Ottavo ciclo
Anno liturgico C (2024-2025)
Tempo di Avvento
I Domenica
(1 dicembre 2024)
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Ger 33,14-16; Sal 24 (25); 1Ts 3,12-4,2; Lc 21,25-28.34-36
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È caratteristico che il tempo liturgico si chiuda e si apra con il riferimento allo stesso brano evangelico. L’attesa del Signore che viene è considerata nella sua valenza escatologica (il Cristo glorioso che verrà come giudice alla fine della storia), nella sua valenza profetica (Gesù che entra nella storia con la nascita a Betlemme), nella sua valenza mistica (il Signore che nasce e cresce nei cuori). Al centro dell’Avvento sta la figura di ‘Colui che viene’, espressione che è sempre stata riferita al Messia, a Colui che avrebbe fatto vedere presente il Regno di Dio. Dire ‘colui che viene’ è riferirsi a colui che salva, al Salvatore che realizza la salvezza.
Il tema della vigilanza, tipico dell’Avvento, si innesta nella corrispondenza tra l’antifona di ingresso: “Mio Dio in te confido” e il versetto 14 del salmo responsoriale: “Il Signore si confida con chi lo teme”, versetto che il testo ebraico proclama in modo ancora più eloquente: “Il segreto (l’intimità) del Signore è per chi lo teme”. Il segreto del Signore è quello rivelato dal profeta Geremia, mentre si trovava in prigione e riceve la rivelazione: “Invocami e io ti risponderò … perdonerò tutte le iniquità … verranno giorni nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto”. E il salmo, come interpretando i bisogni del cuore dell’uomo e la difficoltà di incontrare il Signore che viene, continua a sottolineare: “Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri”. Come a dire: le vie del Signore che chiediamo di conoscere sono la verità del suo amore, che in Gesù si è reso toccabile. Non c’è evento nella nostra vita che possa cancellarlo o soffocarlo o far desistere il Signore dal suo amore. Temere lui vuol dire non impedire al cuore di vivere di quel suo desiderio di amore per noi. Non è proprio agevole né per nulla scontato accettare che i sentieri di Dio nei nostri confronti siano amore e fedeltà. Ma il Signore Gesù, nato nella nostra storia, è lì a proclamarlo, a ricordarcelo, a far risplendere il suo amore perché ci conquisti e ci acquieti, ciascuno e tutti insieme.
La vigilanza serve a questo: a tenerci desti all’amore del Signore. E l’uomo è colui che alza il capo per essere capace di vedere le promesse di Dio, di vederle compiersi nel suo cuore. Per tutto l’avvento risuonerà l’esortazione: ‘vegliate e pregate’, come a dire: abbiate un occhio acuto e un cuore ardente. Non si tratta solo di un esercizio di intelligenza (vegliate!) ma di un processo di confidenza (pregate!). Un antico saluto degli indiani Hopi suona: sta’ attento a che la tua testa resti aperta verso l’alto! Tenere aperta la testa verso l’alto significa allora superare la paura, perché il Dio che siamo chiamati a conoscere è un Dio di amore per noi. Attende solo – anche Dio attende! – di incontrare cuori aperti alla sua promessa, fiduciosi di vedere il bene che la sua promessa ci rivela.
L’esortazione alla vigilanza allude all’attesa del cuore, mentre l’invito alla preghiera allude alla possibilità del compimento delle promesse di Dio. Attesa e promessa che sono ben espresse dalle parole di Gesù riportate in Giovanni: “Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui … Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,21.23). Costituisce il godimento dell’ultima promessa di Gesù: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). E che il prefazio della liturgia di Avvento interpreta: “Ora che egli viene incontro a noi in ogni uomo e in ogni tempo, perché lo accogliamo nella fede e testimoniamo nell’amore la beata speranza del suo regno”.
Il compimento di quelle promesse si sperimenta in ciò che Paolo esorta a vivere scrivendo ai Tessalonicesi: “Fratelli, il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi, per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi”. La lettera è il più antico documento letterario del Nuovo Testamento, scritta da Paolo verso l’anno 51, appena una ventina d’anni dopo la morte e risurrezione di Gesù. La generosità degli inizi, con la partecipazione entusiasta alla carità di Dio rivelata in Gesù che tutti coinvolge trasformando la vita, non può non riflettersi nell’attesa, avvertita imminente, del ritorno di Gesù. Ben presto però le comunità cristiane si sono rese conto che l’imminenza non riguarda i tempi, bensì la dimensione mistica, quella che corrisponde all’esperienza trasformante della rivelazione dell’amore di Dio che in Gesù si fa toccabile. È una esortazione alla speranza, che deriva dalla confidenza in Colui che è il testimone supremo della grandezza dell’amore del Padre per i suoi figli. Con lo sguardo fisso su di lui, anche noi cresciamo nella disponibilità a rendere la nostra vita, con lui, segno dell’amore del Padre che ci chiama tutti alla stessa mensa.
E ritornando al brano evangelico di oggi, potremmo comprendere l’invito ad alzare il capo in questo modo: cercate di cogliere il segreto di Dio che vi viene incontro; cercate di bucare la cronaca con uno sguardo acuto per vedere il Signore che viene, vale a dire: lasciatevi attrarre dalla potenza dell’amore del Signore che vuole liberarvi dai vostri ripiegamenti su voi stessi. Guardare in alto e guardare dall’alto significa guardare nel profondo e dal profondo vedere le cose. Se il regno di Dio non è di questo mondo, è però per questo mondo. Così, aspettare il Signore che viene, significa essere attratti nella stessa dinamica di invio del Messia al mondo perché l’amore di Dio sia conosciuto.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico C (2024-2025)
Solennità e feste
Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria
(8 dicembre 2024)
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Gn 3,9-15.20; Sal 97; Ef 1,3-6.11-12; Lc 1,26-38
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La solennità dell’Immacolata Concezione, già celebrata in oriente fin dal sec. VIII, si estese in occidente nel sec. XII, accolta prima dai francescani e poi iscritta nel calendario di Roma nel 1476. Pio IX, nel 1854, con la bolla Ineffabilis Deus, definì come dogma di fede l’immacolato concepimento di Maria, che la cristianità ha visto confermata con le apparizioni di Lourdes del 1858.
In un bellissimo canto composto nel 1958 da Sandu Tudor, monaco ortodosso romeno, Inno acatisto al roveto ardente della Madre di Dio, il concepimento della Vergine Maria è letto come fiore sbocciato sulla preghiera dell’umanità che l’ha preceduta:
Lungo cinquanta secoli,
attraverso Abramo e Davide,
la tua genealogia profetica
ha riempito i cieli
di lacrime e prostrazioni
predisponendo il dono dell’immacolato
tuo corpo intessuto di preghiera,
eterno Roveto inconsumabile.
Il Sacro Fuoco in Te canta
come in un fiore di gloria.
La natura attraverso di Te racconta
la sua struggente nostalgia di redenzione.
La tradizione venera la Vergine come “la madre del Creatore di tutte le cose, colei che ha divinizzato il genere umano e ha divinizzato la terra, che ha fatto di Dio il figlio dell’uomo e ha reso gli uomini figli di Dio”. L’antifona di ingresso della festa mette in bocca alla Vergine la profezia compiuta di Isaia: “Esulto e gioisco nel Signore; l’anima mia si allieta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza, mi ha avvolto con il manto della giustizia, come una sposa adornata di gioielli” (Is 61,10). Quella stessa lode i fedeli riprendono con la preghiera dell’Ave Maria, preghiera che è entrata nell’uso così come la conosciamo, con la sua adozione da parte dell’ordine dei Mercedari, nel 1514. Lei è la ‘benedetta’ perché porta il ‘Benedetto’, salutato dalla folla degli ebrei nel suo ingresso trionfale a Gerusalemme con la proclamazione: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore” (Mc 11,9).
La benedizione ha raggiunto l’umanità della Vergine in modo così singolare da renderla tanto ‘umanamente piena’ da essere degna dimora per il Figlio, come proclama la colletta: “O Padre, che nell’Immacolata Concezione della Vergine hai preparato una degna dimora per il tuo Figlio, e in previsione della morte di lui l’hai preservata da ogni macchia di peccato, concedi anche a noi, per sua intercessione, di venire incontro a te in santità e purezza di spirito”. La sua umanità, in tutte le sue fibre, fin dal concepimento, è andata incontro al Signore in santità e purezza di spirito ed è diventata degna dimora del Figlio. Della sua umanità siamo fatti anche noi, con il suo Figlio condividiamo la stessa umanità, perché anche noi possiamo tornare a far splendere e a far godere nel mondo la stessa benedizione, la dimora di Dio in mezzo a noi.
L’aspetto assolutamente straordinario del disegno divino per l’uomo, come dice s. Paolo, è il fatto che prima della creazione del mondo siamo stati scelti, che la Vergine è scelta prima della creazione del mondo, che il Figlio è destinato al mondo prima che il mondo fosse. Una visione del genere, se non è una fantasia, significa che il senso delle cose, della vita, del mondo, ha radicalmente a che fare con l’incommensurabile amore di Dio, la cui luce tutto attraversa e struttura e di cui la Vergine Maria è il sigillo insieme al suo Figlio.
A differenza di noi, la Vergine non è caduta nell’inganno che tormenta i figli degli uomini, inganno che presenta il brano della Genesi. Anche lei è stata duramente provata nella sua umanità: con l’offerta della sua umanità ha permesso all’amore di Dio, nel suo Figlio, di svelarsi al mondo; ha conosciuto la sofferenza dell’amore con il suo Figlio e ora accompagna ogni sofferenza umana perché venga aperta all’esperienza dell’amore. In lei la sofferenza non ha generato ribellione, il dramma non ha velato la fede, il desiderio non ha compromesso l’amore, l’agire non ha macchiato la coscienza. E questo perché l’unico rimedio all’inganno è “andare incontro al Signore”, così tipico dell’anima della Vergine.
Quando lei si proclama: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”, intende dire: Dio solo sia benedetto, si realizzi la sua promessa, si manifesti in me, finalmente e compiutamente, il suo Bene all’umanità! Proclamandosi serva del Signore esprime il suo desiderio della dimora di Dio in mezzo agli uomini, di cui tutto il suo essere è testimonianza e intercessione per l’umanità intera. La sua proclamazione esprime anche la preghiera di ogni discepolo del Signore: avvenga per me secondo quello che hai stabilito fin dall’eternità, si compia in me quello che dalla fondazione del mondo hai promesso all’umanità, si veda realizzato in me quel Regno che nel tuo Figlio hai fatto venire.
La Vergine Maria è proprio colei che della dimora di Dio ha fatto tutto lo scopo della sua vita, tutto il desiderio della sua umanità. L’esperienza di cui è stata gratificata può diventare, nel suo Figlio, accessibile a tutti e a ciascuno. Io collegherei la domanda di Dio ad Adamo allo stesso volere di Gesù che, prima della sua passione, svelando ai discepoli i suoi segreti, proclama loro: “Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi” (Gv 14,3). Dove è Gesù? Gesù è nell’amore del Padre per noi, così noi, in lui, siamo nello stesso amore per tutti. La Vergine è colei che da sempre ha abitato quel ‘luogo’, che da sempre è collocata nel ‘luogo’ dove Gesù è. Lì ci invita e ci accompagna.
Mi piace ricordare la bella spiegazione di Gregorio Palamas, nella sua Omelia 14, del titolo riferito alla Madre di Dio nostra Signora: “… signora non solo in quanto libera dalla servitù e partecipe della divina signoria, ma anche perché fonte e radice della libertà del genere umano, soprattutto dopo il parto, ineffabile e beato”. Il suo avere il Signore con lei è motivo di fiducia per noi di trovarlo, di essere accompagnati a lui, di stare in sua compagnia. Il Signore è con te diventa, nella nostra preghiera: “tu, che hai il Signore, supplicalo perché sia anche con noi, ora e sempre!”.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico C (2024-2025)
Tempo di Avvento
III Domenica
(15 dicembre 2024)
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Sof 3,14-18; Sal: Is 12,2-6; Fil 4,4-7; Lc 3,10-18
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“Gioisci, figlia di Sion, esulta, Israele, e rallegrati con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme!”; “Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi”. Così la liturgia, oggi, accoglie i fedeli: li chiama alla gioia, insistentemente. Per quale motivo? Con quali ragioni? Se non si coglie la portata di questo invito, nemmeno si può cogliere la portata delle parole e della testimonianza del Battista secondo il racconto del vangelo.
Il ritornello del salmo responsoriale definisce il nostro Dio come ‘Dio della gioia’. L’espressione va intesa in due sensi: Dio è pieno di gioia per noi (= noi siamo la sua gioia) e Dio è fonte di gioia per noi (= Dio è la nostra gioia). Se il cuore non vede mai, non percepisce mai come Dio cerchi la sua gioia in noi, come Dio non si dia pace finché non vediamo quanto è contento di poter stare con noi, come potremo fare esperienza che Dio è la nostra gioia, che i suoi comandamenti sono la gioia del nostro cuore? Il profeta Sofonia lo dice chiaramente: è Dio ad esultare di gioia per noi; è lui a revocare la nostra condanna, è lui che gioisce operando la nostra salvezza, come non potesse essere felice senza di noi. La cosa è tanto singolare che la nostra psicologia interiore non riesce a produrre una sensazione del genere. Eppure, la percezione della gioia di Dio per noi è la radice della nostra dignità. Quella percezione è frutto della ‘conversione’, vale a dire della impossibilità di negare che Dio viene a noi con gioia, gioia che è frutto del suo amore per noi che conquista il nostro cuore. È l’esperienza della fede: Dio viene incontro a noi e noi lo riconosciamo nel suo agire per noi, a nostro favore. Riconoscere la sua gioia la procura anche a noi.
Quando Giovanni Battista riconosce in Gesù l’Inviato di Dio, lo riconosce appunto come riflesso della gioia che quella visione, quell’incontro, gli procura. Fin dal grembo di sua madre, Giovanni ha esultato di gioia alla presenza di Gesù. Da adulto, ormai al termine del suo cammino, di sé dice: “Ma l’amico dello sposo sta in piedi ad udirlo e si riempie di gioia alla voce dello sposo” (Gv 3,29): godeva non tanto perché gli era dato predicare e parlare, ma perché poteva ascoltare. Così, quando Luca deve descrivere la premura di Dio per gli uomini, non ha di meglio che narrare la parabola del figlio ritrovato, della pecorella e della dramma ritrovate (Lc 15) dove la rivelazione del cuore di Dio si fa evidente proprio attraverso la sua gioia per noi. Ciò vuol dire ancora che la nostra gioia non può derivare dalla nostra innocenza, perché davanti a Dio suonerebbe solo come una pretesa di giustizia, mentre deriva dal suo amore per noi.
Così il motivo della gioia della liturgia di oggi è la proclamazione che il Signore è in mezzo a noi come un salvatore potente, dove potente significa ‘capace di dare letizia’ e salvatore ‘pieno della gioia che arriva anche a noi, capaci finalmente di condividerla’. In tal senso il brano evangelico ha un’allusione misteriosa. Giovanni chiama Gesù ‘uno che è più forte di me’ e mette in relazione quella forza allo Spirito Santo nel quale Gesù battezzerà. Come riporterà Luca più avanti, cap. 11, v. 22, il definire Gesù ‘il più forte’ significa riconoscergli la dignità di Messia. E la forza del Messia sta nel fatto che fa vedere Dio presente, che fa vedere il Regno che si compie. Ma il Regno che si compie è proprio l’amore di Dio, apertamente e fraternamente condiviso con tutti gli uomini, nello Spirito, cioè nella letizia che non viene più tolta. E la letizia che non viene più tolta (= la perfetta letizia di s. Francesco) è proprio quella che custodisce la gioia di Dio per noi perché il suo amore ormai risplende senza farsi più turbare o distrarre da altro. Secondo il detto di S. Francesco: “quando il tuo cuore è afflitto, è affare tuo e del tuo Dio; ricorda però che tutti hanno diritto alla tua gioia”. È la letizia come segno del Regno che viene, come l’opera di Dio che si fa manifesta. Per questo insieme allo Spirito Santo viene nominato il fuoco. È l’altra faccia della medaglia: condividere la gioia di Dio per l’uomo comporta evidentemente il bruciare tutto quello che a quella gioia si oppone o che quella gioia contraddice. E poi scopriamo che ciò che contraddice la gioia di Dio è la chiusura nei confronti dell’umanità, per cui l’indicazione delle varie opere che il Battista elenca come segno dell’incipiente conversione si muove nella prospettiva di una dinamica di solidarietà con gli uomini.
