Secondo ciclo

Anno liturgico B (2005-2006)

Tempo di Pasqua

 

2a Domenica

(23 aprile 2006)

 

_________________________________________________

At 4,32-35; 1Gv 5,1-6; Gv 20,19-31

_________________________________________________

 

Per tutta l’ottava di Pasqua il canto al vangelo ci ha proclamato: “Questo è il giorno fatto dal Signore: rallegriamoci ed esultiamo”. Cambia la percezione del tempo. Con la risurrezione di Gesù la nostra storia si dilata nella storia di Dio, il Vivente. Dire che ‘questo è il giorno del Signore’ non vuol significare soltanto che l’oggi della risurrezione non poteva che essere creato da Dio, ma soprattutto che quel giorno sovrasta e ingloba tutti i giorni dell’uomo, che tutti i nostri giorni procedono e fioriscono in quell’unico giorno eterno che non verrà mai meno. Come, del resto, dire che ‘eterna è la sua misericordia’ non vuol significare soltanto che Dio sarà eternamente fedele alla sua misericordia o che la sua misericordia durerà per sempre, ma soprattutto che, essendo la sua misericordia dall’eternità, si trova alle origini del nostro mondo, ne racchiude il senso e il mistero fino alla fine, finché il mondo sussisterà.

La colletta della messa di oggi prega perché Dio ‘accresca in noi la grazia che ci ha dato’ con l’avvenimento della risurrezione di Gesù. Qual è questa grazia? È la grazia della rivelazione dell’immenso amore del Signore per noi che a tal punto ci ha amati da morire per noi e farci condividere la sua stessa vita, la vita di Colui che è proclamato ‘il Vivente’, Colui sul quale la morte non ha più potere. Non si tratta di una semplice affermazione dogmatica che riguarda la natura della persona di Gesù, ma dello svelamento di una possibilità di ‘vita divina’ concessa all’uomo che, guardando a ‘Colui che è stato trafitto’, lo riconosce suo Signore e suo Dio, come Tommaso, in totale confidenza.

Se Luca descrive la prima comunità cristiana con un cuor solo e un’anima sola, non tratteggia un idillio, ma ne rivela la tensione dinamica, la tensione di una vita nella fede del Risorto, che diventa radice di umanità nuova, la cui cifra è la comunione. Nel canone eucaristico, quando si invoca la discesa dello Spirito Santo sulla comunità dei credenti, è per essere abilitati a vivere ‘un cuor solo e un’anima sola’, in tutta fraternità. Accogliere la vita dal Risorto significa non cercarla più da altre parti perché cercarla altrove comporterebbe la divisione dai miei fratelli e se vivo diviso sono soggetto alla morte e divento causa di morte. Le meraviglie dell’amore di Dio che cantiamo nel salmo responsoriale sono appunto le meraviglie di quella vita donata che contemporaneamente rivela l’opera di Gesù e il frutto che ne consegue per i cuori che vivono nella tensione di una comunione imprendibile dal male. Da qui deriva quella forza che fa dire all’autore degli Atti degli apostoli: “con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione”. La loro vita era diventata segno della presenza del Risorto nel mondo.

Quella vita scaturisce dalla beatitudine che Gesù rivela a Tommaso: “beati quelli che pur non avendo visto crederanno”. Non penso che Gesù voglia dire che si deve credere e basta, senza vedere, quasi che fosse riservato un premio speciale alla fede. E’ tipico invece della fede aprire gli occhi alla visione. Solo che la visione non precede, non può servire di giustificazione alla fede. Sarà la fede a introdurre alla visione. Quando Tommaso protesta la sua incredulità non è per mancanza di fede, ma perché si è trovato così coinvolto nella vicenda di Gesù, al quale aveva aderito con tutto il cuore (Tommaso non è un pavido, un insicuro; le altre due volte che il vangelo di Giovanni parla di Tommaso ce lo presenta come un uomo generoso, pronto ad andare a morire con Gesù) che non vuole illudersi. Il suo dubbio procede da un cuore che ha preso molto sul serio la vicenda di Gesù. Quando Gesù, ricomparendo, gli dice di mettere la mano nel costato e nelle cicatrici, non ha bisogno di ricredersi, di scusarsi: è tutto teso a quel Signore che ha sempre voluto seguire e che ora riconosce per davvero "mio Signore e mio Dio", la più solenne professione di fede del vangelo di Giovanni. In quel 'mio' c'è tutto l'anelito del suo cuore, la sua esperienza di Lui, anche se non ne capiva il parlare e non poteva accettare i suoi propositi di andare incontro alla morte, ma di cui condivideva la strada; in quel 'Signore e Dio', c'è tutta la rivelazione di Gesù al suo cuore. E con quella professione di fede gli è scesa in cuore quella 'pace' che Gesù aveva dato agli apostoli comparendo davanti a loro. Nella vicenda terrena di Gesù, la pace sigilla l'inizio e la fine, rivelazione e dono del Dio misericordioso verso gli uomini. Al presepio di Betlemme gli angeli annunciano la pace; nel discorso all'ultima cena, Gesù promette la sua pace; dopo la risurrezione Gesù dona la sua pace e con la nostra professione di fede quella pace scende nel cuore e ne occupa le sorgenti. Nessuno e niente potrà rapire quella pace da quel cuore! E' la stessa 'pace' che abita i cuori quando si accostano all'Eucaristia, dove la chiesa fa esperienza della presenza del Risorto. Quella pace è a prova di ogni tipo di male perché si colloca così profondamente alle radici dei cuori che non può essere rapita da niente e da nessuno. La vita che scaturisce da quella pace non è più soggetta alla morte, non tollera più divisioni e ferite alla fraternità, perché l’amore del Signore deve risplendere per tutti e per tutto il mondo.