Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo di Avvento

 

I  Domenica

(1 dicembre 2013)

 

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Is 2,1-5;  Sal 121;  Rm 13,11-14;  Mt 24,37-44

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Nell’ultima settimana dell’anno liturgico, la trentaquattresima, la Chiesa ci ha accompagnati con questa antifona alla comunione: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo” - sono le ultime parole del vangelo di Matteo - e con la preghiera dopo la comunione: “O Dio, che in questi santi misteri ci hai dato la gioia di unirci alla tua stessa vita, non permettere che ci separiamo mai da te, fonte di ogni bene”.

La Chiesa, con l’inizio del nuovo anno liturgico, l’Avvento, quando ci invita alla vigilanza, allude alla capacità del cuore e dell’intelligenza di percepire proprio la ‘presenza’ del Signore Gesù che tutto attira a sé e al suo regno per consegnarlo nelle mani del Padre. Avvento non significa primariamente attesa, ma presenza. Il periodo liturgico dell’Avvento non è un’attesa della nascita di Gesù a Betlemme, ma la tensione a una capacità di sensazione, di intuizione cordiale della compagnia di Gesù che opera continuamente perché il suo regno conquisti i cuori e la storia. E se di attesa si parla, si tratta dell’attesa della manifestazione del Signore Gesù al nostro cuore.

La Bibbia finisce con il grido: “Vieni, Signore Gesù”, Marana tha! (Ap 22,20). L’aspetto singolare è che sia lo Spirito che la Sposa, sia Dio che l’uomo, si ritrovano accomunati dallo stesso grido, al quale fa eco la parola/promessa di Colui che è desiderato: “Sì, vengo presto”. Come tutto è stato creato per mezzo di lui e in vista di lui, così tutto è redento per mezzo di lui e in vista di lui (cfr. Col 1), tanto che tutto ciò che si vive si risolve nell’incontro del desiderio di Dio e dell’uomo perché lui venga, perché sia reso manifesto nel suo amore per noi da indurci a vivere dentro e in forza di quell’amore. La vigilanza dell’Avvento punta qui.

L’aspetto drammatico di suddetta vigilanza la liturgia lo sottolinea con questa costatazione: il Signore tarda. Nella storia tutto sembra far resistenza alla manifestazione del Signore Gesù, ma il cuore non aspira ad altro. Nel brano di vangelo di oggi l’avvertimento di Gesù segue l’annuncio degli eventi drammatici della fine quando tornerà il Figlio dell’uomo e giudicherà il mondo. L’evangelista Matteo ha già vissuto il dramma della fine con l’assedio e la caduta di Gerusalemme del 70 d.C. e sa che però non è ancora la fine. Il tempo della storia che continua, nel dramma, ha per i credenti un unico scopo: dare testimonianza a Gesù, permettere alla salvezza operata da Gesù, come dice il canto al vangelo: “Mostraci, Signore, la tua misericordia e donaci la tua salvezza”, di manifestare la sua potenza nel mondo fino a che tutti se ne lascino conquistare. È ciò che proclama la visione escatologica del profeta Isaia con l’invito per tutti i popoli: “Venite, saliamo sul monte del Signore ... venite, camminiamo nella luce del Signore”. Quella tensione escatologica non costituisce tanto il finale della storia, ma la dinamica nascosta della storia, quella che fornisce il criterio di discernimento del valore dell’agire in questo mondo.

L’avvertimento di Gesù ai suoi discepoli: “Vegliate dunque” è in funzione di quella tensione escatologica, come se dicesse: non fate come al tempo di Noè quando, nonostante fosse avvertita, la gente non si avvide di nulla; scopritela, avvertitela, viveteci dentro, fatevene la ragione del vivere. E quando aggiunge ‘tenetevi pronti’ l’allusione evidente, come del resto suggeriscono le parabole del padrone che torna dalle nozze, è al servizio vicendevole perché tutti possano vedere lo splendore del regno e la manifestazione del suo amore.

In questo modo il tempo della nostra vita, il tempo dell’attesa, si apre al sogno che la colletta descrive: “O Dio, Padre misericordioso, che per riunire i popoli nel tuo regno hai inviato il tuo Figlio unigenito, maestro di verità e fonte di riconciliazione, risveglia in noi uno spirito vigilante, perché camminiamo sulle tue ve di libertà e di amore fino a contemplarti nell’eterna gloria”. Ecco il sogno, per noi stessi e per tutti: avere la possibilità concreta di vivere nella benevolenza senza antagonisti né avversari né tanto meno nemici. È la realizzazione della vocazione dell’uomo come essere per la comunione. Chi può garantire tale possibilità è quel Gesù, di cui celebreremo la venuta nella carne con il Natale.

La vigilanza a cui ci invita la liturgia è così finalizzata ad uno scopo preciso: essere in condizione di realizzare la vocazione all’umanità che il Signore Gesù vive nel suo splendore originario. Per questo san Paolo dichiara: “Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo”, per vivere la storia nella benevolenza, senza paure, tanto da essere addirittura custoditi da una armatura di luce: “indossiamo le armi della luce”. Luce, che consiste nell’assumere il principio della riconciliazione come unico fondamento dell’agire. Si esercita vigilanza nello spirito quando ci si sforza di radicarci sempre più autenticamente, sempre più profondamente, sempre più concretamente, in quella riconciliazione di cui Dio ci ha fatto dono, in Cristo, in modo da estenderla a tutto in noi e a tutti dovunque. La vigilanza ha senso nello stare fermi in quell’unico punto: se Dio ha fatto grazia di Sé a noi, allora anche noi possiamo fare grazia di noi a tutti. E così il mondo tornerà a risplendere, perché ognuno potrà sperimentare quello che dice il salmo: “il Signore si confida con chi lo teme: gli fa conoscere la sua alleanza” (Sal 24,14), da intendere, come del resto suggerisce lo stesso testo ebraico del versetto: il segreto (o l’intimità) del Signore, cioè la sua offerta di benevolenza nel dono di Sé che ci fa, vale per chi ne fa il punto fermo della sua vita e ha posto tutta l’attesa del suo cuore nel condividerne la gioia con tutti.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Solennità e feste

 

Immacolata Concezione

(8 dicembre 2013)

 

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Gn 3,9-15.20;  Sal 97;  Ef 1,3-6.11-12;  Lc 1,26-38

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La solennità dell’Immacolata Concezione, già celebrata in oriente fin dal sec. VIII, si estese in occidente nel sec. XII, accolta prima dai francescani e poi iscritta nel calendario di Roma nel 1476. Pio IX, nel 1854, con la bolla Ineffabilis Deus definì come dogma di fede l’immacolato concepimento di Maria, che la cristianità ha visto confermata con le apparizioni di Lourdes del 1858.

Come sempre, e in modo assolutamente singolare in questo caso, i doni di Dio a una creatura rivelano la grandezza dell’amore di Dio per tutti i suoi figli. Noi tributiamo lodi e onori alla Vergine a doppio titolo: a) in ragione del compito per la quale è venuta al mondo: doveva dare alla luce Gesù; b) in ragione della sua umanità che, liberamente, accoglie il disegno di Dio su di lei. Il titolo di gloria che le compete nella sua umanità è 'serva del Signore', nel cui cuore si dà l'incontro tra l'amore di Dio e la libertà dell'uomo.

Tutti i titoli di onore che attribuiamo alla Vergine sono da ricondurre a questi due : madre di Dio e serva del Signore. Un titolo di gloria, segno del dono di grazia, va compreso con il suo corrispondente titolo riferito alla sua umanità. Così di lei si dice: madre e vergine insieme; regina e serva; signora degli angeli e madre dolorosa; porta del cielo e rifugio dei peccatori, e così via. In lei, perfettamente compiuti, si uniscono il progetto di Dio e la libertà dell'uomo, il dono di grazia e la risposta umana, il cielo e la terra. Per questo di se stessa può dire che Dio ha realizzato il suo disegno di misericordia: l'amore di Dio per lei tanto da ricolmarla di ogni dono di grazia si confonde con l'amore di Dio per l'umanità tanto da far nascere da lei il Salvatore.

La sua umanità, in tutte le sue fibre, è andata incontro al Signore in santità e purezza di spirito, come prega la colletta della festa ed è diventata degna dimora del Figlio. Della sua umanità siamo fatti anche noi, la stessa umanità condividiamo con il suo Figlio perché anche noi, come è nel disegno divino della creazione fin dall’inizio, possiamo tornare a far splendere e a far godere nel mondo la stessa benedizione, la dimora di Dio in mezzo a noi.

A differenza di noi, la Vergine non è caduta nell’inganno che tormenta i figli degli uomini, inganno che presenta il brano della Genesi. Anche lei è stata duramente provata nella sua umanità: con l’offerta della sua umanità ha permesso all’amore di Dio, nel suo Figlio, di svelarsi al mondo; ha conosciuto la sofferenza dell’amore con il suo Figlio e ora accompagna ogni sofferenza umana perché venga aperta all’esperienza dell’amore. In lei la sofferenza non ha generato ribellione, il dramma non ha velato la fede, il desiderio non ha compromesso l’amore, l’agire non ha macchiato la coscienza. La ‘benedizione’ che Paolo implora ed annuncia nell’esordio alla sua lettera agli Efesini l’ha ricoperta e intrisa in modo singolare. In lei quella benedizione si fa così concreta che prende addirittura corpo: da lei nasce il Salvatore, che costituisce la Benedizione di Dio sugli uomini, benedizione oltre la quale non c’è nulla da desiderare di più. E tutta la storia, pur nella sua drammaticità, non è abbandonata a se stessa perché da sempre, ‘prima della creazione del mondo’, quella benedizione la sovrasta, l’accompagna e la Vergine ne è la testimone più credibile.

Secondo il racconto della Genesi, Dio proclama l’inimicizia tra il serpente e la donna, simbolo contemporaneamente di Maria e dell’umanità: la possibilità dell’inganno è sempre reale, ma quell’inimicizia dichiarata da Dio salvaguarda la nostra umanità, che non può trovare beatitudine nell’inganno e quindi non potrà compiersi stando dalla parte dell’avversario. Perciò, quando l’uomo cede all’inganno, nell’illusione di vivere una sapienza altra rispetto alla verità del suo Dio e trasgredendo la parola del Signore rivolta al suo cuore, si perde, va in frantumi dentro e non può vivere che in contraddizione, da antagonista, da avversario a sua volta, sia dentro di sé che fuori di sé, sia con gli uomini che con gli eventi. Quale sofferenza! Ma la causa è una sola: l’uomo ha ormai paura di Dio, perché ha vergogna della sua ‘nudità’, della sua perdita di innocenza.

La Chiesa, chiamando la madre di Dio ‘nostra Signora’, indica la via del riscatto da quella paura: “La Vergine è Signora non solo perché è libera dalla schiavitù del peccato e partecipe del dominio divino, ma anche perché è diventata causa e radice della libertà del genere umano” (Gregorio Palamas, Omelia 14,8). Così, se l’uomo vuole accedere al regno della libertà, non ha che da guardare a questa sua sorella, al suo mistero, alla sua storia, alle sue emozioni, ai suoi dolori, al suo amore perché in lei ritrova tutto il mistero dell’amore di Dio per l’uomo. Nella sua grandezza non cessa di essere sorella nostra, come nella nostra miseria non cessiamo di essere oggetto dell’amore di Dio. Il suo ‘avere’ il Signore con lei è motivo di fiducia per noi di trovarlo, di essere accompagnati a lui, di stare in sua compagnia. ‘Il Signore è con te’ diventa, nella nostra preghiera: ‘tu che hai il Signore supplicalo perché sia anche con noi, ora e sempre’.

Nel vangelo lei proclama: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. Come a dire: Dio solo sia benedetto; si realizzi la sua promessa; si manifesti in me, finalmente e compiutamente, il suo Bene all’umanità! Proclamandosi serva del Signore esprime il suo desiderio della dimora di Dio in mezzo agli uomini, di cui tutto il suo essere è testimonianza e intercessione per l’umanità intera. Ma esprime anche la preghiera di ogni credente, di ogni discepolo del Signore: avvenga per me secondo quello che hai stabilito fin dall’eternità, si compia in me quello che dalla fondazione del mondo hai promesso all’umanità, si veda realizzato in me quel Regno che nel tuo Figlio hai fatto venire.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo di Avvento

 

III  Domenica

(15 dicembre 2013)

 

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Is 35,1-6a. 8a.10;  Sal 145;  Gc 5,7-10;  Mt 11,2-11

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Insieme all’invito a rallegrarci per la vicinanza del Natale (“Rallegratevi sempre nel Signore: ve lo ripeto, rallegratevi, il Signore è vicino” – antifona di ingresso) la liturgia oggi ci fa prendere coscienza del dubbio che può assillarci: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”. È la domanda di una vita. Di Giovanni Battista, anzitutto. Tutta la sua vita era consistita nel predisporre la via a un Altro: ‘bisogna che lui cresca e io diminuisca’. Accoglierne il mistero non significa però saperne in anticipo l'esito. Significa, più semplicemente ma più sinceramente, stare disposto ad accogliere comunque tutta l'esperienza umana e spirituale che quel mistero comporta nel suo dispiegamento. Così Giovanni, in carcere, alla fine della vita, riformula la stessa domanda con un risvolto angosciante: mi sono forse illuso? È lui quel Tu che tutti attendono e che io sono stato chiamato a svelare al mondo?

La risposta di Gesù è intessuta di citazioni del profeta Isaia: 29,18; 35,5; 26,19; 61,1. L’aspetto singolare della sua risposta è che l’unica espressione non desunta dalle Scritture è l’ultima: ‘beato è colui che non trova in me motivo di scandalo’. Nel vangelo di Matteo, in altre due occasioni si parla di scandalo a proposito di Gesù: in 13,57, allorché i compatrioti di Nazaret fanno resistenza all’insegnamento di Gesù e in 26,31, allorché i discepoli restano scandalizzati nella notte della cattura di Gesù. Sta di fatto che il Messia si manifesta diversamente da quanto ci si aspetta. E questo vale per i profeti, per i discepoli di Gesù e per noi tutti. Lo scandalo del Messia povero e disarmato non finisce mai nella nostra vita.

Se Giovanni sembra avanzare dei dubbi su Gesù, Gesù però non ha dubbi su Giovanni Battista. Parla alla gente in termini molto elogiativi di Giovanni: “Egli è colui del quale sta scritto: Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”. Nella tradizione ebraica la composizione del passo di Malachia 3,1, riferito a Elia, con l’altro passo di Esodo 23,20, riferito al Messia, ha fatto pensare al ritorno di Elia come preparazione alla venuta del Messia. Gesù si riferisce proprio a quella tradizione e, sebbene non risponda a Giovanni con il dirgli: ‘sì, sono io quello che deve venire’, proclama: ‘tu sei l’Elia che deve venire’. Se Giovanni è il precursore del Messia, allora non ci saranno dubbi a proposito di Gesù come Messia. In tal modo, Gesù non risponde solo alla domanda del Battista, ma anche a quella di tutti i suoi discepoli.

L’affermazione: ‘beato è colui che non trova in me motivo di scandalo’è la firma apposta da Gesù in calce alla vita ed alla persona del Battista. Effettivamente, conferma Gesù, Giovanni Battista è il più grande fra i nati di donna. Commenta Ilario di Poitiers: “Il Signore manifesta tutta la gloria di Giovani dicendo che lui era più che un profeta perché a lui solo fu permesso sia di annunciare che di vedere il Cristo. E come si può pensare che non conoscesse il Cristo uno che è stato inviato con la potenza di un angelo a preparare la sua venuta e che tra i nati da donna è il più grande profeta che sia mai sorto? Però con questa eccezione che colui che è più piccolo di lui e cioè colui che viene interrogato, al quale non si crede, al quale neppure le sue opere danno credito, questi è più grande nel regno dei cieli”.

Il volto di Dio lo vedono coloro che non si scandalizzano della sua piccolezza quando, ormai sfigurato sulla croce, allorché nemmeno d'uomo aveva più l'aspetto, accolgono tutto il mistero di Dio nel suo amore agli uomini, vedono cioè la sua scelta di essere Dio per gli uomini, non di sembrarlo soltanto.

La domanda di Giovanni Battista non è che l'eco dell'angoscia di Gesù al Gethsemani e al Calvario dove la sua piccolezza raggiunge la punta massima, ma dove si rivela in tutto il suo splendore la grandezza di Dio. E la domanda del Battista è anche la nostra domanda di credenti che sempre ci troviamo confrontati, lungo il percorso della nostra vita, con il mistero della scoperta del vero Volto di Dio. L'esito dell'incontro con Dio non è mai scontato. L'esperienza che siamo invitati continuamente a fare va sempre al di là di quello che ci immaginiamo o ci aspettiamo: in gioco è l'incontro con il Dio Vivente e non con un simulacro di Dio che risulterebbe soltanto la proiezione delle nostre pretese. Ma tutto questo esige l'entrata nella piccolezza di Dio a cui risponde, specularmente, la piccolezza dell'uomo che trova vita, se la perde, che vive se è capace di morire, che si ritrova libero se rinnega se stesso, ecc., al seguito ‘del più piccolo nel Regno dei Cieli’, cioè Gesù.

La liturgia di oggi, consapevole della vicinanza del mistero del Natale che ci prepariamo a celebrare e della perenne portata di scandalo di quell'evento, indica la porta di accesso per il mistero di Dio in Gesù. Invita alla gioia, alla letizia, che suona scandalosa per la carne. Se l'uomo fosse davvero giusto, potrebbe gioire. Ma può l'uomo trovare nella sua giustizia la fonte della letizia? Se l'uomo potesse vantarsi di una scienza sicura e onnipotente potrebbe gioire. Ma può derivare all'uomo la letizia dalla potenza della scienza? Tutti ci rendiamo conto dell'illusione di una letizia che avesse tali radici.

Ora, proprio la possibilità di una letizia che non ha bisogno di trovare nella propria giustizia e nella propria scienza la radice della sua desiderabilità rivela al cuore dell'uomo la presenza finalmente del Dio con noi, del Dio che accondiscende alla nostra umanità perché risplenda della sua luce sanante. Gesù rivela questo al Battista e quando ne tesse l'elogio non fa che mettere in risalto la grandezza della sua umanità, tutta protesa al mistero di Dio, ma che a paragone della ricchezza di verità che viene da Dio risulta essere assolutamente incompiuta. Ma l'ammissione di tale incompiutezza è espressione della vera grandezza del Battista, che riconosce nel Figlio dell'uomo la 'grazia della verità' che viene da Dio.

Quando Giacomo, nella sua lettera, invita alla pazienza, vuole invitarci ad attendere la manifestazione del Salvatore al nostro cuore finché essa diventi radice di letizia. Solo allora non scambieremo più le nostre opere con la pretesa di giustizia o la nostra scienza con la rivendicazione di potere e sapremo rapportarci a tutti nella condivisione di quella letizia che fa conoscere a tutti l'amore salvatore di Dio. Sarà il senso della gioia del Natale scoperta come radice di speranza per il mondo che trova nella presenza del 'Dio con noi' la ragione profonda della sua storia.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo di Avvento

 

IV  Domenica

(22 dicembre 2013)

 

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Is 7,10-14;  Sal 23;  Rm 1,1-7;  Mt 1,18-24

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La liturgia di oggi proclama che l’Emmanuele, il Dio-con-noi, è il segno di Dio per noi. L’aspetto misterioso dell’evento è descritto con la profezia di Isaia: “Stillate dall’alto, o cieli, la vostra rugiada e dalle nubi scenda a noi il Giusto; si apra la terra e germogli il Salvatore” (Is 45,8), ripresa dall’antifona di ingresso. Il testo è riportato secondo la versione della Volgata che attualizza messianicamente il testo ebraico più generico che parla solo di giustizia e di salvezza. L’allusione più diretta è all’imminente nascita di Gesù dal grembo della Vergine.

Ma la colletta allarga questa allusione anche alla terra del nostro cuore invitata a far nascere il Verbo della vita:   “… concedi anche a noi di accoglierlo e generarlo [= Verbo della vita] nello spirito, con l’ascolto della tua parola, nell’obbedienza della fede”. Come è possibile che uno contemporaneamente scenda dall’alto e germogli dal basso? È appunto il mistero dell’agire divino che il profeta fa risaltare e che vale anche per noi. Non bisogna dimenticare che, in termini spaziali, ‘alto’ e ‘dentro’ alludono alla stessa regione, in contrapposizione a ‘basso’ e ‘fuori’. La grazia proviene dall’alto e agisce dal di dentro, mentre il peccato viene dal basso e agisce dal di fuori. Dio, non semplicemente viene vicino a noi, ma germoglia dalla nostra umanità. Ciò significa che Dio è più intimo a noi di noi stessi; che Dio costituisce il senso della nostra stessa umanità. Viene dal cielo e germoglia dalla terra, come segno dell’azione di salvezza di Dio per l’uomo: “Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele”. All’uomo sarebbe stato impossibile perfino immaginare un segno di tal genere, benché quel segno compia finalmente i suoi desideri più profondi. Dio sopravanza sempre la sua creatura, ma nella linea del desiderio della sua creatura stessa.

La profezia di Isaia riguardava la continuità della discendenza dinastica davidica nel momento in cui sembrava dovesse perire. Nell’attacco a Gerusalemme da parte della coalizione siro-efraimita, agli inizi dell’VIII secolo a.C., il re Acaz si vede costretto ad appellarsi al potente impero assiro, ma gran parte dei notabili lo hanno abbandonato. Tra l’altro, Acaz aveva già sacrificato un figlio per propiziarsi futuro e prosperità, contravvenendo alla legge del Signore. Isaia richiama la fedeltà della promessa di Dio e annuncia la nascita di un figlio, l’erede al trono, invitando Acaz alla fiducia. Già la tradizione ebraica, almeno fin dal II sec. a.C., in quella nascita eccezionale, ancora attesa, ha visto la nascita verginale del Messia. L’antica tradizione cristiana ha applicato l’oracolo a Maria, la madre di Gesù, erede per eccellenza della dinastia davidica.

Il nome Emmanuele, come nome di persona, non è attestato altrove nell’A.T. e porta la promessa di salvezza. L’aspetto interessante è la ripresa di questo nome nel racconto evangelico di Matteo a spiegazione del nome di Gesù che verrà imposto al bambino secondo l’annuncio dell’angelo. L’equivalenza che ne deriva è di questo tipo: il Dio-con-noi, l’Emmanuele è il nostro Salvatore, Gesù, la salvezza consistendo nel poter godere nuovamente nella e della comunione con il proprio Dio. Il perdono dei peccati allude alla piena godibilità della comunione con il proprio Dio, nella partecipazione alla santità di Dio, che è splendore di amore per gli uomini.

Nella serie delle testimonianze a favore del Figlio di Dio che si fa uomo secondo la liturgia dell’avvento, Giuseppe è l’ultimo testimone e viene chiamato in causa proprio in rapporto alla profezia di Isaia. Paolo, nel saluto iniziale ai Romani, proclama: “… il vangelo di Dio, che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne”. Quel Figlio è la buona novella di cui tutte le Scritture raccontano la promessa e si fa uomo nella linea della discendenza davidica, discendenza che Giuseppe assicura. Quando l’angelo gli appare, chiama Giuseppe ‘figlio di Davide’. Naturalmente, Giuseppe non ha più nulla della gloria mondana di una discendenza regale, e tuttavia assicura a Gesù la verità del titolo ‘Figlio di Davide’, la verità della sua regalità.

Di Giuseppe i vangeli non riportano alcuna parola; annotano solo i suoi pensieri, le sue decisioni, la sua obbedienza adorante e la sua premura per la sua sposa e il suo bambino. Entra nella gloria di Dio, che è splendore di amore per l’uomo, nella consapevolezza soltanto di permettere al Signore di realizzare le sue promesse d’amore all’umanità. Ma non sa in anticipo cosa questo gli richieda; sa solo che questo è il suo compito e in tutta obbedienza lo eseguirà, fedele in tutto e in ciò ritrovando gli aneliti supremi del suo cuore di uomo e di credente.

Giuseppe accoglie: la grazia viene dall’alto. Ma Giuseppe acconsente nella sua umanità: dalla terra germoglia il Salvatore. Così si manifesta la gloria del Dio-con-noi, che, mentre rivela la grandezza del suo amore per l’uomo, rende l’uomo capace di operare in quell’amore, tanto da indurre tutti a vedere la vicinanza di Dio. La sua vocazione può essere definita come l’accettazione del compito affidatogli in rapporto al disegno di Dio di rivelare il Suo Amore agli uomini. E la sua obbedienza si rivela nel fatto di accettare di svolgere una parte semplicemente a favore della sua sposa, dentro un disegno più grande di lui, che imparerà a decifrare lungo tutta la sua vita senza mai essere in primo piano. Così la vocazione di ciascuno di noi, nella fede, non è che quella di acconsentire a che il disegno di amore di Dio per gli uomini ci raggiunga e si manifesti e ci abiliti a diventare dei segni nell’unico Segno che rivela compiutamente il volto d’amore di Dio, Gesù Cristo, Salvatore.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo di Natale

 

Natale del Signore

(25 dicembre 2013)

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Messa vespertina della vigilia: Is 62,156;  Sal 88;  At 13,16-17.22-25;  Mt 1,1-25

Messa della notte: Is 9,1-6;  Sal 95;  Tt 2,11-14;  Lc 2,1-14

Messa dell’aurora: Is 62,11-12;  Sal 96;  Tt 3,4-7;  Lc 2,15-20

Messa del giorno:  Is 52,7-10;  Sal 97;  Eb 1,1-6;  Gv 1,1-18

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Se consideriamo lo sviluppo della liturgia natalizia nei suoi quattro formulari delle Messe, il mistero del Natale appare in tutto il suo splendore. Una tensione unica percorre la liturgia, sottolineata dalle collette: Dio si fa uomo perché l’uomo diventi dio. Ciò significa che la natura dell’uomo è strutturata sulla vita divina e la liturgia del natale del Signore appunta lo sguardo sul mistero da dentro tale prospettiva.

Se teniamo presenti i brani evangelici possiamo notare che l’evento della nascita di Gesù, a Betlemme, celebrato nella messa della notte, con la successiva adorazione dei pastori, commemorato nella messa dell’aurora, risulta incastonato dai brani della genealogia di Gesù (messa vespertina della vigilia) e dal prologo di Giovanni (messa del giorno). Quale lettura possibile?

È come se la liturgia insegnasse ad affinare gli sguardi. Quel Bambino che contempliamo nel presepio è Colui che compie la promessa di Dio al popolo d’Israele. La genealogia di Matteo, all’inizio del suo vangelo, vuol proprio dire questo: Gesù, che risale ad Abramo, è inserito nella storia sacra di Dio col popolo d’Israele. Lui realizza le profezie, Lui compie le promesse, Lui è il Messia. Se però leggiamo la genealogia in Luca, posta dopo il battesimo di Gesù al Giordano, quando il cielo si apre e si ode la voce del Padre: “Questi è il Figlio mio prediletto ...”, allora il significato muta. Il Bambino del presepe è Colui sul quale il Padre dice: “Questi è il mio Figlio amatissimo, in Lui mi sono compiaciuto, mi sono sentito bene in Lui, in Lui ho trovato il mio posto, il mio spazio”. In effetti il cielo si apre su di lui e passa per lui (Gesù dirà: io sono la porta…) in modo che chi entra per lui arriva al principio della sua genealogia umana e la sorpassa, collegandola al mistero che la origina. Nella genealogia di Luca Gesù non risale ad Abramo, ma discende da Dio, assumendo Adamo: viene svelato il mistero della sua identità di Figlio di Dio, il mistero dell’amore di Dio nel quale prende origine la creazione dell’uomo e la storia di amore di Dio con l’umanità.

Con il brano di Giovanni si afferma la stessa cosa dando la griglia di lettura della storia umana a partire da Dio e dal Figlio, sul quale e per mezzo del quale tutto è stato creato, avvalorata ormai dalla testimonianza apostolica di aver visto lo splendore della gloria di Dio in quel Figlio, nato, vissuto, morto e risorto per noi. Dice Giovanni: “il Verbo si è fatto carne e noi abbiamo visto la sua gloria”.

Quando nella notte si celebra l’evento della nascita a Betlemme è da dentro questa prospettiva che gli occhi guardano. Forse noi non ci rendiamo conto della immensa sproporzione e inadeguatezza tra la povertà del segno indicato (un bambino giace nella mangiatoia) e lo splendore della visione celebrata con gli angeli che lodano Dio, con la luce che risplende, con la letizia immensa e incontenibile che riempie i cuori. Se si rilegge l’episodio del presepe di Greccio nella vita di s. Francesco di Assisi, ci rendiamo conto della ‘logica’ di quella visione. “Meditava continuamente le parole del Signore e non perdeva mai di vista le sue opere. Ma soprattutto l’umiltà dell’incarnazione e la carità della Passione aveva impresse così profondamente nella sua memoria, che difficilmente gli riusciva di pensare ad altro… E ogni volta che diceva ‘Bambino di Betlemme’ o ‘Gesù’ passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole” (FF 467-470). È il desiderio di far memoria di Gesù, il desiderio di condividere con lui quello che lui vive, sente e opera, perché il cuore è pieno di lui, a permettere agli occhi di vedere, all’anima di gustare. Allora, la semplicità del segno parla, si spalanca su spazi immensi perché la storia umana si apre sulla storia di Dio con l’umanità e la letizia non può non spuntare.

Così, se consideriamo le collette, la progressione della comprensione del mistero è delineata secondo questa traiettoria: l’evento sprigiona una tale luce (notte) da investire il nostro agire (aurora) per partecipare alla stessa vita di Dio (giorno). “O Dio, che hai illuminato questa santissima notte con lo splendore di Cristo, vera luce del mondo …” (notte); “…fa’ che risplenda nelle nostre opere il mistero della fede che rifulge nel nostro spirito” (aurora); “…fa’ che possiamo condividere la vita divina del tuo Figlio…” (giorno) e questo è lo scopo di tutta la nostra gioiosa adorazione.

Un poema natalizio di s. Efrem canta: “Sia benedetto Colui che ha consegnato la nostra anima, che l’ha adornata e se ne è fatta la fidanzata! Sia benedetto Colui che ha fatto del nostro corpo una tenda per la sua Invisibilità! Sia benedetto Colui che nella nostra lingua ha tradotto i suoi segreti!... Gloria a Colui che non ha mai bisogno che noi lo ringraziamo. Ma che ha bisogno di tenerci per cari, che ha sete di amarci e che chiede che noi gli diamo perché Lui possa darci ancora di più”. Possano i nostri cuori percepire quei segreti e scoprire le radici della letizia in questo mondo. La letizia dell’annuncio natalizio costituisca il vigore dell’anima e lo spazio di intelligenza del cuore per la vita propria e quella di tutti.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo di Natale

 

Santa Famiglia

(29 dicembre 2013)

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Sir 3, 3-7.14-17a;  Sal 127;  Col 3, 12-21;  Mt 2, 13-15. 19-23

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È significativo che la Chiesa non celebri l'incarnazione del Figlio di Dio in generale, ma dentro una singola famiglia della famiglia umana. Per quanto misteriosa e singolare sia questa famiglia, è proprio a questa famiglia che tutte le altre famiglie possono guardare per comprendere e vivere il loro stesso mistero. Si tratta del mistero che io definirei dell’obbedienza all’amore. Parlo di obbedienza prima che di amore perché l’amore costituisce l’esito di un’obbedienza confidente.

Si appartiene all’umanità perché si nasce da una donna, ma si diventa ‘umani’ perché accolti in una famiglia. È il destino della chiamata alla vita, della vocazione umana: si diventa uomini solo dentro una storia riconosciuta, che ci precede e ci accompagna, imparando a riconoscere e vivere quella ‘promessa’ di vita che resta inscritta in noi venendo al mondo sia per i genitori che per i figli. La famiglia è il luogo di svelamento di quella promessa che viene dall’alto, il luogo di riferimento esistenziale che segna la natura dei nostri sogni. Non è il luogo da dove proviene la promessa; è più semplicemente il luogo dove la promessa diventa nostra, diventa mia.

La figura di Giuseppe nella famiglia di Nazaret è altamente eloquente. La sua vita si gioca attorno a tre sogni che orientano le sue decisioni. “Prendi la tua sposa…” gli dice l’angelo e Giuseppe acconsente. Non aveva previsto in questo modo la sua vita, ma l’obbedienza a questo invito gli fornisce le condizioni concrete in cui vivere il suo amore a Maria compiendone la promessa di vita che racchiudeva nel sogno d’amore di Dio per l’umanità. Non può però prevedere lo svolgimento della storia per cui, ancora una volta, deve acconsentire all’invito dell’angelo che lo distoglie dalle sue attese: “Fuggi…”. E poi ancora: “Ritorna… Va’ in Galilea…”. L’amore di Giuseppe si gioca nel vivere con responsabilità, coraggio, intelligenza, determinazione, le sempre nuove condizioni di vita in cui è come costretto. Più si immerge nei dettagli della storia, più deve allargare la sua percezione del mistero: al massimo di dettaglio corrisponde il massimo di allargamento. È tutto il mistero della fede di Giuseppe, come del resto della Vergine. L’amore è in funzione del compimento del sogno di Dio di stare con gli uomini.

La lettera di Paolo ai Colossesi descrive la famiglia come il luogo di esercizio e di visione nella fede. Paolo parla di ‘sottomissione’ per la moglie, di ‘amore’ per il marito, di ‘obbedienza’ per i figli. Il senso lo si ricava dalle espressioni precedenti quando Paolo delinea la comunità dei credenti come eletti di Dio rivestiti dei sentimenti di Cristo, riconciliati, nella pace di un unico sentire, con la parola di Cristo che tutto regge e pervade. La ‘sottomissione’ della donna non ha nulla a che vedere con la soggezione all’uomo: è l’espressione di quella visione del mistero che appartiene alla donna, che le colma il cuore e che estende continuamente i confini di quell’‘amore’ che è richiesto all’uomo, perché senza di lei l’uomo non saprebbe coglierne la profondità e la preziosità. La ‘obbedienza’ dei figli in quel contesto non è che l’appropriazione della tenerezza verso la propria umanità, terreno ideale per imparare a vedere la ‘promessa’ di vita che si apre davanti a loro. E così tutti restano immersi in quell’unico mistero che regge e orienta la loro vita, mistero di cui imparano, insieme, poco a poco, a dipanarne i segreti nel concreto della vita.

L'avvertimento di Paolo ai Colossesi "...rivestitevi, come eletti di Dio, santi e amati, di sentimenti di misericordia ... perdonandovi a vicenda ... e la pace di Cristo regni nei vostri cuori..." allude appunto al mistero di obbedienza. L'obbedienza si fa trasparenza della tenerezza di Dio che non disdegna di consegnarsi agli uomini perché essi imparino a consegnarsi vicendevolmente e a Lui. E se l'obbedienza non porta a svelare la tenerezza vuol dire che non procede dall'adorazione, da una visione, ma solo da una volontà. E quando tutto procedesse dalla mia volontà, come posso accogliere e celebrare la salvezza che viene da Dio? Come essere custodi del segreto di Dio per noi?

Il vangelo presenta Giuseppe proprio come il custode del segreto di Dio, nella concretezza e nel dramma della vita quotidiana, custode della tenerezza di Dio per l'umanità, che per lui si concentrava nella sua famiglia, luogo di rivelazione di Dio nel mondo e la sua storia è storia di questa famiglia, storia per questa famiglia. La realizzazione di sé, come diremmo oggi, passa per l'assunzione di un compito di grazia che fa dell'obbedienza a Dio, nel cammino di fedeltà all'assolvimento di tutto ciò che un tal compito comporta nel concreto delle situazioni, la porta dell'amore. Porta che può essere intravista solo se gli occhi del cuore 'vedono' quanto basta per non tirarsi indietro. Con la figura di Giuseppe viene descritto il ‘dramma’ in cui si vive la storia di un amore, in quel gioco di responsabilità che continuamente rimanda e alla concretezza dell’agire e alla grandezza del mistero in cui si è buttati e di cui si svela poco a poco la benevolenza per noi tutti.

Abbiamo solo bisogno di 'rivestirci', di divenire cioè consapevoli del dono e compito di grazia che ci ha riguardati nell'intimo e ci ha resi, nella nostra piccolezza e nelle situazioni concrete, 'evangelici', cooperatori della gioia altrui, segni e strumenti di salvezza, come Giuseppe. Non però di quella salvezza operata da noi, come se il nostro amore bastasse a salvare noi o gli altri, ma di quella che viene da Dio la cui debolezza è più forte della forza degli uomini, debolezza la cui eco io sento nel qualificare Gesù 'il nazareno'.