La colletta, declinando con lucidità i temi tipici della liturgia di oggi, con l’invito alla gioia e all’agire secondo Dio, fa pregare: “O Dio, fonte della vita e della gioia, rinnovaci con la potenza del tuo Spirito, perché corriamo sulla via dei tuoi comandamenti e portiamo a tutti gli uomini il lieto annunzio del Salvatore”. La chiesa fa pregare perché corriamo, non solo camminiamo sulla via dei comandamenti. Si corre perché la letizia ci mette le ali, come dice anche il salmo: “corro sulla via dei tuoi comandamenti perché hai dilatato il mio cuore” (Sal 118,32), che il prologo della Regola di s. Benedetto parafrasa: “Mentre invece, man mano che si avanza nella vita monastica e nella fede, si corre per la via dei precetti divini col cuore dilatato dall’indicibile sovranità dell’amore”.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico C (2024-2025)
Tempo di Avvento
IV Domenica
(22 dicembre 2024)
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Mic 5,1-4a; Sal 79 (80); Eb 10,5-10; Lc 1,39-45
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Due le espressioni che si richiamano a vicenda in questa celebrazione: “fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi” del salmo responsoriale (Sal 79/80,4.8.20) e il canto al vangelo: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola” (Lc 1,38), versetto che precede immediatamente il brano evangelico odierno.
L’invocazione del salmo responsoriale equivale a domandare al Signore: vieni a visitarci, vieni a salvarci, mostraci il tuo amore! È l’invocazione che fin dall’inizio della creazione sale a Dio perché soccorra, perché si manifesti. La liturgia bizantina, nella domenica che precede la natività di Cristo, fa memoria di tutti i padri che dall’inizio del mondo si sono resi graditi a Dio, da Adamo sino a Giuseppe, sposo della Madre di Dio. E canta così il mistero della nascita di Gesù: “Sei disceso dal seno paterno e con ineffabile annientamento hai assunto la nostra povertà, o pietoso e compassionevole; ti sei compiaciuto di nascere in una grotta, in una mangiatoia, e prendi il latte come un fanciullino, tu che nutri l’universo; perciò, guidati da una stella, i magi ti portano doni come a Sovrano del creato. Insieme ai pastori stupiscono gli angeli, acclamando: Gloria a Dio nel più alto dei cieli e lode a colui che vuole sia pace sulla terra”.
L’invocazione che saliva dal mondo corrispondeva al desiderio stesso di Dio nei nostri confronti, come viene espresso nel brano della lettera agli Ebrei, che riporta il Salmo 39/40: “Allora ho detto: Ecco io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10,7). Sono le parole del Figlio di Dio, che non esprimono semplicemente una dichiarazione puntuale, che avviene, cioè, in un determinato momento, ma una dichiarazione eterna, frutto del colloquio eterno tra il Padre e il Figlio nell’amore che li lega tra loro per il mondo. L’apparire finalmente di Gesù nella storia umana non riguarda semplicemente la cronaca storica, ma concerne la dimensione eterna della storia umana. Lui ne è il fulcro, ne è la radice ed insieme il frutto. L’evangelista Giovanni esprimerà la stessa cosa facendo dire a Gesù nel colloquio con Nicodemo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).
Proprio a quel ‘volere di salvezza’ si appella la Vergine con le sue parole all’angelo: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola” (Lc 1,38), come proclama il canto al vangelo. È la testimonianza della sua fede e del suo amore più che della sua umiltà. Il volere di benevolenza di Dio per l’uomo, che si era espresso nel volere di intimità del Figlio con il Padre per essere il testimone del suo amore per gli uomini tra gli uomini, si rispecchia nel volere di obbedienza della Vergine che sta unita al suo Dio. Si rivela qui la santità dell’umanità della Vergine, che diventa lo spazio di realizzazione del desiderio di Dio per gli uomini, ritrovando in ciò tutta la sua dignità di creatura e tutto lo splendore nel quale era stata concepita fin dall’inizio.
Su questo si appunta l’elogio di Elisabetta: “beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”. È beata perché non solo ha creduto alle parole dell’angelo, ma ne ha accettata la dinamica di compimento. Il che significa che comunque l’opera di Dio si manifesterà, lei è disponibile. Parafrasando potremmo aggiungere: beata colei che ha fatto esperienza così forte e totale dell’amore di benevolenza di Dio per l’umanità da non ricercare altro nel suo vivere se non che quell’amore di benevolenza avesse tempo e modo di riversarsi su tutto e su tutti, su di lei come sul mondo.
Accogliere la rivelazione di Dio è entrare nella dinamica di carità che l’ha promossa. Se si accoglie il Verbo di Dio, se ne accoglie anche la dinamica di amore che l’ha spinto a venire a noi, dinamica che investe il mondo e che costituisce il suo splendore. Ecco perché in quell’ “avvenga per me secondo la tua parola” c’è anche l’impeto di carità che muove la Vergine ad andare da sua cugina Elisabetta. Le parole del magnificat alludono alla carità che ha investito il suo cuore e del cui splendore il suo agire è ormai testimone, segno della presenza fatta carne del Figlio di Dio.
La carità ha a che vedere con un’annotazione singolare del salmo 39/40, ripresa dalla lettera agli Ebrei. Dove il testo ebraico riporta: “Sacrificio e offerta non gradisci, gli orecchi mi hai aperto”, la versione greca della LXX legge: “Sacrificio e oblazione non hai voluto ma mi hai formato un corpo” (v. 7). Se Gesù prende un corpo, lo prende non solo per compiere il volere di salvezza di Dio per l’uomo, ma per mettersi in condizioni di compiere quella salvezza in termini di splendore di amore e di nient’altro. Assumere un corpo comporta lo svelare i segreti di Dio nella nostra lingua. Non c’è ombra di ‘potenza’ nell’amore che Gesù manifesta nascendo come un bambino, vivendo da uomo e morendo sulla croce; eppure, non c’è potenza più forte di quell’amore che non si fa vincere da nulla. È l’amore che ‘magnifica’ il Signore davanti all’uomo e l’uomo davanti a Dio.
Mi piace riportare le solenni antifone dei vespri della novena di Natale, riprese nel canto al vangelo delle Messe, perché costituiscono un’invocazione ardente e una preghiera intensissima al Signore che viene. Sono sette invocazioni strettamente congiunte che danno il tono alla nostra attesa della nascita del Salvatore:
O Sapienza, di te parlano tutte le cose, tutte a te anelano: di te splenda lo sguardo e il gesto ti ripeta;
O Adonai, Signore e guida della storia, che vai alla ricerca del tuo popolo e fai risplendere il tuo volto su di lui: affascina e acquieta i nostri cuori;
O Germoglio della radice di Jesse, segno per i popoli: alla tua ombra trovino ristoro e riposo le genti;
O Chiave di Davide, che con la tua morte e risurrezione hai aperto le porte del Regno: lascia trapelare il suo splendore nel nostro agire;
O Astro che sorgi, sole di giustizia: la bellezza del tuo volto e la verità della tua bontà rapiscano i cuori;
O Re delle genti, l’atteso delle nazioni, pietra angolare dell’umanità nuova: cedano gli odi e le divisioni perché in te gli uomini si ritrovino tutti figli di Dio, operatori di pace;
O Emmanuele, Dio con noi, speranza dei popoli: la tua pace custodisca i nostri cuori ed i nostri pensieri, come in cielo così in terra.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico C (2024-2025)
Tempo di Natale
Natale del Signore
(25 dicembre 2024)
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Messa della notte: Is 9,1-6; Sal 95 (96); Tt 2,11-14; Lc 2,1-14
Messa dell’aurora: Is 62,11-12; Sal 96 (97); Tt 3,4-7; Lc 2,15-20
Messa del giorno: Is 52,7-10; Sal 97 (98); Eb 1,1-6; Gv 1,11-18
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L’annuncio solenne, nella memoria dell’apostolo Giovanni, con la sua acutezza di sguardo e la commozione del cuore, oggi risuona festoso: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria” (Gv 1,14). Ecco, quell’annuncio comincia a prendere visibilità a Betlemme e la liturgia natalizia, con i suoi tre formulari della messa nella notte, all’aurora e del giorno, ne illustra il mistero.
Come invitati dall’apostolo Giovanni a vedere con il suo stesso sguardo e la sua stessa commozione, la liturgia bizantina proclama: “Venite fedeli, eleviamoci divinamente per contemplare la divina discesa dall’alto a Betlemme, verso di noi, visibilmente. Con l’intelletto purificato, con la nostra vita offriamo virtù in luogo di unguento profumato, predisponendo con fede l’avvento del Natale, acclamando, di fronte a questi tesori spirituali: Gloria a Dio Trinità nel più alto dei cieli: per lui è apparsa tra gli uomini la benevolenza, perché egli riscatta Adamo dalla maledizione ancestrale, nel suo amore per gli uomini”.
È la testimonianza di Paolo, che nella sua lettera a Tito riassume la rivelazione del natale di Gesù con le espressioni: “è apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini”, “quando apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini”. Appare, prende forma visibile, toccabile. È l’esperienza che risulta evidente con la persona concreta di Gesù, tanto che oramai Dio non può essere cercato che nell’umanità, perché con l’umanità si è confuso. Nel farsi bambino da parte di Dio c’è tutto l’onore e la dignità dell’umanità da riscoprire nella sua luminosità. Abbiamo dimenticato che siamo fatti di luce. E la luce non è che l’irradiamento della santità di Dio come amore per noi. Proprio questo quel Bambino, diventato grande, farà scoprire, mostrando sia Dio come amore che ci cerca sia l’uomo che a quell’amore anela. Sarà proprio la vita umana di Gesù a rivelare la bellezza di Dio; proprio la pratica di umanità, conforme alla volontà di Dio, in Gesù, racconterà la salvezza e il progetto di Dio su tutta l’umanità. Come s. Efrem canta stupendamente: “Benedetto colui che è venuto in ciò che è nostro e ci ha uniti a ciò che è suo!… Il nostro corpo è diventato il tuo vestito, il tuo Spirito è diventato il nostro abito. Benedetto colui che si è adornato e ci ha adornato”.
Gesù nasce povero, in condizioni disagiate e senza riconoscimenti, nonostante la potenza delle immagini messianiche che lo preannunciavano. La Vergine, sua madre, però, non gli ha fatto mancare, con la sua premura di mamma, la grazia dell’umanità, quell’umanità che poi lui, da grande, svelerà in tutta la sua portata divina nel suo passaggio pasquale. Gli angeli svelano tutta la preferenza di Dio per l’umanità e la loro gioia deriva dalla condivisione di questo segreto della creazione con il loro Dio. I pastori rappresentano l’umanità che non possiede titoli di gloria o di merito. Sentiamo l’emozione dei loro cuori, che passa ai loro piedi e riempie i loro occhi: quando ritornano ai loro greggi a riprendere la vita di sempre hanno la sensazione che la vita non può essere come quella di prima. Lo intuiamo dalla gioia della condivisione con altri di quanto hanno sperimentato. La liturgia bizantina si fa interprete dello stupore della creazione davanti al mistero del Dio fatto bambino: “Che cosa ti offriremo, o Cristo? Tu per noi sei apparso, uomo, sulla terra! Ciascuna delle creature da te fatte ti offre il rendimento di grazie: gli angeli, l’inno; i cieli, la stella; i magi, i doni; i pastori, lo stupore; la terra, la grotta; il deserto, la mangiatoia: ma noi ti offriamo la Madre Vergine. O Dio che sei prima dei secoli, abbi pietà di noi … Gloria alla tua condiscendenza, o solo amico degli uomini … La tua nascita, o Cristo nostro Dio, ha fatto sorgere per il mondo la luce della conoscenza”. È il calore luminoso che si sprigiona dall’amore finalmente conosciuto nella sua concretezza (“Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio unigenito” dirà Gesù a Nicodemo) che ti tocca nella forma più accattivante e, nello stesso tempo, povera, di un piccolo bambino. Sempre s. Efrem canta: “Sia benedetto Colui che ha fatto del nostro corpo una tenda per la sua Invisibilità! Sia benedetto Colui che nella nostra lingua ha tradotto i suoi segreti!”.
Se l’amore, che ha originato il dono di quel Bambino, è intravisto dai cuori, allora si possono risanare le ferite della storia, si è abilitati a costruire un altro tipo di storia, si è raggiunti così nel profondo da non volere altro per sé e per tutti. È l’esperienza che farà dire all’apostolo: se Dio ci ha dato il suo Figlio unigenito, come non ci darà anche tutti gli altri beni? Come a dire: in lui potremo trovare tutti i beni ai quali anela il nostro cuore. È il perenne annuncio profetico al mondo dei credenti in Cristo.
Buon Natale a tutti!
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Ottavo ciclo
Anno liturgico C (2024-2025)
Tempo di Natale
Santa Famiglia
(29 dicembre 2024)
1Sam 1,20-22.24-28; Sal 83 (84); 1Gv 3,1-2.21-24; Lc 2,41-52
Celebrare la festa della santa famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, è un altro modo di sottolineare la verità e la veridicità dell’incarnazione del Figlio di Dio. Per porre la sua tenda tra di noi, Dio ha assunto la storia di una determinata genealogia (Gesù è ascritto alla discendenza davidica), carica delle promesse divine, ma intessuta anche di peccato e di miserie umane e ha assunto pure la struttura che ha consentito a quella storia di svolgersi, cioè la famiglia, con il suo carico di drammi e di violenze. Anche per Gesù, che è nato da una madre vergine, è stato essenziale il contesto famigliare per crescere e scoprire il senso della sua vita. Ecco, la verità dell’incarnazione riguarda il fatto che il bambino ha bisogno di crescere, cresce nella sua famiglia, sottomesso ai suoi genitori. È il periodo più lungo della vita di Gesù, circa trent’anni, che vive nel nascondimento, crescendo in età e grazia, fino al tempo della sua manifestazione con la venuta al Giordano per farsi battezzare da Giovanni Battista. Di questo periodo non sappiamo nulla, se non che l’ha vissuto a Nazaret con la sua famiglia, fedele alla legge di santità di Dio per il suo popolo.
