Secondo ciclo

Anno liturgico C (2006-2007)

Tempo Ordinario

 

33a Domenica

(18 novembre 2007)

 

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Ml 3,19-20;  Sal 97; 2Ts 3,7-12;  Lc 21,5-19

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L’anno liturgico volge al termine e la Chiesa si confronta con gli eventi che caratterizzeranno la fine della storia. Le parole di Gesù nel vangelo sembra alludano appunto a quegli eventi quando tratteggiano, in una visione d’insieme volutamente complessa, avvenimenti storici come la distruzione di Gerusalemme, come guerre e catastrofi naturali, come le persecuzioni subite dalla comunità cristiana e avvenimenti metastorici come i segni terrificanti nel cielo che preludono alla fine. L’aspetto però più curioso di questo brano è il contrasto tra i terrori annunciati e la fiducia inculcata, aspetto che la liturgia si premura di sottolineare. L’antifona d’ingresso canta con il profeta Geremia: “Io ho progetti di pace e non di sventura…” (Ger 29,11); l’antica colletta: “Il tuo aiuto, Signore, ci renda sempre lieti nel tuo servizio, perché solo nella dedizione a te, fonte di ogni bene, possiamo avere felicità piena e duratura”; l’antifona alla comunione: “Il mio bene è stare vicino a Dio, nel Signore Dio riporre la mia speranza”.

In realtà, il senso del brano evangelico è un’introduzione al mistero della fedeltà dei credenti, fedeltà che nasce da una sapienza goduta e che si gioca in una vigilanza capace di attraversare le prove e i tormenti della storia. Perché la storia è piena di tormenti, ma i tormenti non sono per la morte, ma perché si svelino i segreti di Dio. Assai istruttiva a tal riguardo è la prima lettura tratta dal profeta Malachia. Il testo di Malachia, secondo la suddivisione dei libri nella Bibbia accolta nella tradizione cristiana, è l’ultimo libro dell’Antico Testamento, quello che fa da cerniera con i vangeli. Il profeta parla del giorno rovente del Signore, ma nell’ottica della salvezza di coloro che hanno fatto memoria della parola del Signore, tanto che si realizza la promessa di Dio: ‘Essi diverranno mia proprietà’, espressione tipica per definire l’elezione del popolo di Israele, da intendersi: finalmente potranno gustare l’alleanza di Dio in tutta intimità e riposo (“Avrò compassione di loro come il padre ha compassione del figlio che lo serve. Voi allora vi convertirete e vedrete la differenza fra il giusto e l' empio, fra chi serve Dio e chi non lo serve”). Tale profezia i vangeli mostrano realizzata in Gesù, per cui la conversione a lui introduce negli eventi della fine, intendendo: in lui è sigillata l’alleanza di Dio godibile per l’uomo, in lui si vede finalmente la differenza tra il giusto e l’empio. E stando in lui (“Come il Padre ha amato me, così anch' io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”, Gv 15,9-11) ci si accorgerà di quello che significa essere ‘proprietà’ di Dio, secondo la definizione del profeta Malachia.

Se ritorniamo ora al brano evangelico, non saremo più colpiti dalle ‘predizioni’ dei tormenti, ma dalla fiducia che ci deriva dall’attraversarli in compagnia di Colui che abbiamo conosciuto essere l’Inviato di Dio e l’attenzione cade su tre frasi assolutamente rivelatrici: “Questo vi darà occasione di rendere testimonianza … Ma nemmeno un capello del vostro capo perirà … Ma con la vostra perseveranza salverete le vostre anime”. In gioco, nella storia, è appunto la fedeltà a Colui che il nostro cuore ha scoperto essere il sigillo della misericordia di Dio per noi, a Colui che per noi è diventato radice di vita e di sentimenti a tal punto da farci conoscere contemporaneamente il riposo e l’angoscia dell’amore, non potendo tollerare che nessuno ne resti privo per causa nostra. Tanto che il modo più sicuro di vivere del riposo dell’amore è quello di non rifiutarlo a nessuno. Di questa ‘tensione’ dell’amore ha a che fare la ‘perseveranza’, che non è semplicemente la durata nel tempo, ma la tenuta di qualità dell’amore nel tempo e nelle prove. Forse, si potrebbe tradurre meglio con ‘pazienza’ intendendo pazienza come l’atteggiamento di chi sta bene in ogni situazione perché è custodito. Nel vangelo di Matteo, l’espressione è resa: “ma chi persevererà sino alla fine sarà salvato” (Mt 10,22) dove ‘fine’ non concerne semplicemente la fine della vita, ma finché il fine della vita non si sveli pienamente al cuore, vale a dire finché non compare al cuore il volto misericordioso del Signore. Così, perseveranza o pazienza ha sempre a che vedere con la presenza del Signore, generatore di letizia, accanto a noi, pur nelle prove. È tale presenza che salva le nostre vite, che ci impedisce di intristire e di fallire nella realizzazione della nostra vocazione all’umanità.

Se nemmeno un capello del nostro capo perirà, non è per invitarci alla speranza, vanesia, che i tormenti non ci toccheranno, ma, al contrario, che nemmeno i tormenti ci ruberanno la confidenza ottenuta e non ci muoveranno ad agire contro il suo amore, come del resto è stato per lui, che non ha agito contro di noi, nella sua passione e morte.

La liturgia di oggi, nel contrappunto alle letture con le varie antifone e preghiere, non ha di meglio per sottolineare la fedeltà a Dio nel tempo da parte dei credenti che di presentarla secondo l’ottica della letizia, della letizia nel servizio. La letizia in effetti parla di un cuore sinceramente convertito a Dio, che ha trovato cioè nel suo Dio la radice del suo vivere e del suo morire.