In effetti, l’ultimo versetto del brano evangelico letto riporta: "... andò ad abitare in una città chiamata Nazaret, perché si adempisse ciò che era stato detto dai profeti: «Sarà chiamato Nazareno»". Non è chiaro a quali passi profetici l'evangelista si richiama, ma è chiara l'allusione al mistero che quell'aggettivo comporta. Due sono almeno i significati di quell'aggettivo. Designa Gesù come proveniente da Nazaret: esprime la concretezza della sua umanità quanto alle radici, agli affetti, alla crescita. Gesù è uomo non solo perché è nato, ma perché è stato allevato, nutrito, curato, educato, amato, in una famiglia umana. Nazareno richiama poi 'nazir' (cfr. Gen 49,26; Gdc 13,5), il consacrato a Dio, il Santo di Dio: esprime la natura del compito che è chiamato a compiere: salvare Israele, salvare l'umanità.

Se poi andiamo a vedere quando Gesù è chiamato 'nazareno' notiamo che lo chiamano così i demoni (Mc 1,24), gli angeli (Mc 16,6); ma soprattutto l'aggettivo compare nei racconti della passione di Giovanni, all'arresto e soprattutto sull'iscrizione sopra la croce: Gesù Nazareno Re dei Giudei (Gv 18,5; 19,19). Tutte sottolineature della realtà della sua umanità: è proprio quell'uomo che è vissuto a Nazaret, la cui famiglia è di Nazaret, è proprio lui il Figlio di Dio, morto e risorto per la nostra salvezza.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo di Natale

 

Maria ss. Madre di Dio

(1 gennaio 2014)

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Nm 6,22-27;  Sal 66;  Gal 4,4-7;  Lc 2,16-21

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Il nuovo anno inizia con la celebrazione dell’ottava del Natale, festa della divina maternità di Maria. È come un’invocazione di benedizione su tutto l’anno. Dal Padre, che ha benedetto la Vergine Maria, la quale porta ed ha dato alla luce il Benedetto, discende per noi ogni benedizione. Se la formula di benedizione riportata nel libro dei Numeri concerne Israele, il salmo 66 la estende a tutta l’umanità perché ormai Colui, che del Padre è lo splendore, è nato per noi. In Lui si concentra la pienezza di benedizione, in Lui che è nato nella pienezza dei tempi, come dice l’apostolo. Ciò significa che la Sua benedizione copre tutti i tempi e contemporaneamente ogni genere di tempo, tutto il tempo della vita in tutte le situazioni possibili.

Quando il canto al vangelo proclama: “Dio ha parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” allude non semplicemente al fatto che Colui che era stato annunciato dai profeti è venuto, ma che in Lui si compiono tutte le possibilità dei tempi.

Nessuno meglio della Vergine Maria ha visto l'estensione e la profondità della benedizione di Dio sull'umanità : "Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace" (Num 6, 24-26). La benedizione può essere così intesa:

- che tu possa sentirti dentro confini di benevolenza, possa sentire alleata la vita e Padre tuo il tuo Dio

- che il volto del Signore si riveli al tuo cuore e faccia brillare il tuo volto del suo splendore

- possa fare esperienza del Suo perdono, del Suo farsi grazia a te e sentirti fortificato, imprendibile, per il legame di intimità che ti nasconde nella Sua pace.

E così apparterrai al Suo amore, non desiderando altro se non di attrarre a questo amore tutto e tutti finché ci si possa riposare insieme nella Sua benedizione.

"Così porranno il mio nome e io li benedirò" continua il testo dei Numeri, come a dire: poni su di te una Sua parola, la sua Parola e lei sarà la tua benedizione, ti custodirà e ti terrà compatta, dentro un'intimità, alle radici del cuore.

La colletta, quando prega: “Padre buono, che in Maria, vergine e madre, benedetta fra tutte le donne, hai stabilito la dimora del tuo Verbo fatto uomo tra noi…”, riprende la dichiarazione di Giovanni: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Ma anche la promessa di Gesù ai discepoli: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). La benedizione di Dio per l’uomo consiste proprio nel suo dimorare fra noi, in noi. L’aspetto straordinario, sconvolgente, dell’amore di Dio per l’uomo, che però spesso nemmeno siamo più capaci di percepire, è dato dal fatto che possiamo essere accolti in quella stessa intimità di vita e di relazione che esiste tra il Padre e il Figlio e che ci è fatto dono di quella stessa intimità. Sembra strano, ma soltanto da dentro quella intimità possiamo sperare di compiere la volontà del Padre nella nostra vita e sentirci avvolti dalla sua benedizione. Se prima non si gusta la volontà di benevolenza di Dio nei nostri confronti, che si esprime nella benedizione che è il Cristo per noi, come poter arrivare alla gioia dell’osservanza dei comandamenti? Se non capiamo come Cristo non antepose nulla all’amore per noi, come possiamo noi non anteporre nulla all’amore per Cristo e ritrovarci amati dal Padre, che nel suo Figlio ha posto tutta la sua compiacenza? Il mistero della benedizione di Dio sull’uomo sta tutto qui e tutta la vita della Vergine, come il suo parto prodigioso, è lì a dimostrarlo.

Gli angeli, apparendo ai pastori, annunciano “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà” (tradotto anche: ‘agli uomini che egli ama’). Il significato più veritiero di questa lode sta nell’affermare che, se gli uomini vogliono vedere il volto sorridente di Dio nei loro confronti, vogliono essere accolti dallo splendore del suo sguardo benevolo e compiaciuto, come descrive il libro dei Numeri, devono compiacersi di quel Figlio, in quel Figlio, sul quale si concentra tutta la benevolenza assoluta di Dio. E non in quel Figlio eterno, ma in quel Figlio fatto uomo, che ha preso carne, che conosce il nostro patire, che condivide le nostre aspirazioni, i nostri sentimenti. Quel Figlio è il Volto sorridente del Padre, quel Figlio è la benedizione invocata sull’umanità, quel Figlio è il nome pronunciato e posto sull’umanità perché l’uomo e Dio riconoscano la mutua appartenenza. È quello che la Vergine Maria proclama nella sua divina maternità, come le icone del Natale sottolineano. La Vergine non è rappresentata china sul proprio bambino, ma rivolta ai pastori e al mondo a proclamare che quel ‘figlio’ è la benedizione per loro.

La realtà dell’incarnazione comporta anche la variabile tempo. Ogni cosa ha il suo tempo, ogni cosa ha bisogno del suo tempo.  Anche la Vergine Maria ha avuto bisogno di tempo per ‘assuefarsi’ all’agire di Dio. Il brano evangelico la descrive come colei che “custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore”. Evidentemente perché anche per lei la realtà non svelava il suo mistero di colpo. I due verbi  significano più direttamente: teneva se stessa e queste cose insieme in cuore, facendole rimbalzare l'una sull'altra in modo da ottenerne una visione d'insieme. Sono termini che illustrano il metodo di lettura delle Scritture: una parola si illumina con un'altra parola ed il senso che ne scaturisce si riverbera nel cuore aprendo la parola al cuore ed il cuore alla parola. E non se ne tralascia nessuna: 'tutte queste cose' del testo sono sia le parole udite (dall'angelo, dai profeti, dai pastori) sia gli eventi successi; non si cerca solo quella 'adatta' a me, ma ci si 'adatta' a loro tutte, insieme. Non si preferisce un tempo (il tempo della gioia, del godimento), ma si tengono insieme tutti i tempi (anche il tempo del dubbio, dell’afflizione). Allora, poco a poco, anche al nostro cuore si svelerà quella ‘benedizione’ che Dio ha posto sull’umanità e la vita torna a risplendere della presenza del nostro Dio.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo di Natale

 

II  Domenica

(5 gennaio 2014)

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Sir 24,1-4.8-12;  Sal 147;  Ef 1,3-6.15-18;  Gv 1,1-18

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Se è vero, come dice il ritornello del salmo responsoriale, che “il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua dimora in mezzo a noi”, allora l’augurio più bello e convincente, dal punto di vista della fede, non può essere che quello di Paolo agli Efesini: “[...] il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui. Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi”. Conoscenza, qui, allude all’esperienza degli apostoli che, davanti al mistero del Figlio di Dio incarnato con il quale hanno vissuto, che l’hanno sentito parlare, che l’hanno visto all’opera, dal quale sono rimasti sconvolti e affascinati, dicono: “e noi vedemmo la sua gloria” (Gv 1,14). Da dentro quell’esperienza, la percezione del mistero dell’amore di Dio per gli uomini, della benevolenza di Dio che tocca le radici dei cuori con il dono di quel Figlio, dato per noi, diventa chiara: la benedizione ormai non si allontanerà più dall’umanità.

Se vogliamo indagare la ragione profonda di quella percezione, non possiamo che riconoscerla espressa nell’affermazione: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18). Qui risiede tutta la fierezza e l’umiltà del cristiano di fronte ai suoi fratelli, in cammino e alla ricerca della stessa verità. Se tutto il creato rimanda al Cristo Signore, a maggior ragione l’uomo, fatto ad immagine di Lui, che è l’Immagine, lo splendore del Volto stesso di Dio. Ma se questo è vero, allora tutti i nostri pensieri rimandano a lui, tutte le nostre aspirazioni, tutti i nostri desideri, tutti i nostri ideali. Secondo i nostri Padri, la preghiera non è che il luogo di riconoscimento del Cristo come fondamento dei nostri pensieri. Tutta la bontà, tutte le virtù che possiamo ottenere non sono che partecipazione ai suoi sentimenti, alla sua vita, che è vita stessa di Dio.

Nelle sue poesie sul mistero del Natale s. Efrem canta: “Maria è il giardino sul quale discese dal Padre la pioggia della benedizione; di quella effusione lei asperse il volto di Adamo”. Facendo parlare la stessa Madre di Dio, vede nel riferimento a Cristo lo scopo supremo della vita, capace di una visione nuova, trasformante: “Se una madre ha un bambino, questo diventa fratello del mio diletto. Se ha una figlia o una congiunta, questa diventa la sposa del mio Signore. Colui che ha un servo, gli conceda la libertà, affinché venga per servire il suo Signore. [...] A causa tua una serva diventa libera. Se una ti ama, c’è nel suo seno una invisibile liberazione”.

Se prima della creazione del mondo, l’uomo è stato pensato da Dio in funzione della capacità di portare la bellezza del Figlio di Dio, allora come non vedere nell’esperienza della conoscenza di quel Figlio, ormai diventato Figlio dell’uomo, l’esito supremo della vita, il compimento di ogni desiderio di verità e bellezza? É in ragione di questa possibilità che l’annuncio evangelico si rivolge a tutti, a tutte le genti, a tutto l’uomo. Il Padre ci ha donato il suo Figlio ed il Figlio, per mezzo dello Spirito Santo, ci fa dono del potere di diventare figli a nostra volta: “A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati”. Il dono è aperto a tutti, perché non si nasce cristiani, ma lo si diventa. È il superamento più radicale di ogni distinzione fra gli uomini basata su etnia, nazione, cultura, ecc. Ricevere il potere di diventare figli di Dio significa partecipare alla vita stessa del Figlio di Dio; significa rivestirsi dei suoi sentimenti, nei quali fondare le radici di un’umanità nuova, trasfigurata, che non si presenta più temibile in nulla per nessuno.

La letizia del Natale rimanda a tale ‘possibilità’, a tale ‘potere’ e qui si radica la speranza per il mondo: la gloria di Dio può ancora risplendere in mezzo a noi, la vita nel mondo può ancora tornare amabile, nonostante i drammi e le tragedie, le violenze e gli egoismi. Siamo sicuri – anche questo è un corollario della nostra fede nel Signore Gesù – che sempre ci sarà qualcuno che, discepolo del Signore, farà risplendere l’umanità in questo mondo. E sempre ci sarà qualcuno che, affascinato da quello splendore, riconoscerà il Signore e tornerà a far desiderare la conoscenza di lui, come si augura l’apostolo. È l’augurio che possiamo scambiarci tutti.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo di Natale

 

Epifania del Signore

(6 gennaio 2014)

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Is 60,1-6;  Sal 71;  Ef 3,2-3a.5-6;  Mt 2,1-12

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Epifania vuol dire manifestazione. La Chiesa oggi festeggia il mistero della triplice manifestazione del Figlio di Dio fatto uomo per la nostra salvezza: la sua manifestazione alle genti; l'inizio della sua vita pubblica con il battesimo al fiume Giordano quando Giovanni Battista lo rivela al popolo d'Israele; il miracolo delle nozze di Cana quando Gesù compie il suo primo miracolo. Delle tre manifestazioni, soprattutto la prima costituisce il tema della liturgia odierna.

Come tutti i racconti sulla nascita e sull'infanzia di Gesù, ciò che viene riferito va letto in contrappunto ai racconti della sua passione-morte-risurrezione. Nella narrazione dei Magi che arrivano a Gerusalemme in cerca del re dei Giudei è presentato il conflitto che opporrà alle autorità ufficiali il vero re e salvatore del suo popolo. Colui che le guide della nazione si rifiutano di ricevere è adorato dalle nazioni; Colui che doveva essere noto a coloro che conoscevano le Scritture perché di lui le Scritture parlano viene rivelato a coloro ai quali, non potendo le Scritture parlare, parlano gli astri, messaggeri di Dio. Ogni cosa può agire da messaggero di Dio, se il nostro cuore sa guardare in alto. E tutto alla fine conduce a lui, il Salvatore, Colui che rivelerà definitivamente e in tutta pienezza, anche per il nostro cuore, quaggiù o di là, l'infinito amore del Padre per gli uomini, Colui che compirà in tutta la loro estensione i nostri desideri di vita, di santità, di comunione.

L’antifona di ingresso della messa si richiama al libro del profeta Malachia, l’ultimo libro dell’Antico Testamento: “È venuto il Signore nostro re: nelle sue mani è il regno, la potenza e la gloria”. Un bambino è proclamato ‘sovrano, potente e glorioso’! La proclamazione comporta qualcosa di radicalmente nuovo per gli occhi umani o, se vogliamo, comporta la visione di una realtà con occhi radicalmente nuovi. Stessa novità che sta dietro la proclamazione nei vangeli di Gesù come re (soltanto durante la sua passione Gesù accetta il titolo di re) e particolarmente come re della gloria (titolo che fornisce, da una parte, la ragione della condanna sul patibolo della croce e, dall’altra, per la visione di fede dei credenti, la ragione dell’amore di Dio per l’uomo che proprio sulla croce risplende). È in ragione di quella novità che la manifestazione di Gesù può conquistare le genti e può convincere Israele. Quando la colletta fa pregare: “O Dio, che in questo giorno, con la guida della stella, hai rivelato alle genti il tuo unico Figlio, conduci benigno anche noi, che ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la grandezza della tua gloria”, guida i credenti alla percezione di quella novità e li predispone a cogliere e a vivere dello splendore di quell’amore, che costituisce ormai la ragione di senso del vivere nella storia.

La visione dei popoli che si ritrovano a Gerusalemme, ripresa anche dal salmo 71 e celebrata dal salmo 87, mostra come ormai non esiste più motivo di distinzione tra gli uomini perché la loro dignità deriva da un’unica radice. La dignità degli uomini parla dell’amore di Dio che si è rivelato in quel Figlio di Dio fatto uomo e che nella liturgia odierna è adorato da tutte le genti. Quando Paolo ricorda agli Efesini che il mistero manifestato ora agli uomini è il fatto che i Gentili sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità di Israele, rivela che davanti a Dio sussiste un’unica famiglia umana, destinataria e portatrice allo stesso tempo del Suo amore. Se il Signore, come dice il salmo 71, interviene a favore del povero e del debole, categorie che attraversano la diversità dei popoli e si riferiscono all’umanità di tutti, significa che chi calpesta il povero e il debole ferisce la propria dignità umana e non rispetta l’immagine di quel Figlio che si è confuso con l’umanità di tutti. Davanti a quel Figlio, bambino, adorato dalle genti – dice il salmo, eco del pensiero di Dio: chiunque tu sia, da qualunque paese provenga, qualsiasi sia stata la tua storia, a qualsiasi cultura appartenga, sappi che qui sei nato, di qui trai vita e qui conducono i tuoi desideri perché qui si compiono i miei progetti: nel mio Figlio! Non è evidentemente una forma di imposizione spirituale all'umanità. Si tratta invece di una visione lucida, nella fede, sulla realtà delle cose e del mondo. Non si tratta di contrapporre una visione ad altra visione, una fede ad altra fede. Si tratta di imparare a stupirsi a tal punto dei pensieri di Dio per l'umanità che la modalità stessa di vivere e testimoniare quella visione non può che essere evangelica, portatrice della buona novella per l’umanità. Per questo l'amore è l'ultima parola convincente, sebbene non sia la parola più potente. La debolezza di Dio è più forte della forza degli uomini e la stoltezza di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini: per questo a tutti gli uomini, di ieri, come di oggi e di domani, a tutti spetta questa eredità, che è il Figlio di Dio fatto uomo.

I magi sono la figura della manifestazione di Dio alle genti (con l’oro riconoscono la regalità misteriosa di quel ‘bambino nato per noi’, con l’incenso riconoscono la sua divinità, con la mirra la sua umanità pronta a soffrire la passione per la nostra salvezza). Il loro far ritorno a casa per altra strada allude al fatto che chi si apre all’adorazione di Dio riscopre la casa propria in altro modo, con altro sguardo, sotto altri orizzonti. Questo mi induce a due osservazioni: 1) se il Messia è promesso alle genti, di che cosa siamo noi credenti debitori al mondo? Siamo debitori proprio della conoscenza del Signore. E questo debito pende sulla nostra testa: ecco la responsabilità della testimonianza dei credenti di fronte al mondo; 2) se il Messia è promesso alle genti, vuol dire che fin tanto che tutte le genti non l’hanno conosciuto, la nostra stessa conoscenza del Messia è manchevole, resta limitata. Come in un amore: fin tanto che non ho trovato qualcuno che voglia bene a me, io non potrò scoprire quello che sono in verità, quello che porto e di cui sono capace. Così è con Dio. Fin tanto che tutti non l’hanno conosciuto, Dio non ha ancora avuto modo di manifestarsi in tutta la sua ricchezza. Attendere questa manifestazione, nel cuore di tutti, rende umili e adoranti e risponde al comandamento dell’amore verso tutti, anche verso i nemici, finché la gloria di Dio si manifesti compiutamente.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo di Natale

 

Battesimo del Signore

(12 gennaio 2014)

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Is 42,1-4.6-7;  Sal 28;  At 10,34-38;  Mt 3,13-17

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La liturgia del battesimo di Gesù chiude il ciclo natalizio. La Chiesa celebra, nel battesimo al fiume Giordano, la manifestazione di Gesù al suo popolo e il mistero di salvezza che ne deriva, collegato alla visita dei Magi e al primo miracolo a Cana di Galilea, come canta l’antifona al Benedictus già risuonata nella festa dell’Epifania: "Oggi la Chiesa, lavata dalla colpa nel fiume Giordano, si unisce a Cristo suo Sposo; accorrono i magi con doni alle nozze regali e l'acqua cambiata in vino rallegra la mensa". Il mistero è contemplato nell’ottica dell’invocazione: "Dio onnipotente ed eterno, che nel Natale del Redentore hai fatto di noi una nuova creatura, trasformaci nel Cristo tuo Figlio, che ha congiunto per sempre a sé la nostra umanità" (colletta, sabato 12 gennaio).

L'immagine di fondo è quella delle nozze: Dio sposa l'umanità. Il mistero d’amore intravisto con la nascita a Betlemme, rivelato essere l’eredità di tutte le genti con l’adorazione dei magi, celebrato nella sua gioia messianica alle nozze di Cana e ripresentato ad ogni celebrazione eucaristica, qui è intuito nel suo percorso di attuazione con la solidarietà dell’agnello innocente con i peccatori, in attesa che si realizzi compiutamente con la sua morte-risurrezione. La deduzione immediata che ne scaturisce è che oramai l'umanità appartiene in proprio a Dio, oramai l'umanità, pur con tutto il suo carico di ferite e di paure, è carne del Figlio di Dio, che se l'è assunta nella sua realtà, integralmente. Non si può più parlare di umanità senza che sia Dio ad esserne implicato. Non si può più gemere sull'umanità senza aver compassione di Dio!

La liturgia accosta al racconto del battesimo il brano profetico di Isaia 42. È il testo che Matteo riprende integralmente in 12,18 e qui in un solo dettaglio: «Appena battezzato, Gesù uscì dall' acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. Ed ecco una voce dal cielo che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento”». E quando a Giovanni si presenta Gesù, per vincere la sua ritrosia gli dice: “Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia”.

Questi versetti celano molti misteri. Perché Gesù parla di ‘ogni giustizia’? Gesù non si attiene semplicemente alla Legge; il suo comportamento parla di una sovrabbondanza assolutamente gratuita dal punto di vista della Legge. Non aveva motivo di farsi battezzare, come lo stesso Giovanni riconosce, perché lui non è peccatore. Ma lui solidarizza con i peccatori, perché il mistero dell’amore di Dio per i suoi figli appaia in tutto il suo splendore. Più tardi sarà accusato di stare con i peccatori, di frequentarli, di essere un mangione e un beone, ma così viene svelata la giustizia di Dio, che è amore per noi.

Il particolare poi dei cieli che si aprono assume un significato molto denso. Marco, nel suo vangelo, usa lo stesso verbo ‘squarciare’ per indicare i cieli aperti al battesimo e il velo del tempio che si lacera dopo la crocifissione di Gesù. Il battesimo mostra anticipatamente quello che si compie alla Pasqua. Il velo del tempio (per l’esattezza, del Santo dei santi) che si squarcia, significa, tra l’altro, che ciò che è riposto nel seno del Padre, il suo Verbo, germoglia dall’interno della terra ove è stato riposto con la morte-risurrezione, aprendo, per l’umanità intera, l’accesso al Santo dei santi: la vita intima del Padre. Quando Gesù dirà che lui è la porta vuole riferirsi a questa medesima realtà: in Gesù l’umanità entra nel cielo e il cielo si apre sull’umanità. L’immagine della colomba sembra riferirsi alla stessa realtà, almeno secondo certe interpretazioni patristiche: lo Spirito annuncia al mondo la misericordia di Dio, che in Gesù risplende piena e assoluta.

Nella visione che Gesù ha dopo il suo battesimo si può ravvisare l’autocoscienza della sua intimità con il Padre e della sua realtà messianica con l’allusione a quella nuova creazione di cui le Scritture sono la promessa. Come all’inizio della creazione lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque, così ora la discesa sopra di lui dello Spirito, nella sua umanità, prefigura la nuova creazione. Non si tratta tanto di vedere una colomba che discende quanto di vedere il planare dello Spirito come una colomba, al modo di una colomba. Alla sua visione segue la voce, che conferma per tutti quello che Gesù ha visto, nel senso di invitare tutti a seguire quel Figlio nella rivelazione dell’amore del Padre per gli uomini. Con la voce del Padre sono compiute tutte le Scritture perché la frase è costruita con i testi di Gn 22,2, Is 42 e Sal 2,7, rispettivamente presi dalla Torah, dai Profeti e dai Salmi e, nello stesso tempo, le Scritture sono confermate per noi che possiamo fare esperienza della giustizia di Dio che è amore per noi.

La voce del Padre è quella di cui Gesù dirà: “Io sono nel Padre e il Padre è in me” (Gv 14,10); “Io dico quello che ho visto presso il Padre” (Gv 8,38); “Io invece lo conosco” (Gv 8,55); “Faccio quello che il Padre mi ha comandato” (Gv 14,31). Amato non dice soltanto tutta l'intimità goduta tra il Padre e il Figlio, ma illustra anche  lo sconfinato amore per l'umanità che i due condividono. Amato o unico o preferito fa pensare ad Abramo, pronto ad immolare il figlio Isacco (Gen 22,2); rimanda al figlio della parabola dei vignaioli omicidi (Mc 12,6); ha attinenza con “Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16), ha attinenza al mistero dell'amore del Padre per l'umanità di cui il Figlio è il rivelatore, lui che è il Volto visibile del suo splendore. È l’amato perché il Suo Amore di Padre in lui è perfetto nel senso che in lui si compie perfettamente il Suo volere di benevolenza per l'umanità e lui non ha altro volere che quello di compierlo perfettamente: “Mio cibo è fare la volontà del Padre” (Gv 4,34). È amato perché non solo il Suo Amore si volge verso di lui , in lui si posa, ma anche si riposa, sta soddisfatto, ne ottiene la risposta più piena.

Il risvolto tutto speciale del mistero allude però a qualcos’altro. Lo sguardo di predilezione del Padre sul Figlio non concerne più oramai solo la persona del Verbo, ma il Verbo nella sua umanità, il Capo con le sue membra. La lettura del profeta Isaia riguarda proprio l’identificazione di Gesù come il servo, l’identificazione del Messia nella sua natura di servo. Non dimentichiamo che questo brano di Isaia ricorre nella liturgia del lunedì della settimana santa, a sottolineare la dimensione pasquale di quell’identificazione. In quella natura di servo siamo noi, nella nostra umanità, ad essere considerati. Non dobbiamo perciò pensare che lo sguardo di compiacimento del Padre attenda a posarsi su di noi allorquando saremo capaci di seguire Cristo in una vita santa; è esattamente il contrario. Potremo impegnarci in una vita santa solo se sentiremo sulla nostra umanità peccatrice, ferita e piena di paure, questo sguardo di compiacimento perché Dio ama per primo, perché a Lui apparteniamo, perché siamo la sua stessa carne. Ed è proprio perché la nostra fede squarcia l’orizzonte per introdurci in questa visione che possiamo pregare, come citavo all'inizio: " ... trasformaci nel Cristo tuo Figlio, che ha congiunto per sempre a sé la nostra umanità".

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo Ordinario

 

II  Domenica

(19 gennaio 2014)

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Is 49, 3. 5-6;  Sal 39;  1 Cor 1, 1-3;  Gv 1, 29-34

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La chiesa, che ha lo sguardo fisso sul suo Signore, morto e risorto, introduce il tempo ordinario dell’anno liturgico con la proclamazione che l’Agnello è il Figlio di Dio, come viene riportata nel vangelo di Giovanni, il quale non riferisce direttamente né il battesimo di Gesù né le tentazioni nel deserto. La verità di Gesù è presentata sulla base della testimonianza del Battista, testimonianza che indurrà i suoi discepoli a seguire orami il nuovo Maestro.

Il sentimento che regge la visione della chiesa in questa liturgia è descritto nell’antifona di ingresso: “Tutta la terra ti adori, o Dio, e inneggi a te: inneggi al tuo nome, o Altissimo” (Sal 65,4), con l’invito, subito dopo nel versetto 5: “venite e vedete le opere di Dio: terribile nel suo agire sugli uomini”. Come a suggerire: sarà la modalità di agire tipica del Messia, espressa dalla figura dell’agnello, a rivelare quanto è sconvolgente l’agire di Dio per gli uomini, ma sconvolgente per l’inenarrabile profondità del suo amore per noi. Commentando questo salmo i Padri hanno delle intuizioni potenti. Atanasio collega l’aspetto terribile dell’agire di Dio nei confronti degli uomini: “come è ineffabile la tua incarnazione!”. Agostino si fa interprete dell’invito ‘Venite’ suggerendo: “Non insultate quanti sono fuori dalla Chiesa: Dio può farli entrare”. Origene insiste sull’insondabilità dei pensieri di Dio a favore degli uomini: “Tutto ciò che l’uomo potrà dire, non assomiglia ai pensieri di Dio: questi lo riempiono di stupore”. Il salmo parla della traversata del Giordano per entrare nella terra promessa e i Padri commentano: “Verrà un tempo in cui gioiremo, nel fiume che sarà quello della rigenerazione: è il Giordano ove Giovanni predicherà la remissione dei peccati e ove il Signore stesso verrà, per farne il lavacro della nuova nascita”.

La liturgia, nell’annunciare la solenne testimonianza del Battista rispetto a quel nuovo profeta che si era confuso con i peccatori per ricevere il suo battesimo, sovrappone tre figure: agnello, servo, figlio. La proclamazione del Battista è abbinata alla profezia di Isaia (prima lettura) che parla del servo obbediente scelto per riscattare Israele e divenire luce delle nazioni. Si tratta del secondo canto del Servo obbediente, testo che viene proclamato solennemente il martedì della settimana santa. Il brano di Isaia è commentato dal salmo 39. Il servo è il Figlio che ha lo stesso volere del Padre nel suo amore agli uomini. L’espressione della sua obbedienza a quel volere di amore per gli uomini si esprime con le parole ‘gli orecchi mi hai aperto’, che la versione greca, ripresa dalla lettera agli Ebrei 10,5, rende con ‘un corpo mi hai preparato’. L’umanità del Figlio di Dio costituisce l’obbedienza al volere di amore del Padre per gli uomini, umanità che con il battesimo al Giordano viene consacrata per diventare luce delle nazioni e portare salvezza al mondo. Quando il Battista testimonia che Gesù, che ha appena battezzato, è il Figlio di Dio, svela il segreto di Dio al mondo: in quell’umanità si giocherà l’amore di Dio agli uomini. Dove la luce di quella salvezza risplenderà in tutta la sua potenza? Sulla croce, dove il Signore è innalzato. Là conduce gli sguardi la figura dell’agnello di cui dà testimonianza il Battista.

Se Gesù prende un corpo, lo prende non solo per compiere il volere di salvezza di Dio per l’uomo, ma anche per mettersi in condizioni di compiere quella salvezza in termini di splendore di amore e di nient’altro. Non c’è ombra di ‘potenza’ nell’amore che Gesù manifesta nascendo come un bambino, vivendo da uomo, presentandosi al battesimo come un peccatore e morendo sulla croce; eppure, non c’è potenza più forte di quell’amore che non si fa vincere da nulla. È l’amore che magnifica il Signore davanti all’uomo e l’uomo davanti a Dio.

Vale la pena di ricordare che in greco, per indicare il servo e il figlio, si può usare uno stesso termine: πας. E che in aramaico agnello e servo sono espressi da un termine solo. Gesù è Figlio perché è il Servo obbediente ed è Servo obbediente perché è Figlio. Figlio e servo sono contemporaneamente l’espressione dell’intimità e della libertà di un rapporto teso al compimento di un compito, quello di rivelare al mondo l’amore di Dio che vuole riunire i suoi figli dispersi attorno alla sua mensa, dove è deposto l’agnello immolato.

Il ritornello del salmo responsoriale: ‘Ecco, io vengo, Signore, per fare la tua volontà’, fa riferimento all’obbedienza del servo che accetta fino in fondo il compito affidatogli, ma allude anche all’intimità ed alla libertà del figlio che condivide intensamente con il Padre la sua passione d’amore per gli uomini. Quanto è difficile per noi accogliere i due riferimenti contemporaneamente! Per noi la volontà di Dio non suona subito come una volontà di Bene, come un Bene che vuole condividere con noi, come una gioia di Bene che riposa i cuori e di Dio e degli uomini. Il canto al vangelo lo ripete chiaramente però e ce ne fornisce la ragione profonda: “Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua dimora in mezzo a noi. A quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio”. Il che significa: se riconosco lo splendore dell’amore di Dio che rifulge dal volto di quel figlio-servo-agnello, potrò anch’io, come lui e in lui, cogliere e compiere il volere di bene di Dio in favore degli uomini e godere della sua gioia che consiste nell’unire ‘i figli di Dio dispersi’. Quando il cuore dell’uomo non si lascia guidare da alcun’altra ragione nel suo agire, saprà che la fraternità con gli uomini è il supremo desiderio di Dio e il luogo di manifestazione del suo splendore.

L’itinerario che ha definito Gesù nella sua umanità per esprimere nel concreto della sua vita la realtà del suo essere servo-figlio-agnello diventa lo stesso nostro itinerario. Così si compiono i misteri di Dio, così l’uomo torna alle radici della sua gioia, nel suo Dio. Cose misteriose, certo, ma veritiere e fondanti il senso stesso del nostro vivere e del nostro desiderare.

Quando l’evangelista Giovanni deve indicare dove la passione di Dio per gli uomini condurrà il Figlio prediletto per raggiungere lo scopo che li ha guidati fin dalla fondazione del mondo nel loro agire verso gli uomini, dirà: «Ma uno di loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell’anno, disse loro: “Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera”. Questo però non lo disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (Gv 11,49-51). Qui stanno riuniti insieme i tre nomi: Figlio, Servo, Agnello.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo Ordinario

 

III  Domenica

(26 gennaio 2014)

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Is 8,23b - 9,3;  Sal 26;  1 Cor 1,10-13. 17;  Mt 4,12-23

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Quando i discepoli di Gesù hanno provato a riassumere la loro esperienza del Maestro si sono espressi così: “quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita …” (1Gv 1,1) oppure: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria…” (Gv 1,14). Ebbene, Matteo rende la stessa testimonianza con l’immagine della luce riprendendo la profezia di Isaia: “su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse”.

Gesù è il Messia di Israele, ma nella prospettiva futura della salvezza che giunge ai gentili. In questa ottica Matteo colloca la prima predicazione di Gesù in Galilea (Galilea delle genti) e sarà in Galilea che il Signore risorto darà ordine ai discepoli di fare di tutti i popoli dei discepoli (Mt 28,16-20). La predicazione di Gesù è presentata nella prospettiva della luce che splende, luce che si esprimerà nel discorso della montagna con l’annuncio delle beatitudini, che segue subito dopo, e con le sue opere di guarigione da ogni sorta di malattie e infermità. Il tono dell’evangelista è particolarmente solenne quando dice ‘da allora cominciò a predicare’ perché solo due volte usa questa espressione: qui, per introdurre il ministero pubblico di Gesù e in 16,21 quando Gesù annuncia per la prima volta ai discepoli la sua passione.

Quella luce che splende non è frutto di conquista umana, ma dono e rivelazione del Dio vivente, che la liturgia sottolinea con due salmi, quello di ingresso e il salmo responsoriale: “Cantate al Signore un canto nuovo … annunciate di giorno in giorno la sua salvezza … dite tra le genti: il Signore regna! .. gioiscano i cieli, esulti la terra davanti al Signore che viene …” (Sal 95); “Il Signore è mia luce e mia salvezza” (Sal 26). La luce esprime la salvezza accolta da chi, trovandosi in uno spazio di ombra di morte con tenebre all’intorno e gli occhi impediti di vedere, finalmente esce alla luce, è guarito negli occhi, incontra Colui che il vangelo definisce “in lui era la vita e la vita era la luce degli uomini”. Ora quella luce si è fatta vedere e Gesù ne esprime tutta la potenza di salvezza nella sua umanità.

Sembra strano che Gesù inizi la sua predicazione con le stesse parole che aveva usato il Battista: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”. Ma se con il Battista l’accento era posto sul ‘convertitevi’, ora con Gesù l’accento cade su ‘il regno dei cieli è vicino’. Come dicesse: se volete che il regno di Dio diventi vostro, convertitevi, cioè acconsentite alla visione che scaturisce dalla fede nel Figlio di Dio che è venuto a voi. Dietro il ‘convertitevi’ va sentito l’eco della voce di Dio che lungo tutta la storia di Israele dice: “Ritornate, figli traviati, io risanerò le vostre ribellioni. … Ecco, noi veniamo a te, perché tu sei il Signore, nostro Dio” (Ger 3,22); “Tornate a me e io tornerò a voi” (Zac 1,3; Mal 3,7); “Tornate alle mie esortazioni: ecco, io effonderò il mio spirito su di voi e vi manifesterò le mie parole” (Pro 1,23); “Popolo mio, che cosa ti ho fatto? In che cosa ti ho stancato? Rispondimi” (Mic 6,3).

La realtà della vicinanza di quel regno è tale che può toccare i cuori, che può muoverli a non desiderare altro se non quel regno. Mi sembra questo il senso della chiamata degli apostoli, che segue direttamente la proclamazione della vicinanza del regno da parte di Gesù. Non si tratta tanto di raccontare da parte dell’evangelista la cronaca della vocazione degli apostoli, ma di mostrare la potenza dell’iniziativa di Dio che dà corso alla sua opera di salvezza. Gregorio Magno, commentando la prontezza dei pescatori a seguire la chiamata di Gesù, riflette sul fatto che a dire il vero quegli uomini avevano ben poco da lasciare essendo poveri. Ma, aggiunge “ha molto lasciato chi non ha tenuto nulla per sé”. È appunto il senso della fede genuina. Non importa lasciare poco o tanto; l'importante è non conservare nulla per sé, vale a dire fidarsi fino in fondo, per tutto il cammino, con tutte le fatiche che comporta, in modo che la grazia dell'incontro possa rivelare tutti i suoi frutti, nel tempo.