L’unica annotazione che fa presagire il mistero della sua vita a Nazaret, riassunto dall’espressione evangelica: “E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini”, riguarda sua madre: “Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore”. Il custodire comporta la premura di vedere l’invisibile, di accorgersi dell’azione misteriosa di Dio, di accompagnare il figlio nella scoperta del suo mondo interiore. Vale sempre, continuamente, per lei il suo “Sono la serva del Signore”, come donna, come mamma, come sposa, con tutte le premure e le angosce di ogni mamma. E tutto questo è parte integrante del disegno di Dio perché è necessario alla crescita di Gesù nella sua umanità. Potessimo leggere anche noi la nostra vita nella sua quotidianità come parte integrante del mistero di salvezza di Dio che si compie a nostro favore! Possiamo solo intuirlo, accompagnarci a percepirlo, a entrarvi come collaboratori fedeli, nell’attesa di veder compiersi la promessa di Dio. La lettura delle Scritture, l’impegno di ascesi e preghiera, l’ardore di carità per tutti, tutto esprime la tensione del cuore che custodisce il mistero di Dio nel suo lento manifestarsi. Mi sembra questa la caratteristica essenziale della venuta nella carne del Figlio di Dio. La divinità che si abitua a convivere con l’umanità fino a che l’umanità tutta splenda della divinità. Quello che i Padri hanno sempre apertamente dichiarato: Dio si fa uomo perché l’uomo diventi Dio. Sul principio: chi cerca la sua gloria si perde, chi cerca la gloria di Dio si umanizza, fa fiorire la sua umanità. Così è stato per Gesù, così è stato per sua madre, così sarà per i suoi discepoli.
Il racconto del ritrovamento al tempio di Gesù da parte dei suoi genitori allude probabilmente alla celebrazione del ‘bar mizvah’, l’età adulta per un ebreo tra i 12 e i 13 anni, quando gli veniva concesso di leggere pubblicamente la Torà in sinagoga. L’occasione permette a Gesù di ’perdersi’ nelle Scritture, interamente occupato a cogliere il volere del Padre nel suo desiderio di salvezza. È ancora troppo presto per Maria e Giuseppe di realizzare quanto sta accadendo. Perciò, annota l’evangelista, Maria si fa memoria calda delle parole e dell’agire del figlio. Lei, che si era dichiarata l’ancella del Signore all’angelo, che le annunziava la nascita misteriosa di un figlio, non sapeva ancora come si sarebbe tradotta la storia di salvezza che quel figlio avrebbe realizzato. Lei tratteneva parole ed eventi in cuore facendole rimbalzare le une sulle altre, le parole sugli eventi, il tutto con il suo cuore, fino a scoprire e vivere fino in fondo la grandezza dell’amore di Dio con tutta la sua persona. Ha accolto tutto il mistero e tutte le sue energie sono assorbite da quel mistero che impara col tempo a scoprire. Mistero, che godremo in tutta la sua profondità e bellezza secondo l’annuncio di Giovanni nella sua lettera: “ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato …”.
Ora, è un continuo andare oltre la cronaca e la materialità degli eventi, dentro la necessità e la difficoltà di un superamento continuo di tutte le contraddizioni che si incontrano. Tutti i genitori conoscono questa ambivalenza nella crescita dei figli: fanno tutto per i figli e la loro gioia sta in questo, ma sanno che i figli sono chiamati a realizzare un loro progetto, spesso senza poterlo condividere o comunque senza che siano necessariamente resi partecipi. Ma corrisponde al progetto di Dio sia la premura dei genitori che la libertà dei figli e se entrambi, genitori e figli, sono consapevoli di questa unità di progetto in Dio, tutti e due trovano la loro gioia, misteriosamente. Diventa così essenziale, per i genitori e per i figli, la consapevolezza della verità di questo rimando. La comprensione non è immediata, ma è assicurata. Come si annota per la madre di Gesù: “Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19).
Forse non è inutile sottolineare che la prima e l’ultima parola di Gesù nel vangelo di Luca è una evocazione del Padre. Nel tempio, quando è ritrovato dai suoi genitori: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lc 2,49); sulla croce, prima di morire: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46); oppure, prima dell’ascensione: “Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso” (Lc 24,49). Gesù fa vedere come in tutto ciò che vive, in tutto ciò che possiamo vivere noi, quello che è essenziale è scoprire e far valere la radice di vita, di senso, di sentimenti, che è il Padre dei cieli, Colui dal quale ogni bene riceviamo e verso il quale porta ogni bene vissuto. Senza questo ‘sconfinamento’, da dentro i legami degli affetti, l’uomo si insacca su se stesso e non trova più slancio e passione per un progetto grande di vita. In altre parole, non ritroverebbe più lo Spirito donato da Gesù. Perderebbe la sua umanità.
Ottavo ciclo
Anno liturgico C (2024-2025)
Solennità e feste
Maria SS. Madre di Dio
(1° gennaio 2025)
Nm 6,22-27; Sal 66 (67); Gal 4,4-7; Lc 2,16-21
Nel calendario liturgico, l’ottavo giorno dopo il Natale del Signore fu consacrato a onorare la divina maternità di Maria. A partire dal 1969, l’antica festività di “Maria Santissima Madre di Dio” venne ripristinata in tutta la sua solennità il 1° gennaio, con la chiesa che continua a sottolineare la veridicità dell’incarnazione del Figlio di Dio. Da una parte, si celebra la gloria della madre nella sua divina maternità, ‘madre del Cristo e di tutta la chiesa’, come recita la preghiera dopo la comunione espressamente voluta da papa Paolo VI e, dall’altra, si fa memoria del rito della circoncisione e dell’imposizione del nome al bambino nell’ottavo giorno. Consacrando poi la giornata all’intercessione per la pace, la chiesa annunzia al mondo che in Cristo è fatta pace tra cielo e terra e che la pace tra gli uomini ne è come il riverbero, lo splendore di benedizione.
Con la Vergine Maria, che ha dato alla luce il Salvatore, si è compiuta in tutta la sua estensione l’antica benedizione di Israele riportata dal libro dei Numeri: “Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace” (Nm 6,24-26). La benedizione è per l’umanità, ma la liturgia la applica in modo eminente alla Vergine Maria. Non si può non riandare alle due ultime cantiche del Paradiso di Dante quando pone sulle labbra di s. Bernardo le sublimi parole di lode: “Riguarda omai ne la faccia che a Cristo / più si somiglia, ché la sua chiarezza / sola ti può disporre a veder Cristo … Li occhi da Dio diletti e venerati …”. Chi ha provato l’estasi di uno sguardo amoroso sa a quale intimità si allude, quale ‘benedizione’ si riceve e quale gioia ciò procura. Il mistero grande è il fatto che anche Dio è rapito dallo splendore dello sguardo della Vergine tanto è puro e sconfinato, specchio limpidissimo dell’amore di Dio per lei e per tutta l’umanità. Sì, perché la bellezza della Vergine è in funzione della bellezza, resa visibile, del Figlio Unigenito, nostro Salvatore, il cui amore per noi lo renderà disposto a perdere ogni ‘bellezza d’uomo’ per ridare a noi quella bellezza che attira il suo sguardo. In questo sguardo di Dio su di lei si concentra tutto il senso della sua intercessione allo scopo di ottenerci la suprema benedizione, che si risolve nel voler vedere Dio, vedere il volto di Dio che risplende su di noi.
L’antica colletta recitava: “Padre buono, che in Maria, vergine e madre, benedetta fra tutte le donne, hai stabilito la dimora del tuo Verbo fatto uomo tra noi, donaci il tuo Spirito, perché tutta la nostra vita nel segno della tua benedizione si renda disponibile ad accogliere il tuo dono”. Viene ripresa la dichiarazione di Giovanni: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14), come pure la promessa di Gesù ai discepoli: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Preghiamo la Madre di Dio perché anche a noi si estenda quella benedizione di cui gode e che si traduca, per il nostro cuore, nella visione di Dio nel suo amore per noi.
L’aspetto più straordinario della sua intercessione è dato dall’invito a entrare nella stessa intimità di vita e di relazione che esiste tra il Padre e il Figlio, di cui lei ha goduto, perché tutta aperta al desiderio di Dio di dimorare in noi. Suonerà strano, ma soltanto da dentro quella intimità noi possiamo sperare di compiere la volontà del Padre nella nostra vita e sentirci avvolti dalla sua benedizione. Se prima non si gusta la volontà di benevolenza di Dio nei nostri confronti, che si esprime nella benedizione che è il Cristo per noi, come poter arrivare alla gioia dell’osservanza dei comandamenti? Se non percepiamo come Cristo non antepose nulla all’amore per noi, come possiamo noi non anteporre nulla all’amore per Cristo e ritrovarci amati dal Padre, che nel suo Figlio ha posto tutta la sua compiacenza? Il mistero della benedizione di Dio sull’uomo sta tutto qui e tutta la vita della Vergine, come il suo parto prodigioso, è lì a dimostrarlo.
La benedizione di Dio su di noi è proprio quel Figlio, che la Vergine Maria partorisce nel mondo; quel Figlio fatto uomo, che ha preso carne, che conosce il nostro patire, che condivide i nostri sentimenti. Quel Figlio è il Volto sorridente del Padre, quel Figlio è la benedizione invocata sull’umanità, quel Figlio è il nome pronunciato e posto sull’umanità perché l’uomo e Dio riconoscano la mutua appartenenza. È quello che la Vergine Maria proclama nella sua divina maternità, come le icone del Natale sottolineano. La Vergine non è rappresentata china sul proprio bambino, ma rivolta ai pastori e al mondo a proclamare che quel ‘figlio’ è la benedizione per loro.
Il brano evangelico la descrive come colei che “custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore”. Evidentemente perché anche per lei la realtà non svelava il suo mistero di colpo. I due verbi significano più direttamente: teneva se stessa e queste cose insieme in cuore, facendole rimbalzare l’una sull’altra in modo da ottenerne una visione d’insieme. Sono termini che illustrano il metodo di intelligenza delle Scritture: una parola si illumina con un’altra parola e il senso che ne scaturisce si riverbera nel cuore aprendo la parola al cuore e il cuore alla parola. E non se ne tralascia nessuna: ‘tutte queste cose‘ del testo sono sia le parole udite (dall’angelo, dai profeti, dai pastori) sia gli eventi successi; non si cerca solo quella ‘adatta’ a me, ma ci si ‘adatta’ a loro tutte, insieme. Non si preferisce un tempo (il tempo della gioia, del godimento), ma si tengono insieme tutti i tempi (anche il tempo dell’angoscia, dell’afflizione). Allora, poco a poco, anche al nostro cuore si svelerà quella ‘benedizione’ che Dio ha posto sull’umanità e la vita tornerà a risplendere della presenza del nostro Dio.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico C (2024-2025)
Tempo di Natale
II Domenica dopo Natale
(5 gennaio 2025)
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Sir 24,1-2.8-12; Sal 147; Ef 1,3-6.15-18; Gv 1,1-18
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Continua la meditazione della Chiesa sul mistero della nascita di Gesù. Oggi l’accento è posto sulla conclusione del prologo del vangelo di Giovanni: “Dio nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18). La conseguenza non può che essere quella che s. Efrem pone sulle labbra della Madre di Dio, che guarda quanti accorrono per adorare il Figlio che ha appena partorito: “Se una madre ha un bambino, questo diventa fratello del mio diletto. Se ha una figlia o una congiunta, questa diventa la sposa del mio Signore. Colui che ha un servo, gli conceda la libertà, affinché venga per servire il suo Signore”. E rivolta al suo Bambino: “A causa tua una serva diventa libera. Se una ti ama, c’è nel suo seno una invisibile liberazione”. In altre parole, l’umanità ritrova la gloria della sua dignità, anticipata da quella che rifulge sulla Madre stessa: “Maria è il giardino sul quale discese dal Padre la pioggia della benedizione; di quella effusione lei asperse il volto di Adamo”.
La bellezza della verità annunciata è tale che solo con un inno di lode si può magnificare. È quello che fa s. Paolo introducendo i credenti di Efeso al mistero della Chiesa, come pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose: “Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo …. vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui” (cfr. Ef 1). Quella conoscenza è quella che deriva dall’esperienza degli apostoli che sono vissuti con il Figlio di Dio fatto uomo, ne hanno ascoltato la voce, ne hanno ammirato le azioni, sono stati introdotti nel suo segreto e alla fine hanno riassunto la loro esperienza così: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria” (Gv 1,14).
La liturgia di oggi proclama che quella esperienza ci è stata comunicata perché la condividessimo, ne cogliessimo la portata rispetto alla rivelazione del mistero dell’amore di Dio per noi, ci raggiungesse nelle corde più segrete del cuore in modo da vivere della benedizione, che è il dono di Gesù alla nostra umanità. Per questo la prima lettura l’annuncia come la Sapienza, che ha ricevuto dal Padre, ancor prima della fondazione del mondo, il compito di porre la sua dimora tra i suoi figli. Compito, che costituisce tutto il volere di benevolenza del Padre e l’obbedienza in intimità del Figlio, perché il supremo desiderio di Dio è di trarre l’uomo nella comunione con lui, fonte della sua felicità.
Ecco allora l’annuncio per il mondo. Il Padre ci ha donato il suo Figlio ed il Figlio, per mezzo dello Spirito Santo, ci fa dono del potere di diventare figli a nostra volta: “A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1,12-13). Il dono è aperto a tutti, perché non si nasce cristiani, ma lo si diventa. È il superamento più radicale di ogni distinzione fra gli uomini basata su etnia, nazione, cultura, censo, qualità, ecc. Ricevere il potere di diventare figli di Dio significa partecipare alla vita stessa del Figlio di Dio; significa rivestirsi dei suoi sentimenti, nei quali fondare le radici di un’umanità nuova, trasfigurata, fraterna, che non si presenta più temibile in nulla per nessuno.
La letizia del Natale rimanda a tale ‘possibilità’, a tale ‘potere’ e qui si radica la speranza per il mondo: la gloria di Dio può ancora risplendere in mezzo a noi, la vita nel mondo può ancora tornare amabile, nonostante i drammi e le tragedie, le violenze e gli egoismi. Siamo sicuri – anche questo è un corollario della nostra fede nel Signore Gesù – che sempre ci sarà qualcuno che, discepolo del Signore, farà risplendere l’umanità in questo mondo. E sempre ci sarà qualcuno che, affascinato da quello splendore, riconoscerà il Signore e tornerà a far desiderare la conoscenza di lui, come si augura l’apostolo.
Se prima della creazione del mondo, l’uomo è stato pensato da Dio in funzione della capacità di portare la bellezza del Figlio di Dio, allora come non vedere nell’esperienza della conoscenza di quel Figlio, ormai diventato Figlio dell’uomo, il compimento di ogni desiderio di verità e bellezza? E se tutto il creato rimanda al Cristo Signore, a maggior ragione l’uomo, fatto ad immagine di Lui, che è l’Immagine, lo splendore del Volto stesso di Dio. Se questo è vero, allora, come dichiarano i nostri Padri, tutti i nostri pensieri rimandano a lui, tutte le nostre aspirazioni, tutti i nostri desideri, tutti i nostri ideali. La preghiera non è che il luogo di riconoscimento del Cristo come fondamento dei nostri pensieri. Tutta la bontà, tutte le virtù che possiamo ottenere non sono che partecipazione alla sua umanità, ai suoi sentimenti, alla sua vita, che è vita stessa di Dio. E se davvero i nostri occhi stanno aperti a riconoscere la venuta tra noi di Colui che è l’Atteso del cuore, perché smarrirci ancora nelle paure e nelle angosce, come se qualcosa di essenziale ci mancasse ancora?
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Ottavo ciclo
Anno liturgico C (2024-2025)
Solennità e feste
Epifania del Signore
(6 gennaio 2025)
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Is 60,1-6; Sal 71 (72); Ef 3,2-3a.5-6; Mt 2,1-12
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Il termine Epifania vuol dire manifestazione. La Chiesa oggi festeggia il mistero della triplice manifestazione del Figlio di Dio fatto uomo per la nostra salvezza: la sua manifestazione alle genti; l’inizio della sua vita pubblica con il battesimo al fiume Giordano quando Giovanni Battista lo rivela al popolo d’Israele; il miracolo delle nozze di Cana quando Gesù compie il suo primo miracolo. Delle tre manifestazioni, soprattutto la prima costituisce il tema della liturgia odierna.
