Secondo ciclo

Anno liturgico C (2006-2007)

Tempo Ordinario

 

23a Domenica

(9 settembre 2007)

 

_________________________________________________

 Sap 9,13-18;  Sal 89;  Fm 9-17;  Lc 14,25-33

_________________________________________________

 

Gesù affascina ma non inganna. Le parole del brano di oggi sono inequivocabili: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo”. La liturgia, con il salmo 89, fa pregare: ‘Donaci, o Dio, la sapienza del cuore’, mentre la prima lettura riporta la solenne preghiera di Salomone per ottenere la sapienza.

Emerge allora la domanda: può l’uomo accogliere le parole di Gesù senza che la sapienza dall’alto abbia raggiunto il suo cuore? Perché la sapienza che viene dall’alto comporta proprio l’apertura del cuore al mistero di quel Figlio di Dio che rivela lo splendore dell’amore del Padre per gli uomini. Se il cuore non intravede quello splendore, tutto risulta sbarrato, ostico. Da notare che la sapienza, avendo presieduto alla stessa creazione, conosce i misteri delle creature perché conosce i pensieri di Dio. Così, quando Gesù annuncia la grazia del suo vangelo, non scavalca la natura, ma ne rivela il compimento. Gesù è la verità da parte di Dio (= rivela il vero volto di Dio) e da parte dell’uomo (= conosce il desiderio dell’uomo e ne assicura il compimento). Perché allora il suo parlare, come nel brano di oggi, suona tanto ostico alla nostra natura? Qui si cela il dramma e la gloria dell’uomo: l’uomo desidera il bene, ma non ha in sé il criterio di discernimento del bene. Nessuno, che sia sano di mente, sosterrà che non siano buoni gli affetti familiari (tra l’altro, oggetto di comandamenti precisi!); ma chi può sostenere che gli affetti familiari siano sempre e comunque buoni? “Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono” (Mt 19,17) ebbe a dire Gesù. Gli affetti naturali vanno giudicati in rapporto a quella vocazione all’umanità che è il destino della vita, ma la vocazione all’umanità è definita sullo splendore dell’amore di Dio per gli uomini, manifestato in Gesù. Così, quando Gesù parla di preferire l’essere suo discepolo agli affetti naturali, intende rivelare che la radice della vita è nell’amore di Dio che fa da criterio di discernimento a ogni altra cosa. La cosa non è scontata però per il cuore dell’uomo; comporta una specie di ‘morte a se stessi’ per vivere se stessi in modo pieno. Portare la croce significa morire al mondo per accedere per davvero alla dimensione della fede, diventata radice di vita, in Gesù. La sapienza che viene dall’alto ci è necessaria continuamente per operare questo passaggio, perché conoscere i pensieri di Dio comporta sempre scoprire le radici della vita. E questo è il motivo per cui la ‘scoperta’ della sapienza, del ‘tesoro’ nascosto nel campo, comporta sempre un’intima letizia, letizia che ti abilita a vendere, a lasciare tutto il resto.

In effetti, il brano di oggi termina con l’affermazione: “Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. Delle tre caratteristiche che contraddistinguono il discepolo di Cristo secondo l’evangelista Luca, questa è la prima: il discepolo perfetto rinuncia a tutti i suoi averi (le altre due sono: il discepolo perfetto perdona condividendo la gratuità dell’amore misericordioso di Dio e resta fedele nelle prove, vivendo nella pazienza la pace sperimentata). Gli averi sono tutto ciò che sostenta la vita, beni e affetti, che non sono più vissuti a partire da se stessi, ma nella più totale confidenza con Colui che ne è il Dispensatore. Sottrarre confidenza ai beni significa godere della confidenza nella vita. Non è immediata la costatazione, ma risulta vera: facendo confidenza sui beni, si perde confidenza con la vita; guadagnando confidenza con la vita, si godono i beni. La vita però è quella che Gesù rivela e promette al suo discepolo; è quella che Lui stesso vive e che comunica al suo discepolo; è quella che proviene dal vivere il compimento della vocazione all’umanità che in Lui acquista tutto il suo splendore perché a Dio rimanda e da Dio prende vigore. La sapienza che domandiamo conduce là.

E se è vero che la sapienza fa capolino nel cuore quando ci accorgiamo che non siamo eterni e che passiamo presto, come dice il salmo, può però entrare nel cuore quando risuonano vere per noi le parole: “si manifesti ai tuoi servi la tua opera e la tua gloria ai loro figli”, frase che acquista tutto il suo significato davanti a Gesù, riconosciuto come lo splendore dell’amore del Padre per gli uomini. Alla visione della fede, nel mistero dell’obbedienza, si accorda la sapienza, come suggerisce s. Francesco di Assisi nella sua terza ammonizione: “Dice il Signore nel Vangelo: Chi non avrà rinunciato a tutto ciò che possiede non può essere mio discepolo (Lc 14,33); e: Chi vorrà salvare la sua anima, la perderà (Mt 16,25). Abbandona tutto quello che possiede e perde il suo corpo e la sua anima l’uomo che totalmente si affida all’obbedienza nelle mani del suo superiore, e qualunque cosa fa o dice e che egli stesso sa che non è contro la volontà di lui, purché sia bene quello che fa, è vera obbedienza”. Affidarsi all’obbedienza significa vivere della visione della fede, in quella ‘compagnia’ di vita con Colui di cui abbiamo imparato a riconoscere l’amore salvatore e di cui finalmente ci fidiamo perdutamente.