Non si può non notare il fatto che gli apostoli non sono stati chiamati semplicemente alla sequela di Gesù, ma alla sequela di Gesù che è inviato a portare a tutti la salvezza e la consolazione (vi farò pescatori di uomini). Seguire Gesù comporta un’esperienza di vita, la condivisione del suo insegnamento e della sua missione; dice prima di tutto quanto l’intimità di vita con il Signore sia sconfinata nel senso che non può ripiegarsi su se stessa, ma continuamente si traduce in condivisione della misericordia di Dio per l'umanità. L'intimità con Dio comporta sempre una buona dose di sana angoscia per i propri fratelli e per questo non sta mai ferma: fin dove c'è un uomo, fin dove c'è un livello di umanità non ancora aperto alla grazia dell'incontro, fin dove c'è una malattia da curare, l'apostolo, come Gesù, non si dà pace. Più profonda è la pace che viene dalla grazia dell'incontro, meno pace si dà finché tutti i fratelli possano godere della stessa grazia. Il senso del guarire ogni sorta di malattie e di infermità da parte di Gesù in missione, come avverrà per gli apostoli inviati in missione (imporranno le mani ai malati e questi guariranno, Mc 16,18), è proprio questo: condividere la misericordia di Dio per l’umanità.

Un altro particolare poi è estremamente significativo. Gesù li chiama non semplicemente a seguirlo, ma a mettersi dietro a lui, come poi dirà Gesù a Pietro quando lo rimprovererà per aver pensato non secondo Dio (cfr. Mt 16,23). Corrisponde a quanto il salmo fa dire al fedele: “Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita”. Qual è l’unica cosa necessaria da domandare? Tutto dipende dalla profondità che nei nostri cuori ha raggiunto la conversione al  vangelo del regno.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Solennità e feste

 

Presentazione del Signore

(2 febbraio 2014)

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Ml 3,1-4;  Sal 23;  Eb 2,14-18;  Lc 2,22-40

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L'antico nome greco della festa è incontro e la liturgia, con la processione con i ceri accesi, sottolinea appunto il cammino verso un incontro che, prendendo a modello quello di Simeone e Anna, allude all’incontro dei fedeli con Cristo nella celebrazione eucaristica, segno del definitivo incontro nel paradiso di Dio. "Anche noi qui riuniti dallo Spirito Santo andiamo incontro al Cristo nella casa di Dio, dove lo troveremo e lo riconosceremo nello spezzare il pane nell'attesa che egli venga e si manifesti nella sua gloria" : così introduce la celebrazione il sacerdote. E nella benedizione dei ceri prega: "... illuminati dalla luce di questi ceri, infondi nel nostro spirito lo splendore della tua santità, perché possiamo giungere felicemente alla pienezza della tua gloria". D'altra parte non è questo il significato profetico della vita consacrata, che vede nella festa di oggi la sua celebrazione tipica: risplendere della santità di Dio?

Il testo del vangelo di Luca che narra della presentazione al tempio di Gesù è ricco di particolari misteriosi, particolari che tradiscono la contemplazione di un mistero, velato ma percepibile. Luca parla della loro purificazione: ma solo la mamma era tenuta a purificarsi dopo il parto (cfr. Lev 12,1-8). Non c’è nessuna legge che prescrive di portare il bambino al tempio. La Legge di Mosè prescrive di consacrare e riscattare ogni primogenito (cfr Es 13). Luca, però, citando quella norma, ne modifica l’espressione dicendo che ‘ogni maschio primogenito sarà chiamato santo’ ed usa le stesse parole dell’angelo Gabriele quando reca l’annunzio a Maria. Come a sottolineare: Gesù non ha bisogno di essere consacrato al Signore e non deve essere riscattato; anzi, Lui è il Consacrato, il Cristo del Signore, Lui sarà il riscatto per il suo popolo, per l’intera umanità. In Lui si concentra tutto il senso della storia sacra perché compie in verità quello che nella Legge veniva descritto in simbolo: Gesù è il primogenito diletto che compie il sacrificio di Isacco, come Lui è il vero pane celeste che era prefigurato nella manna.

Il profeta Malachia ci avverte della drammaticità dell’incontro con il Signore: "... entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate ... Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire? Egli è come il fuoco del fonditore e come la lisciva dei lavandai". Mentre il salmo 23 ripete: "Chi potrà salire il monte del Signore? Chi potrà stare nel suo luogo santo? Chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non si rivolge agli idoli [=chi non volge il suo desiderio a ciò che è vano, alla menzogna], chi non giura con inganno". Se li leggiamo insieme possiamo intendere: chi sta nella menzogna e si fa forte della sua presunzione contro il prossimo come potrà sopportare la venuta del Signore? Come potrà cioè ardire di vedere il Suo volto, scoprire il Suo amore? Dato che il nostro cuore non è puro e le nostre mani non sono innocenti, dovremo essere purificati dal Signore, che non sopporta la menzogna. Il suo fuoco e la sua lisciva sono le prove e le fatiche che nella sua provvidenza ci amministra perché possiamo imparare a far risplendere la sincerità del cuore, a far prevalere il desiderio di Lui su tutto il resto. Potrà avvenire allora quell'incontro che colmerà il cuore, ci rivestirà del suo stesso splendore di gloria, vale a dire di quell'amore che sgorga così dal profondo che non sarà soffocato nemmeno dall'ingiustizia o dai torti subiti. Una volta assaporato quell'incontro, un anelito sempre più potente possiederà il nostro cuore e non si quieterà finché tutta la gloria di quel Volto ci apparirà in tutto il suo splendore. Il cammino della nostra vita è posto tra il desiderio latente di quell'incontro e l'incontro realizzato fino a viverla solo e unicamente in funzione della rivelazione della gloria di quel Volto che misteriosamente parla al cuore.

Nel testo del profeta Malachia Dio rimprovera all'uomo le sue richieste fasulle, le sue lamentele, che provengono dalla menzogna del suo cuore: Quando abbiamo disprezzato il tuo Nome? Come ti abbiamo stancato? Che vantaggio abbiamo ottenuto dall'osservanza dei comandamenti? In una parola: ce l'abbiamo con Dio, perché non fa quello che vogliamo noi! Come non dover essere purificati da questa lamentosità menzognera che indurisce il cuore e non lo rende sensibile né all’incontro con Dio né all’incontro con i fratelli? La Chiesa prega: "... infondi nel nostro spirito lo splendore della tua santità ..." perché riconosciamo il bisogno di te e del tuo amore!

La visione di Simeone, come del resto la visione di ogni credente, è sempre una visione profetica, una visione nella speranza. Tiene il bambino Gesù in braccio e vede avanti, vede in spirito, sente il mistero di quel bambino venuto a compiere tutte le attese ed esclama: “Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele”. È il cantico che la chiesa innalza a compieta, tutti i giorni, a riprova che l’esito dei nostri giorni mortali non può che risolversi nella contemplazione di Dio e del nostro Dio Salvatore. Le parole di Simeone hanno anche una potenza di rivelazione particolare per il cuore che desidera il suo Dio. Applicandole all’intelligenza delle Scritture, le possiamo tradurre così nella lingua del nostro cuore: Signore, ora che ho potuto gustare e trattenere una tua parola, fa che sia sciolto da ogni legame che impedisce a questa parola di agire, che impedisce al mio cuore di goderne la potenza salvatrice e possa cominciare a vivere in quella pace che compie la mia attesa e anche la tua! Sì, perché  non è soltanto l’uomo ad aspettare la consolazione, è anche Dio e la consolazione di Dio è la condivisione della sua gioia e della sua pace con noi. E possano tutte le genti, insieme al popolo di Israele, diventare l’Israele di Dio, nel quale si compie la consolazione e dell’uomo e di Dio.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo Ordinario

 

V  Domenica

(9 febbraio 2014)

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Is 58,7-10;  Sal 111;  1 Cor 2,1-5;  Mt 5,13-16

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Gesù proclama: “Voi siete il sale della terra… Voi siete la luce del mondo…”. Quel ‘voi’ si riferisce ai discepoli la cui vita esprime la potenza delle beatitudini che immediatamente prima Gesù aveva proclamato. Si tratta di quei discepoli che, insultati, perseguitati, sparlati, custodiscono la letizia dell’incontro con il Signore Gesù, che è diventato per loro ragione di vita e principio dell’agire. Non per nulla la liturgia fa leggere, abbinato al brano evangelico di Matteo, un passo del profeta Isaia dove si profetizza l’esistenza dell’Israele gradito a Dio come una esistenza ricca di misericordia per tutti, ricca del dono della fraternità a tutti perché segno della comunione realizzata con Dio, che si è reso presente in mezzo a loro. La luce di cui risplende l’umanità abitata da Dio è la luce della fraternità condivisa.

La colletta, al di là delle parole che usa, esprime la consapevolezza della singolarità e dell’eccellenza dell’esperienza evangelica che Gesù richiama con l’immagine del sale e della luce. Non si tratta di una possibilità, ma di una grazia: è la grazia di un incontro, che si è tradotto in comunione di vita. La testimonianza di Gesù si risolve nel far vedere quanto è grande l’amore del Padre per gli uomini, che vuole riuniti nella comunione con lui e fra di essi. La forza che realizza tale comunione è lo Spirito donato da Gesù, Spirito la cui opera precipua è proprio quella di realizzare un’umanità solidale, in Cristo Gesù. Quando i discepoli, che hanno condiviso con Gesù il segreto del Padre, si lasciano travolgere dalla stessa dinamica di rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini, diventano sale della terra e luce del mondo.

Prima di tutto sale. La potenza dell’immagine risiede nel fatto che il sale dà sapore alle cose ma le cose non possono dare il sapore al sale. Il che significa: i discepoli sono chiamati a permeare il mondo con la sapienza del vangelo, ma non servono a nulla se il mondo permea loro con la sua sapienza. I discepoli, mantenendo il mondo degli uomini nell’alleanza con il loro Dio, che li vuole in comunione con lui e tra di loro, tornano a far splendere la Sua presenza tra di loro e rendono la vita desiderabile e amabile.

Poi luce. Un’antica glossa bizantina spiega il passo di Matteo così: “Non dice: voi siete luci, ma voi siete luce, perché essi [discepoli] tutti insieme sono il corpo del Messia che è la luce del mondo” (cfr. Gv 3,19; 8,12). Diventano luce del mondo nel senso che la presenza di Dio, resa come visibile nel mondo attraverso il loro agire secondo le beatitudini, costituisce l’orizzonte di senso della vita. Le beatitudini non sono se non le vie per le quali si può partecipare alla effusione nell'universo della carità pura di Dio. È la carità a custodire i cuori preservandoli dalla corruzione e facendo gustare il sapore genuino della vita (ecco l'azione del sale) e li illumina aprendoli alla verità e riscaldandoli (ecco l'azione della luce).

La parola del profeta Isaia illustra bene le condizioni che permettono al discepolo di essere sale e luce. Vorremmo, sì, percepirci luminosi, ma non è certamente un fatto scontato, dal momento che tutti facciamo i conti con la tenebra che oscura il nostro cuore in termini di chiusura, oppressione, angoscia. “Se toglierai di mezzo a te l'oppressione, il puntare il dito e il parlare empio ... allora brillerà fra le tenebre la tua luce". Quando Massimo Confessore spiega l'invocazione 'non ci indurre in tentazione' nella preghiera del Padre Nostro, ha l'ardire di precisare: “La Scrittura rivela infatti con questo come chi non ha perfettamente perdonato a chi cade e non ha presentato a Dio un cuore privo di tristezza, reso splendente dalla luce della riconciliazione con il prossimo, non otterrà la grazia dei beni per cui ha pregato, e, per giusto giudizio, sarà consegnato alla tentazione e al Maligno. Imparerà così a purificarsi dalle colpe, eliminando le sue lagnanze contro gli altri …”. Ci dice in sostanza che non subiremo tentazioni se avremo la capacità, da assimilare poco a poco, di non accusare nessuno perché allora - continua Isaia – “implorerai aiuto ed egli dirà: Eccomi!”. Quando il cuore non accusa nessuno, neanche se stesso, non può cedere all'oppressione, perché il Signore è con lui. Non c'è sventura o afflizione capace di ferirlo a tal punto da aver bisogno di cercare la sua giustizia o la sua rivalsa contro qualcuno, distogliendolo dall'intimità con il suo Signore.

Un’ulteriore considerazione. Siamo abituati a riferire la luce all’intelligenza. Ma la Scrittura suggerisce un riferimento diverso. È sempre il profeta Isaia a dire che la luce sorge se si spezza il pane con l’affamato, se si ha misericordia del prossimo. La luce viene per l’agire del cuore. All’esercizio dell’intelligenza va abbinato il calore del cuore,  perché è il cuore il luogo della presenza, dell’incontro. Solo in questo calore l’intelligenza è retta. Quando Matteo dirà: “siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (5,48), lo dirà in seguito all’invito ad amare i propri nemici e Luca interpreta: “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso” (6,36).

Se Gesù chiede ai discepoli di essere la luce del mondo, vuol dire che chiede loro di essere il segno della misericordia di Dio tra gli uomini, come lo è lui stesso. In questo senso l’invito e il comando ad essere sale e luce si riferisce all’attuazione di quello che Gesù dirà ai suoi discepoli alla fine del vangelo: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli … insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28,19-20). Se le nostre opere buone devono risplendere davanti agli uomini, secondo il comando di Gesù, ciò significa che le nostre opere buone devono essere a vantaggio, per profitto degli uomini [così si dovrebbe tradurre il ‘davanti agli’ uomini] permettendo loro di sperimentare l’amore di Dio per loro.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo Ordinario

 

VI  Domenica

(16 febbraio 2014)

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Sir 15,15-20; Sal 118; 1 Cor 2,6-10; Mt 5,17-37

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Il senso delle letture di oggi è ben descritto dall’antica colletta: “O Dio, che hai promesso di essere presente in coloro che ti amano e con cuore retto e sincero custodiscono la tua parola, rendici degni di diventare tua stabile dimora”.

Le parole del Signore, i suoi comandamenti, non sono semplici ingiunzioni o precetti alla cui osservanza è promessa la nostra beatitudine futura. Sono assai di più, sono rivelazione di Sé, modalità di partecipazione alla stessa vita divina, spazi di comunione con lui e con i fratelli, luoghi di intimità. Gesù allude sempre nel suo annuncio del Regno a una eccedenza, a una sovrabbondanza rispetto alla giustizia che cerchiamo con le nostre opere. In effetti, il senso della nostra vita si gioca non nel fare il bene, ma nel farlo per entrare nel segreto di Dio. È un'intimità che fa vivere la vita dentro un'obbedienza e un'alleanza che sperimentiamo a nostro favore; un'intimità capace di riempire il cuore, di rendere la vita degna di essere vissuta.

Lo possiamo percepire nell’affermazione di Gesù che commenta la proclamazione delle sue beatitudini: “Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento ... Avete inteso che fu detto agli antichi ... Ma io vi dico ...”. Negli esempi che porta, Gesù mostra la reale intenzione di Dio per l’uomo quanto all’esigenza della santità della vita perché noi non ci si chiuda nella menzogna. Non basta evitare di uccidere; Gesù svela la natura omicida dell’ira, del disprezzo, della ribellione contro il proprio fratello. La preghiera è gradita a Dio, ma solo a condizione che il cuore l’innalzi dallo spazio di riconciliazione voluto e cercato con i propri fratelli. Il cuore si sporca non solo con gli atti compiuti, per esempio, l’adulterio consumato, ma anche con i desideri cattivi che lo attraversano quando sono trattenuti e fomentati. L’uomo purtroppo è anche capace di snaturarsi: l’occhio, che dovrebbe aiutarlo a percepire l’inciampo per non cadere, è esso stesso occasione di caduta quando serve il desiderio cattivo.

Gesù fa vedere la forza della proclamazione del Siracide: “Se vuoi osservare i suoi comandamenti, essi ti custodiranno; se hai fiducia in lui, anche tu vivrai”. Quando la Parola è la nostra dimora, allora anche la promessa di vita che racchiude ci apparterrà, diventerà il nostro segreto. Con l’umiltà e la gioia di chi, come dice san Paolo: “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano”. Proprio come la colletta pregava: ‘rendici degni di diventare tua stabile dimora’. E si diventa dimora con il custodire le parole (comandamenti) di Gesù, finché siano loro a custodire il nostro cuore nella gioia che rilasciano. Come ancora il Siracide proclama: “I suoi occhi sono su coloro che lo temono”. È il senso della compagnia di Dio che custodisce, ristora, infonde coraggio, consola.

Saldi nella fiducia che questo è il dono di Dio per noi, senza alcun merito da parte nostra, come proclama il canto al vangelo: “Ti rendo lode, Padre, perché ai piccoli hai rivelato i misteri del Regno”. Gesù formula questa preghiera di lode vedendo i discepoli ritornare tutti contenti dalla loro missione di predicazione e li avverte che la gioia che provano non dipende dalla grandezza delle opere compiute, ma dal vivere la comunione con Dio che vuole la salvezza di tutti. Tale principio di comunione non tiene in alcun conto la grandezza degli uomini, tanto che quando Gesù dovrà svelare il suo destino di Messia annunciando la sua passione si premurerà di tenere i suoi discepoli al riparo da quella meschina grandezza, così ambita dagli uomini. La cosa è ribadita nel brano evangelico di oggi dicendo che gli uomini, davanti a Dio, non saranno grandi se faranno cose grandi, ma se terranno aperte le cose piccole, ogni cosa più piccola, al mistero del Regno, alla percezione del Regno. Quello che vale per le Scritture, vale anche per la nostra vita.

In questa luce, la ‘giustizia superiore’ alla quale Gesù invita i suoi discepoli non si riferisce ad opere diverse da quelle comandate in precedenza, come esistesse un’opera maggiore rispetto a quelle di prima, ma alla capacità di percezione e alla fedeltà all’intenzione segreta di Dio a cui le opere richieste rimandano. Il ‘compimento’ di cui parla Gesù non allude all’aggiunta di qualcosa, ma alla radicalità dell’esperienza che rimanda direttamente a Dio e alla sua rivelazione. Il compimento di Gesù, che risalterà in tutto il suo splendore con la sua passione e morte, mostra la profondità di provenienza dei comandamenti e la bellezza della promessa di Dio racchiusa nei comandamenti perché l’uomo possa finalmente godere della comunione con il suo Dio, dentro un’umanità solidale, e non semplicemente ‘tenerlo buono’ con la propria giustizia, perché la propria giustizia non fa splendere il cuore.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo Ordinario

 

VII  Domenica

(23 febbraio 2014)

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Lv 19,1-2.17-18;  Sal 102;  1 Cor 3,16-23;  Mt 5,38-48

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Le specificazioni di Gesù sondano in profondità il comando di Dio proclamato nella prima lettura: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo” (Lv 19,2), che il salmo responsoriale riprende con la rivelazione del nome di Dio: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore” (Sal 102,8). Se riandiamo al contesto in cui quel nome era stato proclamato possiamo cogliere la portata della santità che definisce Dio nei confronti dei suoi figli e che abilita i suoi figli ad essere tali, come a Lui è gradito, per rivelare al mondo la grandezza del suo amore. Il popolo nel deserto, esasperato e impaziente, costruisce il vitello d’oro e rifiuta l’alleanza con il suo Dio che non sentiva più accanto. Quando Mosè discende dal monte e vede l’idolo eretto nell’accampamento si infuria, spezza le tavole della Legge e cade in profonda prostrazione: cosa farà ora il Signore? Starà ancora dalla parte del suo popolo? E di me che ne sarà? Mosè sta solidale con la sua gente, ricorda a Dio che questo è il suo popolo e per essere confermato chiede a Dio di vedere la sua gloria. E quando la gloria del Signore gli si manifesta, ode la proclamazione del nome: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso …” (Es 34,6). È la seconda volta che Dio rivela il suo nome e questa volta nel dramma più assoluto, confermandosi comunque e sempre a favore del suo popolo.

Quando Gesù, a sigillo dei suoi inviti ad andare oltre la Legge, ma compiendone i misteri che alludono alla rivelazione di Dio nella sua persona, dirà: “Voi dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”, non farà che far emergere in tutto il suo splendore la luminosità della santità di Dio che si rivela nella sua misericordia senza limiti all’uomo. In effetti, non c’è scritto da nessuna parte nell’Antico Testamento di amare il prossimo e odiare il nemico. Quella espressione non appartiene alla rivelazione di Dio. Al cuore dell’uomo sembrava di poter interpretare il comandamento di Lv 19,18: “Amerai il tuo prossimo come te stesso” nel senso di: “tu devi amare il tuo compagno, ma sei dispensato dall’amare il tuo nemico”. Gesù ricollega l’amore del prossimo all’imitazione di Dio, il cui nome, rivelato a Mosè sul Sinai, suona appunto: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore”. La misericordia è tipica di Dio. Nell’Antico Testamento l’aggettivo ‘misericordioso’ è attribuito solo a Dio e mai all’uomo, mentre nel Nuovo Testamento l’aggettivo ‘perfetto’ si dice dell’uomo e mai di Dio. Il che significa che ciò che fa splendere il cuore dell’uomo è l’amore pieno di misericordia: esprime la partecipazione alla santità di Dio e la natura della ‘perfezione’ richiesta all’uomo.

La giustizia basata sul principio della reciprocità alla quale gli uomini in genere si attengono non rivela ancora lo splendore di Dio. Gesù invita alla santità come comunione di vita con Dio, alla santità come partecipazione all’amore di Dio per i suoi figli. L’invito allude alla natura stessa del cuore dell’uomo, che ha una profonda nostalgia di Dio. Non tanto però di Dio in generale, ma dei comportamenti secondo Dio, comportamenti che strutturano i sogni del cuore degli uomini. Con l’invito a quell’eccedenza, Gesù non fa che svelare le possibilità del cuore dell’uomo una volta che si lasci toccare dalla rivelazione del regno dei cieli che in lui si fa manifesto e partecipabile.

Se poi consideriamo il passo parallelo di Luca, con gli esempi che adduce, cogliamo ancora meglio la natura della perfezione richiesta all’uomo per godere della rivelazione del regno dei cieli:

fate del bene a coloro che vi odiano’: agite in modo che risplenda il bene per coloro che vi odiano;

benedite coloro che vi maledicono’: portate in pace la maledizione che vi viene dagli uomini senza scadere nella vendetta delle parole, mantenete il cuore nella pace senza corromperlo con la rabbia di parole insolenti, non ricambiate con parole irose chi vi ferisce, né in voi stessi né in presenza d’altri, custodendo l’onore per la persona che l’ha calpestato;

pregate per coloro che vi trattano male [che vi calunniano]’: resistete alla tristezza che vi invade quando siete calunniati per malevolenza e invidia; la preghiera sincera vi custodirà nella carità.

Così la ‘ricompensa’ di cui parla Matteo allude all’agire che esprime la gioia del Regno di Dio che ha lambito il cuore e che rende capace l’uomo di comportarsi non in termini di pura reciprocità ma in una logica di sovrabbondanza. È la capacità che il Messia dona ai suoi discepoli, quello che l’antica colletta domanda: “possiamo conoscere ciò che è conforme alla tua volontà e attuarlo nelle parole e nelle opere”. Da interpretare: possiamo aprire il nostro cuore alla promessa di vita che la parola del Signore cela e possiamo aprire gli eventi della nostra vita al Regno che viene.

Se la Legge aveva stabilito quella che siamo soliti chiamare la legge del taglione nel tentativo di arginare la sete di vendetta di fronte alle offese, Gesù ricorda di non opporsi nemmeno al malvagio, nel senso di rispondere al male con il bene perché il male non si propaghi. Gli esempi hanno un valore simbolico per sottolineare l’eccedenza nel volere il bene comunque (come racconta Gv 18,22-23, Gesù non ha offerto l’altra guancia a colui che l’aveva schiaffeggiato di fronte al Sommo Sacerdote, ma ha custodito comunque il bene). ‘Chi ti costringe ad accompagnarlo per un miglio’ allude al diritto dei funzionari del re di costringere chiunque all’aiuto richiesto, come sarà il caso del cireneo che porterà la croce di Gesù per un tratto di strada e Gesù invita ad agire non per dovere o sotto costrizione, ma in benevolenza. Tra l’altro, il verbo italiano angariare deriva dall’obbligo di una prestazione forzata imposta dalla pubblica autorità. La finale, che riassume il senso di tutti gli esempi riportati: “Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”, richiama proprio la santità di Dio che è amore per tutti i suoi figli, il cui bene precede l’agire degli uomini e quindi non ne dipende. L’eccedenza a cui allude Gesù ha proprio a che fare con questo ‘Bene’ di Dio che in Gesù si comunica all’uomo perché l’uomo non dipenda mai dal male, anche se lo subisce. La legge potrebbe essere definita come la fatica di arginare il male, mentre l’evangelo la possibilità di vincerlo. Alla fin fine solo la fiducia in quella possibilità ci rende capaci di non dar spazio al male.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo Ordinario

 

VIII  Domenica

(2 marzo 2014)

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Is 49,14-15;  Sal 61;  1 Cor 4,1-5;  Mt 6,24-34

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Perché la fiducia in Dio trova spesso le porte chiuse del nostro cuore? Certo non per cattiveria, non per incredulità, ma per l’oppressione degli affanni e delle afflizioni della vita. Il Signore lo sa e in molte occasioni cerca di conquistarci alla fiducia. È l’argomento delle letture di oggi.

Il brano di Isaia lo dichiara splendidamente: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai”. Sono le parole con cui Dio risponde all’angoscia del popolo: “Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato”. Il profeta aveva già annunciato il ritorno glorioso degli esuli nella terra dei padri, ma quando sarebbe avvenuto? Ogni israelita poteva domandarsi: lo potrò vedere io? In altre parole: è possibile nelle afflizioni continuare a fidarsi di Dio?

Il brano di vangelo risponde a questo interrogativo e ne stabilisce come la condizione di fondo: non si possono servire due padroni, non è salutare preoccuparsi del domani, non serve affatto preoccuparsi. Sì, ma l’indicazione di Gesù non procede da buone ragioni. Mira ad altro. Invita i cuori all’esperienza della fede, esperienza che deriva dal fascino suscitato dal nuovo annuncio evangelico di Gesù, che si presenta come il Dono di Dio all’uomo. Sarà la sua vita, il suo agire, le sue parole a far vedere giunto fino a noi il Regno di Dio, a convincerci dell’amore grande del Padre per i suoi figli di cui cerca la compagnia. Senza la percezione gioiosa di questa ‘novità’, sarà difficile mantenere la fiducia in Dio quando le preoccupazioni, d’altronde necessarie, della vita ci assilleranno fino a soffocarci.

Matteo inserisce le ammonizioni di Gesù nel contesto di una ritrovata libertà dalle preoccupazioni per un cuore conquistato dall’annuncio del vangelo tanto da indurlo a focalizzare tutti i suoi sforzi su di un unico obiettivo: custodire la gioia del vangelo nelle vicissitudini quotidiane. Luca, invece, inserisce le stesse ammonizioni nel contesto della testimonianza del discepolo di Gesù di fronte al mondo. L’invito a non preoccuparsi dei beni della vita diventa l’invito a non avere paura, a non temere quello che ci può venire dagli uomini perché “al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno” (Lc 12,32). Evidentemente, il cuore deve poter essersi già dischiuso a percepire la bellezza di quel ‘regno’, di cui la Chiesa è allusiva e di cui è la memoria tra gli uomini e per il quale la fede nel Cristo Signore è porta di accesso. La narrazione evangelica tende a questo, come del resto tende a questo anche la celebrazione liturgica.

Quando il canto al vangelo proclama che “la parola di Dio è viva ed efficace, discerne i sentimenti e i pensieri del cuore”, nel contesto del brano evangelico odierno significa: non si può a lungo mescolare ciò che è importante, essenziale, con ciò che è superficiale, vacuo. Se la parola del Signore tocca il nostro cuore, allora appare subito evidente che non si può barattare il di più con il di meno. Se voglio la ricchezza comunque, ciò vuol dire che non voglio il Signore e quindi non mi interessa la giustizia; se voglio il mio diritto comunque, ciò significa che non mi sta a cuore il prossimo; se voglio un bene a scapito della giustizia, ciò significa che non voglio la pace: “Solo in Dio riposa l’anima mia: da lui la mia speranza”.

Di fronte alle preoccupazioni e alle vicissitudini della vita, Gesù invita: “Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”. È come un invitare a vivere da dentro una relazione riuscita, quella per cui tutte le cose che cerchiamo trovano la loro destinazione di fondo. Non agire in questo modo significa vivere a partire dall’assillo della paura che attanaglia il cuore dell’uomo. Non è solo la paura di non avere quello che ci è necessario, ma la paura che altri prendano quello che è nostro, per cui la lotta contro la paura si risolve nella diffidenza verso tutti e nella lamentela contro la vita.

La scoperta da fare è proprio la benevolenza di Dio che ha deciso di ‘darci il Regno’ comunque. Il regno non si sostituisce ai beni di questo mondo, che ci sono necessari. Fa’ in modo che il perseguimento dei beni non ci perverta il cuore, contro noi stessi e contro il prossimo; fa in modo che i beni raggiungano la loro vera destinazione nel senso di schiudere il cuore alla gratitudine e alla condivisione perché l’amore di Dio splenda nel mondo. Non si tratta però di una saggezza umana, forse anche condivisibile, ma incapace di rispondere al dramma dell’uomo e della storia. Si tratta del segreto di Dio per l’uomo, che Gesù svela e che partecipa ai cuori che sono disposti ad accoglierlo, come più avanti nel racconto evangelico dirà: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,28-30).

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo di Quaresima

 

I  Domenica

(9 marzo 2014)

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Gn 2, 7-9; 3, 1-7;  Sal 50;  Rm 5, 12-19;  Mt 4, 1-11

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Il cammino quaresimale è una buona immagine del cammino della vita. Il percorso per arrivare alla Pasqua del cielo è segnato da innumerevoli tentazioni. Senza tentazioni non c’è verità, dicevano i nostri padri. Il brano evangelico di questa prima domenica di quaresima riporta le tentazioni di Gesù. Il maligno, non essendo stupido, non tenta certo di distogliere Gesù da Dio per indurlo al male. La sua azione è più raffinata. Gli suggerisce che ci sarebbe un modo più diretto ed efficace per arrivare al suo scopo. L’inganno sta nel fatto di fargli fare qualcosa in nome di Dio senza condividere il segreto di Dio, senza il compiacimento di Dio. Le tentazioni hanno appunto lo scopo di distoglierci dall’obiettivo vero per suggerirne uno fasullo.

Le tre tentazioni sono precedute dall’annotazione che, dopo quaranta giorni di digiuno, Gesù ebbe fame. Non si tratta solo di una fame materiale (solo la prima tentazione alluderebbe direttamente al desiderio di cibo) ma del suo desiderio di realizzare il compito di cui è stato investito come Messia: portare tutti a Dio. Il ritirarsi di Gesù nel deserto segue l’evento del battesimo al Giordano allorquando si è sentito proclamare ‘Figlio amato’, ripieno dello Spirito Santo. Il suo aver fame richiama il grido sulla croce: ho sete (Gv 19,28). Ha fame e sete degli uomini. È nel suo zelo per gli uomini che viene tentato.

La scena richiama l’esperienza del popolo di Israele in viaggio verso la terra promessa nel suo peregrinare nel deserto, luogo della rivelazione di Dio e nello stesso tempo luogo di terribili tentazioni. Le risposte che Gesù dà al diavolo sono tutte citazioni prese dal libro del Deuteronomio (Dt 8,3; 6,16; 6,13), soprattutto da quel capitolo 6 che contiene la professione di fede del pio israelita, lo Shema Israel.

D’altro canto, è caratteristico che l’antifona di ingresso della messa di oggi sia la ripresa di un versetto del Salmo 90, di cui si serve anche il diavolo nel suo secondo attacco a Gesù: “Egli mi invocherà e io lo esaudirò; gli darò salvezza e gloria, lo sazierò con una lunga vita”. Il salmo 90, nella tradizione ebraica, è il salmo che chiude la celebrazione del sabato. Dopo aver goduto della luce e della gloria della presenza del Signore nella meditazione della sua parola per tutta la giornata, all’appressarsi del nuovo giorno della settimana, quando le occupazioni quotidiane riprenderanno con il loro fardello di preoccupazione, di fatica e di tentazioni, il fedele supplica fiducioso: la gloria di questo santo giorno si estenda nella settimana per essere custodito nella pace del Signore. L’invocazione corrisponde a ciò che la colletta fa pregare: “concedi ai tuoi fedeli di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e di testimoniarlo con una degna condotta di vita”.

Cogliere la dinamica specifica delle tentazioni di Gesù significa individuare l’illusione con cui il diavolo vuole estendere al mondo la gelosia che lo divora e di cui ne facciamo amaramente le spese. Per Gesù le tentazioni riguardano il potere di trasformare in pane le pietre, di buttarsi dal pinnacolo del tempio e cadere illeso, di possedere i regni di questo mondo se solo accettasse di prenderli dal diavolo.

Il riferimento a Dio suggerito dal diavolo è ingannevole, perché il destinatario ultimo dei miracoli non è Dio, ma lui stesso. Così se mai Gesù avesse accolto l'inganno, non si sarebbe trovato dalla parte di Dio, ma del diavolo; vale a dire non avrebbe portato a compimento la missione affidatagli da Dio, ma ne avrebbe pervertito il senso a danno degli uomini e li avrebbe condannati alla disperazione.

Consideriamo la tentazione dalla parte del diavolo. Quale sarebbe l’esito per noi se acconsentissimo? Ci ritroveremmo condannati a queste illusioni:

-          all’oppressione dell’esibizione del nostro potere, che in realtà ci allontana dalla vita, perché rende tutto il resto insignificante;

-          all’ipertrofia di se stessi a tal punto da servirci persino di Dio per riempire la scena;

-          alla tirannia della gloria effimera di questo mondo che vuole la nostra vita.

In realtà la posta in gioco della vita sta in questa corrispondenza: scegliere Dio stando dalla parte degli uomini e scegliere gli uomini stando dalla parte di Dio. Quando questa corrispondenza si spezza – lo scopo del diavolo è proprio quello di pervertirla – allora l’uomo diventa schiavo, perché idolatra. L’intenzione segreta del diavolo la vediamo emergere nella terza tentazione: “[...] se, prostrandoti, mi adorerai”. Sottrarre l’uomo a Dio significa sottrarlo alla gloria che gli spetta. L’uomo schiavo non rientra nel progetto di Dio.

Se consideriamo la tentazione dalla parte di Dio che la consente, vediamo come sia in gioco la verità della promessa di Dio al nostro cuore:

-          ci è promessa la vita, ma non secondo il proprio piacere;

-          ci è promesso il soccorso, ma dentro una provvidenza che impariamo ad accogliere;

-          ci è promessa la gloria, ma non per i propri interessi.

Le parole di satana nella seconda tentazione sono rivelate in tutta la loro portata nel momento cruciale della vita di Gesù allorché, appeso in croce, si sente apostrofare: "Ha salvato altri e non può salvare se stesso! È il re d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui. Ha confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: Sono Figlio di Dio!" (Mt 27, 42-43). Vi sono racchiuse in sintesi tutte e tre le tentazioni. Nella logica del maligno, di cui gli uomini fanno le spese nella loro vita, veramente Gesù non può salvare se stesso (non si sfama con un miracolo), non può dimostrare nulla (non si butta dal pinnacolo) e non viene liberato dalla morte (adora davvero Dio solo). Eppure, proprio quel non salvare se stesso, non voler dimostrare nulla, non essere liberato dalla morte, comporterà la rivelazione del vero amore di Dio che riempie la sua vita e che riverbererà sul cuore degli uomini che non vorranno più illudersi.