Se ci lasciamo guidare dalla liturgia e dalle antiche icone, una annotazione balza subito agli occhi. I racconti sulla nascita e sull’infanzia di Gesù sono letti in contrappunto ai racconti della sua passione-morte-risurrezione. Nella narrazione dei Magi che arrivano a Gerusalemme in cerca del re dei Giudei è presentato il conflitto che opporrà alle autorità ufficiali il vero re e salvatore del suo popolo. Colui, che le guide della nazione si rifiutano di ricevere, è adorato dalle nazioni; Colui, che doveva essere noto a coloro che conoscevano le Scritture, perché di lui le Scritture parlano, viene rivelato a coloro ai quali, non potendo le Scritture parlare, parlano gli astri, messaggeri di Dio. Ogni cosa può agire da messaggero di Dio, se il nostro cuore sa guardare in alto. E tutto alla fine conduce a lui, il Salvatore, Colui che rivelerà definitivamente e in tutta pienezza, anche per il nostro cuore, quaggiù o di là, l’infinito amore del Padre per gli uomini, Colui che compirà in tutta la loro estensione i nostri desideri di vita, di santità, di comunione.
L’antifona di ingresso si richiama al libro del profeta Malachia, l’ultimo libro dell’Antico Testamento nella tradizione cristiana: “Ecco, viene il Signore, il nostro re: nella sua mano è il regno, la forza e la potenza” (Ml 3,1 e 1Cr 29,12). Un bambino è proclamato ‘sovrano, potente e glorioso’! La proclamazione comporta qualcosa di radicalmente nuovo per gli occhi umani o, se vogliamo, comporta la visione di una realtà con occhi radicalmente nuovi. Stessa novità che sta dietro la proclamazione nei vangeli di Gesù come re (soltanto durante la sua passione Gesù accetta il titolo di re) e particolarmente come re della gloria (titolo che fornisce, da una parte, la ragione della condanna sul patibolo della croce e, dall’altra, per la visione di fede dei credenti, la ragione dell’amore di Dio per l’uomo che proprio sulla croce risplende). È in ragione di quella novità che la manifestazione di Gesù può conquistare le genti e può convincere Israele. Quando la colletta fa pregare: “O Dio, che in questo giorno, con la guida della stella, hai rivelato alle genti il tuo Figlio unigenito, conduci benigno anche noi, che già ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la bellezza della tua gloria”, guida i credenti alla percezione di quella novità e li predispone a cogliere e a vivere dello splendore di quell’amore, che costituisce ormai la ragione di senso del vivere nella storia.
La visione dei popoli che si ritrovano a Gerusalemme, ripresa anche dal salmo 71 e celebrata dal salmo 87, mostra come ormai non esiste più motivo di distinzione tra gli uomini perché la loro dignità deriva da un’unica radice. La dignità degli uomini parla dell’amore di Dio che si è rivelato in quel Figlio di Dio fatto uomo e che nella liturgia odierna è adorato da tutte le genti. Se il Signore, come dice il salmo 71, interviene a favore del povero e del debole, categorie che attraversano la diversità dei popoli e si riferiscono all’umanità di tutti, significa che chi calpesta il povero e il debole ferisce la propria dignità umana e non rispetta l’immagine di quel Figlio, che si è confuso con l’umanità di tutti. Davanti a quel Figlio, bambino, adorato dalle genti, dice il salmo, eco del pensiero di Dio: chiunque tu sia, da qualunque paese provenga, qualsiasi sia stata la tua storia, a qualsiasi cultura appartenga, sappi che qui sei nato, di qui trai vita e qui conducono i tuoi desideri perché qui si compiono i miei progetti: nel mio Figlio!
I magi sono la figura della manifestazione di Dio alle genti (con l’oro riconoscono la regalità misteriosa di quel ‘bambino nato per noi’, con l’incenso riconoscono la sua divinità, con la mirra la sua umanità pronta a soffrire la passione per la nostra salvezza). Il loro far ritorno a casa per altra strada allude al fatto che chi si apre all’adorazione di Dio riscopre la casa propria in altro modo, con altro sguardo, sotto altri orizzonti. Questo mi ha sempre indotto a due osservazioni: 1) se il Messia è promesso alle genti, di che cosa noi credenti siamo debitori al mondo? Siamo debitori proprio della conoscenza del Signore. E questo debito pende sulla nostra testa: ecco la responsabilità della testimonianza dei credenti nel mondo; 2) se il Messia è promesso alle genti, vuol dire che fin tanto che tutte le genti non l’hanno conosciuto, la nostra stessa conoscenza del Messia è manchevole, resta limitata. Come in un amore: fin tanto che non sono trovato da qualcuno che voglia bene a me, io non potrò scoprire quello che sono in verità, quello che porto e di cui sono capace. Così è con Dio. Fin tanto che tutti non l’hanno conosciuto, Dio non ha ancora avuto modo di manifestarsi in tutta la sua ricchezza. Attendere questa manifestazione, nel cuore di tutti, rende umili e adoranti e risponde al comandamento dell’amore verso tutti, anche verso i nemici, finché la gloria di Dio si manifesti compiutamente.
Il mistero della trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana (cfr. Gv 2,1-10) ha a che vedere con la manifestazione della gloria di Dio nella nostra vita. L’invito è passare dall’acqua al vino. In altre parole, passare dalla volontà di osservanza del comandamento al gusto del frutto che il comandamento comporta. La promessa nascosta in ogni parola di Dio è questa: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Come a dire: ogni comandamento ha un’ispirazione; senza cogliere tale ispirazione non potremo mai gustare la promessa che è nascosta dentro ogni comandamento, la promessa della conoscenza cordiale del Signore, la promessa del soccorso della sua compagnia. Anche qui, come in un rapporto d’amore. Non basta fare delle cose, neanche farle per l’altro; se non si coglie l’ispirazione che muove il cuore ad agire, se non si coglie l’effetto che il nostro agire ha sul cuore dell’altro, se non ci viene rimandata la gioia dell’altro che coglie il movimento del nostro cuore, si resta acqua. Il vino invece, dice la Scrittura, rallegra il cuore dell’uomo. E nel gustare quel vino, il cuore si apre alla conoscenza della gloria del Signore: proprio quello che i magi hanno sperimentato, che gli apostoli hanno testimoniato, di cui i credenti in Cristo sono debitori al mondo.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico C (2024-2025)
Solennità e feste
Battesimo del Signore
(12 gennaio 2025)
Is 40,1-5.9-11; Sal 103 (104); Tt 2,1-14;3,4-7; Lc 3,15-16.21-22
Il fatto che la festa di oggi chiude il ciclo natalizio vuol dire che la chiesa ha vissuto il mistero del natale di Gesù nell’ottica della ‘apparizione’: sulla terra è apparso il Salvatore. Tutte le feste sono state celebrate in quest’ottica: il Natale, la santa famiglia, l’epifania. La lettera di Paolo a Tito lo rimarca due volte: “È apparsa infatti la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini … Ma quando apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini” (Tt 2,11; 3,4). Ecco, la grazia coincide con la bontà di Dio nel suo portare salvezza.
L’evento del battesimo al Giordano svela la singolarità della bontà di Dio nei nostri confronti. Quando la voce proclama: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento” è come fotografasse la verità dell’amore di Dio per noi. Il compiacimento si riferisce al fatto che il Figlio di Dio ha lasciato la sua gloria divina per assumere la forma di servo in modo che nel suo agire potesse risplendere in tutta infinità e assolutezza solo l’amore. Il Padre è compiaciuto del fatto che il Figlio rinuncia a qualsiasi titolo di gloria per poter essere testimone dell’amore suo per noi. Lui, l’Innocente, l’Agnello che toglie i peccati del mondo, si è messo in fila con i peccatori. Lui non ha bisogno del battesimo, eppure è venuto a farsi battezzare. È venuto per celebrare il suo sposalizio: nella sua umanità oramai è lavata tutta l’umanità, che può stare unita a lui e godere, come lui, di quello Spirito che come colomba si posa sul suo capo, capo del suo corpo che siamo noi. Un bellissimo commento di Gregorio di Nazianzo dice: “Cristo è illuminato: illuminiamoci anche noi insieme con Lui; Cristo viene battezzato: scendiamo anche noi nell’acqua insieme a Lui, per risalire con Lui” (Orazione 39,14). Parafrasando: Lui si fa luce, entriamo anche noi nel suo splendore; Cristo riceve il battesimo, inabissiamoci con lui per poter con lui salire alla gloria. L’esortazione si riferisce all’entrare in quel ‘compiacimento’ di cui il Padre onora il Figlio. Di quell’onore, anche i discepoli diventano partecipi, se anche loro seguono Gesù nella rinuncia a qualsiasi titolo di gloria mondana per poter vivere dell’amore di Dio.
In tale ottica si sovrappongono le due immagini che la liturgia sfrutta per celebrare l’evento del battesimo di Gesù. Nel brano del profeta Isaia si proclama: “Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio” (Is 40,10). E subito dopo: “Come un pastore … porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri” (Is 40,11). Dominio e tenerezza, due qualità che non si addicono allo stesso compito, secondo il mondo. Invece, la sintesi di quelle due qualità, sono la ragione del ‘compiacimento’ del Padre per il suo Figlio. La potenza di Dio si esprime nel perdono dei peccati e la tenerezza sono le viscere di misericordia per cui perdona, per cui si fa solidale con noi, fino a subire ogni violenza senza perdere lo splendore dell’amore. Sarà la vicenda di quell’Innocente, che è venuto a farsi battezzare, per sposare in tutto la nostra umanità, eccetto il peccato, eccetto cioè la tendenza a volere gloria e dominio rinnegando l’amore.
S. Efrem canta: “Benedetto colui che ha moltiplicato la vostra bellezza con le acque del battesimo!”. E continua “Dalla porta del battesimo sono tolti cherubino e spada e vi sta il figlio di Dio, per introdurre gli uomini nella casa del padre suo, affinché siano eredi insieme a lui, senza gelosia … Grazie a queste sante acque muore l’iniquità che tutti uccide, e vive l’anima che era stata uccisa in principio con il peccato: essa ha ritrovato la sua bellezza originaria …. O battezzati che avete trovato il Regno nel ventre del battesimo scendete, rivestitevi dell’unigenito, poiché è lui il Signore del Regno”.
L’annotazione che dopo il battesimo di Gesù “il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo” mostra che il grido del profeta Isaia ha ricevuto soddisfazione: “Siamo diventati da tempo gente su cui non comandi più, su cui il tuo nome non è stato mai invocato. Se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 63,19), che segue il ricordo delle meraviglie di Dio: “Egli è grande in bontà per la casa d’Israele. Egli ci trattò secondo la sua misericordia, secondo la grandezza della sua grazia” (Is 63,7). Lo squarciarsi dei cieli è per lasciar discendere lo Spirito Santo, che abilita a far gustare e a vivere per e nell’amore sconfinato di Dio, che si manifesta in quel Figlio. La voce celeste lo conferma: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento”. Come accennavo sopra, è l’aggiunta: “in te ho posto il mio compiacimento” a rivelare tutta la profondità del mistero. Si potrebbe tradurre: ‘in te la mia volontà si compie, perfetta’. E la volontà di Dio non è che l’amore per l’uomo e nella vita e nella persona di Gesù questo amore risplende nella sua radicalità e totalità. Se noi rimaniamo in lui, allora anche in noi la volontà del Padre si compirà perché anche in noi il suo amore risplenderà. È ciò che comporta l’essere nati dallo Spirito, il vivere mossi e guidati dallo Spirito, di cui Gesù è ricolmo e che ci ha effuso con la sua morte e risurrezione. Proprio come s. Francesco di Assisi proclamerà della nostra vita in Cristo: “ciò che devono desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”.
La figura di Gesù, nel racconto dei vangeli al battesimo, è definita da tre termini: figlio/servo/agnello. Il compiacimento del Padre si risolve nel fatto che Gesù viene a fare la sua volontà, vale a dire fa riferimento all’obbedienza del servo che accetta fino in fondo il compito affidatogli, ma allude contemporaneamente all’intimità ed alla libertà del figlio che condivide intensamente con il Padre la sua passione d’amore per gli uomini. Per noi accogliere insieme i due riferimenti è proprio difficile! Per noi la volontà di Dio non suona subito come una volontà di Bene, come un Bene che vuole condividere con noi, come una gioia di Bene che riposa i cuori e di Dio e degli uomini. Ma se riconosciamo lo splendore dell’amore di Dio che rifulge dal volto di quel figlio/servo/agnello, potremo anche noi, come lui e in lui, cogliere e compiere il volere di bene di Dio in favore degli uomini e godere della sua gioia che consiste nell’unire ‘i figli di Dio dispersi’. Quando il cuore dell’uomo non si lascia guidare da alcun’altra ragione nel suo agire, saprà che la fraternità con gli uomini è il supremo desiderio di Dio e il luogo di manifestazione del suo splendore. Così si compiono i misteri di Dio, così l’uomo torna alle radici della sua gioia, nel suo Dio. Cose misteriose, certo, ma veritiere e fondanti il senso stesso del nostro vivere e del nostro desiderare.
Avviene ciò che poeticamente canta s. Efrem mettendo le parole in bocca alla madre di Gesù: “Colei che è nata libera, figlio mio, è tua ancella, se ti serve. E la schiava in te è libera, in te è consolata poiché è stata affrancata. Un’emancipazione invisibile è posta nel suo grembo, se è te che ama”. E in un altro passo: “Nelle acque ha trovato il modo di scendere e dimorare in noi, come il modo della misericordia quando scese e dimorò nell’utero. Oh, misericordia di Dio, che si cerca tutti i modi per prendere dimora in noi!”.
Ottavo ciclo
Anno liturgico C (2024-2025)
Tempo Ordinario
II Domenica
(19 gennaio 2025)
Is 62,1-5; Sal 95 (96); 1Cor 12,4-11; Gv 2,1-11
Il brano evangelico di oggi termina con l’annotazione: “Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”. Se ci rifacciamo a Gv 1,14: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità”, ci possiamo domandare: che cosa hanno visto i discepoli, a Cana, di questa gloria? Quando Giovanni usa il termine segno, non intende riferirsi al miracolo come se si trattasse di vedere la potenza straordinaria di Gesù in atto; allude a un’altra cosa, a qualcosa che sia in relazione con la gloria.
Possiamo afferrare meglio la rivelazione di Cana se incastoniamo l’episodio nella narrazione di Giovanni. Gli eventi che intercorrono dal riconoscimento di Gesù da parte di Giovanni Battista al Giordano fino alle nozze di Cana sono racchiusi nello spazio di una settimana, la settimana della nuova creazione, in riferimento alla settimana della creazione narrata dalla Genesi. L’episodio di Cana segue il riconoscimento di Gesù da parte di Natanaele, il quale segue quello da parte di Andrea e Giovanni, i quali seguono quello di Giovanni Battista. Per cogliere la portata del miracolo di Cana, bisogna percepire la densità di quel ‘andarono e videro’ di Andrea e Giovanni, i quali svelando a Pietro tutta l’emozione che li abitava riferiscono la loro scoperta in questi termini: ‘abbiamo trovato il Messia’. E ancora, bisogna intuire la sorpresa di Natanaele, che risiedeva proprio a Cana, quando Gesù gli si rivolge con quelle parole: ‘vedrai cose più grandi di queste!’. Tutti i segni che Gesù compie sono collocati nella scia di questo vedere cose più grandi fino alla rivelazione suprema, con la morte e risurrezione di Gesù, allorquando le cose più grandi sono ormai le cose ultime, definitive, supreme, a partire dalle quali tutto prende senso e splendore. La sua gloria finalmente è svelata in tutto il suo splendore, la gloria del suo amore per gli uomini.
