Secondo ciclo

Anno liturgico C (2006-2007)

Tempo Ordinario

 

27a Domenica

(7 ottobre 2007)

 

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Ab 1,2-3; 2,2-4 // 2Tm 1,6-14 // Lc 17,5-10

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Il tema della liturgia di oggi è la fede. Il brano di vangelo ci presenta una serie di insegnamenti di Gesù che a prima vista sembrano assortiti, ma a ben guardare tutti ruotano sulla fede.

Gli apostoli dissero al Signore: “Aumenta la nostra fede! ”. Non è una richiesta in generale. La circostanza precisa, a partire dalla quale scaturisce la richiesta degli apostoli, è data dai versetti precedenti:  "Se un tuo fratello pecca, rimproveralo; ma se si pente, perdonagli. E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice: Mi pento, tu gli perdonerai”. Così tanto, in modo così nuovo Gesù aveva insistito nella sua predicazione su questo comando divino: 'tu gli perdonerai'! E' alla portata dell'uomo perdonare la prima, la seconda, forse anche la terza volta ad un suo fratello, ma perdonare indefinitivamente, sempre, non appartiene al cuore dell'uomo. Eppure il cuore dell'uomo sa e sente che non può riacquistare l'innocenza perduta se non nella riconciliazione, nel perdono offerto e ricevuto, costantemente. Qui si radica l'esperienza di Dio per ogni cuore: ognuno sente che non potrà avere accesso all'Amato a meno che Lui stesso apra le porte del Suo cuore; che non riuscirà credibile nell'offerta del suo amore se l'amore dell'Altro non lo accoglie prima, non gli riverserà in grembo quella tenerezza che non guarda a meriti o a diritti perché diversamente ci sentiremmo eternamente condannati alla solitudine. L'unica cosa che ci viene richiesta è la schiettezza, il riconoscimento del nostro peccato, la non giustificazione davanti ai nostri peccati, tutti atteggiamenti che rivelano quanto il nostro cuore non ha più paura di Dio. Non ci si illuda: il compito del perdonare, del vivere da riconciliati, se da una parte esige la coscienza viva del nostro essere peccatori, dall'altra comporta l'esperienza della confidenza con Dio e quindi si tratta di un compito dall'estensione divina. Ed è per questo che nel perdonare si gioca la sincerità dell'aver incontrato Dio e dell'esserci percepiti solidali con i nostri fratelli. La difficoltà risiede proprio nel fatto che non è così semplice ritenerci peccatori, assillati come siamo dalla paura di venire respinti e che non è così facile non aver più paura di Dio.

La domanda di fede degli apostoli va in questa direzione. E va osservato che la risposta di Gesù non riguarda la 'quantità' della fede, come se importasse poterne avere poca o tanta. Si basa sulla sua natura, sul fatto di averla 'schietta', 'limpida', 'vitale', 'viva', proprio come un seme che nasconde l'energia di trasformazione per arrivare ad essere albero. “Se aveste fede quanto un granellino di senapa" non vuol dire 'basta che ne abbiate un pochino, grande come un granellino di senapa', ma piuttosto 'è sufficiente quella che avete, basta che sia genuina e viva come un seme, che pur piccolissimo, poi diventa una grande pianta'. Dobbiamo ricordare la parabola di Luca 13,18-19 "Diceva dunque: “A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo rassomiglierò? È simile a un granellino di senapa, che un uomo ha preso e gettato nell’orto; poi è cresciuto e diventato un arbusto, e gli uccelli del cielo si sono posati tra i suoi rami”. Nell'interpretazione dei Padri, gli uccelli che vengono a posarsi tra i suoi rami sono tutti i nostri pensieri che sono attratti e trovano riposo in quella Parola che è stata seminata nel nostro cuore e che alla fine ha inglobato tutto di noi contagiandoci con quell'energia divina, insopprimibile, che racchiudeva.

Anche qui, quello che ci è richiesto, non è il poco o il tanto, ma la sincerità, la schiettezza, la verità del cuore.

A questa schiettezza, sincerità, si attiene il servo e non chiede altro. Quanto è facile cadere nella rivendicazione dei nostri diritti, di quel che è giusto, di quel che ci viene, di quello che ci si deve! Atteggiamento più sbagliato non potremmo assumere! La vita non si allea con chi avanza titoli di pretesa. Il Signore nemmeno, per quanto aspetti alle porte del nostro cuore in attesa che impariamo semplicemente a chiedere e non a esigere, semplicemente a dare e non a pretendere, semplicemente a fare e non ad aspettarci che ci venga fatto. E questo sarà possibile quando ci accorgeremo che non vale la pena cercare qualcosa, ma solo Qualcuno, anzi, che Qualcuno ci ha trovati, è venuto a servirci; che non avremo mai titoli a sufficienza per farci ammirare, ma ci ritroveremo belli solo nella grazia di Chi ci ama; che essere servi, nell'esperienza evangelica, significa non aver più bisogno di dimostrare nulla, di esibire nulla, di imporci in nulla perché avremo trovato quello che il nostro cuore cerca, cioè l'intimità con Chi ci ha amato e ci muove da dentro ad amare a nostra volta. Il vero 'servo' è proprio Gesù, che nella confidenza più totale con il Padre, serve tutti per conquistare tutti a quella stessa confidenza. La forza del suo amore deriva dalla forza di quella intimità. La stessa cosa vale per noi, suoi discepoli, suoi servi. 'inutili' non perché non facciamo nulla, ma perché, per quanto facciamo, non possiamo meritarci la stima e l'amore del Padrone e perché non aggiungiamo nulla alla ricchezza del Padrone. Inutili equivale a 'poveri', 'semplici', 'semplicemente' servi e nulla di più, ma il nostro titolo di gloria e di onore sta proprio qui: non voler essere e avere altro che quello che l'amore del Signore ha voluto per noi. La rettitudine del servizio sta esattamente in questo accogliersi nei confronti del Padrone senza perdersi nei confronti con gli altri servi. Quando il profeta proclama:  "Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede" (Ab 2,4) vuol dire proprio questo: chi non avanza pretese, confida davvero in Dio e non inciamperà nella vita perché non sarà in contesa con gli uomini; l'intimità con Lui lo custodirà nella libertà di un cuore che ormai non ha più bisogno di dimostrare ed esibire nulla perché ha trovato ristoro e diventerà a sua volta fonte di vita per tutti.

Risuona tremenda, e consolante al tempo stesso, l'affermazione di Paolo ai Romani : "tutto quello, infatti, che non viene dalla fede è peccato" (Rom 14,23), affermazione che potrebbe qui essere ripresa a suggello degli stessi insegnamenti di Gesù. Quello che non deriva dalla confidenza in Dio viene dalla paura e se viene dalla paura è la rivendicazione che avanza, rivendicazione che stoppa il cammino della comunione con se stessi, con gli altri, con Dio, con le cose.