La penitenza quaresimale va diretta contro l'illusione. Le risposte di Gesù frantumano l'illusione con la quale il diavolo irretisce per impedirci di essere liberi e veritieri. E lo scopo del vincere l'illusione lo rivela assai bene s. Francesco nel suo commento al Padre nostro: “sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra: finché ti amiamo con tutto il cuore, sempre pensando a te; con tutta l'anima, sempre desiderando te; con tutta la mente, orientando a te tutte le nostre intenzioni e in ogni cosa cercando il tuo onore. E con tutte le nostre forze, spendendo tutte le nostre energie e sensibilità dell'anima e del corpo a servizio del tuo amore e non per altro; e affinché amiamo il nostro prossimo come noi stessi, trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo amore, godendo dei beni altrui come dei nostri e compatendoli nei mali e non recando offesa a nessuno”. È l'illusione infranta, la libertà acquisita, lo spazio nuovo dell'umanità da riempire.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo di Quaresima

 

II  Domenica

(16 marzo 2014)

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Gn 12,1-4a;  Sal 32;  2 Tm 1,8b-10;  Mt 17,1-9

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Il cammino quaresimale porta alla Pasqua di risurrezione, ma la Chiesa sa che prima dell'esultanza della risurrezione viene il dramma della morte. I due aspetti del mistero sono inscindibili, ma il nostro cuore, che vive gli eventi in modo graduale e distinto,  è ancora lontano dal poter percepire la realtà nella sua globalità. Così, prima di ritrovarci immersi nel dramma della passione e della morte, la liturgia ci 'consola' con la visione della trasfigurazione, allo scopo di insegnarci a vedere nel volto martoriato e insanguinato il Volto del Signore della gloria. Se la cosa non ha funzionato con gli apostoli, in quanto si sono ritrovati confusi e smarriti nel momento del dolore, loro che la visione l'hanno goduta con i loro propri occhi, vuol dire che anche per noi le cose non andranno diversamente. Ma se non andranno diversamente, allora anche noi, nello smarrimento, dopo lo smarrimento, causato dai nostri peccati, resteremo in attesa della visita di quello stesso Signore che ci ha attirati con lo splendore del suo Volto e ci rivelerà il senso della sua e della nostra vicenda donandoci la sua pace e la sua gioia.

Il vangelo parla specularmente di due monti, del Tabor e del Golgota, il monte della trasfigurazione e il monte della crocifissione. Quale nesso unisce i due? Il Signore, sul Tabor, si tras-figura, si mostra 'oltre' la propria figura: "E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce". (Mt 17,2). Sul Calvario invece si presenta s-figurato, senza bellezza. Ora l'evento della trasfigurazione è posto direttamente in rapporto alla passione, al momento della crocifissione sul Golgota, allorquando gli occhi dei discepoli vedranno, scandalizzati, non più l'oltre, ma l' al di qua della figura. Echeggiando le parole del profeta Isaia: " ... tanto era sfigurato per essere d'uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell'uomo" (Is 52,14).

Noi siamo in attesa di entrare, con la risurrezione, in un mondo nuovo, 'trasfigurato', allorquando le figure mostreranno in modo pieno e perenne il loro 'oltre'. Ma ora, nella storia, nella nostra storia, le figure restano tali e non mostrano facilmente il loro 'oltre', che non è distinguibile con gli occhi della carne. E' però accessibile alla visione interiore quando gli occhi sono puliti ed il cuore puro, quando lo splendore di cui sono intessute le creature fa presa sul nostro cuore.

Quando nel 'Padre nostro' invochiamo: "sia santificato (=glorificato) il tuo nome", chiediamo appunto questo: Signore, rivelati nella tua verità, rivela il tuo volto al nostro cuore! Se il Signore si rivela al nostro cuore, allora anche le cose si rivelano e solo allora potremo cogliere il loro ‘splendore’, il segno della gloria di Dio diffusa su tutto il creato, perché tutte le cose ci parleranno della gloria di Dio, vale a dire del suo amore per noi.

Perché essenzialmente di questo si tratta in quanto tutto qui si riassume: "Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo”. La tensione del mostrarsi di Dio all'uomo converge verso questo unico punto: conoscere il suo Figlio prediletto, vedere il suo Volto. Ma anche la tensione del cuore dell'uomo, che cerca vita e vita che duri, in questo unico punto trova compimento. Ascoltarlo significa percepire che la vita consiste in questo immergersi e ritrovarsi nello splendore del suo Volto, significa vedere se stessi, le cose, il mondo, la storia, da dentro il rapporto, accettato, con questo Figlio prediletto. Ed è per questo rapporto accettato che, per noi come per Pietro e gli apostoli, si rivela al nostro cuore quanto è bella la visione, quanto è drammatico il rinnegamento, quanto penetrante lo sguardo del Signore su di noi, quanto persuasive le sue parole, quanto tenere le intimità godute, quanto angosciante la lontananza, quanto forte e costringente il suo amore.

Come anche per Abramo: avendo accettato la relazione con il Signore che lo coinvolgeva nella sua storia sacra, lascia la sua casa ("vattene dalla tua terra" = se scegli il Padre celeste, devi lasciare quello terreno; se scegli il regno di Dio, devi lasciare ogni altro regno; se ti accetti da Dio, di Dio e secondo Dio devi vivere) e proprio per questo però diventa benedizione per tutti perché rivela la grandezza dell'amore di Dio e permette allo splendore delle cose, che da Dio derivano, di manifestarsi. La missione della chiesa, la carità evangelica non ha altro scopo se non quello di far rilucere lo splendore che persone e cose portano racchiuso. Il senso dell'ascesi quaresimale ha lo stesso scopo. Dentro un unico mistero: vedere il Volto del Figlio prediletto.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo di Quaresima

 

III  Domenica

(23 marzo 2014)

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Es 17,3-7;  Sal 94;  Rm 5,1-2,5-8;  Gv 4,5-42

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Delle catechesi battesimali che accompagnano i fedeli che si preparano al battesimo che verrà celebrato nella veglia pasquale, quella di oggi è la prima. Nel colloquio con la samaritana al pozzo di Giacobbe Gesù si definisce Acqua viva, sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna. Nella prossima, con la vicenda del cieco nato, Gesù è definito Luce; nella terza, con la risurrezione di Lazzaro, Gesù si presenta come Vita.

Del resto, le liturgie quaresimali sanno indicarci i percorsi della conversione del cuore con le domande di fondo essenziali. Una di queste domande, forse non sempre espressa, ma continuamente serpeggiante nel cuore, è quella del popolo di Israele, esasperato nel deserto dalla fame e dalla sete: “Il Signore è in mezzo a noi sì o no?”. La domanda del popolo non è provocatoria o irriverente; semplicemente, è angosciante: il Signore è con noi? Ogni prova fa emergere il dubbio: ma Dio vuole davvero il nostro bene? L’insinuazione dell’antico serpente disturba i sogni di felicità dell’uomo.

Proprio a questa domanda risponde il brano del vangelo. Il cuore dell’uomo non ha bisogno di qualche miracolo, ogni tanto, da parte di Dio; ha bisogno di Dio, sempre, ma percepito, scoperto vicino, toccato, sentito, visto, amato e cercato con ardore. L’acqua che Gesù promette alla samaritana è l’acqua di una sorgente zampillante che continuamente butta, e da dentro il proprio cuore.

La difficoltà per noi deriva dal fatto di sentirci stranieri a casa nostra, perfino nel nostro cuore. Il brano dell'incontro di Gesù con la samaritana è uno di quei brani di cui ci sfuggono continuamente le allusioni dandoci netta l’impressione di sentirci davvero stranieri in casa nostra. Il brano acquista ben altre risonanze se teniamo presenti le reminiscenze legate al luogo, Sichem (cfr. Gen 12,6; 34; 37; Gs 24; 1Re 12) e soprattutto al pozzo. Nota era la leggenda targumica legata al pozzo di Giacobbe raccontata a commento del passo di Gen 29,10, quando Giacobbe leva la pietra dal bordo del pozzo per dare da bere al gregge di Labano: “Quando il nostro padre Giacobbe levò la pietra da sopra la bocca del pozzo, la fonte zampillò su e venne alla sua bocca e zampillava e veniva alla bocca per vent’anni – tutti i giorni che abitò ad Haran”. Nel sogno popolare il pozzo di Giacobbe trasbordava spontaneamente, senza bisogno di attingere e irrigava, con i suoi quattro bracci, tutto il campo di Israele come il fiume del paradiso terrestre in Gen 2,10-14. Quando la samaritana si rivolge a Gesù come a uno che si vorrebbe più grande di Giacobbe, allude esattamente a quel ‘sogno’ e rivela indirettamente che Gesù è proprio colui che quel sogno realizza per l’uomo. Dire che la samaritana ha avuto cinque mariti e che quello che aveva non era suo marito vuol dire alludere al trasferimento di cinque popolazioni pagane in Samaria per opera del re di Assiria (cfr. 2Re 17,24) e al traviamento rispetto all’alleanza con il Signore non più servito in santità.

È anche possibile leggere il brano con le allusioni alla passione del Signore: l’ora sesta è l’ora in cui ha luogo la crocifissione; la sete di Gesù allude alla sua sete degli uomini, che manifesta sulla croce; l’acqua che zampilla fa riferimento al costato, aperto dalla lancia del soldato, da dove fuoriescono sangue e acqua; la proclamazione finale dei samaritani che Gesù è il salvatore del mondo allude al riconoscimento sotto la croce che Gesù è davvero Figlio di Dio.

Il brano poi è suddiviso in due scene: il colloquio con la samaritana incentrato sull’immagine dell’acqua e il colloquio con i discepoli incentrato sull’immagine del cibo. Ci sono due tipi di acquietamento della sete e della fame che non soddisfano l’uomo alla ricerca di relazione, di senso, di vita, di felicità. Voler praticare la Legge come un assolvimento di obblighi e una esibizione di innocenza provoca delusione e tristezza. Non è questa l’adorazione in spirito e verità che cerca il Signore. Il punto nevralgico del racconto dei due colloqui è dato dal fatto che l’uomo, desideroso di acqua viva e cibo vero, si trovi aperto alla rivelazione donata da Dio: lì davanti c’è colui che, unico, ha il potere di dare la vita, di fornire la fonte dell’acqua, di dare il cibo di vita eterna, il suo stesso corpo. “Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio unigenito…”: cogliere questa rivelazione in quell’uomo che ti parla, che ti ha voluto incontrare, che ti segue nei meandri del tuo cuore e che, facendoti emergere il desiderio di verità e di vita che vi sta sepolto, lo può soddisfare, è il mistero della conversione. Conversione che si riassume nell’espressione della Scrittura: ‘guarderanno a colui che hanno trafitto’, vale a dire: incontro rigenerante con colui che ti disseta e sfama con l’amore che quella ferita ha mostrato al mondo. Quando, rimirando quell’innocente appeso sulla croce, ci si rende conto del mistero dell’amore di Dio che è arrivato agli uomini, allora la parola di verità ascoltata si fa parola vera del mio cuore, la promessa di vita diventa vita mia, la sua sete e fame di noi si fa acqua e cibo per la vita del nostro cuore, dono di Dio e volontà di bene di Dio per noi.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo di Quaresima

 

IV  Domenica

(30 marzo 2014)

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1 Sam 16, 1b.4a. 6-7. 10-13a;  Sal 22;  Ef 5, 8-14;  Gv 9, 1-41

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I vangeli della terza, quarta e quinta domenica di quaresima sono letti in chiave battesimale dalla Chiesa. In particolare, i tratti che avevano definito la venuta del Cristo nel prologo del vangelo di Giovanni (“in lui era la vita e la vita era la luce degli uomini ... Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo”), con il vangelo del cieco nato e della resurrezione di Lazzaro si impongono alla coscienza dei fedeli.

Il fatto che i ciechi vedranno appartiene all’immaginario messianico. Si veda Is 29,18; 35,5; 42,6-7; 49,9. Sempre Isaia prospetta la rivelazione di Dio al popolo in termini di luce: “Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla su di te …” (Is 60,1-2). E se teniamo conto della prima lettura con l’episodio della consacrazione regale di Davide da parte del profeta Samuele, allora possiamo comprendere l’immagine della luce in termini molto concreti, come avverrà per il cieco guarito. La luce, sempre allusiva del battesimo, è l’irradiazione della santità di Dio nelle nostre persone rese re-sacerdote-profeta, secondo l’umanità di Gesù. E potremmo spiegare così: chi non serve nessun idolo non è schiavo di niente (re); chi sa benedire per ogni cosa il suo Dio celebra il culto a lui gradito (sacerdote); chi si fa illuminare dalla Parola di Dio non può che annunciare al mondo il mistero di Dio che si è fatto prossimo all’uomo (profeta).

E proprio perché Gesù è questa luce di santità di Dio che irradia dalla sua umanità, può rimodellare la nostra umanità e schiuderla al Regno, alla Presenza.

Nel brano evangelico odierno ci sono molti particolari che vanno raccordati tra loro per cogliere il segreto del racconto. Il capitolo 8 di Giovanni si era concluso con l’annotazione che Gesù deve nascondersi e uscire dal tempio perché lo vogliono lapidare. E proprio nell’uscire dal tempio vede il cieco. Non lo guarisce subito, ma gli ordina di andare a lavarsi alla piscina di Siloe dopo aver impastato del fango con la sua saliva e averglielo spalmato sugli occhi. Va notato che impastare fango e applicarlo agli occhi in funzione terapeutica era espressamente proibito di sabato secondo l’interpretazione rigorista della Legge. La piscina di Siloe si trova ai piedi dello sperone meridionale della collina su cui sorgeva il tempio e quindi era fuori dalle mura della città. Il nome, Siloe, di per sé significa ‘canale inviante’ o ‘acqua inviata’, acqua che veniva portata al tempio per le abluzioni per la liturgia della festa delle Capanne. Alla fine nessuno crede a partire dal miracolo, che anzi viene messo in sordina per sottolineare l’ostilità crescente verso il profeta che l’ha compiuto.

Quando Gesù dice “Io sono la luce del mondo” non si può non risalire al racconto della creazione in Genesi 1,3, quando fu creata la luce. Non è semplicemente la luce fisica, quella che deriva dal sole, creato solo nel quarto giorno. È la luce della santità amorevole di Dio che attraversa il mondo, luce che è stata nascosta. È la luce che fa intuire il mondo dentro uno sguardo unico. È la luce che il messia rivelerà. È la luce che Gesù ha fatto risplendere liberando gli uomini succubi del serpente che li ha privati della gloria di Dio. Come fa pregare la preghiera dopo la comunione: “O Dio, che illumini ogni uomo che viene in questo mondo, fa risplendere su di noi la luce del tuo volto [il Signore nostro Gesù Cristo], perché i nostri pensieri siano sempre conformi alla tua sapienza e possiamo amarti con cuore sincero”.

Il brano non è costruito sul fatto in sé, sul miracolo, ma su chi lo compie. Così, le domande più pertinenti a cogliere il senso del brano sono le domande attorno a quel profeta che ha compiuto quel gesto: “Dov’è costui?... Che cosa dici di lui? … E chi è, Signore, perché io creda in lui?”. Sotto quelle domande ce ne sta un’altra: “Come può un peccatore compiere segni di questo genere?”, espressa dai farisei e ripresa dallo stesso cieco guarito, eco della interrogazione degli apostoli con la quale si apre il racconto. Passando davanti al cieco dalla nascita gli apostoli domandano: “Rabbi, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?”.

La domanda esprimeva il tentativo di sfuggire all’angoscia del male da parte di una coscienza religiosa. Noi non formuleremmo più la domanda in quei termini, ma non per questo l’interrogativo di fronte al male ha perso la sua angoscia lancinante. Gesù non dà risposta in termini ‘ragionevoli’. Invita più semplicemente, ma più potentemente, a distogliere lo sguardo dal passato e volgerlo al futuro: “è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. Cosa significa? Vuol solo dire che si appresta a fare il miracolo? Gesù fa capire che sarebbe inutile cercare la causa indietro; ci inchioda al non-senso e alla rabbia della frustrazione. La motivazione va cercata in avanti, rispetto a un qualcosa che per noi deve ancora farsi, deve ancora rivelarsi. La vita scaturisce dalla fede nel senso che la si può vivere fidandoci del Bene di Colui che ci è venuto incontro e ci ha mostrato il suo Volto. Del resto, il mistero dell'amore umano trova qui le radici del suo insopprimibile fascino, nonostante le ferite e le delusioni alle quali così spesso ci condanna.

Non stare inchiodati al passato significa percepire che Qualcuno si è mosso per venirci incontro. Nel caso del cieco, non è lui a chiedere la guarigione: l’iniziativa è di Gesù. Lui ha fiducia e va a lavarsi alla piscina di Siloe. I vari personaggi che entrano in gioco nella scena del racconto tendono a inchiodare il cieco alla sua storia. I discepoli di Gesù lo vedono sotto il peso del castigo di Dio; i farisei si tengono a distanza per paura di dover trarre le conseguenze dall’evidenza di un miracolo del genere e gli rinfacciano perciò la sua ‘nascita nei peccati’ (in questo, dimostrandosi ‘veri ciechi’, come dirà Gesù alla fine); i suoi genitori se ne stanno da parte per timore. Lui, invece, forte della gioia della sua guarigione, sa tener testa a tutti e proprio perché nessuno gli sta attorno amichevolmente, quando Gesù si fa vedere da lui, è pronto a riconoscerlo non semplicemente come il suo guaritore, ma come colui che gli ha aperto la visione della vita: “Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12), ripreso nel canto al vangelo.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo di Quaresima

 

V  Domenica

(6 aprile 2014)

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Ez 37, 12-14;  Sal 129;  Rm 8,8-11;  Gv 11,1-45

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Gesù, che ha appena saputo della malattia mortale del suo amico Lazzaro, non si muove subito: “Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perché per essa il Figlio di Dio venga glorificato”. Quando Marta, davanti al sepolcro del fratello, ricorda a Gesù il fetore dei morti, si sente dire: “Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?”. Sembra che la domanda di fondo che serpeggia per tutto il brano non sia: perché la morte?, ma: perché Dio ritarda? Perché Dio non impedisce la morte? Gli amici della famiglia di Lazzaro così pensano. Per noi invece la domanda che rimbalza può essere formulata così: sarà mai possibile vedere la gloria di Dio nella nostra vita?

È la stessa domanda della fede di Marta, che inaspettatamente risponde a Gesù, non di credere a quello che gli ha detto, ma: “Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo”. Non dice: io credo che tu hai il potere di far risorgere i morti, ma piuttosto: io credo che tu sei il Figlio di Dio. Afferma la verità del suo incontro con lui, del suo amore; ha piena fiducia in lui. Per questo potrà vedere la gloria di Dio. E sarà per questo che potrà seguire il suo Gesù, con sua sorella Maria, fino alla fine, fino a che la sua glorificazione appaia al mondo. Il vedere Gesù che fa ritornare in vita Lazzaro non induce ad una esaltazione della sua persona, ma fa presagire come e perché Gesù abbia tale potere e quindi mette in risalto la sua disponibilità a morire per manifestare in tutta la sua potenza l'amore del Padre, da cui scaturisce la sua glorificazione e la vita per noi.

La fede apre ad una vita che consiste nel vedere la gloria di Dio. Ma di quale gloria si tratta? È sempre questo il punto misterioso del discorso e dell’agire di Gesù. Quando il seguito del vangelo confermerà che effettivamente Gesù viene condannato alla morte di croce, l’evangelista parla proprio di glorificazione. E non allude semplicemente alla glorificazione che seguirà la morte in croce quando risorgerà, ma al mistero di quella gloria che consiste nella rivelazione di quanto Dio ami gli uomini. È nell’amore di Dio che arriva agli uomini che va cercato il senso della gloria di Gesù. Gloria che si fa rivelazione e dono di una vita ormai definitivamente segnata da quell’amore, di cui lo Spirito ci fa partecipi. Di questo è segno il miracolo della risurrezione di Lazzaro.

La colletta fa pregare: “Vieni in nostro aiuto, Padre misericordioso, perché possiamo vivere e agire sempre in quella carità che spinse il tuo Figlio a dare la vita per noi”. Quella carità è il frutto della sua glorificazione che ci viene elargito dallo Spirito Santo. Il combattimento spirituale, la lotta contro il male, l’osservanza dei comandamenti altro non è che una partecipazione alla potenza della risurrezione, allorché la vita viene vissuta nella carità del Cristo che niente e nessuno può mortificare. È il principio della vita eterna, quello di una vita che non abbia altra consistenza se non come carità. L’incontro con Gesù apre a questa dimensione. Se lui è ‘datore di vita’ lo è perché, facendo vivere nella sua carità, impedisce alla morte di tenere prigioniero il nostro cuore.

Il nostro gridare, nel salmo responsoriale, a commento del passo di Ezechiele che riporta la promessa di Dio di aprire le nostre tombe in riferimento alla liberazione del popolo da Babilonia: “Dal profondo [secondo la versione greca: Dalle profondità] a te grido, o Signore; Signore, ascolta la mia voce”, deriva dalla coscienza della nostra mortalità, non semplicemente come termine della vita biologica, ma come abisso della mortificazione della vita che stenta ad accedere alla carità di Dio. Quella ‘mortificazione della vita’ il Signore vince. È interessante osservare che l’episodio della risurrezione di Lazzaro si chiude non con il riconoscimento o l’incontro affettuoso di Lazzaro con Gesù, ma con il comando: “Scioglietelo e lasciatelo andare”. Corrisponde all’invito di Gesù, dopo i miracoli di guarigione: ‘va’, la tua fede ti ha salvato’. Venire a Gesù (questo potrebbe anche voler significare il grido di Gesù: Lazzaro, vieni fuori!) comporta vivere della sua vita, della vita che lui può dare e lo spazio di espressione di questa vita è ormai dato dalla fraternità che si vive nel mondo. A questa Gesù rimanda.

Un’ultima annotazione. Con il miracolo della risurrezione di Lazzaro Gesù scatena la sua ora, come la finale del capitolo sottolinea espressamente: “Ma uno di loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell'anno, disse loro: "Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera". Questo però non lo disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,49-52). Lo scopo e la ragione del suo agire, sottolineato dal potere di fare miracoli, di cui questo della risurrezione di Lazzaro è il settimo nel racconto di Giovanni, si manifesteranno chiaramente con la sua stessa morte e risurrezione.

Se Gesù non ha voluto risparmiare la prova ai suoi amici e viene a condividerla, tanto da restarne intimamente e profondamente scosso, la ragione è da ricercare nel fatto che così facendo si espone alla sua prova, anzi la provoca con l'arresto e la morte imminenti. Ma la sua non è una semplice condivisione della sofferenza umana. Il suo rendere grazie l'attraversa, la porta fino in fondo. È però più forte della morte e se esulta, non è per aver impedito il suo corso, ma per aver trionfato su di essa dopo averle lasciato esprimere tutto il suo potere.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo di Quaresima

 

DOMENICA DELLE PALME E DELLA

PASSIONE DEL SIGNORE

(13 aprile 2014)

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COMMEMORAZIONE DELL'INGRESSO DI GESÙ IN GERUSALEMME

Mt 21,1-11

PASSIONE DEL SIGNORE

Is 50,4-7;  Sal 21;  Fil 2,6-11;  Mt 26,14-27,66

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La liturgia della domenica delle Palme introduce alla settimana cruciale per la storia del mondo, quella che permette una visione d'insieme della creazione e della storia dell'umanità: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito ... per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 3,16 e 11,52). Le celebrazioni di questa settimana mostrano fino a che punto Dio ha amato il mondo, fino a che punto Gesù ha obbedito a questo amore, fino a che punto l'uomo è prezioso agli occhi di Dio, cioè fino a una misura sconfinata.

L’arrivo a Gerusalemme di Gesù, nella narrazione di Matteo, è preceduto dalla guarigione a Gerico di due ciechi, dei quali si dice: “Gesù si commosse, toccò loro gli occhi e subito ricuperarono la vista e lo seguirono” (in Marco il racconto si riferisce al cieco Bartimeo di cui si dice: “Subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada”). Quella strada portava a Gerusalemme. C’è bisogno di avere gli occhi aperti per cogliere il senso dell’arrivare di Gesù a Gerusalemme. Qui porta il suo cammino, qui lo spinge la sua vocazione, qui si compie quel disegno del Padre che Gesù andava illustrando con le sue parole e con i suoi atti, sebbene nessuno, neanche i suoi discepoli, fosse ben consapevole della posta in gioco.

Secondo la profezia messianica di Zaccaria 9,9-10, Gesù entra in città seduto sull’asina, tra i gesti di devozione dei discepoli e della folla che stendevano al suo passaggio i loro mantelli. La scena ha sapore regale perché ricorda la proclamazione di Salomone come re di Israele sulla mula di Davide (1Re 1,33-34); ricorda i patriarchi (Abramo si incammina verso il monte Moria per il sacrificio di Isacco a dorso di asino); richiama il re Messia mite e pacifico, che disdegna i cavalli perché simbolo di guerra.

Nel particolare delle fronde tagliate riecheggia il sal 117,27: “Formate il corteo con rami frondosi fino agli angoli dell’altare” allorquando i sacerdoti dal tempio benedicevano i pellegrini che vi salivano dicendo: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore … Dona, Signore, la tua salvezza [= Osanna]”. La citazione risulta ancor più misteriosa se si tiene conto dell’antica versione aramaica: “Legate la vittima per la festa con rami frondosi fino agli angoli dell’altare”. A Gesù si fa festa perché è la vittima prescelta, ma nessuno ancora lo sa se non lui. L’acclamazione dell’Osanna era già risuonata sulla bocca degli angeli alla nascita di Gesù e risuona ora sulla bocca dei discepoli per la sua morte.

Dal tripudio dell'ingresso in Gerusalemme la celebrazione passa repentinamente al dramma del racconto della passione, che dischiude direttamente il clima della settimana santa. La prima lettura riporta il terzo carme del Servo del Signore: “Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi”, commentato dal salmo 21, straordinaria testimonianza profetica della passione di Gesù. La seconda lettura riprende l’inno di Paolo nella sua lettera ai Filippesi: “ .. svuotò se stesso assumendo una condizione di servo … umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”. L’aspetto straordinario di rivelazione di questo testo paolino è dato dal fatto che il movimento di svuotarsi (non ritenere un privilegio l’essere come Dio) continua anche nel suo essere uomo perché vive la sua umanità nel farsi servo, nel farsi schiavo fino a essere calpestato e ucciso. Però Gesù vive la sua umanità nell’obbedienza, vale a dire nella condivisione più intima dell’amore del Padre per i suoi figli, di cui Gesù è il Testimone per eccellenza. Così il suo svuotarsi diventa un inno d’amore, il dono di accessibilità per tutti a godere di questo grande amore: è tutto il mistero della redenzione.

Per tutta la settimana santa si leggerà il libro del profeta Isaia nei quattro canti del Servo del Signore (cap. 42, 49, 50 e 53) che, insieme al salmo 21, costituiscono le testimonianze profetiche per eccellenza della passione di Gesù. Sono quei versetti a costituire la cornice di riferimento per lo svolgimento dei riti santi e sono quei versetti a esprimere la profondità e la tenacia dell’amore di Dio per l’uomo, così prezioso ai suoi occhi. Le espressioni sono altamente drammatiche ma l’esito colmo di speranza. Dalle prime parole del salmo: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” si arriva alle ultime, già piene del frutto di grazia ottenuto: “E io vivrò per lui, lo servirà la mia discendenza. Si parlerà del Signore alla generazione che viene; annunceranno la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno: Ecco l’opera del Signore!”. Ma il tragitto passa per momenti estremamente oppressivi: “Ma io sono verme e non un uomo, rifiuto degli uomini, disprezzato dalla gente … Hanno scavato [forato] le mie mani e i miei piedi. Posso contare tutte le mie ossa…” (Sal 21). Parole ancora piene degli echi del profeta Isaia che descrive il Servo del Signore così: “Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire ... Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti” (Is 53). Parole e echi che si concretizzano in quell’uomo, inviato da Dio, vilipeso, schiacciato, deriso, torturato, crocifisso, che noi contempliamo nelle celebrazioni pasquali, il nostro Signore Gesù Cristo, che per noi ha patito, è morto e risorto, in obbedienza in tutto all’amore del Padre per noi.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo di Pasqua

 

Pasqua di Risurrezione del Signore

(20 aprile 2014)

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At 10, 34a. 37-43; Sal 117; Col 3, 1-4; Gv 20, 1-9

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Beato colui che nell’Uomo sofferente, di cui i riti della settimana santa hanno commemorato la passione gloriosa, ha visto il Figlio di Dio, il Testimone dell'amore del Padre. Beato colui che lo scandalo della croce non spezza, non deturpa, non divide da Dio e dagli uomini. Beato colui che ha l'intelligenza spirituale allenata per cogliere nella passione gloriosa di Gesù il mistero dell'amore di Dio per gli uomini e la dinamica di vita eterna di cui ci rende partecipi con il dono del suo Spirito.

Nell’annuncio al mondo della risurrezione di Gesù la Chiesa proclama che vivere nel Signore risorto ormai significa vivere in Colui che ci partecipa il suo Amore tanto da farlo diventare in noi radice di vita, scopo supremo dell'essere e dell'agire. Per avvicinare i cuori degli uomini Dio ha messo da parte la sua potenza preferendo la debolezza (cfr Fil 2,8). Questa debolezza di Dio non svela solo l'immensità dell'amore di Dio per l'uomo, ma anche il bisogno dell'uomo per essere tale, compiuto nella sua umanità. Ed il mistero scaturisce proprio qui: l'uomo, per scoprire la sua umanità, non può non guardare a questa debolezza di Dio. Tutto ciò che è fuori da tale debolezza, risulterà illusione e causerà ulteriore sofferenza, ma sorda, tragica, insensata, che porterà divisione e non comunione, che porterà rabbia e non riposo. La gioia pasquale lo proclama.

Lungo la settimana santa più volte era risuonata la profezia di Isaia: “Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli” (Is 53,11-12). Espressioni che nella traduzione letterale del testo ebraico sono ancora più potenti: “ … poiché ha versato la sua vita nella morte …”. Questo ha fatto Gesù: non ha trionfato sulla morte eliminandola o scartandola ma entrandoci con la sua vita. La veglia pasquale ce ne ha dato l’esperienza: se la morte è l'ultimo nemico che deve essere annientato, allora vuol dire che non c'è nemico che abbia potere su Colui che l'ha vinta. E se l'ha vinta come primogenito di tanti fratelli, allora vuol dire che la sua stessa vita, non più segnata dalla morte, diventa la nostra vita, quella che può segnare e vivificare il nostro vivere quotidiano, sempre tallonato e ferito dalla morte e spirituale e fisica.

Nella lettera agli Ebrei si legge: "Avendogli assoggettato ogni cosa, nulla ha lasciato che non gli fosse sottomesso ... Però quel Gesù ... lo vediamo ora coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli sperimentasse la morte a vantaggio di tutti. Ed era ben giusto che colui, per il quale e dal quale sono tutte le cose, volendo portare molti figli alla gloria, rendesse perfetto [=portasse a compimento, facesse raggiungere lo scopo per il quale è venuto] mediante la sofferenza il capo che guida alla salvezza" (Eb 2,8-10). E che cosa Gesù ha portato a compimento se non la pace tra Dio e gli uomini, tra gli uomini ed i loro simili? E quando la Chiesa esulta nell’inno pasquale (“Irradia sulla tua Chiesa la gioia pasquale, o Signore, unisci alla tua vittoria i rinati nel battesimo”) allude alla gioia che per noi si risolve nell’esperienza del suo dolce perdono: “Tu, o Cristo, sei il nostro dolce perdono. Fa’ che di Te in ogni istante io mi sappia rivestire e non abbia potere su di me la miseria con cui mi vedo e mi sento. Con le tue ferite risanami, che io respiri e viva del tuo sguardo verso il Padre. Nelle tue piaghe nascondimi, che il sentimento della mia malinconia non si erga a obiezione della tua grandezza. Lasciami entrare nel tuo cuore, che io mi avvolga della sua benevolenza e mi faccia rinascere, finiti i terrori della notte, al mattino della tua presenza”.

La domenica di Pasqua, il giorno uno della settimana, dischiude un tempo completamente diverso, un tempo nel quale tutto ciò che è stato compiuto fino ad ora si rivela come novità. Il primo personaggio che ci conduce alla soglia di questa novità è Maria Maddalena. A differenza dei sinottici, Giovanni non aveva menzionato per la circostanza della sepoltura la presenza delle donne. La mistura di mirra e aloe era stata portata da Nicodemo e Giuseppe di Arimatea. I sinottici narrano dell’arrivo al sepolcro, all’alba, delle donne con gli oli per completare l’unzione del corpo di Gesù. Giovanni sorvola su tutto questo. Parla solo di Maria Maddalena e l’accento è posto sulla motivazione profonda, interiore, della sua presenza al sepolcro. Essa vive un’angoscia personale, un sentimento di assenza irrimediabile; per lei oramai il Signore è l’Assente; non può che sentirlo che così. Per prima vede la pietra del sepolcro tolta via e corre ad avvertire i discepoli: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove lo hanno posto”. Dall’angoscia dell’assenza passa all’angoscia dell’incertezza. Ma Giovanni parla della pietra tolta via dal sepolcro per sottolineare, in questo Giorno della Risurrezione, che viene tolto l’ultimo impedimento alla ‘vista’, alla ‘visione’, come poi il brano dirà a proposito di Giovanni entrato nel sepolcro.

L’episodio dei due discepoli che corrono al sepolcro lo conferma in una tensione crescente per giungere, alla fine, alle straordinarie parole: “Allora entrò anche l’altro discepolo …e vide e credette”. È come una richiesta che viene sussurrata al cuore dei possibili lettori del vangelo, la richiesta di avanzare nella conoscenza del mistero, di salire fino all’intelligenza della risurrezione che viene svelata poco a poco: “Vide e credette”.

La letizia pasquale che, poco a poco, invade e conquista i discepoli e che scaturisce dall’esperienza dell’incontro con lui, vivo, capace di far vincere ogni paura, ha anche a che fare con i tre doni che Gesù conferisce: la gioia, la pace e la libertà. Ma se andiamo a vedere, quei tre doni, tipicamente pasquali, uniti all’esperienza dell’incontro con lui, il Vivente, ci partecipano la sua stessa vita e ci consentono di vivere come lui, vale a dire ci porteranno a poter dire di noi: “e lo amarono sino alla fine’, ‘amarono i loro fratelli sino alla fine’. L’augurio pasquale più bello!

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo di Pasqua

 

II  Domenica

(27 aprile 2014)

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At 2,42-47;  Sal 117;  1 Pt 1, 3-9;  Gv 20, 19-31

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Per tutta l’ottava è risuonata l’acclamazione pasquale: “Questo è il giorno fatto dal Signore: rallegriamoci e esultiamo”, ripresa dal sal 117. Se la risurrezione di Gesù inaugura il giorno fatto dal Signore, si comprende come essa non potesse appartenere all’orizzonte mentale dei discepoli. I racconti di risurrezione lo provano. Ma allora qual è il significato di quei racconti? In Giovanni, a differenza dei sinottici, i racconti delle apparizioni del Risorto non hanno un valore apologetico; non mirano semplicemente a comprovare la ‘realtà’ del corpo risorto di Gesù. La risurrezione di Gesù non è il ‘miracolo’ che può convincere della sua divinità. La fede degli apostoli come quella dei discepoli che li seguiranno, quindi anche la nostra, riposa sempre sulla parola trasmessa con la forza dello Spirito Santo e non sui segni visibili della Presenza. Non esiste ‘evidenza’ costringente del mistero di Dio e del suo amore per gli uomini.

Cosa allora ‘costringe’ il cuore dell’uomo a riconoscere il mistero di Gesù, morto e risorto? Notiamo anzitutto che non si tratta tanto di ‘riconoscere’ che Gesù è davvero risorto, quanto piuttosto di restare intimamente coinvolti nel dinamismo di un rapporto che porta vita e cambia tutto. Se Tommaso, che non era stato presente alla prima apparizione di Gesù, non vuol credere ai suoi compagni, non è per mancanza di fede, ma per eccesso di zelo, come ben si attaglia al suo personaggio, fervido e coraggioso. Ha preso sul serio la storia con Gesù e non vuole alcuna illusoria consolazione. Vuole Gesù e basta. Quando Gesù si ripresenta una settimana dopo e si rivolge a lui con le sue stesse parole, Tommaso non ha bisogno di alcuna comprova (di mettere cioè il dito e la mano nelle ferite), riesce solo a sussurrare: “Mio Signore e mio Dio”, che è la professione di fede più solenne e più intima di tutto il vangelo. La frase conclusiva di Gesù: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!” è spesso letta come un rimprovero nei suoi confronti, ma niente autorizza a leggerla così. Tommaso ha semplicemente avuto quello che è stato concesso agli altri apostoli e la cosa risponde alla promessa di Gesù nell’ultima cena: “Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi” (Gv 14,19-20).

In questa ottica acquista significato un fatto liturgico caratteristico: in tutto il periodo pasquale la prima lettura delle celebrazioni domenicali non è mai presa dall’Antico Testamento. La Chiesa vive il mistero della presenza del suo Signore risorto nella diretta testimonianza degli apostoli e non più nella profezia. Lo sguardo è diretto sul compimento delle profezie, quello stesso compimento che però non è immediato e evidente per noi tanto che la testimonianza degli apostoli diventa per noi come la nuova profezia.