I segni sono dunque in relazione con la gloria dentro un movimento di rivelazione di cose sempre più grandi fino alla rivelazione suprema, la morte/risurrezione di Gesù. I segni sono allora gesti simbolici che hanno la funzione di indicare che in Gesù si realizza l’evento escatologico (“In verità, in verità io vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo”, compiendo il sogno di Giacobbe di Gen 28,17); invitano tutti gli uomini a percepire la filiazione divina di Gesù, come dirà Giovanni alla fine del suo vangelo, riferendosi ai segni che ha descritto nella sua narrazione: “Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome”. Il mistero di Gesù allude al mistero della Trinità, la quale si rivela nel suo amore agli uomini tramite Gesù e nel dono dello Spirito Santo che ci rende atti a vivere di e dentro quell’amore.
A Cana Gesù viene invitato alle nozze, simbolo dell’antica alleanza. Ma manca il vino, quello che solo il Messia avrebbe portato, il vino simbolo dell’amore e della gioia, compimento delle promesse di Dio al suo popolo. Se ne accorge sua madre, capace di vedere in Gesù il Messia, per cui si rivolge fiduciosa ai servi: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”. Gesù, che fa riempire d’acqua le giare e fa attingere e portare in tavola, realizza il passaggio dall’antica alla nuova alleanza con il dono del vino che simboleggia l’esperienza diretta e personale, nella gioia e nell’amore, della relazione tra Dio e l’uomo: “Perché la legge fu data per mezzo di Mosé, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1,17). Non per nulla, l’episodio che segue alle nozze di Cana è la purificazione del Tempio a Gerusalemme da parte di Gesù, che scaccia venditori e cambiamonete. Quello che la legge prometteva, Gesù lo rende possibile in sovrabbondanza; quello a cui anelava il cuore dell’uomo ora diventa vivibile, gustosamente esperibile: l’uomo vive finalmente la pace con il suo Dio, in un amore ritrovato e condivisibile. E questo si vedrà proprio nella sua ora quando dalla croce risplenderà il suo amore infinito, amore che con il dono dello Spirito Santo diventa radice di vita e di azione nel suo discepolo e segno di Dio per il mondo intero.
Il miracolo di Cana con la trasformazione dell’acqua in vino, mentre allude al passaggio dalla Legge alla Grazia, allude anche al mistero dell’intelligenza delle Scritture. Tutte le Scritture parlano di lui (‘Voi scrutate le Scritture pensando di avere in esse la vita eterna: sono proprio esse che danno testimonianza di me’, Gv 5,39): tutte le parole alludono alla Parola fatta carne. E quando si incomincia a intravedere questa tensione profonda che percorre tutta la Scrittura, allora si passa dal bere l’acqua al gustare il vino. Così come nel compiere i comandamenti di Dio: un conto è praticarli materialmente, un conto è praticarli cogliendo l’ispirazione e la rivelazione di vita che comportano.
L’immagine di fondo è quella delle nozze, a illustrare il mistero della comunione di Dio con l’uomo. Le nozze alludono al compimento dei desideri del cuore ormai abitati dal desiderio di Dio che ci è venuto incontro, che ci ha guadagnati al suo amore e che ci ha conquistati al suo splendore.
Quest’ultimo aspetto è ben delineato nel brano di Isaia che descrive Dio come lo Sposo che gioisce della sua sposa, la quale passa da una percezione di angosciosa solitudine, di abbandonata, all’emozione di essere svelata a se stessa in una dolcezza di riposo perché sposata (forse, meglio: ‘abitata in dolcezza’). La percezione di quella nuova realtà, di cui è indegna, ma di cui gode nell’intimo, grata e consegnata, costituisce il contenuto del nome nuovo con la quale è chiamata.
Così anche noi possiamo pregare con l’antica colletta: “… la santa chiesa sperimenti la forza trasformante del suo amore e pregusti nella speranza la gioia delle nozze eterne” allorquando tutti ci relazioneremo come figli di Dio nell’esperienza assoluta e sovrana dell’amore di Dio per noi.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico C (2024-2025)
Tempo Ordinario
III Domenica
(26 gennaio 2025)
Ne 8,2-4a.5-6.8-10; Sal 18 (19); 1Cor 12,12-30; Lc 1,1-4;4,14-21
Se consideriamo l’episodio della predicazione a Nazaret da parte di Gesù nella narrazione di Luca, in sinossi con quella di Matteo, cogliamo meglio il suo mistero. Luca colloca l’episodio all’inizio del ministero di Gesù, con l’intento di anticipare quello che avverrà alla fine: Gesù sarà rifiutato e la salvezza raggiungerà anche i pagani. In Matteo l’episodio fa da contrasto tra i familiari di Gesù e i suoi discepoli. È collocato a conclusione delle sette parabole del regno, introdotte a loro volta dall’indicare i discepoli come i nuovi familiari di Gesù: “Perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre” (Mt 12,50). L’episodio di Nazaret sancisce la ‘nuova famiglia’ di Gesù, la comunità di vita con i suoi discepoli, definiti con la beatitudine di non trovare in lui motivo di scandalo (cfr. Mt 13,57).
Il brano è introdotto con l’annotazione che Gesù ritorna in Galilea con la potenza dello Spirito. È lo stesso Spirito che l’aveva riempito al battesimo, lo stesso che l’ha sospinto nel deserto per essere tentato. Così, avendo accettato di condursi come Messia secondo i segreti di Dio, quando si presenta in sinagoga a Nazaret, può applicarsi la profezia messianica di Isaia 61,1-2: “Lo Spirito del Signore è sopra di me … Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”. Gesù si presenta come l’Inviato, capace di dare compimento alle promesse di Dio. Quello che forse non cogliamo più della manifestazione di tale autocoscienza di Gesù è il fatto che l’invio non rimanda semplicemente all’opera per la quale è inviato, ma all’intimità che vive con il Padre nel mostrare, con le parole e l’agire, il suo grande amore agli uomini. In effetti, l’aspetto più suggestivo del racconto di Luca sta nel fatto di collegare questo annuncio al rifiuto che il Messia subirà, ma perché venga esaltata la bontà di Dio per gli uomini. In quel rifiuto si potrà scoprire tutta la ‘potenza’ dello Spirito che lo abita nel senso di tenere unita la sua intimità con il Padre e l’amore verso i suoi figli, ai quali si presenta come il Testimone del suo amore per loro.
La profezia messianica di Isaia 61, che si riferisce alla grazia speciale dell’anno giubilare, parla di poveri, di prigionieri/oppressi, di ciechi. Allude alle ‘deficienze’ del nostro vivere nella storia, che Gesù è venuto a redimere. Sotto tre aspetti l’azione del Messia sarà efficace. Se la nostra vita è mancante, soffre di limiti; se viviamo sotto l’oppressione di una schiavitù imposta o procurata, subita o provocata; se camminiamo nell’oscurità, Gesù si presenta, dalla parte di Dio, capace di rinnovare la letizia, di offrire la libertà e di suggerire un senso. Sono le coordinate di un vivere felicemente la propria vocazione umana, in comunione con Dio. La felicità, come la vita stessa di Gesù mostrerà, è ‘dire bene Dio’ con la premura della cura dell’uomo fino a dare la vita perché la vita dell’altro cresca. Ma come vivere questa felicità senza la rivelazione del volto di Dio che si fa conoscere come ‘cura per l’uomo’? Per questo Origene annota come sia da invidiarsi l’assemblea che tutta intera, alla lettura della parola di Dio, tiene gli sguardi fissi su Gesù! Come accogliere – Gesù lo rivelerà in molte parabole – la felicità di Dio per il pentimento del peccatore, senza accusarlo di ingiustizia e senza sentire la gioia dell’altro come un’offesa alla mia di uomo giusto?
S. Paolo descrive i frutti dello Spirito come “amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22). Sono espressione della cura per l’uomo e chi più li possiede, più si prende cura. E più ci si prende cura, più il volto di Dio è rivelato nella sua verità e la letizia riempie il cuore dell’uomo. Sarebbe il senso dell’invito di Neemia al popolo dopo la lettura della Legge: “Non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza”. Gli ebrei erano appena ritornati dall’esilio di Babilonia, avevano ricominciato a costruire il tempio e le mura di Gerusalemme, ma la vita si prospettava piena di insidie sia sociali che religiose. Il popolo viene ricompattato con la proclamazione del libro della legge, la lettura del quale suscita un’emozione grandissima. Il popolo piange, si rattrista, si accorge di quanto sia stato infedele al suo Dio. Era successa la stessa cosa al re Giosia: “Udite le parole del libro della legge, il re si stracciò le vesti” (2Re 22,11). Succederà alla gente che aveva ascoltato il discorso di Pietro a Pentecoste: “all’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore” (At 2,37). Espressiva la traduzione di Chouraqui, sul calco ebraico. Noi leggiamo: “I leviti leggevano il libro della legge di Dio” (Ne 8,8) e Chouraqui traduce: ‘gridano l’atto della tora’, dove il termine ‘libro’ è reso con ‘atto’, ad indicare l’attualità, la realtà, la contemporaneità di quella parola che da sempre è pronunciata e da sempre porta salvezza.
Per questo, l’oggi del compimento è questo, qui, adesso, mentre ascoltiamo. Gesù lo proclama ai suoi concittadini. Potessimo anche noi, in ogni circostanza, in ogni luogo, e non solo nell’assemblea liturgica, ripetere in verità quello che Gesù ha proclamato: “Oggi si è compiuta questa Scrittura” (Lc 4,21). Intendendo: accogliendo lui, con la sua parola di verità e di vita, ogni circostanza si apre al compimento della sua volontà di benevolenza e in qualche maniera, per noi e tramite noi, possa compiersi nella nostra vita la profezia di Isaia: essere segno di speranza per i nostri fratelli. Per questo Esdra e Neemia invitano alla gioia perché la parola di Dio proclamata, spiegata, vissuta e condivisa nella sua potenza di letizia, pur nel dramma della vita, rende solidali gli uomini, non avendo più nulla da rivendicare in senso egoistico.
La gioia cela un’energia potente, diventa la forza che il salmo 18 descrive e che potremmo interpretare sinteticamente: la giustizia del Signore, il contenuto, cioè, della parola di Dio, è quella di portare gioia al cuore e questa gioia è quella che consente al nostro cuore di vivere secondo la sua giustizia, cioè di manifestare la sua presenza con il prenderci cura di ognuno fino a dare la vita perché l’altro possa averla abbondante. Solo il Messia poteva rivelare che consistesse in questo la manifestazione del Signore e che in questo risiedesse il compimento del desiderio dell’uomo e la felicità di Dio.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico C (2024-2025)
Solennità e feste
Presentazione del Signore
(2 febbraio 2025)
Ml 3,1-4; Sal 23 (24); Eb 2,14-18; Lc 2,22-40
La festa di oggi richiama il Natale di Gesù nella logica del compimento messianico che caratterizza quel bambino nato per noi. È il quarantesimo giorno dalla sua nascita e, secondo gli usi ebraici, si doveva presentare l’offerta per il riscatto del primogenito. Non c’è però nessuna legge che prescrive di portare il bambino al tempio. Luca, riportando l’episodio della presentazione di Gesù al tempio, interpreta la legge in modo originale. Parla della loro purificazione, ma solo la mamma era tenuta a purificarsi dopo il parto (cfr. Lev 12,1-8). La Legge di Mosè prescrive di consacrare e riscattare ogni primogenito (cfr Es 13). Luca ne modifica l’espressione dicendo che ‘ogni maschio primogenito sarà chiamato santo’ e usa le stesse parole dell’angelo Gabriele quando reca l’annunzio a Maria. Come a sottolineare: Gesù non ha bisogno di essere consacrato al Signore e non deve essere riscattato; anzi, Lui è il Consacrato, il Cristo del Signore, Lui sarà il riscatto per il suo popolo, per l’intera umanità. In Lui si concentra tutto il senso della storia sacra perché compie in verità quello che nella Legge veniva descritto in simbolo: Gesù è il primogenito diletto che compie il sacrificio di Isacco, come è il vero pane celeste che era prefigurato nella manna.
Si conclude la dinamica del riconoscimento. Appena nato a Betlemme, è riconosciuto dai pastori, gente povera, ai margini della società che conta; poi è riconosciuto dai magi, stranieri, pagani, invece che dalla città di Gerusalemme; ora è riconosciuto dai santi di Israele, Simeone e Anna, a sottolineare il compimento dell’attesa del popolo eletto. Dopo questo episodio Gesù ritorna con i suoi genitori a Nazaret perdendosi nel nascondimento della vita quotidiana fino al giorno della sua manifestazione a Israele. Tra l’altro, risalta l’affinità con il brano della trasfigurazione sul Tabor quando, dopo la visione, il testo annota: “e videro Gesù solo”. La luminosità della visione, come qui la luce vista in quel bambino, lascia il posto alla quotidianità dove visione e luce non compaiono più all’esterno, ma solo intraviste nei cuori.
Il riferimento del ritorno a Nazaret, dove il bambino cresce in sapienza e grazia, è perciò allusivo del mistero di Dio che si compie nell’ordinarietà della vita. È la fede che permette agli occhi del cuore di leggere la vita quotidiana nella sua trasparenza divina. In effetti, la realizzazione di sé, come diremmo oggi, passa per l’assunzione di un compito di grazia che fa dell’obbedienza a Dio, nel cammino di fedeltà all’assolvimento di tutto ciò che un tal compito comporta nel concreto delle situazioni, la porta dell’amore. Porta, che può essere intravista solo se gli occhi del cuore ‘vedono’ quanto basta per non tirarsi indietro, come è stato per Maria e Giuseppe, come è stato per Abramo, per Simeone e per Anna.
Il brano della lettera agli Ebrei, invece, dice tutta l’importanza e il significato della presentazione di Gesù al Tempio di Gerusalemme con l’annotare una cosa straordinaria. Se i fratelli hanno in comune sangue e carne, Gesù allora è proprio nostro fratello perché è quel sangue e quella carne che assume e questo in vista della redenzione. Ma come viene esposto il mistero della redenzione? Avere in comune sangue e carne è la condizione propria dei fratelli in una famiglia, dove la difesa dell’uno si gioca fino al dono della propria vita per l’altro. Gesù ha assunto radicalmente questa disposizione dell’amore fraterno nella sua autenticità e l’autore della lettera agli Ebrei la definisce come la capacità di soffrire personalmente. La cosa strana è che Gesù soffre personalmente nel suo essere sangue e carne per ridurre all’impotenza colui che è alla radice di ogni sofferenza, colui che è la causa della sofferenza per i propri fratelli. Non viene detto che Gesù distrugge il diavolo, ma che lo rende impotente, che lo svuota della sua capacità di schiavizzare.
Ora – e questo è il mistero che la liturgia fa intravedere – il ridurre a impotenza il diavolo non sarà ottenuto con le stesse armi del diavolo, cioè con il potere, la gloria, il prestigio, così espressivi del suo essere principe di questo mondo. Al contrario, verrà ottenuto nella debolezza e nella stoltezza, perché l’amore di Dio prevalga su tutto e tutti conquisti. La croce sarà il sigillo di quel ‘soffrire personalmente’ perché l’amore di Dio si riversi su tutto. Il salmo responsoriale lo rimarca con il commentare l’entrata nel tempio di quel bambino come l’entrata trionfale in cielo del Signore risorto con il vessillo della croce, accompagnato da tutti i redenti. Il titolo di re della gloria non ha nulla di questo mondo. Gesù lo accetta solo sulla croce perché la gloria di Dio ha a che fare con lo splendore dell’amore e con nient’altro.
