Secondo ciclo

Anno liturgico C (2006-2007)

Tempo Ordinario

 

32a Domenica

(11 novembre 2007)

 

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2Mac 7,1-14;  Sal 16;  2Ts 2,16-3,5;  Lc 20,27-38

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E non osavano più fargli alcuna domanda” (Lc 20,40): così finisce il brano di vangelo che abbiamo proclamato nella liturgia odierna. Gesù è ormai entrato a Gerusalemme; il rapporto con i capi del popolo, che mettevano in discussione l’autorità di Gesù, si è definitivamente rotto quando questi si sono sentiti implicati nella parabola dei vignaioli assassini;  con la discussione sulla risurrezione futura, che i sadducei, a differenza dei farisei, non ammettevano, si chiude il confronto dei capi con Gesù. Gesù continua a parlare a Gerusalemme, la gente va ad ascoltarlo, ma le sue parole ormai riguardano il giudizio imminente.

Gesù risponde ai sadducei citando il passo di Es 3,6: “Che poi i morti risorgono, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando chiama il Signore: Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per lui”. La nota fondamentale di questa citazione riguarda il nome di Dio che non rinvia mai semplicemente all’essere di Dio, ma al suo essere per noi. Tanto che Dio è sempre 'Dio di': Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe. Ma ora, con la venuta di Gesù e con l’imminente mistero della sua morte e risurrezione, Dio oramai sarà il ‘Dio di Gesù’, il Dio che in Gesù ha sigillato il suo amore per noi nel modo più radicale e definitivo. Non solo ha fatto risorgere Gesù, diventato nella confessione di fede ‘il Vivente’, Colui sul quale la morte non ha più potere, ma ha reso accessibile, in Gesù, il dono della sua vita eterna, quella vita sulla quale la morte non ha potere alcuno di mortificazione. Così, confessare la fede nella risurrezione significa contemporaneamente confessare la risurrezione di Gesù e il dono della vita che da Lui scaturisce.

Siamo invitati a prendere possesso di una eredità, a diventare coeredi di Cristo (Rm 8,17), Lui il Risorto sul quale la morte non ha più potere; a diventare quelli che siamo: figli della risurrezione. La risposta di Gesù ai Sadducei non riguarda semplicemente una verità degli ultimi tempi: i morti risorgeranno. Riguarda la potenza del dono di Dio che rende gli uomini che la accolgono figli della risurrezione. Che significa tutto ciò?

Nelle beatitudini è detto: 'beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio' (Mt 5,9). E Gesù dice che i figli della risurrezione sono i figli di Dio. Allora figli della risurrezione sono i 'pacifici' intendendo: chi vive nella pace e nella concordia, quella che Gesù ci ha ottenuto con il dono del suo Spirito e che Paolo illustra in Ef 4,32 dicendo: "Dio ha perdonato a voi in Cristo", espressione che secondo il verbo greco dovrebbe essere resa con 'Dio ha fatto grazia di Sé a voi in Cristo'. È l'esperienza profonda del suo perdono, di questo suo farsi grazia a me, che rende capace me, a mia volta, di fare grazia di me a tutti nel suo amore, in fraternità.  Ma questa è proprio l'opera del suo Spirito, quello che sulla croce Gesù ha reso al Padre perché venisse effuso su di noi. È quello Spirito che invochiamo nella preghiera eucaristica perché ci renda un unico corpo e uno spirito solo, finché alla fine Dio sia tutto in tutti. Figli di Dio sono allora coloro che lo Spirito governa, coloro che si muovono sotto l'azione dello Spirito e l'unica perfezione desiderabile per l'uomo è appunto quella di lasciarsi penetrare fin nelle midolla da questo far grazia di Sé da parte di Dio agli uomini  in Cristo per la potenza del suo Spirito. Come dice stupendamente s. Francesco, sintesi dell’intera Tradizione: “ciò che devono  desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”.

Ora, essendo i figli di Dio figli della risurrezione, vuol dire che la vita vissuta nel segno di questo fare grazia di Sé a noi in Cristo e di questo fare grazia di noi a tutti in Cristo, è una vita non toccata dalla morte, non più toccata dal veleno della divisione e della separazione. E se il peccato porta la morte, vuol dire che il peccato non è che la resistenza, l'ostacolo, a vivere in totalità la 'fraternità' operata dallo Spirito, ostacolo che ci vela il volto di Dio e ci impedisce di conoscerlo come Padre.

Allora, l'espressione del canto all'alleluia: 'chi crede in me non morirà in eterno' significa: chi vive di me, chi è mosso dal mio Spirito, chi non esce dalla volontà di compiere quel mistero di riconciliazione in atto nella storia, di rispondere all'appello che viene dal desiderio di Dio di essere in comunione con gli uomini, non accorderà il benché minimo spazio all'odio e alla tristezza nei confronti di qualcuno e perciò non uscirà mai dalla vita che proviene da Dio. E il Dio che gli infonde questa vita sarà oramai il suo Dio, proprio come lo è stato di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. La morte è la rinuncia a questa 'proprietà' di relazione con Dio. Si realizzi anche per noi quello che Origene chiede per sé: “Magari venisse concessa anche a me l’eredità di Abramo, Isacco, Giacobbe e divenisse mio il mio Dio allo stesso modo che è diventato Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, in Cristo Gesù, Signore nostro”.