Il mondo non può vedere, il discepolo sì. Ciò significa che in gioco non è un vedere semplicemente con gli occhi, ma un vedere nella fede, un vedere nella luce della compiacenza di Dio per noi. Tommaso è riconosciuto beato non per aver toccato, ma per aver veduto. L’aveva già preannunciato Gesù a proposito della missione degli apostoli allorquando, esultando nello Spirito, aveva innalzato la sua solenne benedizione al Padre: “In quella stessa ora Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo». E, rivolto ai discepoli, in disparte, disse: «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete»” (Lc 10,21-24).

Quando gli apostoli ‘vedono’ Gesù risorto non significa che hanno ‘visioni’, ma più concretamente che ‘il Signore si fece vedere’, cioè sperimentano degli incontri. Ma come un cuore può aprirsi all’incontro se già non tende a colui che desidera vedere? Per questo, nella proclamazione di fede della chiesa nella risurrezione sempre si aggiunge ‘secondo le Scritture’. Gesù è risorto, secondo le Scritture; Gesù risorto apre la mente all’intelligenza delle Scritture. Non è semplicemente il suo ‘essere ritornato in vita’ che costituisce il mistero della risurrezione. Non per nulla, nella narrazione di Giovanni, quando Lazzaro è risuscitato appare avvolto con bende, impedito di muoversi, mentre quando risorge Gesù le bende (i ‘lenzuoli’ funerari) diventano segno di qualcosa d’altro.

Perché però Gesù proclama beati quelli che non hanno visto e hanno creduto? La narrazione evangelica ha presente non semplicemente la cronaca degli eventi pasquali, ma la storia dei credenti. Finirà il tempo di una certa ‘visione’, come finirà il tempo dei testimoni oculari sulla cui autorevolezza coloro che verranno dopo continueranno a credere al Signore Gesù. Quello che non finisce, perché continua eterno il giorno fatto dal Signore, è la possibilità reale dell’incontro, è la percezione della Presenza in mezzo al suo popolo, a cui il dono della pace fa riferimento e di cui la gioia è il segnale per eccellenza.

La prima lettera di Pietro lo dice chiaro riferendosi a coloro che sono venuti alla fede dopo gli apostoli: “voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa” (1Pt 1,8). Per cogliere a fondo il senso si dovrebbe però tradurre: ‘senza averlo visto, voi l’amate; senza vederlo ancora, ma credendo in lui, voi trasalite di gioia’. L’espressione si riferisce a noi, che siamo venuti dopo l’epoca apostolica. L’accento non è più posto tanto sul ‘vedere’ ma sulla ‘fede’ che permette il vedere in modo da avere la vita, la stessa vita che scorre nel Figlio di Dio, morto e risorto. Si passa dalla gioia della presenza ‘vista’ (apparizioni del risorto agli apostoli) alla gioia della presenza percepita (celebrazione dell’eucaristia) fino alla letizia nello Spirito quando si dovrà soffrire per il nome di Cristo perché la sua pace conquisti il mondo intero e la gioia dell’essere in lui riveli a tutti lo splendore dell’amore di Dio per gli uomini. A questo si riferisce la confessione di Tommaso e della chiesa a proposito di Gesù risorto: “Mio Signore e mio Dio!”. E di qui scaturisce la missione nel mondo. Come Gesù è stato inviato dal Padre, così invia gli apostoli. Ciò significa che i credenti in Cristo sono resi partecipi dello stesso amore con cui il Padre ama il Figlio. Gregorio Magno commenta: “Come il Padre mi ha inviato, così anch'io mando voi, vale a dire: quando io vi invio in mezzo agli scandali e alle persecuzioni, io vi amo di quella carità con cui il Padre mi ama, Lui che mi ha inviato alla Passione”. I segni della passione restano nel corpo glorioso del Cristo, a memoria del Suo amore per noi e a ricordare a noi di custodire quell’amore nella passione che ci sarà richiesta.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo di Pasqua

 

III  Domenica

(4 maggio 2014)

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At 2,14a.22-33;  Sal 15;  1 Pt 1,17-21;  Lc 24,13-35

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Nel vangelo di Luca, l’apparizione del Risorto ai discepoli di Emmaus costituisce il racconto più dettagliato ed espressivo delle testimonianze pasquali. I particolari del racconto non esprimono solo quella che potremmo chiamare la relazione dettagliata dell’incontro dei due discepoli con il Risorto, ma tendono a suggerire lo scenario possibile di ogni incontro con Gesù, morto e risorto, per tutti i credenti.

Quando le donne si recano al sepolcro il mattino di Pasqua e non trovano il corpo di Gesù, di loro leggiamo: “mentre si domandavano che senso avesse tutto questo …”. In greco il loro stato d’animo è espresso con un verbo solo, che può essere reso con ‘mentre si trovavano senza via di uscita’. È esattamente il medesimo stato d’animo che alberga nei due discepoli di Emmaus, quando di loro stessi dicono al pellegrino che si è accompagnato a loro lungo il cammino: “speravamo” (“noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele”). Vale a dire: sono venute meno le nostre speranze, siamo interiormente senza via di uscita. Il loro camminare non è per andare a cercare da qualche parte, ma è un tornare indietro, un tornare a casa, tutto come prima! Anzi, peggio, perché almeno prima si aveva speranza di qualcosa, ora si è persa anche quella! E l’evangelista li descrive: ‘col volto triste’.

S. Agostino spiega che lo scandalo della morte di Gesù fu per i due discepoli come una perdita di memoria, con la conseguenza, terribile per l’anima, di non rimanere saldi nelle promesse del Maestro. Ciò che Gesù aveva detto e fatto, ciò che aveva predetto di sé rispetto alla sua morte, di fronte alla delusione e allo scandalo della croce, tutto è come dimenticato.

La vita è spesso una sequenza di delusioni, anche se il cuore non dimentica ciò che lo aveva acceso. Non è scontato e non sembra facile ritornare ad ardere, ma diventa sempre possibile quando non acconsentiamo a chiuderci su noi stessi, tenendo aperta la nostra storia. Sarebbe il senso del vivere la Chiesa e non semplicemente nella chiesa. Sarebbe il senso dello stare continuamente sulle Scritture e nelle Scritture, fino a che si aprono per il nostro cuore e il nostro cuore si apre ad esse. Ciò appunto che ottiene la compagnia del pellegrino, prima misterioso e poi riconosciuto, che si serve delle stesse Scritture, nelle quali anche gli altri credevano, per aprirle alla rivelazione di Dio.

Tutto il racconto sembra in effetti ruotare attorno a due perni: l’azione dell’aprire e l’azione dell’ardere. “Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo … Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero”; “Si fermarono, con il volto triste … Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava [letteralmente: apriva] le Scritture?”. I Padri richiamano molti paralleli scritturistici, in particolare due: l’episodio di 2Re 6,17, quando il profeta Eliseo prega che si aprano gli occhi del servo in modo che possa vedere i carri e i cavalli di fuoco mandati a difesa del profeta e il passo di Lc 12,49 con la dichiarazione di Gesù che lui è venuto a gettare il fuoco sulla terra. E s. Ambrogio commenta: “Ali di fuoco sono, dunque, le fiamme della Scrittura divina”. E Origene: “ … ascoltando le parole divine, si infiammino di fede, brucino di carità, si consumino di misericordia”.

È però caratteristico che i discepoli non riconoscano Gesù quando spiega loro le Scritture, ma quando si dona loro con l’eucaristia. Nella loro esperienza la spiegazione delle Scritture da parte del pellegrino diventa per loro apertura e degli occhi e delle Scritture. Il fatto è che non si può assumere il corpo di Gesù se non accogliendolo ‘secondo le Scritture’. Gesù rimanda alla storia di Dio con Israele, nella quale accogliere la storia di Dio con l’umanità e la nostra, personale, singola storia. Il luogo però in cui il rimando avviene è la chiesa, cioè il luogo della comunione. In quella comunione la nostra vita torna ad avere senso, le nostre delusioni diventano come i segni dei chiodi nel corpo glorioso di Gesù.

Il fatto che Gesù sparisca dalla loro vista appena lo riconoscono significa che il desiderio di vedere il Signore non comporta una ‘beata’ contemplazione, ma il movimento di condivisione di quella comunione che ha riacceso i cuori e la nostra storia, che è storia con Gesù ma anche storia con tutti i nostri fratelli. E se Gesù sparisce dalla vista, una volta che è stato riconosciuto, è perché se ne percepisca la presenza dentro e si traduca in radice di vita potente.

La lettera di Pietro ci descrive come ‘cittadini del cielo’ e ‘stranieri’ in questo mondo, sebbene la cittadinanza celeste si giochi unicamente in questo mondo e proprio a partire dal fatto che l’esperienza della compagnia del Signore risorto, che ci accompagna, sia percepita nella celebrazione eucaristica con l’ascolto della Parola e la comunione del suo corpo. Non per nulla il corpo glorioso di Gesù reca i segni della sua passione d’amore che soltanto in questo mondo poteva ricevere. Ciò significa che tutto può essere riscattato e attraversato dallo splendore di Dio e il luogo da cui questo si esprime è proprio il nostro cuore.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo di Pasqua

 

IV  Domenica

(11 maggio 2014)

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At 2,14a.36-41;  Sal 22;  1 Pt 2,20b-25;  Gv 10,1-10

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La liturgia di questa domenica è intessuta sull’immagine del buon pastore (cfr. Sal 22; 1Pt 2,25; canto al vangelo e colletta), tipica del cap. 10 del vangelo di Giovanni, proclamato la quarta domenica di Pasqua in tutti e tre i cicli A, B e C, suddividendolo in tre parti.   Nel ciclo A il brano si incentra più semplicemente sulla figura della porta: “in verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore”.

Solo Dio è il pastore di Israele; solo lui guida il suo popolo perché se l’è scelto, l’ha posto in essere, gli testimonia il suo amore di predilezione e ne esige la santità corrispondente. Ogni altro che ambisce a pascere Israele a titolo proprio è ladro e brigante.       Gesù è la porta per vedere il Padre, per essere introdotti nell’intimità di vita con lui: “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18); “Chi vede me, vede colui che mi ha mandato” (Gv 12,45).

L’episodio del battesimo al Giordano è qui richiamato in tutta la sua valenza rivelativa: si aprono i cieli, discende lo Spirito, si ode la voce del Padre che lo dichiara luogo della sua compiacenza. Gesù è porta tanto da parte di Dio (lui solo, che ha visto il Padre, lo può rivelare) quanto da parte dell’uomo (lui solo costituisce la chiave di senso che manca all’agire dell’uomo perché lui solo lo apre in verità al compimento della sua vocazione all’umanità come rivelazione di Dio nel mondo).

Per lui si entra per godere l’intimità del Padre e per lui si esce per riversare sul mondo l’amore del Padre. E non c’è timore che valga davanti a tale rivelazione perché Pietro, nella prima lettura, lo dichiara solennemente: “Per voi infatti è la promessa”. Quel Figlio, morto e risorto, è per voi; in lui si compiono e le promesse di Dio e i desideri del cuore dell’uomo. Il salmo responsoriale che ripete: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”, allude prima di tutto al sentimento che si era impadronito del cuore degli ascoltatori di Pietro nel suo discorso di Pentecoste: “All’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore. E dissero a Pietro e agli altri apostoli: ‘che cosa dobbiamo fare, fratelli?’ ” (At 2,37). Dobbiamo guardare a quel Figlio, trafitto, e entrare nella sua vita a noi offerta, senza condizioni.

Il brano evangelico di oggi termina con l’annotazione: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” per continuare subito dopo: “Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore”. A dire il vero il testo greco usa il termine ‘bello’: “Io sono il pastore bello”. Quella ‘bellezza’ allude al fatto di dare la vita per le pecore, motivo della sua discesa dal cielo per mostrare la grandezza dell’amore del Padre per i suoi figli. In quel ‘bello’ c’è l’indicazione del ‘modello’, non tanto nel senso di imitarlo, ma nel senso di indicare l’unica via anche per noi di vedere il volto di Dio. La particolarità dell’immagine di Gesù, pastore bello, sta nel fatto che Gesù non dà semplicemente la vita per noi; fa sì che la sua vita diventi vita nostra.

È il mistero dell’eucaristia, tipica scoperta del tempo pasquale. La sua vita è vita nostra, non solo vita per noi donata. Siamo cioè invitati a vivere della stessa dinamica di vita che caratterizza lui, vita che compie la vocazione all’umanità come rivelazione dello splendore di Dio. Come ricordava Annalena Tonelli nel decifrare il messaggio rivoluzionario dell’eucaristia: “Questo è il mio Corpo fatto pane perché anche tu ti faccia pane sulla mensa degli uomini, perché, se tu non ti fai pane, non mangi un pane che ti salva, mangi la tua condanna… Se non amo, Dio muore sulla terra, che Dio sia Dio io ne sono causa, (dice Silesio), se non amo, Dio rimane senza epifania, perché siamo noi il segno visibile della sua presenza e lo rendiamo vivo in questo inferno di mondo dove pare che lui non ci sia…”.

Quando il salmo 22 proclama che il pastore fa riposare le pecore in pascoli erbosi e presso acque tranquille, allude proprio al dono della sua vita, che è vita eterna, sovrabbondante. Le acque tranquille - in ebraico, le acque di ‘menuchot’- richiamano la creazione del riposo/ristoro nel settimo giorno della creazione. Il testo della Genesi, dopo aver narrato la creazione di tutte le cose, dice: “Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto”. Gli antichi rabbini intravedono un atto di creazione anche nel settimo giorno: “Che cosa è stato creato il settimo giorno? La ‘menuchà’, la tranquillità, la serenità, la pace e il riposo”  (Cfr Gen Rabbà, 10, 9). È lo stato in cui non vi è contesa né lotta, né paura né diffidenza; è felicità, pace e armonia; vita nel mondo futuro, vita eterna. Proprio quella ‘vita abbondante’ che Gesù riconsegna agli uomini che lo accolgono. È la gioia di un amore che non sarà più mortificato da nulla, amore che, testimoniato nel suo splendore sul calvario, è donato come Spirito di vita agli uomini che nel ‘crocifisso’ colgono il compimento della promessa di Dio per l’uomo.

A quel dono anelano gli ascoltatori di Pietro a Pentecoste, come del resto noi tutti quando ci sentiamo  trafiggere il cuore di fronte al Crocifisso. “Convertitevi”: tornate alla promessa di Dio che si è compiuta in quel trafitto, morto e risorto; tornate a sentirvi destinatari della promessa di Dio che ha fatto risplendere in quel trafitto lo splendore del suo amore salvatore, riunendo – come buon pastore – i figli di Dio dispersi. Tornate a dar credito alla potenza salvatrice di Dio che per mezzo di quel trafitto ha realizzato la sua promessa di vita, la quale non è che l’offerta incondizionata della sua comunione perché tutto e tutti possano godere del suo amore.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo di Pasqua

 

V  Domenica

(18 maggio 2014)

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At 6, 1-7;  Sal 32;  1 Pt 2,4-9;  Gv 14,1-12

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L’antica domanda di Andrea e Giovanni che seguono Gesù dopo il suo battesimo al Giordano: “Rabbi, dove dimori?” (Gv 1,38) trova ora risposta. Gesù sta celebrando l’ultima cena, ha appena lavato i piedi ai suoi apostoli, ha preannunciato gli eventi che di lì a poco si scateneranno. I discepoli sono turbati, non comprendono bene cosa stia accadendo, ma Gesù li precede, li orienta, li prepara. Tutto il discorso e le azioni di quella sera, la sera dell’ultima cena, mirano a predisporre gli occhi e il cuore dei discepoli allo svelamento del segreto di Dio che Gesù è.

Gesù vive nel Padre: ecco dove dimora. Ma cosa significa questa rivelazione? Con i tre interventi di Pietro, Tommaso e Filippo, l’evangelista Giovanni racconta lo svelamento del segreto di Gesù.

Pietro protesta: “Signore dove vai? … Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la vita per te!” (Gv 13,36-37). Rispondendogli, Gesù non gli preannuncia semplicemente il tradimento, ma dice anche altro. Gesù non può accettare che Pietro dia la vita per lui. Sarà Gesù a dare la vita perché l’amore del Padre per gli uomini sia noto a tutti gli uomini. Quando segue Gesù, il discepolo non è invitato a sacrificare la sua vita a Dio, ma viene trasformato in dono di Dio sempre più pieno all’umanità, come Gesù. Così l’uomo finisce di percorrere il suo cammino quando giunge a essere dono totale di Dio ai suoi fratelli. Gesù non chiede la vita del discepolo per lui, ma chiede che il discepolo, in lui, dia la sua vita a tutti perché l’amore di Dio splenda nel cuore di tutti e si faccia una sola famiglia.

È interessante osservare che in questo contesto Gesù non chiami la ‘casa’ del Padre come l’aveva chiamata quando aveva scacciato i venditori dal tempio (cfr. Gv 2,16; in greco, casa si può dire al maschile e al femminile; al maschile indica l’edificio, al femminile l’intimità della famiglia). Oramai, Gesù non si riferisce più al tempio per indicare la casa di Dio, ma all’intimità della famiglia, alla comunanza di vita e sentimenti tra Dio e i suoi figli. E quando Gesù spiega il suo ritorno al Padre e il suo venire ai discepoli (un venire che non allude semplicemente al suo ‘farsi vedere’ dopo la risurrezione o al suo ritorno glorioso alla fine dei tempi, ma al suo ‘dimorare’ nei discepoli, alla sua ‘presenza’ potente tra i discepoli, al divenire uno spirito solo con il Signore da parte dei discepoli) usa l’espressione: “perché dove sono io siate anche voi”. L’espressione significa: io sono nell'amore del Padre, anche voi lo sarete; sono il testimone del suo amore in questo mondo e anche voi lo sarete; risplendo della gloria dell'amore del Padre e pure voi risplenderete dello stesso amore. E questo proprio perché sopportando l'ingiustizia e la violenza senza venir meno alla potenza dell'amore, sarà noto a tutti che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato (Gv 14,31) e così l’amore del Padre risplenderà sul mondo.  Di questo amore deve parlare il vostro amarvi vicendevole perché si radica in me; di questo amore deve parlare il vostro amore per i fratelli.

Tommaso insiste: “Non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?”. Tommaso era quello che aveva voluto seguire Gesù fino a morire con lui (cfr. Gv 11,16); sarà quello che non vorrà illudersi sulla risurrezione di Gesù e vorrà tastare il corpo del Risorto per sincerarsene e alla fine riassumerà la fede dei discepoli e dei futuri credenti con la sua solenne e intima professione: ‘mio Signore e mio Dio!’. Gli era ancora impossibile cogliere che ‘luogo e via’ indicavano la stessa cosa. Ragionava in termini spaziali: non poteva sapere ancora che luogo e via a cui alludeva Gesù si riferivano al nostro essere in lui, partecipi dello stesso suo amore per il Padre e dell’amore del Padre per i suoi figli. Gesù gli risponde: “Io sono la via, la verità e la vita”. Gesù è la via nel senso che conduce al Padre (implica il bisogno di orientare gli sforzi del vivere); è la verità nel senso che fa conoscere il vero volto del Padre (implica il bisogno di relazione assoluta, il bisogno di intimità, così essenziale al vivere dell’uomo); è la vita nel senso che ci ottiene di condividere la stessa vita divina di cui il Padre ci fa dono nello Spirito (implica il bisogno di pienezza, di una qualità di vita non soggetta a diminuzioni e che si traduca in gioia piena, condivisa, duratura). L’esito del percorrere quella via, del conoscere e riconoscere il vero volto di Dio, del condividerne la vita in pienezza di amore, non può che essere, come ripete diverse volte l’apostolo Paolo: essere uno con Cristo e in Cristo essere uno con tutti perché Dio sia tutto in tutti. Così il Cristo diventa l’ubi consistam, il dove trovarsi, il dove permanere, il dove essere rigenerati.

Con una sottolineatura però tutta speciale. Se Gesù è via-verità-vita lo è in quanto Figlio, che è nel seno del Padre e di cui svela il Volto d’amore per gli uomini. Solo accogliendo quel dinamismo di rivelazione esteso a tutti gli uomini si può conoscere il Padre ed essere ritrovati figli in quell’unico Figlio. È la tensione ‘apostolica’ della fede nel Cristo: per credere al Cristo occorre ritrovarsi nel suo stesso ‘essere inviati’ perché il mondo conosca che amiamo il Padre e facciamo quello che il Padre ha comandato. Solo a mistero pasquale compiuto gli apostoli si rendono conto della reale posta in gioco del loro seguire il Signore e della grazia concessa al mondo.

Ed infine il terzo intervento di Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta”. E Gesù risponde: “Io sono nel Padre e il Padre è in me”. Filippo era colui che aveva accompagnato a Gesù quei greci che volevano vederlo (cfr. Gv 12,21). La sua richiesta riformula la domanda di Mosè: “Mostrami la tua Gloria” (Es 33,18); contiene l’ardente desiderio del cuore dell’uomo per il Dio di cui porta così intima traccia da averne una nostalgia acuta: “L'anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio?” (Sal 43,3). Filippo non si rende conto che chiedere di ‘mostrare il Padre’ significa voler vedere il Dio che salva e il Regno di Dio venire con potenza; significa cioè voler vedere risplendere in Gesù l’amore di Dio per gli uomini dall’alto della croce.

Il che significa che, se in Gesù riposa tutta la compiacenza del Padre, riconoscerlo significa entrare in questa compiacenza e goderne la potenza risanante e vivificante. In Gesù si concentra tutto il desiderio di comunione di Dio con l’uomo e tutto il desiderio dell’uomo per il suo Dio: riconoscere Gesù, nel suo invio come testimone dell’amore del Padre per gli uomini, significa godere la rivelazione del volto di Dio, che è amore per gli uomini.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo di Pasqua

 

VI  Domenica

(25 maggio 2014)

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At 8,5-8.14-17;  Sal 65;  1 Pt 3,15-18;  Gv 14,15-21

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Il brano di vangelo di oggi è denso di misteri che la liturgia legge in riferimento alla prossima ascensione di Gesù e all’invio dello Spirito Santo, che chiude il periodo pasquale.

L’invio dello Spirito Santo ha lo scopo di far gustare la presenza di Gesù in e con i suoi discepoli, percepito come Colui che il cuore cerca, come Colui che svela il volto misericordioso di Dio ai suoi figli riunendoli alla mensa del suo amore: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv 14,21). Ripreso dal canto al vangelo: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola, dice il Signore, e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui” (Gv 14,23).

L’apostolo Giuda, non l’Iscariota, aveva colto che la manifestazione di Gesù non corrispondeva a quanto si sarebbero aspettati secondo la loro attesa messianica e domanda: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?”. Tra mondo e Spirito c'è opposizione perché il primo vorrebbe piegare il secondo ai suoi scopi di potere e di gloria, perseguiti ai fini del dominio su tutto e su tutti, mentre per lo Spirito potere e gloria derivano solo dall’amore misericordioso per tutti che in Gesù risplende come la rivelazione di Dio nel mondo. Se lo Spirito è chiamato lo Spirito della verità è perché la sua azione è tutta tesa a far gustare l’amore di Gesù e a inglobarci nell’amore che lui ha testimoniato al mondo da parte del Padre. In questo è Consolatore, perché compie l'anelito supremo dei nostri cuori, quello di una comunione suprema. Non per nulla l’osservanza dei comandamenti ha sempre a che fare con l’amore, non solo nel senso che si possono osservare se si ama Gesù, ma anche nel senso che i comandamenti sono le possibilità concrete per vivere l’amore di Gesù verso tutti e quindi gustare l’intimità col proprio Dio, che è amore per tutti. In effetti, man mano che accogliamo lo Spirito, il mondo in noi si ritira o, meglio, si fa Chiesa, cioè sempre più e sempre più estesamente tutto di noi asseconda l'opera di Gesù, che è quella di mostrare quanto è grande l’amore del Padre per noi e quella di riunire alla stessa mensa i figli dispersi, facendoci luogo di trasparenza dell'amore di Dio per tutti, in Cristo.

Gesù di sé dice alla conclusione del cap. 14 di Giovanni: “viene il principe del mondo; contro di me non può nulla, ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così io agisco”. Se teniamo conto che in greco la frase suona: “in me non ha nulla” e che la corrispondente frase rispetto ai comandamenti riportata sopra suona allo stesso modo: “chi ha i miei comandamenti” allora si comprende come parola e comandamento evochino la verità di un legame, di un’alleanza. Il comandamento non ha a che fare con un dovere morale; ha a che fare con l’esperienza di un amore. Come a dire: chi ha in sé la parola, il comandamento di Dio, non offre presa alcuna al potere del demonio e quindi il demonio non può rapirgli quell’amore che lo abita. Come è per Gesù, così per i discepoli.

La lettera di Pietro lo ricorda ai fedeli provati dalle varie afflizioni: “Carissimi, adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con retta coscienza …”. Stessa cosa che ricorda Paolo nella sua lettera agli Efesini: “ … comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore …” (Ef 4,1-2), sulla base del principio: “Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito” (1Cor 6,17). Lo Spirito Santo promesso da Gesù realizza in noi quell’unico spirito con Gesù in modo da non ricercare altra verità se non l’amore suo, come supplica la colletta: “ … confermaci con il tuo Spirito di verità, perché nella gioia che viene da te siamo pronti a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi”.

E questo perché la percezione della verità dell’amore suo risulta drammatica in questo mondo nel senso che risplende nel contesto del ‘processo’ del mondo a Gesù e ai suoi discepoli. La giustizia si rivela se non acconsente all’ingiustizia; l’amore si rivela se non si fa disperdere dall’odio o dall’invidia. Gesù diventa ‘il re della gloria’ dall’alto della croce. Se Pietro, nella sua prima lettera, parla di coloro che domandano ragione ai cristiani della speranza che è in loro, allude proprio a questo ‘processo’ del mondo contro i seguaci di Gesù. Non allude alle possibili discussioni sulla fede, ma alle sofferenze che il seguace di Gesù patisce per testimoniare l’amore di Dio agli uomini, non cedendo all’ingiustizia e non venendo meno alle ragioni di questo amore. La testimonianza ha valore se viene praticata con dolcezza e rispetto, nella coscienza cioè di non abbandonare quella benevolenza di amore che Dio ha testimoniato in Gesù per gli uomini. La forza di quella testimonianza deriva dall’azione dello Spirito nel cuore dei discepoli, che li rende insieme ‘concordi, partecipi degli stessi sentimenti, fraternamente affettuosi, misericordiosi, con un sentire umile e sempre benedicenti’. È lo spazio della chiesa che diventa credibile, rispetto alla testimonianza che porta, se fa trasparire la ‘benedizione’ di Dio sull’umanità, che è Gesù, vivo e operante nel cuore dei discepoli.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo di Pasqua

 

Ascensione del Signore

(1° giugno 2014)

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At 1,1-11;  Sal 46;  Ef 1,17-23;  Mt 28,16-20

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Non ci sono parole più pertinenti ad illustrare il mistero dell’ascensione di Gesù, contemplato oggi dalla liturgia, delle parole di Paolo agli Efesini, ascoltate come rivolte a noi direttamente: “Fratelli, il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi, che crediamo, secondo l’efficacia della sua forza e del suo vigore” (Ef 1,17-19).

Non è difficile immaginare che gli apostoli, nonostante l’evidenza degli eventi, di fronte a tale rivelazione dubitassero ancora. Credo che questa annotazione di Matteo si saldi con quella riportata da Luca negli Atti con la domanda: “Signore, è questo il tempo nel quale ricostruirai il regno di Israele?”. Non è facile stare alla rivelazione di Gesù! Noi seguiamo Gesù, ma è come se volessimo usare lui per qualcosa che sta a cuore a noi invece che più semplicemente aprire il cuore a lui che ci partecipa la sua stessa vita. Gesù non può che appellarsi allo Spirito che invierà perché il cuore dei discepoli sia confermato nella sua rivelazione del Padre.

Lo Spirito verrà inviato per farci vivere la compagnia del Signore Gesù: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”, versetto con cui si chiude il vangelo di Matteo e che giustifica la gioia dei discepoli alla sottrazione di Gesù ai loro sguardi. Ciò significa che nella percezione degli apostoli l’ascensione è colta come un dono di presenza, come un’interiorizzazione di rapporto, che non solo non perde nulla della sua realtà con la sottrazione della fisicità di Gesù, ma acquista profondità e intensità insospettate. Anche perché il contesto in cui è vissuta quell’emozione è chiaramente missionario: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli”. Se potessi allora riassumere con mie parole la sensazione degli apostoli, direi che si è trattato dell’esperienza di una gioia assolutamente dinamica, capace di allargare i confini del cuore e le energie corrispondenti in maniera illimitata. Resta sottolineata sia una dimensione di azione, in rapporto diretto con la missione alle genti, sia una dimensione di essere, in rapporto all’esperienza della presenza potente di Gesù in loro e con loro. La citazione del passo riportato sopra di Paolo agli Efesini è caratterizzato dall’insistenza sull’idea della ‘potenza’ dell’azione dello Spirito con la sottolineatura dei termini ‘potenza, efficacia, forza, vigore’.

In effetti, le parole di Gesù non esprimono semplicemente che lui resta con noi, ma che resta con noi efficacemente, potentemente. Non semplicemente, come discepoli suoi, ci riferiremo o faremo ricorso a lui nella vita, ma ne godremo la presenza con l’assicurazione che potremo restare nella dinamica del suo amore sempre e comunque, perché prevalga in noi l’amore di Dio per tutti. Con l’ascensione noi intravediamo l’itinerario completo della vita del Figlio di Dio fatto uomo per noi, morto e risorto per noi, dato a noi, in un’intimità di vita con lui, garantita dal fatto che la sua ascensione mostra la nostra umanità che sta nello splendore di Dio. Come è in cielo, così nei cuori: questa è la radice della gioia. Gioia ecclesiale, perché è il tesoro della propria umanità come dell’umanità di tutti, come sottolineano le ultime parole di Gesù agli apostoli. Ed è proprio in questa gioia che sta il superamento più radicale di ogni forma di gelosia, che tanto affligge i rapporti umani.

Il testo evangelico comporta una sottolineatura speciale per la nostra umanità. Per quattro volte si ripete la parola tutto: “ogni potere ... tutti i popoli ... tutto ciò che vi ho comandato ... tutti i giorni”. Viene sottolineata la compiutezza, l'universalità, la totalità del mistero che si compie.

Potremmo comprendere così: il tempo della missione mira a rendere evidenti per i cuori gli effetti del saper riconoscere che a Gesù è stato dato ogni potere. Perché il nostro cuore rivendica così sovente i suoi diritti, giustifica così sovente le sue ire, resta schiacciato dalla vergogna per le sue colpe ed ha così paura di consegnarsi alla promessa di Gesù? Non è scontato per noi arrivare a dire: riconosco, Signore, che ogni momento del mio vivere e ogni punto del mio cuore si può aprire allo splendore della tua presenza; riconosco che non c'è nulla in me che non possa essere liberato dalla paura e dalla vergogna perché tu sei in noi e con noi!

La menzione del monte dove Gesù ascende al cielo richiama l’altro monte, quello della tentazione, da dove si potevano vedere tutti i regni di questo mondo. Ora, il potere che Gesù dichiara di avere è quello che il Padre gli ha concesso, il potere cioè di mostrare in verità il volto di Dio e il potere di soddisfare appieno il cuore dell’uomo. Se non troviamo scontato il potere di Gesù è perché la gloria del mondo affascina comunque. L’unico antidoto al suo fascino è la gioia di una presenza custodita, come Luca annota per i discepoli: “tornarono a Gerusalemme con grande gioia” (Lc 24,52). Non possiamo non notare che sarà proprio questa gioia a trasformarsi presto nella potenza dell’annuncio. Senza questa gioia l’annuncio risulterebbe insignificante.

D’altra parte, il monte può alludere anche al monte della trasfigurazione, come ricorda un avorio paleocristiano del IV secolo, dove Gesù è rappresentato mentre sale al Padre su un colle alle cui pendici dormono Pietro, Giacomo e Giovanni. Come a dire: quella gloria appena intravista dagli apostoli al momento della trasfigurazione si compie con la risurrezione-ascensione di Gesù e ce ne viene partecipata la potenza con il dono dello Spirito che farà risplendere nel mondo l’amore del Padre a partire dai discepoli, ormai aperti alla rivelazione e alla compagnia del loro Gesù, Signore, che ha vinto la morte.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo di Pasqua

 

Pentecoste

(8 giugno 2014)

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At 2,1-11;  Sal 103;  1Cor 12,3b-7.12-13;  Gv 20,19-23

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O fuoco la cui venuta è parola, il cui silenzio è luce! Fuoco che fissi i cuori nell’azione di grazie” canta s. Efrem e la liturgia di oggi, con il canto al vangelo, proclama: “Vieni, santo Spirito, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore”.

Lo Spirito, ottenutoci dalla passione gloriosa di Gesù, svelerà al nostro cuore il colloquio eterno tra il Padre e il Figlio a proposito della salvezza dell’uomo, il colloquio tra il Padre e il Figlio che vive la sua umanità nell’amore per gli uomini. Tutto questo ‘colloquio’ lo Spirito ha udito e ce ne renderà partecipi. Così conosceremo la verità, vale a dire la grandezza dell’amore di Dio per l’uomo, che in Gesù si è fatto evidente, a noi accessibile, per la fede in lui. Ci farà gustare la promessa di Gesù: “Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15). Si tratta di una esperienza ‘antica’ e ‘nuova’, dell’esperienza della chiesa e di ogni fedele, dell’esperienza degli apostoli e della nostra. Come facciamo esperienza dello Spirito Santo? Rispetto a che cosa possiamo fare esperienza dello Spirito Santo?

Paolo annuncia che l’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori perché la speranza di cui godiamo non delude. Il senso delle sue dichiarazioni si può riassumere così: noi abbiamo coscienza di essere amati da Dio proprio nella nostra realtà di uomini peccatori. Se dunque, da peccatori, Dio ci è venuto incontro nella persona del suo Figlio, quanto più, una volta riconosciuto e accolto il mistero del Figlio, potremo godere del suo amore! L’esperienza dello Spirito Santo ha così a che vedere con l’esperienza della grandezza dell’amore di Dio che, non avendo vergogna di noi, ci raggiunge dentro il nostro peccato, ci rivela che di quell’amore siamo intessuti e così ci rende ‘capaci’, nel suo Figlio prediletto, di vivere proprio di quell’amore, realizzando la nostra vocazione all’umanità fatta ‘a immagine e somiglianza di Dio’.

È caratteristico il fatto che la promessa dello Spirito (cfr Lc 24,49: “Io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto”) riassuma l’esperienza più personale e più universale che ci possa essere. È la promessa che riassume tutte le promesse di Dio al suo popolo. Il mistero della Pentecoste lo rivela. Lo vediamo prima di tutto dalle ‘condizioni’ che la presuppongono. Luca sottolinea come gli apostoli, dopo l’ascensione al cielo di Gesù, tornati con gioia a Gerusalemme, siano “assidui e concordi nella preghiera” (At 1,14) e che il giorno di Pentecoste “si trovavano tutti insieme nello stesso luogo” (At 2,1). Non sono semplici annotazioni; indicano piuttosto la condizione di possibilità dell’esperienza dello Spirito: se lo Spirito viene a uno, viene in quanto rivelatore di comunione in umanità. La ‘potenza dall’alto’ allude a questa dimensione di comunione profonda e misteriosa in umanità. Così anche dopo l’evento della Pentecoste, Luca descrive i discepoli, ormai ricolmi di Spirito Santo: “Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere” (At 2,42).

Se guardiamo ora all’evento della Pentecoste, notiamo che le persone di varie etnie, che ascoltano gli apostoli parlare nelle varie lingue, sentono tutti la stessa e unica cosa: “li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio”. La meraviglia che accomuna tutti non è semplicemente quella di sentire parlare nella propria lingua, ma quella di cogliere la grandezza dell’amore di Dio che a tutti si fa manifesto. E questa è attività propria dello Spirito Santo. L’aspetto misterioso è dato dal fatto che, se la diversità di espressione fa riferimento all’unica verità, l’unicità della verità non può che essere comunicata nella varietà delle lingue. E la varietà delle lingue ormai è vissuta in funzione della comunione, superando così la paura della diversità che aveva fatto preferire l’uniformità alla comunione (si ha così il superamento della divisione, perché viene annullato il principio del potere). Solo dello Spirito di Dio può essere detto: “lo Spirito del Signore ha riempito l’universo, egli che tutto unisce, conosce ogni linguaggio” (Sap 1,7). Ma questo ‘Spirito di Dio’ non può che essere lo Spirito del Figlio, perché lui solo ha il potere di rivelare il vero volto di Dio e di compiere i veri desideri del cuore dell’uomo (cfr Mt 28,18). In effetti, la venuta dello Spirito rivestirà i discepoli di quella ‘potenza dall’alto’ perché siano testimoni di Gesù nel mondo e a tutti possa esser manifesto il segreto di Dio per gli uomini. Se lo Spirito agisce per la comunione è perché il Figlio ha mostrato quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini che li vuole suoi figli, tutti insieme, nessuno escluso.