Di qui il significato profondo della festa di oggi. Il sacerdote introduce la liturgia con le parole: “Anche noi qui riuniti dallo Spirito Santo andiamo incontro al Cristo nella casa di Dio, dove lo troveremo e lo riconosceremo nello spezzare il pane nell’attesa che egli venga e si manifesti nella sua gloria”. E nella benedizione dei ceri prega: “… illuminati dalla luce di questi ceri, infondi nel nostro spirito lo splendore della tua santità, perché possiamo giungere felicemente alla pienezza della tua gloria”. Di quale gloria si tratta se non dello splendore dell’amore di Dio che, in Gesù e con Gesù, condividiamo con tutti i fratelli? D’altra parte, non è questo il significato profetico della vita consacrata, che vede nella festa di oggi la sua celebrazione tipica: risplendere della santità di Dio?
Non si tratta certo di un cammino placido, come non si tratta di un’attesa beata. Il brano del profeta Malachia lo proclama chiaramente: “… entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate … Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire? Egli è come il fuoco del fonditore e come la lisciva dei lavandai”. Nel testo del profeta Malachia Dio rimprovera all’uomo le sue richieste fasulle, le sue lamentele, che provengono dalla menzogna del suo cuore: quando abbiamo disprezzato il tuo Nome? Come ti abbiamo stancato? Che vantaggio abbiamo ottenuto dall’osservanza dei comandamenti? In una parola: ce l’abbiamo con Dio, perché non fa quello che vogliamo noi! Come non dover essere purificati da questa lamentosità menzognera, che indurisce il cuore e lo rende insensibile sia all’incontro con Dio sia all’incontro con i fratelli?
La Chiesa perciò prega: “… infondi nel nostro spirito lo splendore della tua santità …” perché riconosciamo il bisogno di Te e del tuo amore!
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Ottavo ciclo
Anno liturgico C (2024-2025)
Tempo Ordinario
V Domenica
(9 febbraio 2025)
Is 6,1-2a.3-8; Sal 137 (138); 1Cor 15,1-11; Lc 5,1-11
Secondo il racconto dei vangeli sinottici, Gesù chiama gli apostoli a seguirlo fin dall’inizio della sua predicazione. Matteo e Marco non specificano la circostanza in cui sono chiamati, mentre Luca la descrive con precisione. In realtà, i primi apostoli conoscevano Gesù da tempo, fin dal battesimo di Gesù al Giordano, quando Giovanni Battista li indirizza verso il nuovo maestro. Dopo la carcerazione del Battista, Gesù torna in Galilea e pure Pietro, Andrea, Giovanni, vi tornano, a casa loro. Luca si premura di descrivere la circostanza in cui scatta qualcosa nei loro cuori da indurli a lasciare tutto e a seguire quel maestro. Del resto, Luca è l’unico a sottolineare che i discepoli lasciano tutto per seguire Gesù, come dirà allo stesso modo per la chiamata di Levi il pubblicano (Lc 5,28).
Il ‘lasciare tutto’ comporta non semplicemente la rinuncia alla propria vita quotidiana con i suoi affari e le sue preoccupazioni, ma la condivisione di un altro stile di vita quotidiana, un partecipare a un segreto di vita, di cui si subisce il fascino, senza però ancora sapere dove porterà. La narrazione del vangelo, dal punto di vista degli apostoli, non sarà che la scoperta sempre più coinvolgente di quel segreto, la scoperta del fino a che punto quel segreto agirà nel loro cuore imparando a conoscere e ad incollarsi al loro Maestro. Il punto culminante, almeno per Pietro, di questo ‘lasciare tutto’ per seguire il Maestro, è descritto da Giovanni alla fine del suo vangelo quando, dopo che Gesù gli ha fatto confessare il suo amore per lui per tre volte, Gesù gli comanda: “Seguimi” (Gv 21,19.22). Pietro imiterà il suo Maestro, che ha dato la vita per i suoi amici, affidandosi generosamente all’amore del Signore che lo attira a sé nell’annunciare a tutti la compassione di Dio.
La liturgia di oggi abbina la vocazione dei primi apostoli alla vocazione del profeta Isaia. Le corrispondenze sono specialissime, se i brani si leggono nel loro contesto. Il profeta aveva già avuto visioni, ma non aveva ancora raccontato in quale visione è scattato qualcosa nel suo cuore da immaginare tutta la sua vita in funzione di un compito ricevuto da Dio stesso. In particolare, nel capitolo precedente, aveva composto un cantico d’amore del Diletto per la sua vigna. In quel contesto di scoperta dell’amore immenso di Dio per il suo popolo, avviene la visione della gloria di Dio che lascia il profeta esterrefatto, come annichilito, tanta è la coscienza della sua miseria. Ma sopraggiunge un serafino con il carbone ardente prelevato dal braciere dell’atrio del tempio per poggiarlo sulle sue labbra e purificarlo, vale a dire per farlo sentire in corrispondenza con la santità di Dio, che è tutto amore di misericordia per i suoi figli. A quel punto, di fronte al desiderio impetuoso di Dio di salvare il suo popolo, il profeta non può che proferire sommessamente: “Eccomi, manda me!”. Sarà la stessa parola pronunciata dal Figlio, inviato a mostrare la grandezza dell’amore del Padre, nel suo desiderio di attrarre a sé il suo popolo. È la stessa parola a risuonare, per ora nell’invito di Gesù, poi assunta in tutta coscienza dagli apostoli: “Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini”.
La percezione del cuore del profeta, come degli apostoli, risulta intessuta da tre dimensioni concatenate. La prima. È il volere del Signore, vale a dire il movimento di salvezza per il suo popolo, scaturito dalla immensità e intensità del suo amore. Il ‘chiamato’ deve essere purificato, vale a dire non potrà più parlare a titolo proprio (nel brano evangelico, il prostrarsi di Pietro alle ginocchia di Gesù, proclamandosi peccatore, ha lo stesso valore dell’angoscia del profeta davanti alla santità di Dio). La missione ha come unico scopo di svelare a tutti quella volontà di salvezza da parte di Dio.
La seconda. La reazione di Pietro davanti all’esito della pesca, dopo che aveva faticato vanamente tutta la notte, è particolarmente significativa: “Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore” (Lc 5,8). Coglie la manifestazione della potenza di Gesù rivolta al suo cuore. Nemmeno sa cosa significhi diventare pescatore di uomini, ma sa fin da ora che seguirà il suo Maestro che gli ha parlato così. La verità dei suoi sentimenti è espressa proprio dalla profonda indegnità da cui è travolto. Le sue parole suonano ancora più potenti se ci si immagina la scena. Lui cade ai piedi di Gesù, sulla barca e, mentre gli stringe le ginocchia, gli dice: allontànati da me! Proprio quando l’uomo si sente totalmente indegno vuol dire che è stato toccato dalla potenza di salvezza di Dio.
La terza. La vocazione comporta la missione. E siccome la missione riguarderà la chiamata di tutti gli uomini all’amore di Dio, occorre che l’annuncio provenga da cuori purificati, cioè dove l’amore di Dio ha tolto ogni sapore di contesa o prevaricazione o superiorità. La coscienza della propria miseria, della propria fragilità, dei propri peccati, non solo non insidia la verità della chiamata, ma la esalta, perché solo così se ne può conoscere la gratuità e la potenza in quanto viene esaltato l’amore del Signore. Il Signore non convive con la nostra iniquità ma cerca i nostri cuori, cerca di mostrarsi ai nostri cuori. Vedere Lui comporta così vedere la nostra iniquità nell’attimo stesso che viene bruciata dal suo amore. E se davanti a Lui vale l’esperienza della gratuità del suo amore, davanti al prossimo vale la memoria della nostra iniquità, per non ritenersi sopra nessuno, per non rinnegare di nuovo la potenza della sua misericordia, che vale per me come per tutti.
È per questo che il segnale della fedeltà all’opera di Dio, tra gli uomini, non sarà costituito dal fatto che i cuori si convertono, ma dal fatto che un uomo non si allontana dalla carità anche quando viene oltraggiato e messo a morte. La missione comporta la condivisione di un compito di intimità col proprio Signore finché la sua gloria risplenda e si manifesti.
La tradizione ha applicato al mistero dell’eucarestia l’esperienza del carbone ardente poggiato sulle labbra del profeta. Perché, ricevendo il corpo del Signore, non ne veniamo bruciati? Non è forse la stessa immagine che vale per l’amore? L’amore brucia; brucia tutto ciò che lo ostacola, tutto ciò che lo impedisce. Se non brucia, è perché si tratta di un amore pallido, più sognato che vissuto, più immaginato che reale. Se l’eucaristia non brucia è perché non abbiamo incontrato nessuno, non abbiamo sentito, non abbiamo corrisposto all’amore di nessuno. Ma se è così, quale potenza ravvisare nella nostra missione, nella nostra testimonianza in mezzo ai nostri fratelli, testimonianza che di quell’amore solo è espressione?
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Ottavo ciclo
Anno liturgico C (2024-2025)
Tempo Ordinario
VI Domenica
(16 febbraio 2025)
Ger 17,5-8, Sal 1; 1Cor 15,12.16-20; Lc 6,17.20-26
La liturgia dà un’interpretazione particolare delle beatitudini che Gesù proclama ai suoi discepoli. L’abbina all’annuncio del profeta Geremia, commentato con il salmo 1, la porta del salterio. Il salterio inizia con “beato l’uomo …”. In ebraico ’ašre-ha’îš. È il nome di Adamo davanti a Eva quando si ritrova percorso da una gioia indicibile, gioia che non aveva trovato di fronte al mondo e agli animali. Il salmo 2, l’altro battente della porta del salterio, interpreta l’uomo giusto come il re messia, il Figlio eterno che raduna le genti. Il termine ebraico ‘beato’ si potrebbe rendere letteralmente: ‘in cammino’, ‘su, avanti’, ‘progredisci’. La felicità non è designata come una cosa, ma come un processo, un cammino che ha una meta, il cui raggiungimento produce quella felicità a cui il cuore anela. Se pensiamo che Gesù si è definito ‘via, verità e vita’, allora possiamo afferrare il senso della felicità per l’uomo quando cammina nella via tracciata da Gesù, nella verità d’amore da lui testimoniata, per la vita che si fa splendore di amore. Il senso profondo di questo invito/promessa di felicità è reso dall’antica colletta di questa domenica: “O Dio, che hai promesso di abitare in coloro che ti amano con cuore retto e sincero, donaci la grazia di diventare tua degna dimora”, vale a dire: la grazia di essere felici.
Ecco, la felicità è stare nella via, come dice il salmo 1. E se il profeta Geremia proclama: “Maledetto l’uomo che confida nella carne … Benedetto l’uomo che confida nel Signore”, vuol dire che maledizione e benedizione si riferiscono allo stare nella via, secondo l’invito del Signore. In termini amorosi, come i cuori avvertono quando vivono una relazione appagante: il tuo abitarmi è il mio vivere! Quel ‘vivere’ diventa l’espressione di uno splendore di umanità, come Gesù promette nel suo annuncio. Il definirsi di Gesù via-verità-vita corrisponde alle dimensioni della ‘dimora’ di Dio nel cuore. Per quella dimora, come dice l’antifona di ingresso, noi preghiamo: “Sii per me una roccia di rifugio, un luogo fortificato che mi salva. Tu sei mia rupe e mia fortezza; guidami per amore del tuo nome”. Come si vede, ‘roccia’ e ‘via’ sono abbinate, nell’esperienza dell’amore del nostro Dio.
Un pensiero di Gregorio di Nissa commenta molto opportunamente le beatitudini: “Siccome tutti gli uomini sono abitati dalla superbia, il Signore comincia le beatitudini, eliminando il male iniziale dell’orgoglio e invitando a imitare il vero Povero volontario che è beato in verità, in modo da rassomigliargli, secondo quanto sta nelle nostre possibilità, attraverso una povertà volontaria per aver parte alla sua beatitudine. … Mi sembra che ogni oggetto della nostra speranza non è nient’altro che il Signore stesso … è lui l’eredità ed è lui che ti dona la tua parte; è lui che arricchisce ed è lui la ricchezza; è lui che ti mostra il tesoro e che è il tuo tesoro …”. La beatitudine allora è vivere quella comunione con colui che è l’Amato del tuo cuore. E tale amore risalterà in tutto il suo splendore proprio quando cercheranno di rapirtelo e tu non cederai a niente e a nessuno. La cosa strana sarà che ti accorgerai che non te lo farai rapire perché lo custodisci per tutti, senza separarti da nessuno proprio a causa di quell’Amore. È quanto di più paradossale possa succedere a un uomo, ma è proprio questa la verità di Dio per il cuore dell’uomo.
La prima beatitudine comporta il verbo al presente, le altre al futuro: “perché vostro è il regno di Dio”, “perché sarete saziati”. Il presente sottolinea che il dono è reale, ci appartiene; il futuro sottolinea che siamo chiamati a viverne la dinamica in tutta la sua estensione, a realizzarne i frutti, con la pazienza di chi sa di non essere lasciato solo e confuso ma felicemente accompagnato. Così voler essere felici per poi vivere bene è un’assurdità, come voler prima vedere il Signore per poi seguirlo. L’unica possibilità è quella della promessa: accetto di vivere per essere felice, perché la felicità è la promessa della vita. E questa suona veritiera nella parola di Gesù perché è venuto a dare la vita e a darla in abbondanza. É l’abbondanza di un amore non più soggetto a oppressioni, invincibile davanti ad ogni tormento o afflizione o ingiustizia perché il nome del Signore sia rivelato ad ogni cuore, al mondo intero. É lo spazio di tensione della promessa che riempie la nostra vita di discepoli di Cristo.
In effetti, è la promessa di Gesù ai discepoli, non parla in generale. Il testo evangelico annota che Gesù parla alzando gli occhi sui suoi discepoli. Come a dire: ciò che vi sto annunciando vale in ragione del fatto che avete accolto in me l’Inviato di Dio, colui che dalla parte di Dio non solo vi richiama al mistero del Regno, ma vi concede di gustarlo e di condividerlo. Nei termini delle beatitudini, la parola di Gesù si può intendere: chi cerca la sua felicità senza che la Mia gioia lambisca il suo cuore, resterà nella fame e nel pianto; chi vuole a tutti i costi la sua felicità, solo calcolando come una eventuale aggiunta il dono della Mia gioia, finirà per trovarla traditrice, si troverà ingannato e perderà la sua integrità. Perché la felicità di cui parla Gesù, quella alla quale il nostro cuore anela profondamente, sebbene con mille contraddizioni, ha a che fare con la scoperta della prossimità di Dio che in Gesù rivela tutto il suo mistero di amore e accondiscendenza per noi e che sana i nostri cuori. Ricollegandomi a quello che dicevo all’inizio a proposito di Adamo, la felicità ha a che fare con una pienezza di umanità, che solo il Figlio di Dio fatto uomo ha potuto rivelare nella sua luminosità.
