Secondo ciclo

Anno liturgico C (2006-2007)

Tempo Ordinario

 

4a Domenica

(28 gennaio 2007)

 

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 Ger 1,4-5.17-19;  sal 70;  1 Cor 12,31-13,13;  Lc 4,21-30

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La scena è la medesima della domenica precedente: Gesù predica nella sinagoga di Nazaret. Interessa però sottolineare l’esito di quell’evento: un fiasco! Ma Luca, che ne ha fatto l’immagine emblematica della predicazione di Gesù, annota molti particolari che introducono alla comprensione della figura di quel profeta singolare. Se viene fatto conoscere il rifiuto di Gesù da parte dei suoi concittadini, la sottolineatura si deve al valore ‘profetico’ di quel rifiuto, che l’evangelista Giovanni descriverà come “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l' hanno accolto” (Gv 1,11). Oltre ad alludere alla passione di Gesù, allorquando il rifiuto comporterà la sua messa a morte, allude anche all’universalità di quella morte che toglierà il muro di separazione tra Israele e Gentili, aprendo Israele ai Gentili, pena l’esclusione del dono di grazia. In quella prospettiva Gesù si applica il proverbio riferito al medico, che suonava ironico sulle labbra dei suoi concittadini, ma che lui realizzerà in verità: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati” (Lc 5,31).

La richiesta dei miracoli da parte dei suoi concittadini era forse una supplica? Evidentemente no, come non sarebbe suonata supplica la richiesta “E' il re d' Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo” (Mt 27,42). Si supplica se si apre il proprio cuore perché oppresso, malato, afflitto. Diversamente, si provoca. Può compiersi un miracolo dietro provocazione? Lo scopo del miracolo è proprio quello di aprire il cuore al Signore che mi è venuto incontro e mi può guarire. Ma se il cuore non è disposto ad aprirsi, quale miracolo si può vedere? Non per nulla, il brano in Matteo termina con “E non fece molti miracoli a causa della loro incredulità” (Mt 13,58) e in Marco con “E non vi potè operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità” (Mc 6,5-6).  È la meraviglia del profeta che non si capacita della insensibilità dei cuori degli uomini che davanti all’apertura del cuore di Dio tengono chiusi i loro.

         Gesù non si era limitato a constatare la diffidenza dei suoi concittadini. Ne trae uno spunto profetico e allarga l’evento di cronaca alla storia di Israele perché i cuori si rendano conto di cosa sia in gioco. Il passaggio è segnalato da un parlare solenne con le formule ‘Amen, in verità vi dico’. Vi invito a guardare più nel profondo, a rendervi conto di cosa vi giocate. E anche quando riferisce il proverbio del profeta che non è ben visto in casa propria, usa un termine che si riferisce al brano del profeta Isaia che aveva appena letto all’assemblea: il Servo di Dio avrebbe proclamato l’anno di grazia del Signore. Quello che traduciamo con ‘di grazia’ in greco corrisponde a ‘gradito, bene accetto’, termine che Gesù si applica come profeta. Ora, è accogliendo un profeta che si può accogliere il messaggio di grazia che porta, la grazia che porta. La liturgia rinforza questa comprensione con l’annuncio della prima lettura dove viene presentata la vocazione del profeta Geremia. Quel testo descrive il contenuto di quell’essere pieno dello Spirito, come Gesù si era presentato a Nazaret. Il profeta è scelto/conosciuto da Dio, gode cioè di una intimità grande con Dio; è inviato alle nazioni, cioè ha il compito di togliere il muro di separazione nell’umanità; è come un muro di bronzo davanti a coloro che lo contrastano, cioè è pronto alla passione, perché lo splendore dell’amore di Dio conquisti i cuori. Così la ‘buona novella’ che Gesù annuncia come profeta non consiste semplicemente in buone parole o in determinati miracoli, ma rimanda a quella passione/morte/risurrezione in cui risplende in tutto il suo splendore l’amore di Dio all’uomo, rendendo l’uomo capace di muoversi verso i suoi simili da dentro quello stesso amore.

         Per questo la comprensione della ‘buona novella’, che è lo stesso Signore Gesù, è ben suggerita dal canto al vangelo: “Benedetto sei tu, o Padre, Signore dei cieli e della terra, perché ai piccoli hai rivelato i misteri del regno dei cieli”. Non c’è comprensione se non a partire da quella benedizione che rivela ai cuori quanto si è piccoli davanti allo splendore dell’amore di Dio per l’uomo, manifestato in Gesù, con l’aprirli alla gratitudine della grazia. Nella preghiera dopo la comunione diciamo: “O Dio, che ci hai nutriti alla tua mensa, fa’ che per la forza di questo sacramento, sorgente inesauribile di salvezza, la vera fede si estenda sino ai confini della terra”. Preghiamo per diventare partecipi della potenza di quell’amore che ci è fatto conoscere in Gesù e di cui tesse l’elogio s. Paolo nel suo inno alla carità. Non c’è conoscenza che tenga, non c’è fede che conti, non c’è generosità che salva: solo la carità esprime lo splendore che deriva dalla fede in Gesù. Quando Paolo dichiara che senza la carità non sono nulla, non dice semplicemente che io non conto nulla davanti a Dio senza la carità, ma che tutte le cose eccelse, senza la carità, non hanno alcun valore presso Dio. E se non l’hanno presso Dio, vuol dire che non possono costituire strumenti di comunione tra gli uomini. La sapienza evangelica è radicale, ma consona al cuore dell’uomo, se si accoglie la buona novella del profeta di Nazaret.