La verità di cui lo Spirito è promotore ha così una coloritura dinamica e drammatica: ingloba in un amore che, mentre si manifesta a te, lo fa vivere aperto a tutti, perché tutti sono chiamati a gustare le stesse cose. La verità che viene resa nota, per quanto bella e consolante, non convince nessuno automaticamente, non ha potere strabiliante: si comunica di bocca in bocca, di cuore in cuore, di atto in atto, in umanità. Il racconto di Pentecoste finisce difatti con l’annotazione: “Tutti erano stupiti e perplessi, chiedendosi l’un l’altro: ‘Che significa questo?’. Altri invece li deridevano e dicevano: ‘Si sono ubriacati di mosto’ ”.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Solennità e feste

 

Ss. Trinità

(15 giugno 2014)

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Es 34, 4b-6. 8-9;  Dn 3,52.56;  2 Cor 13, 11-13;  Gv 3, 16-18

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All’ingresso la chiesa canta: “Sia benedetto Dio Padre, e l’unigenito Figlio di Dio, e lo Spirito Santo: perché grande è il suo amore per noi”. Benedizione, che viene ripresa nell’antica colletta con la supplica: “fa’ che nella professione della vera fede riconosciamo la gloria della Trinità”. È la sintesi della lunga benedizione di Paolo all’inizio della lettera agli Efesini: “Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei8 cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo ….” (Ef 1,3sgg). Non si dà benedizione senza essere inglobati nella rivelazione della ‘gloria’ di Dio che è amore per noi.

Proclamare Dio come Trinità di Persone significa riconoscere che di Dio null’altro possiamo conoscere che il suo amore per noi. E colui che di quell’amore è il Testimone per eccellenza è quel Figlio inviato a patire, morire e risorgere perché quella conoscenza diventi la radice di vita che alimenta i nostri cuori. Perché questo è il mistero: proclamare l’amore di Dio per noi significa attingere alle radici della vita.

Scopriamo tutta la drammaticità che comporta la rivelazione dell’amore dalla lettura dell’Esodo nei capitoli 32-34. Dio, che aveva svelato a Mosè il tradimento del popolo a causa del vitello d’oro, era pronto a distruggerlo e a formarsene uno nuovo. Mosè ricorda al suo Dio le sue promesse e intercede per il popolo. Quando scende dal Sinai con le tavole della Legge tagliate e scritte da Dio, le spezza contro la montagna, distrugge il vitello e fa perire di spada gli apostati. Ma il Signore perdonerà? L’angoscia è totale. Anche Mosè sa che se il Signore venisse in mezzo al popolo lo sterminerebbe. Allora, nella sua intercessione angosciosa, aggiunge: se non vuoi loro, cancella anche me! E insiste presso il Signore: indicami la tua via, cammina con noi. E a garanzia chiede a Dio di mostrargli la sua gloria. Quando risale sul Sinai, dopo che il Signore ha accettato le sue richieste, Mosè ode il Nome di Dio: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà”. E l’angoscia si scioglie: Dio perdona!

La ‘gloria’ di Dio non è che lo splendore del suo amore per i suoi figli. E solo dalla consapevolezza della propria indegnità risalta tutta la qualità dell’amore di Dio per l’uomo: un amore perdonante, un amore ricco in misericordia. Tanto che in tutto l’Antico Testamento, di nessun uomo si riporta che sia ‘misericordioso’, ma solo di Dio.

Quando il popolo sente, prima che Mosè interceda,  che Dio non verrà più in mezzo a loro, fa lutto. Sul Sinai, come sul Calvario, per noi l’amore di benevolenza di Dio per i suoi figli diventa esperibile solo ‘facendo lutto’, solo riconoscendo la nostra insensata idolatria e consegnandoci di nuovo interamente nelle mani del Dio Vivente. Tutta la Scrittura ricorda come quell’esperienza sia la più sublime e la più tormentosa, la più agognata e la più temuta. Non è così facile spiegarne il perché nonostante non ci manchino le ragioni di comprensione, che però il cuore stenta ad accogliere. Eppure, anche per noi risulta vera la proclamazione evangelica: “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1,16-17). Se l’uomo cerca la verità, la verità di cui ha sete il suo cuore è una verità di grazia e contemporaneamente una grazia di verità. La festa di oggi invita ciascuno a vivere la propria vita nell’atteggiamento di chi si dispone ad accogliere nel suo cuore la grazia di verità che il Signore Gesù testimonia rivelando l’amore del Padre e donandoci il suo Spirito.

Così il credere in Gesù (“Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”), comporta sempre:

1) la speranza in una promessa, indefinita forse, ma chiaramente avvertita. La vita, quella che riempie, non è mai immediata; se pure è alla nostra portata, non è facilmente coglibile. Il vangelo ce lo ricorda spesso: se il chicco di grano caduto in terra non muore, non porta frutto; se vuoi la vita, sii disposto a perderla ...

2) l'accettazione di un rapporto, da dentro il quale scaturisce la vita e più si ha il coraggio di impegnare tutto il proprio cuore in esso, più la vita scorre abbondante

3) un consegnarsi in fiducia e quando nulla del nostro cuore si sottrarrà a questo consegnarsi, la vita sarà stabilmente goduta, immancabilmente piena.

Il nome che Dio proclama: “Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e fedeltà” si riassume nell’esperienza che ‘il Signore è per noi’, esperienza che Gesù fa splendere in tutta la sua bellezza. Chi ci apre a quella esperienza è proprio lo Spirito Santo il quale ci mette in comunione con l’amore del Padre, di cui il Figlio è la grazia di verità per noi. Lo Spirito ritorna a scrivere direttamente sul nostro cuore le parole di Dio di modo che noi non le professiamo semplicemente ricordando che sono parole di Dio, ma vivendole direttamente come mozione di Dio in noi. Si torna alle primitive tavole della legge che aveva scritto direttamente il dito di Dio, tavole che Mosè aveva poi infranto dopo il peccato del vitello d’oro.

È caratteristico che il cristiano, tracciando il segno di croce sulla propria persona, l’accompagni con la confessione trinitaria: Padre, Figlio, Spirito Santo. Come a dire: l’amore di Dio per gli uomini, che si è rivelato in tutto il suo splendore a partire dalla croce di Gesù, riempia e copra tutta la mia persona partecipando alla stessa comunione di vita che intercorre tra le tre Persone divine. E quando quel segno si traccia sulle cose o prima delle varie azioni si intende accedere alla dimensione di rivelazione dell’amore di Dio per il nostro cuore che quegli atti comportano nella sua provvidenza per noi.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Solennità e feste

 

Ss. Corpo e Sangue di Cristo

(22 giugno 2014)

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Dt 8,2-3.14b-16a;  Sal 147;  1 Cor 10,16-17;  Gv 6,51-58

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Quando s. Agostino si domanda quale sia la virtù specifica dell'Eucarestia, non può che rispondere: "La virtù propria di questo nutrimento è quella di produrre l'unità, affinché, ridotti ad essere il corpo di Cristo, divenuti sue membra, siamo ciò che riceviamo". In effetti, quando ci accostiamo alla comunione eucaristica, l’amen che il fedele risponde non significa : sì, credo che quel pezzo di pane è il corpo di Cristo, ma, più in verità: sì, so che faccio parte di quel corpo e accetto di vivere come un corpo solo!

Un corpo solo con il Signore Gesù, che si è consegnato agli uomini perché gli uomini conoscessero la grandezza dell’amore di Dio per loro! La liturgia oggi sottolinea fortemente la realtà di quell’essere un corpo solo, nella consegna al mondo. Il brano di Giovanni, con un realismo perfino provocatorio, lo rivela chiaramente. Gesù, che si presenta come il pane vero disceso dal cielo, raffigurato nella manna che gli ebrei ebbero in dono nella loro traversata del deserto, non dice semplicemente che chi mangia di lui avrà la vita. Dice più specificamente: chi lo ‘mastica rompendo con i denti’, azione tipica del mangiare a livello corporale. Ebbene, nello spirito, l’azione del mangiare il corpo del Signore, è ancora più reale del mangiare fisico. Tra l’altro, Giovanni sottolinea come il primo effetto del mangiare la carne del Signore immolato non sia quello di avere il Signore in noi, ma di dimorare noi in lui, di essere noi presi in lui. E proprio questo effetto primario, tipicamente spirituale e assolutamente reale, fonte di energia e di vita, induce a collegare l’essere un corpo solo con il Signore con l’essere un corpo solo anche tra di noi. Essere nel Signore significa essere assunti nella dinamica di rivelazione dell’amore di Dio al mondo (questo significa l’essere inviati da Dio) per cui la vita stessa non può essere vissuta che a servizio dello splendore di quell’amore.

La prima richiesta che Andrea e Giovanni fanno a Gesù: “dove dimori?” trova risposta alla fine della vita di Gesù quando nell’ultima cena rivela che lui dimora nell’amore del Padre per noi. Con il dono di sé nell’eucaristia, con il mangiare e bere la sua carne e il suo sangue, anche noi dimoriamo nella sua stessa dimora, vale a dire possiamo stare radicati nell’amore del Padre per i suoi figli. Così Gesù, dandosi a noi in cibo, rende anche noi, in lui e con lui, dimora di Dio in questo mondo.

Quello che però appare così tanto desiderabile, perché spesso non convince i nostri cuori nel viverne tutte le implicazioni nella vita concreta? Se rileggiamo tutto il capitolo 6 di Giovanni riusciamo a intuire la natura di questa difficoltà. Gesù si presenta come il pane disceso dal cielo, ma gli ascoltatori, che pure avevano goduto del miracolo della moltiplicazione dei pani, sono incapaci di riconoscere nel concreto la via di Dio che a loro si sta rivelando. Perché, pur desiderando la vita, non l’accolgono? Forse la risposta va cercata proprio in quel movimento di discesa che caratterizza l’agire di Dio. Il discendere dal cielo non indica semplicemente la provenienza di Gesù; indica piuttosto il movimento dell’abbassarsi di Dio per comunicare il suo amore e far vivere. Gli uomini non amano abbassarsi, benché vogliano la vita e desiderino l’amore. Pensano sempre in termini di grandezza, ma mondana, dove il potente prevale sul debole, il grande la spunta sul piccolo e l’affermazione di sé è una questione di innalzamento. Gesù invece, quando parla di innalzamento, allude sempre al suo essere innalzato sulla croce, cioè al suo abbassamento, perché è lì che risplende l’amore di Dio per l’uomo.

Il dimorare in Gesù, mangiando la sua carne e bevendo il suo sangue, allude al rimanere in questo movimento di discesa per essere testimoni dello splendore dell’amore di Dio in mezzo agli uomini, non avendo altro tesoro più prezioso da custodire. Dovremmo imparare a collegare il mangiare e il rimanere in funzione della manifestazione al mondo dell’amore di Dio.

All'inizio della celebrazione nel rito bizantino, il sacerdote proclama ad alta voce: “Benedetto il regno del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, nei secoli dei secoli. Amen!”. Ogni celebrazione eucaristica predispone al ‘Regno di Dio che viene’, introduce alla beatitudine evangelica: “Beati i vostri orecchi che ascoltano, beati i vostri occhi che vedono” o ancora, come ricorda papa Francesco: “al Padre vostro è piaciuto rivelare il suo Regno”. Siamo ancora capaci, nelle nostre celebrazioni eucaristiche, di sintonizzarci con questa dimensione di rivelazione del Regno che apre la nostra storia alla venuta di qualcosa che è al di là ma che si vive nella nostra storia? Dire di mangiare e bere la carne e il sangue del Signore Gesù, per noi immolato e risorto, significa vivere la concretezza della sua umanità nella nostra, partecipi della stessa dinamica di rivelazione al mondo dell’amore di Dio.

Non solo, ma l’Eucaristia è la rivelazione del mistero di tutte le cose. Nell'inno ai vespri della festa cantiamo: "Frumento di Cristo noi siamo .... In pane trasformaci, o Padre, per il sacramento di pace: un Pane, uno Spirito, un Corpo, la Chiesa una-santa, o Signore". E Francesco d'Assisi, nel suo commento al Padre Nostro, annuncia: "Il nostro pane quotidiano, il tuo Figlio diletto, il Signore nostro Gesù Cristo, dà a noi oggi: in memoria, comprensione e reverenza dell'amore che egli ebbe per noi e di tutto quello che per noi disse, fece e patì".

Un uomo non si rivela in tutta la sua totalità se non dentro un mistero più grande di lui, che gli offre uno spazio di movimento, infinito quanto il suo desiderio. Il chicco di frumento non conosce la sua vera natura se non viene trasformato in farina, impastata, cotta in pane e poi assunto in sacramento di pace. L'uomo non coglie la sua verità se non nel suo porsi con gli altri uomini ed accogliersi ed offrirsi e farsi punto di comunione,  luogo in cui crescere in comunione, assunto nel corpo di Cristo. Cosa diventa il nostro cuore compreso nella logica eucaristica? Un amore donato che si fa dimora per tutti nella gioia. E da dove si pesca la potenza e la freschezza di quell’amore se non nell’essere un corpo solo con il Signore Gesù, che di quell’amore è il testimone per eccellenza?

È l'Eucarestia, come dice s. Francesco, a comunicare al cuore dell'uomo credente, che fa affidamento alla logica che viene dall'alto, la potenza di una memoria, di una intelligenza e di un sentimento per un amore grande che ci ha toccati, per Colui che si è rivelato al nostro cuore come capace di amore per noi. Sperimentando questo, allora le sue parole, il suo agire ed il suo soffrire, si impastano con il nostro, lo lievitano e, mossi ormai dalla sua stessa dinamica di vita, impariamo a stare solidali con tutti, in quell’umanità che ci rende un unico corpo, un corpo solo con il nostro Dio.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Solennità e feste

 

Ss. Cuore di Gesù

(27 giugno 2014)

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Dt 7, 6-11;  Sal 102;  1 Gv 4,7-16;  Mt 11,25-30

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Molti testi della liturgia di oggi possono illustrare emblematicamente l’immagine del cuore di Gesù, spalancato sul mondo, che la ferita del colpo di lancia del soldato al calvario lascia intravedere. “Di generazione in generazione durano i pensieri del suo cuore” (Sal 32,11) canta l’antifona di ingresso. I nostri pensieri sono mutevoli, i nostri progetti pure, ancor più i nostri desideri. Ma sperimentare che quelli del Signore sussistono per sempre, sono sempre i medesimi, significa cogliere e accogliere il segreto di amore che regge il mondo. Il fatto stesso che tale segreto possa essere svelato in tutto il suo splendore solo nel momento più drammatico della vita di Gesù la dice lunga sul fatto che quell’amore non sia scontato coglierlo e viverlo, per quanto desiderabile.

L’affermazione del Deuteronomio: “Il Signore si è legato a voi … perché vi ama” resta il fondamento dell’esperienza dei credenti. E quando il salmo 102, v. 8, proclama: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore” non fa che sottolineare la verità di quell’affermazione, colta nel dramma del peccato dell’uomo che non allontana Dio dall’uomo. L’espressione fa parte della rivelazione del Nome di Dio a Mosè sul Sinai dopo il peccato del vitello d’oro, quando l’angoscia del possibile rifiuto di Dio tormentava i cuori (cfr. Es 32-34).

Proprio come dice s. Paolo: "Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?" (Rm 8,32). Il nostro guaio è che restiamo così insensibili alle vicende di quel 'Figlio dato per noi', così poco toccati nell'intimo dalla testimonianza della sua vita per noi da vivere la nostra vita più nella lamentela che nel rendimento di grazie, più nell'affanno che nella consolazione, più nel tormento e nel disprezzo che nella pace.

Gesù nel vangelo di Matteo proclama: "Tutto è stato dato a me dal Padre mio ...". Vale a dire: tutta la verità a cui anela il cuore dell'uomo, tutto il bene di cui è capace il cuore dell'uomo, tutto il contenuto dei pensieri e dei desideri dell'uomo, tutta la gloria che un uomo può portare, tutti gli aneliti del cuore degli uomini nella loro immensità e profondità, tutto trova in lui il compimento, ha in lui il suo sigillo. Per questo, continua: "Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro". Quello che cercate, quello che, non trovandolo, vi procura oppressione, quello per cui vanamente vi affaticate, tutto potrete avere in me! La parola di Gesù è una parola di vita non solo nel senso che procura la vita a chi l'accoglie, ma anche che rivela come sussiste la vita, come si esprime la vita, come la vita si regge e si sviluppa. È il principio della fede come radice di umanità, umanità piena. Ed è per questo che ancora aggiunge: "Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero". La struttura della sua umanità è commisurata alla nostra e ci raggiunge là dove più misterioso è il segreto delle sue origini: siamo nel mondo, ma non del mondo.

Due particolari sono da rilevare nel passo evangelico: la beatitudine dei piccoli e l’invito a imparare. Per amare è necessario farsi piccoli: l’amore è rivelazione, non conquista. Vediamo l’amore di Dio in Gesù perché lui si è fatto ‘piccolo’, così piccolo da dimenticare totalmente la sua gloria e poter far arrivare agli uomini l’amore di Dio. Ora, la sua piccolezza ha a che fare con la situazione degli uomini, incapaci di vedere Dio perché non più capaci di amare (“Chi non ama non ha conosciuto Dio”), non più aperti alla rivelazione dell’amore (potrebbe essere spiegata così la situazione di peccato in cui versano gli uomini che tanto li inasprisce). Quando gli uomini si accorgono, guardando Gesù morire sulla croce, dell’amore di Dio per loro e chiedono perdono (chiedono cioè di uscire dal peccato che corrode la loro umanità), con ciò non vogliono semplicemente mettersi a posto, ma vogliono tornare a godere dell’amore di Dio, in umiltà. Più l’umiltà sarà sincera e profonda, più faranno esperienza della tenerezza di quell’amore e più saranno disposti a condividerlo con tutti.

E se Gesù invita: “Imparate da me”, che cosa dobbiamo imparare? Nel fatto di ‘imparare’ va letta la sfumatura di significato di ‘essere attratti’, come si può arguire dal discorso di Gesù alla folla dei giudei riportato in Gv 6,45 (“Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me”). Imparare e essere attratti comportano lo stesso movimento, alludono alla condivisione di una intimità di vita e di sentire che diventa potenza di azione. Imparare da Gesù significa perciò essere attratti a lui, per vivere della sua stessa vita. Significa imparare da lui a conoscere Dio e imparare ancora da lui a conoscere noi stessi, la nostra umanità. Se rispetto al male che devasta la nostra umanità noi ci giustifichiamo con l’attrattiva e la propensione che ci agita subendo la tristezza del diavolo, rispetto al bene noi ci muoviamo secondo la forza di una nostalgia che ci abita, nostalgia che l’umanità del Signore ci accende.

La proclamazione del salmista: “Benedici il Signore anima mia …” (Sal 102) risuona in tutta la sua potenza sulle nostre labbra appena ci apriamo al mistero del cuore di Gesù, lui che è mite e umile di cuore. Avremo modo di comprendere meno confusamente come le due definizioni di Dio dell’apostolo Giovanni (“Dio è amore”, 1Gv 4,8.16; “Dio è luce”, 1Gv 1,5) siano un tutt’uno. La luce allude alla santità di Dio nel suo splendore di amore per l’uomo, come l’amore è la dimensione della santità di Dio che accomuna a sé l’uomo. Il cuore di Gesù mostra sia l’amore di Dio che la sua santità. Non siamo attratti allo stesso titolo dall’amore e dalla santità e forse per questo l’amore, che è così desiderabile, ci riesce così irraggiungibile. Eppure, il cuore di Gesù è lì a ricordarci il contrario: possiamo entrare anche noi nella santità dell’amore di Dio e avere la vita.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Solennità e feste

 

Ss. Pietro e Paolo apostoli

(29 giugno 2014)

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At 12,1-11;  Sal 33;  2 Tm 4,6-8.17-18;  Mt 16,13-19

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Se consideriamo le letture della celebrazione vigiliare e del giorno della festa, ciò che risalta è la confessione da parte dei due apostoli della fedeltà e della potenza di Dio nel mantenere fede alle sue promesse, senza nascondere nello stesso tempo i limiti della loro umanità. Sia Pietro che Paolo sono ricordati nella loro storia personale, fatta di tensioni, di problemi, di peccati, di rinnegamenti, ma contemporaneamente di fedeltà, di lealtà, di amore al loro Signore tanto da ricevere il dono di poter dare la vita per Lui. E non solo a titolo personale, ma a titolo ecclesiale, come a dire: quel dono della vita da parte loro non suggerisce prima di tutto la loro generosità, ma la fedeltà di Dio al suo piano di salvezza che ha conquistato i loro cuori a tal punto da farne il fondamento di ogni altra simile esperienza. La chiesa è fondata sugli apostoli, su Pietro e su Paolo, nel senso che la loro confessione del Signore costituisce il paradigma di ogni altra confessione del Signore nella chiesa. E proprio dal fatto che la loro confessione del Signore ingloba anche tutta la loro storia personale, peccati compresi, deriva la consolazione di una fede che sa di dipendere dalla potenza di Dio, capace di conquistare e trasfigurare i cuori e l'umanità intera.

A cosa guardi la chiesa, nella celebrazione degli apostoli Pietro e Paolo, lo rivela la preghiera dopo la comunione: “Concedi, Signore, ai membri della tua Chiesa, che hai nutriti alla mensa eucaristica, di perseverare nella frazione del pane e nella dottrina degli Apostoli, per formare nel vincolo della tua carità un cuor solo e un’anima sola”. La preghiera riecheggia la descrizione di At 2,42: “Erano perseveranti nell'insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere”. Come a dire: l’esperienza di Gesù si fonda sulla testimonianza degli apostoli, che ci danno la verità del Cristo, come parola e come Corpo, perché possiamo formare un cuor solo e un’anima sola nella potenza del suo Spirito, riconciliati con Dio e con il prossimo.

L’aspetto singolare della loro testimonianza è dato dal fatto che soltanto tramite loro siamo garantiti nell’accesso alla rivelazione di Dio, in Gesù. Il brano evangelico della confessione di Pietro a Cesarea lo conferma: “Disse loro: "Ma voi, chi dite che io sia?". Rispose Simon Pietro: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente". E Gesù gli disse: "Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli”. La confessione della verità del Signore Gesù comporta la partecipazione alla rivelazione di Dio. Quando ci si appressa al mistero della persona di Gesù si comincia a godere di un dinamismo di rivelazione che proviene da Dio e che ci precede. Non si tratta in effetti di cogliere una verità su Gesù, ma di percepire che Dio ci si fa incontro nella sua accondiscendenza di amore per noi. Accondiscendenza, che ci riguarda a doppio titolo: implica il movimento che viene direttamente da Dio nel suo amore anche per me e il movimento che viene dai suoi servi che già hanno goduto di quell’amore e di cui si fanno garanti per me. Ambedue gli aspetti sono essenziali per il nostro cuore, perché questa è la provvidenza di Dio per gli uomini.

La ragione profonda di questo doppio dinamismo è svelata da Gesù quando prorompe in un inno di lode al Padre dopo che gli apostoli, inviati in missione evangelizzatrice, tornano a lui: “In quel tempo Gesù disse: Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza” (Mt 11,25-26). ‘Così hai deciso nella tua benevolenza’: l’espressione non si riferisce semplicemente al fatto che Dio ha voluto così, ma al fatto che in quel volere di Dio sta tutta l’accondiscendenza di amore per l’uomo. Il compiacimento del Padre sta tutto sul Figlio, come viene rivelato al Giordano e al Tabor e noi siamo chiamati – è il valore della confessione di Pietro! – ad accogliere il Figlio per godere di quella stessa compiacenza, fonte per noi di bene e di santità.

Pietro confessa in tutta sincerità la verità di Gesù, ma non è ancora consapevole di ciò che quella verità comporta. Basta leggere il seguito del brano e il resto del racconto evangelico per sincerarsene. Eppure, Gesù proprio sulla verità confessata da Pietro (il nome Pietro, traduzione greca del nome aramaico Kepha, roccia, non era usato come nome proprio di persona nell’ambiente di allora) edifica la sua chiesa. Il che significa che quella verità non sarà mai più ritoccata; risuonerà eterna e salvatrice a dispetto di ogni prova. Tuttavia – possiamo domandarci - la confessione di Pietro, pur veritiera, a quale profondità di risonanza si situa nel suo cuore? Se rileggiamo la sua confessione dopo il brano evangelico della messa vigiliare, Gv 21,15-19, possiamo comprendere più da vicino l’arco di sviluppo della fede di Pietro. Quando Gesù gli domanda per tre volte: ‘Simone di Giovanni, mi vuoi bene?’, Pietro sa bene che non ha mai rinunciato al suo Gesù, ma sa altrettanto bene che l’aver saputo la verità su Gesù non gli ha impedito il tradimento. Ha dovuto rendersi conto direttamente di quanto l’uomo possa misconoscere il dono e le vie di Dio, sebbene non sia mai venuto meno al fascino di Gesù che l’ha segnato nell’intimo. “Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene”: il suo amore non è più proclamato, è solo sussurrato; non si fonda più sul suo slancio, ma sulla confidenza nella compiacenza di Gesù che lo vuole suo intimo e testimone; ha ormai accettato che le vie di Dio sono diverse da quelle degli uomini. È pronto ormai, come gli profetizza Gesù, a vivere la verità del suo Maestro dovunque la testimonianza del suo amore lo porterà. In quel momento, la sua antica confessione: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” acquista tutta un’altra risonanza. E anche la rivelazione di Dio per lui acquista tutta un’altra densità e potenza. In quella confessione, scavata nella sua densità e potenza, noi tutti siamo fondati.

È caratteristico che la liturgia accomuni a Pietro Paolo nella sua testimonianza di apostolo che ha combattuto la buona battaglia, che ha terminato la corsa conservando la fede: la verità confessata di Gesù, acquisita per rivelazione, ha impegnato tutta la sua vita perché risplendesse al di sopra di tutto l’amore del Signore che conquista tutti. La corona che si aspetta è quella che definisce con l’attesa della manifestazione del Signore: “Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno, non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione”. Manifestazione, che costituisce la tensione del cuore nell’adesione al Signore Gesù che condivide con i suoi fedeli i suoi segreti, fonte di dignità per il mondo intero.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo Ordinario

 

XIV  Domenica

(6 luglio 2014)

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Zc 9, 9-10;  Sal 144;  Rm 8, 9. 11-13;  Mt 11, 25-30

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Il brano evangelico di oggi è uno dei rari passi in cui Gesù rivela il suo intimo mondo interiore, dentro un’emozione traboccante davanti alla gioia dei discepoli che raccontano al loro Maestro i prodigi avvenuti durante la missione di evangelizzazione che era stata loro affidata (cfr. Lc 10,17): “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché hai deciso nella tua benevolenza”. È l’esultanza di fronte all’accondiscendenza di benevolenza del Padre per gli uomini, che possono godere del suo amore senza averne alcun titolo. L’uomo può godere del fatto che Dio si approssimi a lui in Gesù e tutto si risolve in una questione di sguardo. L’uomo non deve conquistare Dio, ma aprirsi alla sua rivelazione. Dio è già dalla sua parte. L’unica conquista è quella di acquisire quell'atteggiamento del cuore che consente di ricevere la rivelazione del suo amore. Questo caratterizza i ‘piccoli’, la cui qualità è definita in rapporto ai ‘sapienti e dotti’ che si affannano invece come a cercare le condizioni possibili per una presenza accettabile di Dio. I pensieri degli uomini non corrispondono ai pensieri di Dio e chi preferisce quelli di Dio ai propri appartiene al numero dei ‘piccoli’. La condivisione da parte di Gesù del compiacimento di Dio non allude semplicemente al fatto che a Dio piace rivelarsi ai piccoli, ma alla condizione essenziale perché Dio possa rivelarsi, come a dire: appena ci si fa piccoli, nella misura in cui ci si fa piccoli, Dio si rivela a noi. Qui si cela il segreto dell’obbedienza al Padre di Gesù, dell’obbedienza del discepolo al suo Maestro, dell’obbedienza della fede. L’esultanza di Gesù come del credente deriva da qui.

‘Piccolo’ è anche opposto a ‘stare davanti’, a ‘suggeritore’, che è la posizione del diavolo nei nostri confronti, come ricorda Gesù a Pietro, a Cesarea di Filippi, dopo che si era scandalizzato di fronte alla predizione della sua passione: “Va’ dietro a me, Satana!” (Mt 16,23). Non starmi davanti, non voler suggerire, ma accogli, stammi dietro, vieni con me e basta!

Con la prima lettura, tratta dal profeta Zaccaria, la chiesa collega l’esultanza di Gesù al suo venire a Gerusalemme per compiere quella rivelazione della benevolenza del Padre per i suoi figli: “Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile [mite, secondo l’antica versione greca], cavalca un asino, un puledro figlio d’asina”. Di fronte alle fulminee campagne di Alessandro Magno che conquistano tutti i paesi limitrofi di Israele, il profeta invita il suo popolo a confidare nella mitezza e umiltà di un Messia che non si avvarrà della potenza militare per portare pace a Gerusalemme. Riferimento, che gli evangelisti hanno applicato a Gesù che entra trionfante in Gerusalemme, ma per esservi ucciso. Quella mitezza e umiltà sono sottolineate dal salmo responsoriale con il riandare alla proclamazione del Nome di Dio dopo il peccato del vitello d’oro: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore” (Sal 144/145,8).

Mitezza e umiltà contraddistinguono Gesù nell’offrire il suo ristoro/riposo a coloro che sono stanchi e oppressi. E come non esserlo in questa vita attraversata da così tante prove e fatiche? Se non esiste via d’uscita alla fatica del vivere, è però possibile aprirsi alla grazia che la feconda. In effetti, se consideriamo il racconto della creazione nel libro della Genesi, scopriamo che Dio: “cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro che aveva fatto” (Gn 2,2). L’espressione ‘cessare da ogni lavoro’ corrisponde al ‘riposare’. Ora, ‘riposare’, ‘riposo’, non sono concetti negativi, ma intrinsecamente positivi. Ciò che rende completa la creazione è quel ‘riposo’, sinonimo di pace, armonia, felicità, pienezza, vita eterna. Il termine greco usato nella Bibbia dei LXX per rendere ‘riposo’ è lo stesso che viene usato per le parole di Gesù: “Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita”. Il ‘ristoro’ che dà Gesù è quel ‘riposo’ che caratterizza la completezza della creazione. Ciò significa che Gesù costituisce davvero il compimento della nostra umanità; che in lui la nostra umanità si compie, si realizza e si ‘riposa’ (cfr. Mt 5,5). Non solo, ma che le caratteristiche del cuore di Gesù, mitezza e umiltà, costituiscono le coordinate di ogni possesso in pienezza, la cifra dello splendore dell’amore che ‘soddisfa’ il cuore dell’uomo. La dolcezza e leggerezza della legge evangelica derivano da qui, sebbene all’inizio e ad uno sguardo superficiale la legge evangelica appaia esigente e pesante, come del resto altri passi del vangelo dichiarano senza reticenze.

La colletta riassume in tre caratteristiche l’andar dietro al Cristo: 'rendici poveri, liberi ed esultanti'. Poveri di tutto ciò che ci allontana dalla rivelazione del volto di misericordia di Dio per noi, liberi da tutto ciò che si oppone a quella rivelazione ed esultanti per tutto ciò che la consente. Ma giustamente 'a imitazione del Cristo tuo Figlio' perché, per quanto si sia desiderosi dei segreti di Dio, non si è disposti a riconoscerli dove si trovano, ad accettarli per quello che sono, a goderli per quello che comportano. Stare con il Signore Gesù è il modo migliore per riconoscere le vie di Dio, accogliere i suoi segreti e non illudere il nostro cuore. Per questo, per quanto strana suoni l'espressione, viene aggiunto 'per portare con lui il giogo soave della croce'. Nulla di più contrastante tra 'soavità' e 'croce'. Ma quel 'con lui' cambia tutto.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo Ordinario

 

XV  Domenica

(13 luglio 2014)

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Is 55,10-11;  Sal 64;  Rm 8,18-23;  Mt 13,1-23

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Per tre domeniche successive la Chiesa farà proclamare la lettura del cap. 13 di Matteo, il capitolo delle sette parabole del Regno. Oggi viene proclamata la prima parabola, quella del seminatore, non semplicemente la prima delle sette, ma la parabola che fa da sfondo a tutte le parabole.

Possiamo introdurci al mistero svelato da questa parabola con la prima lettura tratta dal profeta Isaia. La parola è paragonata all’acqua, che sembra scomparire nella terra, in realtà la feconda. Il cap. 55 conclude il libro del secondo Isaia, il libro della consolazione (capp. 40-55). Il contesto riguarda il popolo esiliato a Babilonia che riceve la promessa di liberazione imminente: “Voi dunque partirete con gioia, sarete ricondotti in pace” (Is 55,12). È la fiducia nel perdono rigenerante di Dio, che resta fedele alle sue promesse.

La chiesa accosta questo brano alla parabola evangelica per approfondirne l’intelligenza. È quella parola, che ha l’efficacia dell’acqua che feconda la terra, ad essere seminata nei cuori degli uomini; è la parola che rivela i misteri del Regno in chi l’accoglie. Da notare che la parabola del seminatore è preceduta dalla solenne dichiarazione di Gesù: “Poi tendendo la mano verso i suoi discepoli, disse: ‘Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre” (Mt 12,48-50). E subito segue la parabola del seminatore. Possiamo comprendere: accogliere la parola significa diventare familiari di Dio, condividere i suoi segreti, diventare eredi del Regno del Padre. Proprio quello che Gesù dirà alla fine di tante parabole: “prendi parte alla gioia del tuo padrone” (Mt 25,21). Come anche san Paolo sottolinea nella sua lettera ai Romani: “… avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abbà! Padre!” (Rm 8,15).

Come riferito dal profeta Isaia: tutto è fondato sulla fedeltà di Dio alle sue promesse. E come la parabola rivela sottolineando l’azione del seminatore che esce: “Quel giorno Gesù uscì di casa … Ecco, il seminatore uscì a seminare”. Gesù, Verbo del Padre, lascia il Padre e viene tra gli uomini, non solo seminando la Sua parola nei cuori, ma seminando Sé, Sua Parola Vivente, nei cuori. Quello che Giovanni riassume in due espressioni paradigmatiche del segreto di Gesù: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito …” (Gv 3,16) e “Gesù doveva morire per la nazione; e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 12,51-52). Il seminatore esce per svelare il volto del Padre che è misericordia per noi e per riunirci alla mensa del suo amore. Così c'è identità tra il seminatore e il seme, perché Colui che semina e la cosa che viene seminata è la stessa realtà, Gesù stesso. Ognuno è chiamato a far nascere e far crescere Gesù dentro il proprio cuore. E questo è il significato profondo della parabola. L’eredità del Regno è proprio Lui, quel Figlio dell’uomo che riunisce la famiglia degli uomini nella gioia del Padre che vuole la comunione con i suoi figli.

Siccome si tratta di seminagione, l’elemento tempo è essenziale. Lo ricorda il passo parallelo di Luca: “Quello sul terreno buono sono coloro che, dopo aver ascoltato la Parola con cuore integro e buono, la custodiscono e producono frutto con perseveranza”. Da intendere: nella pazienza. La perseveranza dice il tempo necessario perché la magnanimità e la tenacia con cui si pazienta sveli il frutto agognato.

La comprensione della parabola comporta però un aspetto angosciante, come intollerabile: “Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono”. E qui Gesù cita Is 6,9-10. Quel passo di Isaia, che conferma angosciosamente la possibilità del rifiuto da parte del popolo, come tutta la storia sacra dimostra, è citato da tutti i vangeli e anche dagli Atti degli apostoli. In Giovanni 12,40 il passo si riferisce allo scandalo della passione che impedisce a molti di riconoscere il Messia. In At 28,26-27 conclude il racconto degli Atti con il rifiuto da parte di molti della predicazione di Paolo, prigioniero a Roma e prossimo al suo martirio.

Credo sia da vedere in questa drammaticità della rivelazione la dimensione dell’amore del Padre che si svela nello scandalo della passione di Gesù. Tutto ciò che si riferisce al Regno (il che significa: tutto ciò che ha attinenza con il compimento dei desideri profondi del cuore nella vita) passa per l’accettazione della debolezza di Dio che è più forte della forza degli uomini. Forse non riusciamo più a cogliere il mistero di Bene che il Signore ci squaderna. Possiamo ancora sentire la verità di quel “beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano”, eco della preghiera di lode di Gesù: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11,25) e della comunanza di vita che Gesù ci offre: “chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre” (Mt 12,50) ? Con le parabole del Regno Gesù ci invita appunto alla sua comunanza di vita con il Padre, che è amore per noi.