Se le beatitudini sono costruite nel contrasto tra prospettiva mondana e prospettiva spirituale, è perché Gesù rivela che, se gli uomini pensano in prospettiva mondana, non potranno vedere i segreti di Dio che sono per l’uomo. Il contrasto è tra una logica mondana e una logica divina, secondo l’espressione di Paolo ai Galati: “Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). Rispetto all’amore, rivelato dall’alto e colto nel seguire il Signore Gesù, non c’è nulla nel mondo che meriti la preferenza e non c’è nulla in me che può trovare adeguato compimento a partire dal mondo. È la paradossalità del parlare di Gesù, che costituisce però la punta di verità dei desideri del cuore dell’uomo.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico C (2024-2025)
Tempo Ordinario
VII Domenica
(23 febbraio 2025)
1Sam 26,2.7-9.12-13.22-23; Sal 102 (103); 1Cor 15,45-49; Lc 6,27-38
Il brano evangelico di oggi è la traduzione pratica dello splendore delle beatitudini. Come le beatitudini sono espresse per paradossi, così le ammonizioni suonano paradossali. Nel fondo, si tratta di maturare un’umanità luminosa, calda, modellata su quella di Gesù, come verremo a conoscere dal seguito della narrazione evangelica. Due sono gli aspetti che si possono considerare. Dal punto di vista della pratica, è chiesto di non stare attaccati a niente, se si vuole godere di una benevolenza che riempie il cuore. Gli esempi dello schiaffo, del mantello e del prestito, dicono appunto questo: non trattenere nulla e sarai libero nel cuore. Libero per che cosa? E questo è il secondo aspetto: se non si cercano beni, affetti, gloria, a partire dal mondo e per riempire la scena del mondo, allora il cuore resta invaso dall’amore di Dio che lo attrae nella sua stessa dinamica di amore. Come esemplifica Gesù: può amare i nemici, fare il bene comunque, benedire sempre, restare solidali con tutti e con tutto il cuore.
Il movimento sotterraneo, di cui il cuore diventerà capace, sarà quello di custodire la dignità di ogni uomo davanti a Dio, di onorare in ogni uomo la sua dignità di figlio di Dio. È quanto Gesù dice alla fine: siate figli dell’Altissimo, cioè misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso. A tale profonda dignità rimandano le parole di Gesù. Nella traduzione italiana delle parole di Gesù mi sembra ci sia qualcosa che sfugge. Vorrei provare a mettere in risalto alcune sfumature.
‘Come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro’. Gesù non invita semplicemente al fare, ma al sentire benevolo. Non si tratta solo di fare del bene, ma di sentire intimamente il bene per il prossimo, secondo le corde segrete che ci costituiscono in un ben-essere. Non si tratta di fare cose buone, ma di essere buoni. E questo sarà possibile nell’esperienza che Dio è buono nell’accoglierci nel suo perdono.
‘Fate del bene a coloro che vi odiano’ suonerebbe piuttosto ‘agite in modo che risplenda il bene per coloro che vi odiano’, dove ‘bene’ non è complemento oggetto ma avverbio.
‘Benedite coloro che vi maledicono’ andrebbe più semplicemente resa con ‘dite bene di quanti imprecano contro di voi’, per non perdere questa sfumatura di senso: portate in pace la maledizione che vi viene dagli uomini senza scadere nella vendetta delle parole; mantenete il cuore nella pace senza corromperlo con la rabbia di parole insolenti; non ricambiate con parole amare chi vi amareggia, con parole irose chi vi ferisce, né in voi stessi né in presenza d’altri, custodendo l’onore per la persona che l’ha calpestato. Ma c’è ancora un’altra sfumatura: sappiate vedere bene la persona che vi maledice oltre la cosa cattiva che sta facendo contro di voi; sappiate custodire il bene anche in chi vi viene contro, perché la sua realtà non si esaurisce nel male che sta compiendo; sappiate scorgere e lodare il bene ovunque.
‘Pregate per coloro che vi maltrattano’ andrebbe reso: ‘pregate per coloro che vi calunniano’ (come l’antica versione latina riportava: orate pro calumniantibus vos) ad indicare la risposta al male più subdolo che produce tristezza. È l’ultima tentazione contro la carità, come dicono molto realisticamente i padri. Si può sopportare l’attacco diretto del nemico, si può tacere di fronte a chi ti insulta, ma resistere alla tristezza che ti invade quando sei calunniato per malevolenza e invidia (questo è infatti il significato del verbo greco usato da Luca) e proprio da chi ha ricevuto il tuo bene, sembra sovrumano; allora, solo la preghiera confidente in Dio può custodire il tuo cuore.
Gesù declina il grande comandamento, quello di amare ‘senza confini’, nelle azioni, nelle parole, nel cuore. L’espressione più caratteristica dell’intero brano, che stabilisce il criterio di discernimento per il discepolo di Gesù, suona: ‘quale gratitudine vi è dovuta?’ (La versione precedente portava: che merito ne avrete?). Si potrebbe rendere: ‘quale grazia avete?’ oppure ‘qual è la vostra grazia?’ (come sottolinea l’antica versione latina, fedele al testo greco: ‘quae vobis est gratia?’). L’espressione è ripetuta tre volte nel testo e costituisce la discriminante tra il discepolo di Cristo e il pagano. Ma la discriminante di che cosa? Questo è il punto. Ed è l’interrogativo di fondo di tutto il brano: quale grazia risplende nel vostro agire? ‘Grazia’ rivela un tipo di esperienza, quella che procede dalla beatitudine promessa da Gesù e che il discepolo condivide con Lui. Quella di chi, incontrando l’Inviato di Dio, riconoscendo in lui la prossimità di Dio per l’uomo, ne è rimasto folgorato, come dirà Giovanni: “A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio … il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria” (Gv 1,12.14).
È l’esperienza, in Gesù Salvatore, della benevolenza di Dio per l’uomo, della gratuità del perdono ricevuto, della dignità ritrovata per l’amore che ci ha rifatti da dentro. È da dentro quell’esperienza che scaturisce l’energia di un amore che non si lascia limitare o soffocare da niente e da nessuno. E quando quell’amore risplende non si può non domandare: “quale grazia rivela? Di quale grazia è l’espressione?”. Le situazioni limite addotte da Gesù (amare i nemici, benedire chi ti maledice, pregare per chi ti calunnia…) rivelano la ‘normalità’ di un cuore ormai conquistato alla dinamica divina e per questo significative del discepolo di Cristo.
E per dare il senso della estensione del suo invito conclude: “con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio”. Gli aggettivi ‘pigiata, colma e traboccante’ alludono alla misura di capacità delle granaglie quando il recipiente, riempito fino all’orlo, è schiacciato e scosso per farcene stare ancora un po’ e aggiungerne fino a ottenere un piccolo colmo in superficie. Il bene non sia misurato da nulla se non dall’infinità di Dio che dà gratuitamente senza condizioni previe.
Il collegamento con la prima lettura lo deduco da un passo che è stato omesso dalla proclamazione di oggi e che Davide porta a giustificazione del suo comportamento: “Ed ecco, come è stata preziosa [nell’antica versione greca: ‘come è stata resa grande’] oggi la tua vita ai miei occhi, così sia preziosa [sia resa grande] la mia vita agli occhi del Signore ed egli [mi protegga] e mi liberi da ogni angustia” (1Sam 26,24). Potremmo spiegare: nessuna cosa, oggetto o affetto, sia motivo di offesa del fratello perché su tutto prevalga l’amore che il Signore ci ha fatto conoscere in Cristo Gesù. Allora la richiesta insistente a Dio, nella preghiera della chiesa, non è tanto quella di avere un cuore generoso, di avere un amore per tutti, ma piuttosto quella che il Suo Volto si riveli al nostro cuore per essere attratti a vivere nello splendore di quell’amore, che ci ha toccati e che non ha misura.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico C (2024-2025)
Tempo Ordinario
VIII Domenica
(2 marzo 2025)
Sir 27,4-7; Sal 91 (92); 1Cor 15,54-58; Lc 6,39-45
Il brano di oggi illustra lo splendore del cuore del discepolo, in cui le beatitudini hanno fatto presa, attraverso un segno preciso: la parola. Il frutto di cui si parla è la parola, la parola rivela il cuore. Gesù prima racconta la parabola dei due ciechi che cadono nel fosso se non saranno guidati. E formula il principio: “Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro” (Lc 6,40). Poi aggiunge l’invito a non guardare al difetto, piccolo, del fratello senza aver prima considerato il difetto, grande, di noi stessi, se non si vuole essere ipocriti. Sul principio: “L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda” (Lc 7,45).
Di quale bontà parla Gesù? Quella che deriva dall’imitazione di Dio: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo” (Lc 18,19). Gesù è il testimone per eccellenza della bontà di Dio per l’uomo; quindi, chi si muove come lui otterrà un cuore buono. Ma per muoversi come lui, occorre prima accoglierlo, riconoscerlo, dimorare in lui, riconoscersi in lui. Il buon tesoro del cuore è proprio lui, accolto, custodito. Ecco allora la prima deduzione: avere le parole di Gesù in cuore. Di sé Gesù dice: “Le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita” (Gv 6,63). Le parole di spirito e vita sono le parole di misericordia e perdono; le parole di giudizio e condanna sono carne e morte.
Quando, invece, il cuore non si riconosce in colui che è il suo salvatore e il suo riposo, allora pesca in un falso tesoro, un tesoro illusorio, cattivo. Il primo segnale di questo pescaggio illusorio è l’ipocrisia, pretendere cioè di giudicare il fratello dall’alto, con la presunzione di ammantare di vesti splendide ciò che intrinsecamente è sgradito a Dio: voler correggere il fratello per il suo bene senza sincerarsi che quel bene faccia conoscere il Signore nella sua bontà.
L’ipocrisia è appunto l’atteggiamento di chi giudica in proprio senza rifarsi al suo maestro, senza voler seguire il suo maestro. Nel racconto di Giovanni della lavanda dei piedi nell’ultima cena, Gesù così spiega il suo gesto: “Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi. In verità, in verità io vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un inviato è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica” (Gv 13,15-17).
L’aspetto caratteristico del brano evangelico di oggi sta proprio nel collegare il frutto alla parola. Lo esprime anche il libro del Siracide: “Il frutto dimostra come è coltivato l’albero, così la parola rivela i pensieri del cuore” (Sir 27,6). Da notare la precisione del collegamento, che fa memoria del racconto della creazione: “Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gn 2,15). Non si fa riferimento solo alla natura dell’albero, ma anche al fatto della sua coltivazione. Così per il cuore. Un cuore coltivato nell’adorazione di Dio e nella gratitudine produce frutti buoni. Spiegherei così la natura del collegamento. In Gal 5,22 sono elencati i frutti buoni: “Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”. La parola buona è quella che interpreta e comunica qualcosa di quei frutti.
Il salmo responsoriale, se interpretato nella luce della tradizione ebraica, fornisce un ulteriore significato alle parole di Gesù. Il salmo 91/92 è l’unico salmo in cui si annota che deve essere cantato in un certo giorno, cioè di sabato. Il Targum interpreta questo salmo come il canto del primo Adamo. E noi possiamo interpretarlo come il canto dell’ultimo Adamo, del nuovo Adamo, di Gesù, lui che è il vero albero buono che produce frutti buoni. Così, l’immagine dell’albero buono che produce frutti buoni e di quello cattivo che produce frutti cattivi, non è semplicemente una massima, un proverbio. È l’indicazione di un percorso, è rivelazione di una verità: se starete saldi in colui che ha avuto misericordia per voi, anche voi potrete usare misericordia ai vostri fratelli. E in questo, essere come il vostro Maestro, nulla di più. Esiste però titolo maggiore di gloria per il discepolo di Gesù? Avviene finalmente quello che il canto al vangelo proclama citando un passo della lettera ai Filippesi: “Risplendete come astri nel mondo, tenendo salda la parola di vita” (Fil 2,15d-16a). La luce di cui si parla non è luce propria, ma la luce della vita del Signore nostro Gesù Cristo, accolto nel cuore, capace di dare libertà, pace e gioia al cuore, generando le sue stesse parole di vita.
L’invito del salmo al rendimento di grazie indica l’atteggiamento che segnala la sincerità del cuore nei confronti di Dio e la libertà del cuore nei confronti dei fratelli: “È bello rendere grazie al Signore … annunciare quanto è retto il Signore, mia roccia: in lui non c’è malvagità” (Sal 91,2.16). Prima ancora che una certa parola, a rivelare i pensieri del cuore sarà il tono con cui la parola è rivolta ai fratelli, sarà la disposizione interiore profonda nella quale quella parola pesca. E se la disposizione interiore è quella che Gesù fa sentire con il lavare i piedi ai discepoli, allora vuol dire che il cuore ha accolto in dolcezza la misericordia di Dio per noi e tutte le parole che formulerà porteranno il profumo di quella misericordia. Non ci sarà più ombra di ipocrisia.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico C (2024-2025)
Tempo di Quaresima
Mercoledì delle Ceneri
(5 marzo 2025)
Gl 2,12-18; Sal 50 (51); 2Cor 5,20-6,2; Mt 6,1-6.16-18
Dice il libro del Siracide: “A chi si pente Dio offre il ritorno” (Sir 17,24). Il Talmud riporta, nel trattato Nedarim: «Sette fenomeni furono creati prima che il mondo fosse creato, e sono: la Torah, e il pentimento, il Giardino dell’Eden, e la Geenna, il Trono di Gloria, e il Tempio, e il nome del Messia… Il pentimento fu creato prima che il mondo fosse creato, come è scritto: “Prima che i monti fossero nati e che tu avessi formato la terra e il mondo, anzi, da eternità in eternità, tu sei Dio” (Sal 90,2), e subito dopo è scritto: “Tu fai tornare l’uomo alla contrizione, e dici: Ravvedetevi, figli degli uomini” (Sal 90,3)». Il che significa che Dio è Dio perché chiama al pentimento. In ebraico il pentimento è detto ‘ritorno’ perché la realtà del mondo è la realtà dell’amore di Dio che splende nel mondo. Se l’uomo non vede più quella realtà, allora pecca e siccome peccando, non prevale più la luce, allora il pentimento è ritornare alla luce dell’amore di Dio.
L’esortazione forte della quaresima alla conversione comporta un triplice movimento del cuore: “ritornate a me” (Gioele), “lasciatevi riconciliare con Dio” (s. Paolo), sulla base della condizione “imparate a rimanere nel segreto del cuore” (vangelo), dove splende la luce dell’amore di Dio.
Se si ritorna al racconto della creazione di Adamo, si comprende il senso profondo del rito delle ceneri. Quando Dio prese della polvere della terra, la plasmò e con il suo soffio la rese essere vivente. Nel salmo 50 si dice che Dio gradisce un cuore contrito. Il termine contrito, dal latino conterere, allude proprio a questo rendere polvere il cuore (la cenere dell’umiliazione). Quando il cuore non accampa più diritti, non rivendica più, allora, come polvere della terra, si presenta a Dio che lo plasma di nuovo e il nostro cuore rinasce capace di sentimenti nuovi, più umani e divini allo stesso tempo.
Il profeta Gioele ci fa sapere che non è possibile convertirsi al Signore senza spogliarsi delle vanità e illusioni del vivere quotidiano. Cercheremmo il Signore se potessimo soddisfarci con le nostre vanità e con i nostri soprusi? Ricordarci allora della nostra finitudine significa intravedere la possibile dignità della vita che scaturisce dall’incontro con il Dio vivente. In effetti, se impariamo a percepire il senso del mistero che viviamo, il cuore scoprirà nuove energie per viverlo fino in fondo e troverà finalmente quella gioia che cerca, nonostante non manchino i tormenti.
La prima parola della liturgia quaresimale suona: “Tu ami tutte le tue creature, Signore, e nulla disprezzi di ciò che hai creato; tu dimentichi i peccati di quanti si convertono e li perdoni, perché tu sei il Signore nostro Dio” (cfr. Sap 11,23-26, antifona d’ingresso). In questa professione di fede e di amore si innesta l’invito alla penitenza, tipica del tempo quaresimale. Salta agli occhi il contrasto tra l’austerità del cammino penitenziale quaresimale e la levità a cui la Chiesa esorta, sulla base delle parole di Gesù ai suoi discepoli: “E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipocriti, che assumono un’aria disfatta … Invece, quando tu digiuni, profumati la testa e lavati il volto” (Mt 6,16.17). È il contrasto tra esteriorità e intimità. La conversione è il ritorno a un’intimità, a un percepire sempre più intensamente la presenza di quel Dio che ci ha amati e che ci chiama al Suo amore; è un imparare a vedere le cose a partire da questa intimità con Dio. Dove non c’è intimità, c’è soltanto scena, giocata all’interno e all’esterno. Se c’è scena, vuol dire che non si è ancora entrati nella camera segreta, dove lo splendore della presenza di Dio illumina e scalda. La penitenza ha lo scopo appunto di toglierci dalla scena.
