mite dell’amore, proprio quando è rifiutato e calpestato, in attesa che l’uomo lo riconosca e ne faccia la radice della sua vita e del suo tormento.

Quando Paolo proclama nella lettera ai Colossesi: “piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza”, allude proprio alla pienezza della carità di Dio che in Gesù si manifesta in tutto il suo splendore nel senso di rivelare a noi ciò che Dio è e nel senso di permettere a noi, nella nostra umanità, di godere della comunione con lui Quella carità, per noi, si traduce in riconciliazione vicendevole, a livello della storia, e parla della pacificazione tra il cielo e la terra, del fatto cioè che la terra del nostro cuore diventa cielo dove Dio è adorato e goduto e condiviso. In questo senso si avvera la profezia rivolta a Davide, che costituisce la caratteristica del regno messianico come ripreso dalle acclamazioni che accompagnano l’entrata trionfante di Gesù in Gerusalemme: “tu pascerai Israele mio popolo” (2Sam 5,2). Il Signore pasce il suo popolo nella carità svelata dal Figlio morto e risorto, carità che, accolta, lo fa contemplare come re della gloria. È un re del genere che la Chiesa contempla, è un re del genere che la chiesa annuncia e che serve.

L’immagine del buon ladrone è una di quelle immagini che svelano il paradosso del mistero di Dio aperto sull’uomo. Il giudizio della croce non parla dell’ingiustizia degli uomini, ma della giustizia di Dio. E la giustizia di Dio è esattamente quella che rende noi, indegni, degni dello splendore del suo amore a tal punto da farci partecipi di quella dinamica di amore da riversarla con lui sul mondo. Nel giudizio universale rappresentato da Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova, ai piedi della grande croce (e quasi a darle gambe perché muova incontro all’uomo) sta una piccola figura umana. Partecipa all’esaltazione della croce: due grandi angeli la reggono e lui – se ne vedono i piedi, uno scorcio del capo e le braccia – si stringe al cuore il dulce lignum. Un piccolo fragile uomo (buon ladrone, cireneo, ciascuno di noi) che si è imbattuto in quell’Uomo, l’ha riconosciuto Dio, gli si è affezionato: porta quindi il ‘giogo soave, il carico leggero’, nella prospettiva alta della felicità, la cui caparra è, qui e ora, la letizia dell’amore.