Ogni dono dell’Amato è sempre presenza dell’Amato; dietro ogni Parola annunciata, ascoltata, sta sempre il desiderio di Dio di essere accolto e l’invito suo ad accoglierlo. Questa alleanza di Dio con l’umanità costituisce il quadro di riferimento della parabola del seminatore. Lo proclama anche il passo di Isaia che precede il brano letto oggi: “O voi tutti assetati venite all’acqua…Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e voi vivrete. Io stabilirò con voi un’alleanza eterna” (Is 55,1.3). In quel contesto prende significato la prodigalità del seminatore (non si stanca mai di seminare, non teme di buttar via il seme, si rivolge a ogni tipo di terreno, evidentemente perché sempre Dio ricerca la conversione del cuore dell’uomo che da un tipo di terreno può passare a un altro) e la potenza di crescita del seme (che può sempre produrre fino a 100 volte tanto), mostrando in questo il compimento dei desideri del cuore dell’uomo (“Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna” (Mt 19,29).

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo Ordinario

 

XVI  Domenica

(20 luglio 2014)

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Sap 12,13.16-19;  Sal 85;  Rm 8,26-27;  Mt 13,24-43

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La parabola della zizzania risponde alla domanda che tutti angoscia: perché il male è mescolato al bene? Gesù, quando racconta le parabole, spesso conclude con l’avvertimento: chi ha orecchi intenda! Ma qui, l’avvertimento non è dato alla fine del racconto della parabola, ma dopo la spiegazione stessa della parabola che avrebbe dovuto chiarirne adeguatamente i significati nascosti. Il passaggio dal nascosto al chiaro è continuo, non è mai dato una volta per tutte e segue l’evoluzione del rapporto di intimità con Gesù, il Figlio di Dio, ‘potenza e sapienza’ di Dio. La spiegazione della parabola in effetti non racconta semplicemente l’evento che succederà alla fine della storia, ma illustra la prospettiva nella quale vivere il presente della storia, segnata dalla presenza dei malvagi e dall’imperversare del male. Come convivere con i malvagi è domanda più pertinente del perché ci sono i malvagi (i servi della parabola chiedono al padrone da dove viene la zizzania). L’unico buon atteggiamento possibile resta quello del padrone: “Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura”.

La ragione? La si può desumere dal libro della Sapienza, proclamato nella prima lettura. La domanda che angoscia i giusti: “Perché Dio non toglie di mezzo i malvagi? Perché Dio lascia spazio al male?”, nel brano della Sapienza è formulata in questo modo: “Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento”. ‘Tale modo di agire’ fa riferimento all’indulgenza e alla mitezza con cui Dio, dotato di forza onnipotente, agisce verso gli uomini e li giudica. Quel ‘deve amare gli uomini’ sarebbe, letteralmente, ‘è necessario che il giusto sia amante degli uomini’. Dove la Scrittura segnala un ‘deve’, vuol dire che allude a una radice e a un compimento divini, a un esito divino della vita umana.

Quando il salmo 85 riprende, come a commento del brano della Sapienza, la lode di Dio compassionevole, pieno di amore, fedele e misericordioso, lo fa in un contesto preciso, che è il seguente: “O Dio, gli arroganti contro di me sono insorti e una banda di prepotenti insidia la mia vita, non pongono te davanti ai loro occhi” (Sal 85,14). L’invocazione a Dio misericordioso nasce dal fatto che il giusto subisce l’azione dei malvagi e l’invocazione si traduce nella richiesta della ‘forza’, tipica di Dio, che è quella della ‘indulgenza, mitezza, pazienza …’. È esattamente il contesto della parabola della zizzania. Dio non toglie di mezzo i malvagi perché sono oggetto della sua pazienza, perché i giusti possano rivelare ai malvagi la forza di Dio che non rinuncia al suo amore perché l’uomo lo disattende e i giusti saranno tanto più giusti quanto più faranno risplendere la potenza di amore paziente di Dio.

Il Signore vuol fare degli uomini i figli del Regno, ma insieme, di nascosto, è all'opera anche il Maligno che invece vuole renderli suoi figli. L'esito della contesa tra l'uno e l'altro è scontato: prevarrà il Regno di Dio. Il problema nasce dal fatto che, se il Regno di Dio è reale per noi e dentro di noi, non è ancora però manifesto, per cui l'uomo si sperimenta come un campo di tensioni contrapposte, che la venuta di Gesù rende ancora più evidenti.

All’uomo giusto il malvagio non interessa per il giudizio ma per la segreta provvidenza che comporta. Là dove il male imperversa si acuisce la sofferenza, ma chi accoglie la sofferenza degli altri permette alla propria umanità di splendere. Solo così il mondo è passibile della rivelazione del Regno e se il malvagio non viene meno è solo perché, nella pazienza di Dio, il bene risplenda nella scoperta di nuove dimensioni di umanità, cosa che fa presagire la presenza accompagnatrice di Dio nel mondo.

La fonte di tale ‘pazienza’ dei giusti è basata sulle altre due parabole, quella del granellino di senapa e del lievito, parabole che rispondono alla domanda: perché l’inizio del Regno è così insignificante? Dove si rivela l’evidenza del Regno?

La parabola del seme non insiste tanto sulla sua piccolezza, ma sulla potenza che possiede nonostante la sua piccolezza. La parabola del lievito mostra come l’evidenza del Regno non riguardi una cosa o l’altra. Del ‘regno’ non si può dire: eccolo qui, eccolo là. Riguarda l’insieme del mondo, della vita, dei rapporti, dell’agire e del sentire, dell’essere e del fare. Girolamo spiega come il lievito sia la conoscenza e la comprensione delle Scritture, la conoscenza del mistero del Figlio di Dio fatto uomo per noi, la gioia della scoperta del Figlio di Dio come tesoro e perla preziosa tanto da investire tutte le proprie energie in quel cammino di scoperta e da cedere ogni altro bene in vista di ottenere e di condividere con tutti quel tesoro. Saranno le parabole proclamate domenica prossima. Sempre secondo s. Girolamo, la potenza del lievito è quella di portare tutto all’unità: all’unità delle potenze dell’anima, all’unità di spirito/anima/corpo, all’unità della famiglia umana. È la tensione divina che attraversa la nostra storia, che per questo è sempre storia sacra.

Così, davanti al dramma del male che non ci abbandona, resta la fiducia ancora più grande nella potenza di quel Verbo, fatto uomo, accolto in cuore e capace di portare tutto a Lui e in Lui. Solo coloro che preferiscono i pensieri di Dio ai propri (“Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli”, Mt 11, 25) possono confidare sulla forza paziente di Dio, resi partecipi dei segreti di amore per gli uomini nel Signore Gesù. Lo preghiamo con l’orazione sui doni: “ … ciò che ognuno di noi presenta in tuo onore giovi alla salvezza di tutti”. Come a dire: sono graditi a Dio solo i doni che procedono da quella ‘forte pazienza’ nel rispondere con il bene al male perché a tutti sia reso noto il mistero di amore di Dio per gli uomini.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo Ordinario

 

XVII  Domenica

(27 luglio 2014)

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1 Re 3,5.7-12;  Sal 118;  Rm 8,28-30;  Mt 13,44-52

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La proclamazione del vangelo contiene le ultime tre parabole del Regno. Voglio considerare in particolare quelle del tesoro nascosto in un campo e della perla preziosa. Le due parabole rispondono alla domanda: potrà l'uomo portare il giogo del Regno dei cieli? Non c'è contraddizione tra il suo istinto alla felicità e l’asprezza dell'esigenza evangelica?

In queste parabole l'accento non è posto sul fatto che l'uomo è chiamato a lasciare tutto per il Regno dei cieli, ma che lascia tutto perché trasportato dalla gioia di una scoperta che gli riempie il cuore. Non solo, ma che una realtà capace di riempire il cuore non può essere che insieme esigente e gioiosa: esigente perché gioiosa e gioiosa perché esigente. D’altra parte, il Regno non si contrappone a nulla di per sé. Non è la perla più bella delle altre. È, più semplicemente ma più potentemente, la perla di ‘grande valore’; è il tesoro tra i beni e non un bene più prezioso degli altri beni. Saper cogliere questo è frutto di ‘sapienza’ e la colletta fa pregare: “concedi a noi il discernimento dello Spirito, perché sappiamo apprezzare fra le cose del mondo il valore inestimabile del tuo Regno, pronti ad ogni rinunzia per l’acquisto del tuo dono”.

È il tema della prima lettura, dove il re Salomone chiede la sapienza del giudicare per guidare adeguatamente il popolo di Dio, con la conseguenza di avere insieme anche quello che non ha chiesto: Regno, vittoria e stabilità. Chiedere sapienza per il cuore per ben discernere significa predisporsi a vivere la vita per il verso giusto, per il verso santo, nel disegno di vita che Dio ha tessuto per noi. E la sapienza va impetrata dall'alto perché il tesoro e la perla di gran valore sono come nascosti; realmente si possono trovare, ma solo dentro una rivelazione che fa aprire gli occhi.

Il salmo responsoriale commenta la domanda della sapienza con il salmo 118/119, un inno alla sapienza di Dio che si manifesta nei suoi comandamenti. Il versetto 130 recita: “La rivelazione delle tue parole illumina, dona intelligenza ai sapienti”. Quella illuminazione, che è ripresa da Gesù quando chiede ai discepoli: “Avete compreso tutte queste cose?”, concerne l’intima struttura del nostro cuore, modellato, come dice san Paolo, conforme al Figlio dell’uomo: “Poiché quelli che egli ha da sempre conosciuto, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo…” (Rm 8,29). Domandando la sapienza si domanda di riuscire a cogliere quei desideri del cuore che il Signore ha impastato con la terra quando ci ha creati, prima di soffiarci il suo alito di vita. Sì, perché quei desideri hanno a che fare con l’umanità di quel Figlio inviato a mostrarci la grandezza dell’amore del Padre e a riunirci tutti insieme in un’unica famiglia. La traccia di quei desideri, secondo quella conformità al Figlio, precede il nostro volere, viene prima di ogni nostro merito o demerito, cercato o patito.

Potremmo anche spiegare la nostra condizione umana in questo modo. Conoscere il bene e il male significa conoscere le vie della vita. Ma chi può illudersi di conoscerle? Se l’uomo non si fa piccolo, non si dispone cioè alla confidenza nel suo Dio, come potrà godere dei segreti della vita per cui è fatto? Il dramma dell’uomo sta appunto nel volere la vita senza fidarsi del suo Dio che gliel’ha preparata. Chi non vede in Gesù la promessa di vita che si compie per l’uomo da parte di Dio, non sarà disposto ad accoglierlo e non vedrà il tesoro che costituisce per la sua umanità.

Quando si chiede la sapienza dall’alto si attiva il principio del discernimento proprio in vista del tesoro del Regno dei cieli godibile per il nostro cuore. Non per nulla, s. Antonio il Grande, padre del monachesimo egiziano, diceva che il discernimento è la virtù essenziale, la più fondamentale. E quando Gesù domanda se i discepoli hanno compreso allude a questa operazione del cuore: avete afferrato con la testa che cosa le mie parole abbiano a che fare con la vostra vita? Allora unirete la comprensione all’ubbidienza e all’azione, nella fiducia in me che vi parlo e consegno a voi i miei segreti, che saranno i vostri segreti.

Rispetto alla formulazione delle parabole, va detto che il Regno dei cieli non è paragonato a un tesoro o a un mercante. Il paragone si gioca sulla situazione che si è invitati a vivere, come a dire: il Regno dei cieli è simile a ciò che succede quando si scopre un tesoro o quando un mercante trova una perla di grande valore. Il punto nevralgico per la comprensione è dato appunto dalla gioia della scoperta. Tutta l'azione successiva scaturisce dalla gioia prorompente della scoperta. Senza quella gioia non è possibile concepire nessuna azione significativa a livello dell'orientamento della propria vita, sebbene le parabole alludano anche ad altre dinamiche, più nascoste ma non meno vere.

Alla dinamica di ricerca, anzitutto. Non si scopre a caso. Ci deve essere, di fondo, una passione per ciò che è prezioso, una inquietudine che non ti lascia vaneggiare o istupidire. Non sono sufficienti, al cuore dell'uomo, le cose che arriva a possedere; ha bisogno di cogliere quello che dentro le cose vive e attira, quello che solo può colmare il suo desiderio.

Alla dinamica di compravendita. Ciò che è prezioso non sta insieme a ciò che è vile, ciò che è profondo a ciò che è superficiale, ciò che ha sostanza con ciò che ha solo apparenza. Perlomeno, insieme non possono stare tanto tempo e difatti viene il momento in cui ci si deve disfare di una cosa per comprare l'altra. E' inevitabile.

Alla dinamica di rischio. Più grosso è l'affare, più alto il rischio. E quando il tesoro o la perla trovata sono incomparabilmente più preziosi di tutto quello che ci si sarebbe potuti immaginare di trovare, allora ci si disfa di tutto. Il tutto di cui ci si disfa è direttamente proporzionale alla preziosità del tesoro trovato. La molla che permette, anzi che spinge al rischio della compravendita è appunto la gioia, percepita così profonda e piena da cacciare ogni timore.

Un’ultima annotazione. La scena delle parabole è presentata come avvenisse in un momento determinato. Invece interessa tutto il corso della vita. Sempre troviamo averi che occorrerà vendere per godere appieno del nostro tesoro dove far riposare il cuore in tutta pace. E sarà sempre la stessa dinamica in gioco: una nuova gioia ci farà accettare il rischio, fino a che tutto di noi risplenderà della luce di quel tesoro e via via scopriamo come il cuore si possa costantemente rinnovare e aprire alla rivelazione del suo Signore, mai sazio di Lui come mai sazio di vita e di amore.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo Ordinario

 

XVIII  Domenica

(3 agosto 2014)

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Is 55,1-3;  Sal 144;  Rm 8,33.37-39;  Mt 14,13-21

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Il brano evangelico incastona l’episodio della moltiplicazione dei pani nel movimento di compassione di Dio per l’uomo: “e sentì compassione per loro”. Dietro ogni parola di Gesù, dietro ogni gesto sta la sua ‘compassione’, che rimanda direttamente all’amore sconfinato di Dio per i suoi figli, per i quali non ha esitato a mandare il suo Figlio. Proprio come annotava Origene in un suo commento a Ezechiele: “Egli è disceso sulla terra mosso a pietà del genere umano, ha sofferto i nostri dolori prima ancora di patire la croce e degnarsi di assumere la nostra carne; se egli non avesse patito, non sarebbe venuto a trovarsi nella condizione della nostra vita di uomini. Prima ha patito, poi è disceso e si è mostrato. Qual è questa passione che per noi ha sofferto? È la passione dell’amore”. È a partire da quella ‘passione’ che Gesù si ‘muove nelle viscere’ davanti allo smarrimento, alla sofferenza, alla fatica degli uomini.

Ed è per aver percepito quella ‘passione’ che san Paolo dirà con la convinzione dell’esperienza di una vita: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione ...? … Io sono infatti persuaso che né morte né vita … né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore”.

Quando il profeta Isaia, sempre percependo quella ‘passione’ di Dio per il suo popolo, riassumerà l’invito di Dio per gli uomini alla comunione con Lui, dirà: “Ascoltate e vivrete”. L’eco di quell’invito risuona ancora nelle parole di Gesù: “Venite … e io vi ristorerò”. Ed è proprio quell’invito che fa da porta di accesso all’intelligenza del brano evangelico di oggi. “Ascoltate” significa: abbandonate la calca e il rumore, venite in disparte, accogliete la mia pace. “Vivrete”: tornerete all’essenziale, gusterete di nuovo intimità e avrete riposo perché pienezza. La parola del Signore, ascoltata nel cuore, porta a gustare l’alleanza di Dio e l’alleanza di Dio è compiutamente rivelata nel Signore Gesù Cristo.

E proprio Gesù torna a dire: se venite a me, troverete riposo. Il riposo che dà Gesù non si riferisce al riposo dopo una fatica, dopo un lavoro. Si riferisce a quel ‘riposo’ che Dio ha voluto per il settimo giorno dopo aver creato in sei giorni tutte le cose. Ha il sapore di un compimento, di una pienezza e di una pace che attraversa tutte le cose e ne rivela il senso ultimo, lo splendore nascosto. Rivela la ‘passione’ di Dio che ha toccato i cuori degli uomini e li ha convertiti al suo splendore. Così, quando Gesù, dopo aver guarito molti, si accinge a dar loro da mangiare moltiplicando le poche cose di cui disponevano i discepoli (solo il pane distribuito è un pane goduto e moltiplicato), a quel mistero si allude. Dando loro da mangiare li fa ‘riposare’, li introduce nel mistero del suo ‘riposo’.

E se Gesù dice agli apostoli "date voi loro da mangiare" intende cooptare i discepoli nel dono del suo 'riposo', fatto che i Padri hanno sempre interpretato come un affidare loro il compito di spiegare le Scritture come un pane spezzato per nutrire l'intelligenza dei fedeli. E l'intelligenza dei fedeli resta nutrita appena il cuore si apre a quella rivelazione: i pensieri di Dio sono diversi dai nostri, il suo amore ci raggiunge comunque, il suo perdono, cioè la comunione con Lui, ci è sempre offerto. E questo è il banchetto a cui siamo invitati. Non per nulla tutto il brano evangelico ha una forte coloritura eucaristica. I verbi che introducono il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci sono i verbi tipici della celebrazione eucaristica: prese i pani, li benedisse, li spezzò, li diede. E l'Eucaristia costituisce il momento culminante dell'offerta di comunione da parte del Signore all'uomo tanto da renderlo un tutt'uno con Sé. È questa 'comunione' che sazia il cuore dell'uomo.

In effetti, nel movimento di rimandi che attraversa il brano, come il popolo nel deserto aveva ricevuto da Dio la manna per poterlo attraversare, così Gesù dà il pane alla gente nel deserto. Non è detto chiaramente, ma l’allusione è potente: il pane dato da Gesù è l’eucaristia, il suo corpo ‘dato per noi’. E dall’eucaristia scaturisce la responsabilità dell’amore, la condivisione con i fratelli, ma non semplicemente la condivisione dei nostri beni, bensì la condivisione della fede in Lui, della conoscenza di Lui, tanto che i beni scambiati non parleranno tanto del nostro impegno di generosità, ma dello splendore dell’amore di Gesù che ha conquistato i cuori. In quello splendore consiste il ‘riposo’, speranza vera per il mondo, riposo che diventa rigeneratore di vita e lievito di umanità.

Come per il mangiare, così per l’ascoltare. L’ascoltare riguarda sempre l’ascoltare una ‘parola viva’ per avere la vita. Ma che cosa fa vivere il cuore dell'uomo? Con il salmo 144, apprendiamo che Dio è paziente e misericordioso con gli uomini, mentre gli uomini, con se stessi e con i loro simili, non lo sono; Lui è buono verso tutti, comunque, mentre gli uomini sono buoni solo ogni tanto e verso qualcuno piuttosto che verso altri. Tenendo conto di come sono fatti i nostri cuori, che si confondono con le loro azioni passate, proprie e altrui, incapaci di aprirsi al futuro come allo spazio di verità e di bene offerto loro da Dio, questa verità è estremamente vivificante per i cuori. Proprio come dice s. Giovanni nella sua lettera: "Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa" (1Gv 3,20).

Sapremo dal seguito del racconto, tenendo conto soprattutto della narrazione di Gv 6, che i discepoli non hanno compreso. Non è così agevole entrare nei segreti di Dio, pur intuendo che quei segreti rispondono alle attese dei nostri cuori. Il miracolo avviene nella sua materialità, vale a dire Gesù ha la capacità di compierlo, l'effetto però non è ancora quello sperato da Gesù. La gente non interpreta secondo i pensieri di Dio, ma secondo i propri e non s’avvede che quel pane distribuito è segnale della consegna di Dio agli uomini perché gli uomini vivano da figli di Dio. Gesù, dopo il miracolo, si ritrova solo. Quando allora tale mistero diventerà accessibile? Lo riferisce s. Paolo: “Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?”. Quando, nell’amore del Signore per noi, che ci ha rigenerati nel perdono, sapremo accogliere con gratitudine la vita; quando non permetteremo a nulla, nemmeno ai nostri ‘nobili’ sensi di colpa, di sopraffare il nostro cuore al di sopra dell'amore del nostro amato Signore, che a noi si è consegnato.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Solennità

 

Assunzione della Beata Vergine Maria

(15 agosto 2014)

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Ap 11,19a; 12,1-6a.10ab;  Sal 44;  1 Cor 15,20-27a;  Lc 1, 39-56

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Un bellissimo tropario della liturgia bizantina canta: “Nella tua maternità hai conservato la verginità, nella tua dormizione non hai abbandonato il mondo, o Madre di Dio; hai raggiunto la sorgente della Vita, tu che hai concepito il Dio vivente e che con le tue preghiere libererai le nostre anime dalla morte”. Cosa proclamiamo nella festa di oggi riguardo alla Madre di Dio? Che è stata assunta alla gloria celeste col suo corpo e con la sua anima e dal Signore esaltata come Regina dell’universo, partecipando in modo singolare alla risurrezione del suo Figlio e anticipando quella che sarà la risurrezione di noi tutti. Della sua morte si dice soltanto che non ha patito la corruzione della tomba. Il nome antico della festa è ‘Dormizione della Vergine’ con l’evidente allusione al mistero del suo transito. È tradizione comune però pensare alla sua morte in questi termini: “Se l’ineffabile suo frutto, per il quale essa è divenuta cielo, ha volontariamente accettato la tomba come un mortale, potrà forse ricusarla colei che senza nozze lo ha generato?”. E ancora: “ Tomba e morte non hanno trattenuto la Madre di Dio, sempre desta con la sua intercessione e immutabile speranza con la sua protezione: quale Madre della vita, alla vita l’ha trasferita colui che nel suo grembo semprevergine aveva preso dimora” (dalla liturgia bizantina).

Nella sua lettera ai Corinzi Paolo fa coincidere il regno di Cristo con la riduzione a nulla di ogni potere della morte. La cosa va vista nel suo succedersi temporale in ciascuno di noi oltre che nella storia. Tutta l'ascesi e la lotta interiore non sono altro che l'espressione di questo potere di Cristo che riduce a nulla il potere della morte che ci assilla e ci impasta. E man mano che questo potere di Cristo prevale, la vita sgorga fluente e incontenibile.

Ora, nella Vergine Maria, siccome tutto questo processo è compiuto, può essere consegnata a Dio Padre, fulgida di tutto lo splendore che la salvezza operata da Dio comporta. Il disegno di Dio in tutto il suo amore per l'uomo, dalla creazione alla glorificazione finale nel suo Regno, solo questa nostra sorella, la Vergine, l'ha potuto godere compiutamente. Oggi, festa dell'assunzione, ella lo sa e può dichiarare: ora so per esperienza tutto l'amore che Dio ha portato all'umanità, che ha portato a me perché sia visibile da tutti! E proprio perché la sua lode per Dio è piena, allora anche l'esultanza del suo cuore è piena e la sua intercessione irresistibile. Guardando alla Vergine gloriosa, assunta in cielo, i fedeli non possono non considerarla, come canta il prefazio: "primizia e immagine della Chiesa … un segno di consolazione e di sicura speranza", e ripetere con il poeta: “Qui se' a noi meridiana face di caritate, e giuso, intra ' mortali, se' di speranza fontana vivace” (Paradiso, canto XXXIII).

In lei possono magnificare l'amore di Dio per l'uomo, la grandezza della salvezza operata da Dio che anche in noi si dispiegherà a suo tempo, come in lei, che per noi intercede. E a lei rivolti, fiduciosi, possiamo pregarla come le antiche comunità cristiane: "Sotto la tua protezione troviamo rifugio, santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta".

Da dove deriva alla Vergine tutta la sua gloria? L’elogio alla madre da parte della donna che ascoltava affascinata Gesù: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!” è trasformato da Gesù nell’elogio ai discepoli: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!” (Lc 11,27-28). Gesù sembra spostare l'attenzione sui discepoli, ma in realtà definisce esattamente in che cosa consiste la beatitudine di sua madre. Come i Padri sottolineano spesso: prima di essere madre fisicamente di Gesù, Maria lo è spiritualmente, perché il suo cuore ascolta e osserva la Parola, l'ha sempre ascoltata e osservata. Se però colleghiamo il commento di Gesù all’espressione pronunciata da Elisabetta nel saluto alla Vergine: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”, ci viene svelato un altro aspetto fondamentale. Ascoltare e osservare la Parola non è semplicemente un mettere in pratica quello che Dio dice. È assai di più. Significa permettere alla promessa di Dio racchiusa nella sua parola di compiersi, di rivelarsi finalmente al cuore e al mondo. Significa acconsentire al desiderio di Dio di compiersi, significa fare in modo che il desiderio che Dio ha di incontrare l'uomo finalmente trovi compimento. Ora, da dove deriva la vita all'uomo se non da un incontro d'amore? Sia in senso fisico, un figlio, sia nel senso di procurare vitalità, gioia di vivere, visione di speranza, forza ed energia. Più questo consenso da parte dell'uomo è totale, più la vita che deriva da Dio è fluente e incontenibile. Vince la morte. Per sempre.

In quel “ha creduto” è indicata tutta la disponibilità della Vergine all’azione di Dio (“Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”) dove il proprio essere è vissuto come risposta al desiderio di Dio, come spazio di compimento all’agire di Dio. Nell’ “adempimento” è adombrata la generazione del Verbo che in lei prende forma. Accogliere il Verbo nella propria umanità significa far risplendere l’amore di Dio nel mondo e compiere la propria umanità permettendole di far trasparire la divina Presenza. La grazia di questa maternità spirituale è estesa a tutti i credenti: tutti possono ereditare la beatitudine che deriva dall'ascoltare e osservare la Parola. Nella dinamica dell’obbedienza della fede, l’ascolto della Parola equivale alla fin fine ad accogliere e generare in noi il Verbo, di cui risplendono tutte le parole della Scrittura.

Ora, la vera meraviglia di Dio per gli uomini è proprio il dono del Figlio, che di quell’umanità che ci costituisce svela i confini e le sorgenti divine. Chi, più della Vergine, ha goduto tutta la potenza di splendore di questo dono per l’umanità? Così l’intercessione della Vergine va nella direzione dell’invocazione della preghiera ‘sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra’, interpretata: ‘si compia il tuo amore finché la terra diventi tutta cielo’; nulla rimanga inaccessibile all’amore di Dio che si dispiega potente. Lei, la serva del Signore, terra come noi, ma totalmente disponibile all’agire di Dio, è diventata tutta cielo. Intercede perché anche la nostra umanità, in ciascuno e in tutti, si allarghi agli spazi e alle profondità della sua stessa umanità, nella comunione con il suo Dio. Per questo la chiesa prega oggi la Vergine gloriosa dicendo con l’orazione alle offerte: “... per sua intercessione i nostri cuori, ardenti del tuo amore, aspirino continuamente a te”.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo Ordinario

 

XX  Domenica

(17 agosto 2014)

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Is 56, 1.6-7;  Sal 66;  Rm 11, 13-15.29-32;  Mt 15, 21-28

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Il tema della liturgia di oggi è l'ingresso dei pagani nell'alleanza del Signore: a tutti si rivolge la salvezza operata dal Signore. Come l'annuncia il profeta Isaia: " .. il mio tempio si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli". Il capitolo 56 inizia la terza parte del libro di Isaia. Siamo a Gerusalemme, pochi decenni dopo la tragedia dell’esilio, in attesa che la promessa di liberazione si compia. La visione del profeta non riguarda però semplicemente la liberazione dall’esilio, ma la valenza profetica di quella liberazione: sarà estesa a tutti i popoli; tutti, pagani e eunuchi (categoria di persone che erano escluse dal culto in Israele), tutti potranno godere della misericordia di Dio, tanto che il Dio di Israele non sarà più indicato come il Dio che trasse Israele dall’Egitto, come il Dio che liberò Israele dall’esilio, ma come il Dio che raduna il suo popolo ‘da tutte le nazioni’.

A dire il vero, siamo abituati a considerare l’universalità della salvezza del Signore nella sua dimensione storica: da una persona a tutto un popolo (Abramo e Israele), da un popolo a tutti i popoli (Israele e le genti). Comporta però anche una dimensione personale. Il che significa: se io ho accolto l'alleanza del Signore, non tutto di me l'ha accolta; se io ho accolto la buona novella, non tutto di me è stato evangelizzato e poco a poco l'insieme di me deve poter godere dei beni di questa alleanza. Se le mie qualità e virtù mi riportano al Signore, anche i miei difetti e peccati devono potermi riportare a Lui. Se un pensiero buono mi svela qualcosa del mio Signore, mi introduce nella sua intimità, anche un pensiero cattivo cela qualcosa da scoprire per il mio cuore in rapporto al Signore, così un mio peccato, una mia debolezza. "Tutti i confini della terra" del salmo 66 alludono proprio alla totalità degli aspetti che ci compongono e ci strutturano: tutti appartengono al Signore, tutti sono destinati a essere riportati al Signore.

Il brano del vangelo lo mostra splendidamente. I pagani sarebbero entrati nell'Alleanza non con la predicazione o i miracoli, ma attraverso la morte redentrice di Gesù. L'ora però non era ancora giunta e Gesù respinge sulle prime la richiesta della donna cananea. Era ancora il tempo riservato alle pecore perdute della casa di Israele. Ma allora perché Gesù cede all'insistenza della donna, come se lui fosse costretto ad accelerare, ad anticipare la sua ora? Era già successo con la richiesta del centurione (cfr. Mt 8) che Gesù aveva esaudito. Ma qui Gesù sembra alzare il prezzo, sembra voler accentuare una distanza, una inopportunità che tende a suonare ai nostri occhi, oltre che sgradevole, dura e irrispettosa. Non è però stato così per la donna cananea che non recede, non si fa intimidire, ha la risposta pronta, nella quale Gesù vede la fede del suo cuore a cui non resiste. Addirittura, si potrebbe pensare che la fede della cananea faccia presagire alla coscienza di Gesù l’orizzonte universale della salvezza che solamente più tardi si farà evidente. La donna, da pagana, sa che può contare sulla generosità di Dio, sebbene sia perfettamente cosciente di non poter avanzare alcun titolo di pretesa. Non solo, ma sa che nel banchetto messianico il pane sarà sovrabbondante, tanto che lei si può accontentare delle briciole, sebbene Gesù alla fine le dà proprio il pane dei figli.

La particolarità dell'atteggiamento della cananea sta in quel grido 'Signore figlio di Davide' dove compare tutto lo stridore della distanza tra lei, pagana e quel profeta, ebreo. Non minimizza la distanza, la sottolinea, la rimarca e quando Gesù le rinfaccia che non si dà il pane ai cagnolini (i pagani erano chiamati 'cani' dai giudei), non si lamenta e non si ritrae sdegnata del paragone, sviluppa anzi il paragone a suo favore. Riconosce che non ha diritto a quel pane, ma che per la sua sovrabbondanza alcune briciole possono cadere anche per lei. Grande era la sua fiducia in quel profeta e nello stesso tempo era priva di qualsiasi pretesa.

La fede della cananea proveniva poi dall'urgenza del suo bisogno. Non vedeva altri rimedi, troppo era l'amore per sua figlia e allora perché non rivolgersi a quel 'profeta' di cui sentiva dire cose meravigliose, sebbene non possedesse alcun titolo per trovare soddisfazione?

L’aspetto misterioso che va colto è il fatto che fiducia e indegnità vanno di pari passo, mentre normalmente, nelle dinamiche interiori che possiamo osservare, tendiamo a separarle. Invece l'una è custode dell'altra, l'una dice la sincerità dell'altra. Davanti al Signore il nostro cuore è come la donna cananea. È vero, noi siamo nella grazia, abbiamo già incontrato il Signore, ma tutto di noi non è ancora nella luce del suo vangelo. Per molti aspetti siamo cananei, pagani. E possiamo trovare accesso al Signore, Salvatore nostro, solo come la donna cananea, dove la fiducia nella potenza di Gesù sta in stretta compagnia con la coscienza della propria indegnità e l'urgenza del bisogno di guarigione e di vita. L'insincerità del nostro cuore, quello che indebolisce la nostra fede e l'annacqua, è la pretesa di trovar soddisfazione comunque. È la debolezza dell'israelita 'fariseo' che crede di avere la vita perché Dio gliela deve. In questo modo non scoprirà nulla e il miracolo non avverrà.

Ci si avvicina a Dio più si ha coscienza di essere peccatori e meno scusanti si adducono ai propri guai. Quando finiremo di giustificarci accusando gli altri, gli eventi, il mondo, allora saremo sinceri davanti a Dio e scopriremo che Dio non potrà resistere al nostro grido perché indegnità e fiducia accelereranno la sua manifestazione di grazia al nostro cuore. Secondo l’invocazione dell’antica colletta: “O Dio, che hai preparato beni invisibili per coloro che ti amano, infondi in noi la dolcezza del tuo amore, perché, amandoti in ogni cosa e sopra ogni cosa, otteniamo i beni da te promessi, che superano ogni desiderio”. Sebbene non sia agevole credere che i beni del Signore, non solo rispondono ai nostri desideri, ma li precedono e li sopravanzano! Ed è per questo che la chiesa insegna a pregare di insistere presso il Signore di provare nel cuore la dolcezza del suo amore.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo Ordinario

 

XXI  Domenica

(24 agosto 2014)

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Is 22,19-23; Sal 137; Rm 11,33-36; Mt 16,13-20

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I brani evangelici di oggi e di domenica prossima andrebbero letti insieme.

Il mistero della persona di Gesù non viene mai meno. Nonostante tutte le sue spiegazioni e nonostante la confessione, pur sincera, degli apostoli, quel mistero permane, come permane ancora per noi sia nel suo fascino sia nella sua insondabilità. Gesù si avvicina gradualmente al cuore dei suoi apostoli. Prima chiede: “La gente, chi dice che sia il Figlio dell'uomo?” e poi: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Matteo colloca l’episodio a Cesarea di Filippo, città costruita da Erode Filippo presso le sorgenti del Giordano, in una zona rocciosa, alle pendici del monte Hermon; Marco nel viaggio di Gesù a Gerusalemme, Luca è il solo ad annotare: “Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui…”. Come a sottolineare: è da dentro la preghiera che scaturiscono domanda e risposta, perché le domande e le risposte vere non sono curiosità intellettuali ma riguardano la verità di cui ha bisogno il cuore per vivere e solo nella preghiera il cuore può lambire quella verità. Per Gesù, le domande nascono dalla volontà di fedeltà al Padre e nascono nella preghiera perché qui si esprime tutto il contenuto di intimità che quella volontà di fedeltà comporta. Così è per i discepoli, con la differenza che per loro, che non conoscono ancora quella intimità con il Padre, c’è bisogno prima di vedere come prega Gesù, di restare affascinati dalla intensità della sua preghiera, per desiderare a loro volta la stessa cosa. E anche per loro, la risposta scaturisce da quel contesto di preghiera partecipato: tu sei “il Cristo di Dio”, come a dire: tu sei Colui che viene da Dio, che ci sveli il volto di Dio, tu sei il Messia. Ma Gesù sa fin troppo bene che dietro allo slancio del cuore, non c’è ancora tutta la loro mente, non ci sono ancora tutte le loro energie interiori perché i misteri di Dio hanno bisogno di tempo per conquistare l’uomo, che non si rassegna mai a perdere le sue ‘idee’ di Dio.

Quando i discepoli rispondono a nome della gente alludono alla grande attesa che abita i cuori: verrà il messia e ci libererà. Non era importante definire la persona del messia, era sufficiente che fosse definito il ruolo del messia. La gente si ferma qui. Ma a Gesù preme altro e insiste con i discepoli: "Ma voi, chi dite che io sia?”. La risposta di Pietro fa un passo avanti rispetto alla gente; cerca di cogliere la persona del messia senza fermarsi semplicemente al ruolo: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Nella sua professione di fede c’è la confessione di Gesù come l’Eletto, l’Unico, il Figlio Unico, l’Unigenito, nella sua unicità di relazione con Dio; ma anche nella sua unicità di relazione con gli uomini, per i quali è l’Inviato, il Figlio prediletto che rivela l’amore del Padre, l’Unico che può rivelare il vero volto di Dio. Tutto questo esprime la sua confessione di fede ed è per questo che Gesù lo proclama beato in quanto quella percezione non può derivare dalla carne e dal sangue, dalla sua esperienza umana, ma deriva dall’iniziativa stessa di Dio che al suo cuore si è mostrato.