Il brano evangelico descrive l’atteggiamento penitenziale in tre ambiti: elemosina, preghiera e digiuno. La dimensione negativa è stigmatizzata nell’ipocrisia, mentre la dimensione positiva risulta sottolineata dalla capacità di intimità e nel relazionarsi con il prossimo (l’elemosina, oltre che una sorta di restituzione, è un atto fraterno, una condivisione, un riconoscimento del prossimo come nostro fratello) e nel relazionarsi con Dio (la preghiera è abolizione del teatro, cioè del fare le cose per essere visti sia dagli altri che da se stessi; il digiuno serve come sostegno alla preghiera, all’agire interiore pulito e retto, contrassegnato dalla gioia del cuore che va incontro al proprio Dio e di conseguenza è libero di incontrare i suoi fratelli).
L’elemento che suggerisce meglio la corrispondenza dell’azione esteriore con l’intimità che concerne la conversione interiore del cuore è appunto la gioia, quel senso di levità, di non seriosità con cui si compiono le buone opere, lontani da quel dannato senso di importanza che ci diamo o da quell’ottuso bisogno di affermazione presso gli altri che ci divora. La ricompensa promessa non ha nulla a che fare con la paga dovuta al lavoro fatto; riguarda solo la rivelazione e la pienezza che gusta il cuore quando viene incontrato da Qualcuno, di cui porta il desiderio, quando si apre alla vita di una relazione che trasforma totalmente il suo modo di vedere e di sentire. Questo significa entrare nella camera segreta, dove abita il Padre e dove il Padre, che vede nel segreto, ricompensa.
Un altro aspetto della penitenza risulta dall’esortazione di Paolo ad essere collaboratori di Dio, collaboratori al mistero della riconciliazione, perché gli uomini possano fare esperienza dell’amore di Dio. Fare le opere davanti agli uomini significa privare gli uomini dell’occasione di porsi davanti a Dio. Fare le opere davanti a Dio significa porsi dentro questo mistero di riconciliazione con tutto il bisogno dei nostri cuori di essere perdonati e di scambiarsi il perdono vicendevolmente, come segno dell’amore di Dio arrivato fino a noi. Ogni tipo di penitenza gradita a Dio ci ottiene l’inserimento in questo mistero di riconciliazione, dove, per la verità dell’amore provato, non c’è più spazio per la scena, nemmeno in noi stessi.
Come suggerimento di preghiera quaresimale, riporto la preghiera di s. Efrem, che nella tradizione bizantina si ripete nove volte al giorno in quaresima. Da sottolineare la finale: la preghiera non finisce con la richiesta della carità, ma della coscienza del proprio peccato e con l’impegno a non ferire il prossimo, condizioni essenziali per non perdere la carità mai:
“Signore e Sovrano della mia vita, non darmi uno spirito di pigrizia, di dissipazione, di predominio e di loquacità. Dona invece al tuo servo uno spirito di purità, di umiltà, di pazienza e di carità. Sì, Re e Signore, fa’ che io riconosca i miei peccati e non giudichi mio fratello, poiché tu sei benedetto nei secoli. Amen”.
Buon cammino quaresimale a tutti.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico C (2024-2025)
Tempo di Quaresima
I Domenica di Quaresima
(9 marzo 2025)
Dt 26,4-10; Sal 90 (91); Rm 10,8-13; Lc 4,1-13
Il vangelo di Luca introduce le tentazioni di Gesù nel deserto con l’annotazione: “Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo” (Lc 4,1-2). Il collegamento tra tentazioni e azione dello Spirito Santo è misterioso. Come misteriosa risulta l’affermazione del Siracide: “Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione” (Sir 2,1) o l’affermazione di Paolo: “dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni” (At 14,22) o ancora: “Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove” (Gc 1,2). Non che non si riconosca la fondatezza di simili costatazioni, ma risulta misterioso per noi che c’entri lo Spirito Santo nel fatto di trovarci nelle tentazioni. Noi solitamente colleghiamo tentazioni a peccato, non all’azione dello Spirito Santo.
La questione di fondo potrebbe essere riassunta così: essere figli di Dio comporta forse qualche titolo di pretesa? La drammaticità di tale questione risalta in tutta la sua intensità proprio nelle tentazioni di Gesù: “Se tu sei Figlio di Dio …”. La prima e la terza tentazione sono dirette. Gesù ha fame e può risolvere il suo bisogno con il trasformare una pietra in pane. Gesù può buttarsi dal pinnacolo del tempio e planare placidamente a terra perché ne ha il potere. Il diavolo ragiona nei termini a lui connaturali: la grandezza è nell’ordine della potenza, più sei potente più sei grande. Se lui è Figlio di Dio ha tutto il potere, può dunque usarlo. Se no, vorrebbe dire che non è effettivamente il Messia. Così ragiona. La seconda tentazione, invece, svela il senso delle sue avances. Promette la gloria dei regni della terra, ne è il detentore, cerca di conquistare con l’illusione del potere e della gloria e questo è ciò che mostra. Ma le parole che aggiunge sono segrete, vale a dire si manifesteranno solo dopo che l’uomo ha accettato di essere abbagliato dalla gloria del mondo, quando si accorgerà di trovarsi non dalla parte di Dio ma dalla parte del diavolo. Quell’invito “se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me” non è espresso, non appare, lavora nel segreto. Semplicemente, noi nemmeno ci accorgiamo che, accettando la gloria, entriamo nell’orbita del maligno. Anche la gloria a fin di bene! Anche mossa dalle più nobili intenzioni! Gesù, che è pieno di Spirito Santo e conosce i segreti di Dio, vede l’insidia, la smonta e ne resta indenne. Perché essere figli non comporta titolo alcuno di pretesa; significa solo condividere con Dio il suo amore per gli uomini. Quando con l’antica colletta preghiamo: “O Dio, nostro Padre … concedi a noi tuoi fedeli di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e di testimoniarlo con una degna condotta di vita”, è come domandassimo: concedici di entrare in quella intimità di sentire e volere con il tuo Figlio, pieno del tuo amore per noi, da trovarvi le radici del nostro vivere, senza illusioni.
Se l’equivoco si fonda sul preferire il potere all’amore, allora capiamo perché nella vita la dinamica essenziale in gioco sia questa: se tu vuoi assoggettare qualcuno a te, vuol dire che tu sei assoggettato a qualcun altro. Se hai bisogno di dominare, è perché già sei dominato da qualcosa. Se vuoi esercitare un potere, è perché tu sei schiacciato da un altro potere. Vale a dire: non è buono il potere, ma l’obbedienza; non vale il potere, ma l’amore. Nell’obbedienza (Gesù non aveva altro nutrimento che quello di fare la volontà del Padre; non aveva altra libertà se non quella di godere dell’intimità col Padre al punto da preferire sempre il suo amore per noi) e nell’amore (Gesù non aveva altro potere sull’uomo se non quello dell’amore assoluto e non si illude mai di sostituirlo con qualcosa che soltanto gli possa assomigliare senza esserlo) si trova la libertà di non aver bisogno di dimostrare mai nulla né di esercitare dominio mai su nessuno. Per Gesù, il suo essere Figlio di Dio ed il suo compito di Messia inviato da Dio, sono un tutt’uno. Nel compimento umano del compito ricevuto mantiene la modalità divina, rifiutando ogni illusione di potere.
Tanto che, per comprendere a fondo dove vadano a parare le tentazioni, possiamo collegare le risposte di Gesù a due brani evangelici particolari:
1) Poco prima della sua passione, prevedendo gli eventi, Gesù dice: “… viene il principe del mondo; contro di me non può nulla [in me non ha nulla (di suo)], ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così io agisco” (Gv 14,30-31). Di tutta quella gloria, prestigio, potere, di cui il diavolo si proclama detentore, in Gesù non c’è nulla, perché lui è tutto e totalmente occupato solo dall’amore del Padre per noi.
2) Quando Gesù è appeso in croce, si sente apostrofare: “Ha salvato altri e non può salvare se stesso! È il re d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui. Ha confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: ‘Sono Figlio di Dio’!” (Mt 27, 42-43). Nella logica del maligno, di cui gli uomini fanno le spese nella loro vita, veramente Gesù non può salvare se stesso (non si sfama con un miracolo), non viene liberato dalla morte (adora davvero Dio solo), non può dimostrare nulla (non si butta dal pinnacolo). Eppure, proprio quel non salvare se stesso, non essere liberato dalla morte, non voler dimostrare nulla, comporta la rivelazione dell’amore di Dio che riempie la sua vita e che riverbererà sul cuore degli uomini che non vorranno più illudersi. La cosa strana è che noi, pur rifiutando l’azione del male, non riusciamo a vincere la sua seduzione perché non rinunciamo alla visione mondana sottostante, alla visione del maligno, vale a dire: immaginiamo che Dio debba servire ai nostri scopi o interessi. La vittoria di Gesù sul maligno dice altro, dice che stare dalla parte di Dio significa servire l’uomo nella verità del suo amore per lui.
Vale la pena di ricordare che il diavolo, nel rivolgersi a Gesù, usa le parole del salmo 90 (91) per conquistarlo. Nella tradizione ebraica il salmo 90 è proclamato come chiusura del sabato allorquando, ritornando alla vita quotidiana settimanale, si teme di perdere la santità di Dio goduta. Quel salmo è proclamato proprio per essere difesi dalla santità di Dio contro gli assalti del maligno.
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Ottavo ciclo
Anno liturgico C (2024-2025)
Tempo di Quaresima
II Domenica di Quaresima
(16 marzo 2025)
Gen 15,5-12.17-18; Sal 26 (27); Fil 3,17-4,1; Lc 9,28b-36
Il racconto della trasfigurazione prende senso per chi può dire con il salmo: “Il mio cuore ripete il tuo invito: ‘Cercate il mio volto!’. Il tuo volto, Signore, io cerco” (Sal 26/27,8). Reso nella versione latina con il trasporto dell’emozione: “Tibi dixit cor meum: exquisivit te facies mea; faciem tuam, Domine, requiram”. Dopo l’esortazione a seguirlo rinnegando se stessi e prendendo la croce, Gesù si mostra nella sua gloria estasiante, come a confermare che la fede in lui è ben riposta. Lo sguardo dei discepoli è rapito, come introdotto nel segreto della persona di Gesù, come già partecipi della gloria del mondo futuro.
La persona di Gesù è vista nella compagnia di Mosè ed Elia. I due sono percepiti come partecipi della gloria del Messia perché tutti e due sono stati assunti in cielo in modo misterioso. La tradizione ebraica conosce il racconto dell’assunzione di Mosè e di Elia si narra che è stato rapito in cielo su un carro di fuoco. Le risonanze per il cuore sono sconfinate. Al di là del fatto che Gesù non può essere accolto se non a partire dalle Scritture e che le Scritture si aprono proprio con lui, è sottolineata la tipica dinamica del cuore: si vede se si ascolta e si ascolta per vedere. L’ascoltare commosso del cuore produce la visione, non viceversa. D’altra parte, se si ascolta è per vedere colui che ci introduce nell’amore, vedere il volto di colui al quale il nostro cuore anela. Quello che proclama la voce dalla nube: “Ascoltatelo!”. Lui, l’eletto, l’Amato, ha ascoltato il Padre nel suo essere inviato al mondo come testimone dell’amore del Padre per i suoi figli. Noi siamo invitati ad ascoltare il Figlio nel nostro essere inviati al mondo per testimoniare la grandezza del suo amore. Cercare di ascoltare Gesù, di seguirlo mettendo in pratica le sue parole, è come entrare anche noi nella stessa compiacenza che gode da parte del Padre, compiacenza che in altro non consiste se non nel godimento di una vita che è diventata tutta espressione di amore, tanto che non si vuole altra vita se non quella che provenga e conduca a quell’amore, capace di far risplendere anche il volto degli uomini. Qui si comprende perché il cammino quaresimale sia lotta per oltrepassare ogni forma di egoismo e far vivere il cuore del desiderio del Cristo. Egoismo è tutto ciò che ci impedisce di essere toccati dall’amore di Dio, tutto ciò che si sovrappone al desiderio del Cristo rinnegandolo e, di conseguenza, rinnegando il nostro stesso cuore nel suo anelito profondo e dividendoci dai fratelli.
Due dettagli del racconto di Luca sono significativi. Gesù sale sul monte per pregare. Nei vangeli si parla di tre montagne particolari: quella della visione dall’alto monte nella tentazione del deserto, quella dell’ascensione quando Gesù si sottrae alla vista dei discepoli e questa della trasfigurazione. Il momento è di preghiera. La cosa sottolinea che si tratta della rivelazione di Dio al cuore dell’uomo. Di per sé, la rivelazione non riguarda la visione della gloria, ma il senso, ancora misterioso, di quella gloria: “e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme”. Quello che Pietro non può ancora comprendere, nel trasporto meraviglioso che vive tanto da descriverlo come ‘fuori’ di sé, è il fatto che non può eternizzare quel momento di rivelazione (“Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosé, una per Elia”). Sarà chiamato invece a contemplarlo segretamente in quel ‘Gesù solo’, proprio quello che vedeva in carne e ossa, nella quotidianità, come viene annotato alla fine dell’evento: “Appena la voce cessò, restò Gesù solo”.
È questo l’altro dettaglio prezioso. Tutto si concentra in quel ‘restò Gesù solo’. Non è la conclusione dell’evento, ma l’indicazione della prospettiva che accompagnerà i discepoli fino alla Pasqua. Non vedranno più di Gesù la sua gloria estasiante, ma saranno chiamati a vedere la sua gloria proprio nel suo essere vilipeso e crocifisso appunto come il ‘re della gloria’. È proprio quel maestro, è proprio lui il Figlio di Dio che annuncia agli uomini la volontà del Padre e l’evangelo del Regno. I discepoli non possono ancora comprendere che fin dalla creazione del mondo il colloquio tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo verte sull’immolazione dell’agnello, figura dell’amore che Dio riversa sul mondo e di cui la gloria della trasfigurazione è l’allusione misteriosa. Sanno solo che quel Figlio, l’Eletto, è degno di Dio, custodisce il segreto di Dio per l’uomo e attendono di conoscerlo per davvero imparando ad ascoltarlo, ad ascoltarlo per seguirlo e a seguirlo per ascoltarlo finché si manifesti finalmente al cuore. Il senso della paura che prende i discepoli è appunto il segno del desiderio e del rischio insieme che caratterizza l’avventura dell’uomo toccato dall’incontro con Dio.
Da notare che il brano della trasfigurazione è incastonato tra due annunci della passione, a sottolineare che il Figlio di Dio risorto e il Figlio dell’uomo che soffre devono stare insieme nella fede dei discepoli. La consegna del silenzio riguarda proprio la natura della gloria di Gesù. Non si tratta di parlare di Gesù in termini di divinità gloriosa e potente, ma in termini pasquali: colui che ha sofferto la passione è colui che viene esaltato con la risurrezione. E questo non poteva essere colto che alla conclusione della storia di Gesù. La cosa ha un risvolto potente, che non è mai assimilato una volta per tutte dai credenti. La profezia di Daniele sul figlio dell’uomo: “Gli furono dati potere, gloria e regno: tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto” (Dn 7,14) risponde all’essenza di quel silenzio perché l’unico potere di vittoria che Gesù si arroga è quello dell’amore crocifisso. Tanto da far dire al papa Leone Magno: “è più importante pregare per la pazienza che per la gloria”.
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