La beatitudine richiama la benedizione proferita in precedenza da Gesù per i discepoli: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza” (Mt 11,25-26). È la benedizione/beatitudine per i ‘piccoli’, per coloro che stanno aperti al pensiero e all’azione di Dio in tutta confidenza, capaci perciò di ricevere senza filtri l’atto di rivelazione di Dio. Ma - il solito ‘ma’ che tanto valore ha nelle cose di Dio - questa rivelazione, che pure è veritiera, vivida, coinvolgente, non ha ancora plasmato la carne e il sangue. In effetti, appena Gesù rivela a fondo il suo mistero, che cioè dovrà soffrire e morire, Pietro si rifiuta di accoglierlo, segno nello stesso tempo del suo amore e del suo essere semplicemente ancora carne e sangue e segno anche della sua paura, paura che nel pericolo della sua vita lo porterà a rinnegare il suo Maestro. Ma quando la paura sarà tolta, quando l’amore del Signore lo farà testimone in mezzo ai suoi fratelli nel senso che l’amore per loro deriverà principalmente dal partecipare all’amore del suo Maestro, allora sarà capace anche lui di dare la vita. La rivelazione avrà plasmato completamente il suo essere carne e sangue. Questo tragitto è il tragitto di ogni discepolo del Signore: dall’essere carne e sangue, giungere alla rivelazione fin tanto che questa avrà plasmato tutto il proprio essere carne e sangue. Dove è in gioco la nostra vita, a qualsiasi livello si intenda, finiamo sempre per riscegliere noi stessi, rifiutando il Signore fino a rinnegarlo, per poi pentirci, piangere, vederlo, sentirci amati, seguirlo finalmente e poter dare la vita per lui.

Gesù fa una promessa a Pietro: “E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa”. Pietro è la traduzione greca del nome aramaico Kepha (roccia). Nell’ambiente di allora non veniva usato come nome proprio di persona. L’attribuzione a Simone, figlio di Giovanni, del nome ‘Kepha’, ‘Roccia’, Pietro, indica il fondamento sul quale si regge la fede: la persona del Figlio del Dio vivente, sul quale l’apostolo e tutti i discepoli con lui possono giocare la loro vita, perché Dio non viene meno alla sua alleanza con gli uomini e perché Gesù costituisce il sigillo ultimativo e definitivo della volontà di salvezza di Dio per l’uomo. Dio in effetti è la Roccia, colui che non viene mai meno, che non manca di adempiere le sue promesse, che è sufficientemente potente per adempierle; se l’uomo lo accoglie, lo riconosce, ne avverte il Bene e gli fa spazio, partecipa anche lui di quella ‘saldezza di fondamento’ e può gustarne la dolcezza incorruttibile.

Il potere delle chiavi, nel giudaismo, si riferisce all’esercizio di un’autorità fondata sull’interpretazione della Legge. Qui invece si riferisce al potere della confessione di fede nel Signore Gesù che apre al perdono dei peccati e dà l’accesso al regno di Dio. È il mistero della ‘conversione’ che ci ottiene la riconciliazione con Dio, nel Signore Gesù, garantita dalla chiesa. Come se la chiesa ci ripetesse sempre: il regno dei cieli è davanti a voi; Colui che Dio ha designato per mostrarvelo, per aprirvelo, per introdurvici, è qui davanti a voi. Lo potete toccare, è finalmente alla vostra portata. Del resto, è esattamente la stessa testimonianza dei discepoli, come riporta Giovanni: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo” (1Gv 1,1-3). In quell’annunzio, efficace, con l’esperienza di vita alla quale apre, c’è tutto il potere delle chiavi della chiesa.

Niente e nessuno può rapirci al Signore: questo significa che le porte degli inferi non prevarranno contro la chiesa. Se siamo suoi, di lui che è il più forte, allora nessuno può rapirci; se prendiamo la vita da lui, che è il Vivente, Colui sul quale la morte non ha più potere, allora la vita che ci attraversa non cederà davanti a nulla perché non è più soggetta alla morte. Quella promessa è da raccordare con l’altra, alla fine del vangelo: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”, parole con cui si chiude il vangelo di Matteo (Mt 28,20). E nelle parole di Gesù è adombrata la promessa che non mancheranno mai uomini e donne che faranno risplendere in mezzo a noi quella Presenza.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo Ordinario

 

XXII  Domenica

(31 agosto 2014)

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Ger 20, 7-9;  Sal 62;  Rm 12,1-2;  Mt 16,21-27

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Il brano di vangelo di oggi, unito a quello della domenica precedente, costituisce un punto nevralgico del racconto evangelico. Gesù svela il suo mistero e insieme quello dei discepoli. È assolutamente significativo che l’annuncio della passione avvenga dopo la proclamazione della beatitudine a Pietro: “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli”, eco dell’altra: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza” (Mt 11,25-26). In effetti, quando Gesù si rivela come il Messia che dovrà molto soffrire, indica la direzione nella quale poter vivere quella beatitudine. Ed è per questo che Gesù subito dopo parla ai discepoli che lo vogliono seguire di ‘rinnegamento di sé’ e di ‘portare la croce’. Ma cosa intende in pratica?

Guardiamo a Pietro. È proclamato beato perché ‘piccolo’, cioè nella disposizione di accogliere e non di suggerire; è chiamato ‘satana’ perché si fa grande: vuole suggerire, vuole stare davanti, vuole condurre. E Gesù lo rimprovera: “Va’ dietro a me”, eco dell’invito di Dio all’uomo a seguirlo, ad ascoltarlo [Dio dice a Mosè: “… vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere” (Es 33,23)]. Prima è chiamato pietra di fondazione, poi pietra di scandalo, perché non esiste altro fondamento se non Gesù.

Pietro, nel rimproverare Gesù, aveva probabilmente temuto per sé. Se Gesù, confessato come il Messia, avesse dovuto patire e morire ignominiosamente, certamente sarebbe svanito il prestigio dell’essere ‘compagno’ del Messia. E allora che ne sarebbe stato di lui? Il ‘rinnegare se stessi’ vale in rapporto al mistero di Dio che in Gesù si fa prossimo agli uomini per la potenza del suo amore, tanto da far scaturire la vita proprio là dove gli uomini mai la cercherebbero. Se gli uomini pensano in prospettiva mondana, come potranno vedere i segreti di Dio? La rinuncia ad ogni prospettiva mondana corrisponde al fatto di seguire il Signore o, nel linguaggio dell’AT, al fatto di servirlo. La sottolineatura di senso è la seguente: imparare a custodire il cuore nella sua promessa e a godere della sua rivelazione perché la vita torni bella e desiderabile sempre.

Quando Gesù spiega ai discepoli il suo dover soffrire, non intende illustrare nessuna ragione misteriosa, ma più semplicemente e più direttamente intende implicarli nella rivelazione dell’amore di Dio per l’uomo; intende collocarli nella verità di un’esperienza di amore che viene dall’alto. Da parte nostra, la resistenza ad accogliere la portata rivelativa di quel ‘è necessario’ indica tutta la distanza tra il sogno di un amore e la concretezza nel viverlo.

Il rinnegamento di se stessi è la rinuncia ad avere qualcosa da difendere (da notare che il verbo è il medesimo che userà l’evangelista quando riferirà del tradimento di Pietro il quale ‘rinnega’ Gesù perché vuole difendere se stesso). La difesa porta sempre sulla vita che temiamo venga oppressa o mortificata; porta sempre a un io che si arrocca nei suoi confini per paura, a un io che non si fida della grandezza che gli è offerta da Dio.

L’anelito del salmo lo esprime a meraviglia: ‘il tuo amore vale più della vita’. A questo alludono le parole di Gesù sul rinnegamento, sul portare la croce. È quanto mai ‘realistica’ l’affermazione di Gesù: “Chi vuol salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà”. La dinamica del perdere/trovare è essenziale alla vita. La vita che si vuole difendere risulta vuota, fasulla, mentre la vita vera, quella desiderabile e che la fa desiderabile, è soltanto quella ‘donata’, cioè trovata. Dire ‘trovata’ significa alludere a quella gioia della scoperta che rende capaci di lasciare se stessi per avere la vita.

Nella reazione di Pietro vediamo la nostra stessa contraddizione. Per esprimerla con le parole della liturgia di oggi: è vero che nel profondo del cuore diciamo "tu sei il mio Dio, dall'aurora io ti cerco, ha sete di te l'anima mia, desidera te la mia carne" (Sal 62). Ma è vero anche che, nel concreto delle situazioni, preferiamo i nostri pensieri ai pensieri di Dio, finiamo sempre per riscegliere noi stessi misconoscendo il Signore. Con accenti drammatici, lo esperimenta anche il profeta Geremia: "Mi hai sedotto Signore, e io mi sono lasciato sedurre", ma davanti alla fatica di star fedeli alla parola del Signore si dice in cuor suo "Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome". A differenza però del profeta Geremia il quale continua dicendo: "Ma nel mio cuore c'era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo", noi fin troppo bene riusciamo a contenere quel fuoco, lo mortifichiamo, lo spegniamo e non riusciamo a volte nemmeno più a sentirne la presenza. Ed è per questo che non riusciamo a liberarci dal bisogno di difenderci, impedendoci però di ‘godere’ la vita e impedendolo in qualche modo anche agli altri.

In questa prospettiva, la frase finale del brano (“e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni”) acquista una valenza insospettata. La fede entra in gioco là dove la carne e il sangue non possono comprendere. Marco Asceta commenta: “Quando si ascolta la Scrittura dire di ‘rendere a ciascuno secondo le sue opere’, non si riferisce alle opere meritevoli della geenna o del paradiso, ma alle opere rispetto alla mancanza di fede o alla fede in Lui. Cristo renderà a ciascuno non come esecutore di un contratto che riguarda gli atti, ma come Dio creatore e redentore delle nostre persone”. Vale a dire: saremo giudicati in rapporto alla fiducia che avremo dato all’amore del Signore. A ciò allude l’invito a prendere la croce e seguire Gesù.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo Ordinario

 

XXIII  Domenica

(7 settembre 2014)

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Ez 33,7-9;  Sal 94;  Rm 13,8-10;  Mt 18,15-20

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La liturgia celebra oggi la chiesa come mistero di riconciliazione. L’annuncio gioioso, misterioso, significativo per il mondo non è che questo: Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio, testimone dell’amore che ridà dignità e fa vivere il cuore dell’uomo!

Una delle espressioni più belle che definiscono la comunità dei credenti la ravviso nell'ultima strofa dell'inno delle Lodi del Comune degli Apostoli, inno che così canta: “L'annuncio che udiste nell'ombra gridatelo alto nel sole: è questa l'estrema consegna del Dio crocifisso e risorto. E voi dite, ridite sui tetti la voce che parla nel cuore: apostoli siate alle genti di Cristo, salvezza e vittoria. Il nuovo messaggio di vita vi ha spinti ai confini del mondo, su lunghi sentieri di croce, araldi del giorno che viene. Su voi, resi saldi in eterno, s'edifica e innalza la Chiesa che eterna, riversa sul mondo da Dio, come un fiume, la pace”. La storia della chiesa, la nostra piccola storia quotidiana rivela la verità di questa espressione: "che eterna, riversa sul mondo da Dio, come un fiume, la pace"? Chi ci avvicina, chi vive con noi, sente anzitutto questo? Perché questo è il segno dell’apertura di credito al vangelo nella nostra vita.

A livello della nostra storia quotidiana, la pace significa essenzialmente riconciliazione: riconciliazione con Dio, con noi stessi, con il mondo, con gli uomini. Quando s. Paolo afferma che noi siamo collaboratori di Dio, intende proprio che siamo collaboratori all’opera della riconciliazione in atto nella storia.

Matteo pone la fraternità nell’orizzonte degli annunci della passione, dentro la logica pasquale, per cui al centro non ci sono i valori o gli ideali, bensì le ferite che vengono assunte e curate. Tutto il capitolo 18 del vangelo di Matteo, il capitolo della fraternità, lo mostra. Se la fraternità è radunata nel nome di Gesù, lo è in quanto accoglie nel suo nome le ferite e i bisogni dei più piccoli, dei deboli, dei peccatori.

Il brano evangelico di oggi segue la domanda degli apostoli: “Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?” (Mt 18,1) con la risposta di Gesù a farsi (letteralmente: umiliarsi) piccoli. Come dicesse: non sapete nemmeno se potete entrare e vi sognate di essere grandi? La domanda vera suona: come si fa a entrare? Stando piccoli, cioè godendo della benevolenza di Dio e fidandosi dei suoi segreti. Sarebbe il senso della parabola del pastore che va in cerca della pecorella smarrita. Da dentro l’esperienza vissuta di quella premura amorosa le parole di Gesù diventano fonte di beatitudine e di moralità per i discepoli: “Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te …”. È l’invito al perdono vicendevole, a vivere da riconciliati, a gustare il segreto di Dio che in questo comandamento si nasconde. Tanto che il progresso nella fede è concepito come un crescere nella condizione di vivere il perdono come segno di quella vita immortale condivisa con il Cristo.

Così, al di là del suo valore ecclesiale e sacramentale, l’espressione ‘Quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo’ assume il senso: se tu leghi, sarai legato; se tu sciogli, sarai sciolto. Proprio come preghiamo nel Padre Nostro: ‘rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’. Dio si muove nei nostri confronti secondo il potere che ci ha accordato. Perdoniamo? Saremo perdonati. Non tratteniamo un'ingiustizia? Anche Dio non la trattiene nei nostri confronti. Siamo generosi con un fratello? Anche Dio lo sarà con noi. Da questo punto di vista, non è importante preoccuparsi di fare bene, ma di non trattenere, di non legare il male di nessuno.

E l’altra espressione ‘dove sono due o tre riuniti nel mio nome’ non allude principalmente alla preghiera, ma al perdono scambievole, alla riconciliazione accolta che testimonia proprio la presenza di Cristo non solo in noi, non solo in mezzo a noi, ma nel mondo, perché l'evento della riconciliazione parla direttamente al mondo della presenza di Dio. La pace tra fratelli, data e accolta, costituisce l'unica condizione di sincerità della preghiera e quindi del suo esaudimento.

Il canto al vangelo lo proclama solenne: “Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo, affidando a noi la parola della riconciliazione” (cfr. 2 Cor 5,19). Se Dio affida all’uomo il ministero della riconciliazione, vuol dire che ritiene l’uomo suo compagno. Con la rivelazione di Gesù, che svela, mentre compie, questo supremo desiderio di Dio, possiamo scorgere all'opera nel mondo le segrete intenzioni di Dio nei confronti delle sue creature.

Noi tutti siamo appunto chiamati a concorrere alla realizzazione di questa 'opera'. In questo senso dobbiamo imparare a giudicare ogni cosa in base alla convergenza verso questo supremo scopo divino. Imparare a diventare coscienti di questa realtà significa passare dal livello psicologico a quello spirituale, diventare compagni di Dio.

Per questo ci è affidata la parola della riconciliazione.

È la parola come forza d’attrazione, come rivelazione del segreto di quel ‘far grazia di sé’ di Dio a noi, di noi a tutti. È il mistero della carità condiviso.

Paolo lo vive come l’unico debito di cui i fratelli portano credito sempre nei nostri confronti. Assolto ogni altro dovere di lealtà, di onestà, di onore, verso tutti, nella società e nella chiesa, per i discepoli di Gesù rimane insolvibile sempre questo: la carità. Ma questo debito è percepito tale se la carità riguarda la condivisione del segreto di Dio che vuole gli uomini suoi figli alla tavola della vita. Se Paolo dice: “pienezza della Legge infatti è la carità”, non allude alla punta di una virtù umana, costituita dall’osservanza della legge, ma all’ispirazione divina, alla potenza divina che opera in noi nell’obbedienza alla legge allargando i confini della nostra umanità sulla misura divina che in Gesù diventa accessibile. Paolo dice appunto: ‘chi ama l’altro’, dove altro sta per straniero e non semplicemente ‘chi ama il prossimo’ entro l’appartenenza ad uno stesso popolo.

Non che la cosa sia così naturale per gli uomini. Lo dice il profeta Ezechiele riportando la critica del popolo al suo Dio: “Non è retta la via del Signore”. L’uomo non è garantito dal bene che ha compiuto come non è condannato dal male che ha fatto. Quello che lo salva è la conversione al suo Dio: “convertitevi e vivrete”. Al centro c’è sempre il mistero dell’amore perdonante di Dio, che ridà gioia e dignità alla creatura liberandola dalle sue rivendicazioni. La carità parla di quella gioia e di quella dignità custodita per sé come per tutti.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Solennità e feste

 

Esaltazione della Santa Croce

(14 settembre 2014)

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Nm 21, 4b-9;  Sal 77;  Fil 2, 6-11;  Gv 3, 13-17

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L’origine di questa festa va ricercata nell’antica adorazione della croce il venerdì santo, descritta dalla pellegrina Egeria che visitò i luoghi santi nel IV secolo. L’oggetto della festa è proprio la croce, non il crocifisso. Suggestivo nella liturgia bizantina il rito dell’innalzamento della croce ai quattro punti cardinali con la solenne benedizione del mondo, accompagnata da 500 invocazioni: Kyrie eleison! La liturgia acclama la croce: ‘arma di pace, che ci ha dato la bellezza, davanti alla quale la creazione gioisce e fa festa, per la quale è stata donata al mondo la misericordia e noi siamo stati attratti a Dio mentre la morte è stata inghiottita’. In particolare, un’immagine colpisce per la sua potenza. Se Adamo è stato ingannato a partire da un albero, anche satana è stato adescato da un legno. Vale anche per il demonio la legge delle passioni umane: più la passione è esercitata senza freni, più ci si allontana dall’obiettivo che si voleva ottenere. Così il demonio si è trovato ingannato con le sue stesse azioni: la morte inflitta a Gesù si è trasformata in vita per tutti, in splendore di amore dove la morte non ha più alcun potere.

L’immagine dell’esaltazione della croce comporta però una terribile ambiguità. Quando Gesù parla della necessità per lui di essere innalzato, allude al supplizio della croce. Come poter tenere insieme sofferenza e gloria? Perché l’innalzamento per noi non è mai percepito nell’umiliazione? Perché la croce, celebrata gloriosa, a noi fa paura?

Quando il libro della Sapienza riprende l’episodio proclamato dalla prima lettura, l’innalzamento del serpente di bronzo da parte di Mosè, così lo interpreta: “Perché ricordassero le tue parole venivano feriti ed erano subito guariti, per timore che, caduti in un profondo oblio, fossero esclusi dai tuoi benefici. Non li guarì né un’erba né un unguento ma la tua parola, o Signore, che tutto risana” (Sap 16,11-12). La salvezza deriva dall’avere fiducia nella parola di Dio che aveva invitato a guardare il serpente innalzato per sfuggire la morte del morso velenoso dei serpenti. La potenza guaritrice della sua parola scaturisce dalla fiducia nella quale si accoglie. Avviene lo stesso guardando al Trafitto sulla croce perché a lui è stato dato un ‘nome al di sopra di ogni altro nome’. Lui più di tutti e di tutto esprime quello che Dio è per noi, vale a dire: Salvatore, Amore salvatore, totalmente e puramente Amore salvatore.

La ragione la illustra Gesù stesso nel colloquio con Nicodemo. A Nicodemo Gesù dice: “Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo ... Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”. Domando: si può salire al cielo senza scendere? L’immagine è quella dell’essere innalzato, ma la realtà è quella del discendere. Forse, l’aspetto più maestoso della gloria di Gesù sta nel suo chinarsi a lavare i piedi ai discepoli. Quel suo chinarsi allude al suo scendere, al perdere ogni parvenza di grandezza per assumere la vera grandezza dell’amore, che è il segreto di Dio e per se stesso e per noi uomini. Il discendere allude all’abbassarsi nel servizio di tutti perché tutti abbiano la vita e godano dello stesso segreto di Dio, il quale non accresce la sua grandezza (Egli è l’Altissimo) se non abbassandosi. Quel movimento è la legge della vita perché l’uomo è fatto a immagine di Dio. Occorre però partecipare al segreto: è l’amore che dà vita. La realtà, alla quale allude la nostalgia che ci abita e che Nicodemo indaga, solo Gesù la compie. Gesù prima gli dice che l’uomo non può vedere, poi che non può entrare e poi che tutto si apre credendo in lui. Quello che s. Paolo proclama in Gal 6,14, cantato nell’antifona di ingresso e dicendo che il mondo è crocifisso per lui e lui per il mondo. Intendendo: non c’è nulla nel mondo che può essere preferito all’amore di Gesù e nulla in se stessi che può trovare compimento al di fuori di Gesù.

Quando Gesù parla di innalzamento alludendo alla sua morte in croce, non fa che esprimere in termini umani ciò che costituisce l’intimità del movimento d’amore di tutta la Trinità. Nessuna delle tre Persone si possiede, ma si riceve eternamente. Lo spazio dell’amore e per l’amore è proprio quella dimensione di ‘spossesso’ che fa vivere dell’altro e per l’altro. Quello che il Figlio rivela vivere nell’amore per gli uomini, Dio lo vive in se stesso. Così, quando Paolo dice che Gesù “svuotò se stesso assumendo una condizione di servo ... umiliò se stesso facendosi obbediente fino a una morte di croce” alza il velo sul segreto della Trinità. Non per nulla il segno di croce è abbinato alla proclamazione delle tre Persone della Trinità.

A questo punto ha senso parlare della gloria della croce di Cristo, come ripete l’antifona di ingresso: “Di null’altro ci glorieremo se non della croce di Gesù Cristo, nostro Signore”. Il che significa che non potremo certo gloriarci della nostra giustizia, ma solo dell’esperienza dell’amore perdonante di Dio che tende a inglobare tutti, senza riserve. E quando l’anima accoglierà senza riserve l’intima logica di quella esperienza nella fede, allora scoprirà lo splendore di un’umanità sulla misura di Dio. Il segno, che quell’esperienza sta radicandosi nell’anima, lo si può intravedere dalla misura di amabilità che il movimento dell’abbassarsi ottiene sul nostro cuore. Allora si può scoprire la croce come colei che ci ha dato bellezza, come ripete la liturgia.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo Ordinario

 

XXV  Domenica

(21 settembre 2014)

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Is 55,6-9;  Sal 144;  Fil 1,20c-27a;  Mt 20,1-16a

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L'antifona d'ingresso canta: "Io sono la salvezza del popolo, dice il Signore, in qualunque prova mi invocheranno, li esaudirò, e sarò il loro Signore per sempre". Evidentemente questa dichiarazione di Dio non la prendiamo troppo sul serio se, di fronte agli eventi che caratterizzano la nostra storia esteriore e interiore e che sono retti dalla Provvidenza di Dio, abbiamo sempre da ridire. Cosa impedisce ai nostri cuori di fidarci di Dio? È il problema della parabola del vangelo di oggi. La domanda di fondo è proprio questa: perché i pensieri di Dio non corrispondono ai nostri? Oppure, perché i nostri pensieri sono sempre così diversi e distanti da quelli di Dio? Cosa andiamo cercando da Dio, dalla vita?

Una prima risposta si trova già nel brano di Isaia: 'Cercate il Signore ...l'empio abbandoni la sua via e l'uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore ...'. Ecco, noi non cerchiamo il Signore, ma i suoi doni; non ritorniamo a Lui, ma semplicemente domandiamo. Non ci interessa molto il suo desiderio di stare con noi, non ci tocca la sua voglia di fare comunione con noi. E non percependo questo, siamo troppo intenti a guardarci l'un l'altro, a vivere di confronti, a temere di avere di meno.

Ma questo atteggiamento verso i nostri fratelli rivela la povertà del nostro legame con Lui, l'insensibilità del nostro cuore al Suo desiderio. E come allora non cadere nella 'gelosia', proprio secondo il rimprovero del padrone della parabola agli operai della prima ora: "Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?". Perché vorremmo limitare la misericordia e la benevolenza di Dio se non perché in realtà non l'abbiamo mai sperimentata, non ce ne siamo mai lasciati toccare? Ritorna alla mente il lamento del fratello maggiore della parabola del figlio prodigo: ma come? Io ti ho sempre servito e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici? (cfr. Lc 15,11-32). Che tipo di intimità aveva con il proprio padre un figlio siffatto? Eppure la sua è la nostra condizione, spesso. Rivelatrice di essa è l'incapacità per il nostro cuore di condividere la gioia, la gioia dei fratelli che possono avere quanto e più di noi, ma soprattutto la gioia del Padre che può dare a tanti quello che di per sé sarebbe riservato a pochi. Noi sicuramente non siamo nel numero di quei pochi e chi, come l'apostolo Paolo, si trova tra quei pochi, lo si riconosce dal fatto che gode più per la partecipazione del bene a tutti che non a se stesso. Non per nulla ritiene la sua vita di nessun conto, e la concepisce solo 'per il progresso e la gioia della fede' (Fil 1,25) di tutti. Non semplicemente per il progresso e la gioia dei fratelli, ma per il progresso e la gioia che i fratelli potranno godere nella loro relazione di intimità con il Padre che è venuto in loro soccorso, che ha inviato loro il suo Salvatore, che hanno conosciuto la misericordia del Signore. L'occhio allora non potrà più essere geloso o invidioso ed il cuore non avrà più pensieri propri, ma solo quelli di Dio e potrà godere con Dio del fatto che la Sua bontà è celebrata sopra ogni giustizia.

Quello che il salmo 144 proclama: “Giusto è il Signore in tutte le sue vie e buono in tutte le sue opere” rivela il frutto di un cammino consumato alla scoperta del nostro Dio; non indica la condizione di partenza. Non per nulla la verità della bontà di Dio è tema di rivelazione: la si può scoprire solo accettando di relazionarsi al proprio Dio, secondo quella radicalità di rapporto che una relazione d’amore comporta. E come in tutte le relazioni d’amore, il mondo interiore viene rivoluzionato. Senza accettare questa ‘rivoluzione’ non si vive l’amore e non si troverà il senso del vivere. Il salmo riporta la definizione di Dio “misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore” che era stata rivelata a Mosè sul Sinai in uno dei momenti più drammatici della storia di Israele. E proprio perché tale ‘Nome’ di Dio non è evidente per il nostro cuore, la liturgia si premura di richiamarcela in vari modi.

La parabola di Gesù è costruita proprio per sorprendere gli operai della prima ora nei loro pensieri segreti. Se il fattore avesse cominciato a pagare gli operai dai primi, non sarebbero stati svelati quei pensieri. Si sarebbero conosciuti solo quelli degli ultimi. Ma la parabola insiste proprio sui primi; il che significa che in quei ‘primi’ siamo compresi tutti noi, per un verso o per l’altro. Dal punto di vista ecclesiale, si può interpretare la parabola come un avvertimento agli israeliti (gli operai della prima ora) rispetto ai pagani (gli operai dell’ultima ora), ai giudeo-cristiani rispetto agli ellenisti, ai pastori rispetto ai fedeli, ecc. La parabola però ha un’estensione molto più larga e allude agli atteggiamenti dei cuori nei confronti di Dio. Tutti vengono pagati nella stessa misura: è proprio questo che urta la nostra sensibilità. Notiamo subito che il padrone della parabola non manca di giustizia perché ai primi dà esattamente quello che avevano pattuito. Semplicemente, non si attiene solo a quella giustizia e dà anche agli altri la stessa paga. Dove sta allora la malizia dei pensieri dei primi? Tutto dipende da come leggiamo l’agire di Dio nei nostri confronti. Le vite degli uomini sono effettivamente diseguali, la sua provvidenza è misteriosa, la conoscenza di lui è misteriosa, le nostre sorti sono diverse, le gioie e le sofferenze sono amministrate nella nostra vita in modo così diverso gli uni dagli altri! Perché tutto questo? Porci questa domanda significa rapportarci agli altri e non a Dio. Non è certamente una domanda maliziosa, ma rivela la difficoltà di cogliere la bontà di Dio e per ciò stesso rivela la natura del nostro rapportarci a Dio in rivendicazione. La rivendicazione esprime gelosia, come dice il padrone della parabola ai primi operai. Il segno della purità di cuore è proprio la mancanza di gelosia, vale a dire la gioia della felicità altrui. La punta segreta di questa gioia sta nella confidenza nel proprio Dio di cui si spera il godimento della promessa fatta a noi. Così, nonostante le diseguaglianze delle nostre vite, nulla ci manca se Dio è con noi.

Potremmo anche domandarci: quando i primi restano i primi? Pensiamo agli apostoli. Sono tra i primi e primi sono restati. Essere primi significa rallegrarsi del fatto che gli ultimi sono preferiti, godere con Dio della sua misericordia per gli ultimi. Anche perché l’invito a scoprire e gustare la bontà di Dio salva i cuori dai confini angusti e li libera da ogni forma di rivendicazione in modo da partecipare ai sentimenti di Dio che vuole tutti suoi amici, senza distinzione.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo Ordinario

 

XXVI  Domenica

(28 settembre 2014)

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Ez 18,25-28;  Sal 24;  Fil 2,1-11;  Mt 21,28-32

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Dopo l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme e la cacciata dei venditori dal tempio, i capi religiosi si vogliono sincerare sull’autorità di Gesù: “Chi ti ha dato questa autorità?”. Loro però riconoscono solo la propria, secondo il rimprovero che Gesù aveva mosso loro: “E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?” (Gv 5,44). Così il confronto si fa aspro, preludio al dramma che di lì a breve si scatenerà. Con tre parabole Gesù racconta l’opposizione che incontra nei capi invitandoli al pentimento.

La parabola di oggi, imperniata sul fare la volontà di Dio, prende le mosse dalla morte di Giovanni Battista e dalla sua infuocata predicazione che aveva suscitato un grande movimento di ritorno all’alleanza ma solo da parte dei peccatori; i capi religiosi erano stati ad osservare da lontano. La parabola è tipica del vangelo di Matteo. Chi compie la volontà del padre? Chi acconsente ma poi non fa o chi alla fine fa, anche senza aver acconsentito prima? Non è un invito all’obbedienza in generale, ma una riflessione profetica sulla storia che va dritta al cuore degli ascoltatori. L’applicazione della parabola è chiara. Voi, capi, avete visto che pubblicani e prostitute si sono pentiti e hanno aderito al messaggio del Battista. Ma voi nemmeno vi siete chiesti: quel profeta allora viene da Dio? Le cose che dice sono dette da Dio? Ebbene, succede la stessa cosa con me. Voi vedete le cose meravigliose che compio, ma non volete vedere l’agire di Dio che compie la sua opera di salvezza. Voi l’aspettate da un’altra parte e invece resterete sulla vostra fame.

Cosa significa pentirsi? Il verbo usato, lo stesso che ricorre nell’episodio di Giuda che riporta ai sacerdoti le monete del tradimento, significa ‘ricredersi’, ‘rivedere le cose sotto altra prospettiva’, ‘cambiare giudizio’; si riferisce non tanto alle azioni, ma al senso di quello che sta avvenendo tanto da vedere la vita sotto altra angolatura. Pentirsi significa aprire il cuore al momento di Dio. Per gli ascoltatori di Gesù, pentirsi significava riconoscere che in Giovanni Battista Dio voleva parlare al suo popolo, riconoscere che Giovanni aveva indicato colui che veniva da Dio per riscattare l'uomo dal peccato e portargli la sua salvezza, riconoscere che in lui veniva manifestata la venuta del Regno di Dio.

Dal punto di vista di Dio non ha alcuna importanza che l'uomo riconosca questo partendo da una sua presunta giustizia o da una sua situazione di peccato: l'unica cosa importante è quel riconoscimento, perché da lì scaturiscono i beni di Dio per l'uomo. E la 'giustizia' dell'uomo per Dio non può provenire che da quel 'pentimento' che induce l'uomo ad accogliere prima di tutto la volontà di Dio su di lui, volontà che esprime il desiderio di Dio di stare con gli uomini, indipendentemente da come o dove si trovano. Tutto ciò che si pone al di fuori o contro o a lato di questo pentimento significa dare più importanza all'uomo che a Dio e in definitiva corrisponde a costruirsi un'immagine di Dio che non è veritiera. E se ci si fida di un'immagine di Dio non veritiera si finisce per costruire anche un'umanità che non ha consistenza di verità e perciò fasulla, quando non distorta.

Ma per il cuore dell'uomo non è così agevole conoscere le vie di Dio. Il salmo responsoriale lo proclama esprimendo l’anelito/angoscia del cuore: “Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri. Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi”. Intendendo: chiediamo non solo di essere illuminati sulla strada da percorrere, ma anche di poterla percorrere, di poter fare ciò che ci è stato indicato. Nel v. 14 dello stesso salmo, seguendo il testo ebraico, diciamo: “Il segreto del Signore è per quanti lo temono e la sua alleanza per farla loro conoscere”. Vale a dire: occorre che il desiderio di Dio e dell’uomo si incontri; che il cuore, prima che alle parole che sentirà da parte del suo Dio, si apra alla volontà di bene che muove il suo Dio nei suoi confronti. Non si può fare la volontà di Dio se non si sente quella volontà amica. Alla fin fine, chiedendo di conoscere le vie del Signore, chiediamo di poter conoscere la bellezza e l’amore di quel Figlio che il Padre ci ha inviato.

Il tutto è fortemente sottolineato dall’inno di Paolo: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini”. Perché? Perché sia fatta la sua volontà, compiutamente ed il suo amore si riveli al cuore dell'uomo, inducendolo a pentirsi finalmente!

Dire ‘avere gli stessi sentimenti di Cristo Gesù’ e dire ‘la volontà del Padre’ è dire la stessa cosa. Se l’apostolo ci invita ad avere gli stessi sentimenti di Gesù è perché solo in quel modo possiamo riconoscerci nella volontà del Padre, possiamo acconsentire a quella volontà e goderne lo splendore di amore che ci viene riversato e che ci spinge a riversarlo su tutti. Gesù costituisce quel punto di incandescenza nella storia dove la volontà del Padre muove l’umanità e questa risplende per l’amore che l’investe e di cui si capacita. Così, fare la volontà del Padre è ritrovarci in Gesù, partecipi del suo essere inviato al mondo per mostrare la grandezza dell’amore del Padre per tutti (cfr Gv 3,16) e per riunire i figli di Dio dispersi (cfr Gv 11,52). È credere in lui da vivere del suo stesso Spirito, è aderire a lui, abitare in lui ed essere abitati da lui.

Le parabole delle domeniche successive dicono fino a che punto l’umanità di Gesù vive la volontà di salvezza per gli uomini da parte del Padre, allorquando il dramma si consuma. L’accento però non sarà posto sulla sofferenza che dovrà subire, ma sullo splendore di amore di cui si fa testimone. Avviene per i discepoli come per Gesù: se il Figlio, secondo le parole di Paolo ai Filippesi, ‘svuotò se stesso assumendo una condizione di servo’, lo può fare perché gode di un amore. Quello ‘svuotamento’ è la condizione perché l’amore si compia e trascini tutti nello stesso movimento. Ci si può svuotare dei propri peccati come delle proprie sicurezze; ciò che conta è svuotarsi perché quell’amore torni a splendere, perché Dio possa essere adorato come il Salvatore, ricco di misericordia per noi. Quello che i capi del popolo e i farisei, interlocutori di Gesù, non avevano potuto capire. E lo svuotarsi attira la grazia perché assimila al movimento che Gesù ha vissuto e che Dio vive in se stesso.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo Ordinario

 

XXVII  Domenica

(5 ottobre 2014)

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Is 5,1-7;  Sal 79;  Fil 4,6-9;  Mt 21,33-43

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La parabola di oggi, da leggere insieme a quella di domenica scorsa e di domenica prossima, ha un sapore profetico preciso: allude alla imminente passione di Gesù che incontra l’ostilità ormai dichiarata dei capi religiosi. Il contesto narrativo è altamente drammatico, come la conclusione, tirata dagli stessi ascoltatori, capi dei sacerdoti e anziani del popolo, lascia perfettamente intendere. Avviene come nel caso di Davide, dopo il peccato di adulterio e assassinio, allorquando si condanna con le sue stesse parole rispondendo all’apologo del profeta Natan (cfr. 2 Sam 12,1-13). L’intensità emotiva dello scontro però non deriva dall’ira, ma da una passione d’amore.

Se leggiamo il testo di Matteo insieme al corrispondente di Luca 20,9-19 possiamo cogliere tutta l’intensità di quella passione d’amore. Nel testo di Luca, i contadini percuotono, insultano, feriscono i servi ( = i profeti) mandati dal padrone della vigna, ma solo del figlio del padrone si dice che lo uccidono; il figlio è presentato come il figlio dilettissimo. Come non cogliere il valore profetico di questi particolari applicati a Gesù stesso, lui, il Figlio prediletto, come viene testimoniato dalla voce del Padre al battesimo e alla trasfigurazione?

Se la liturgia di oggi fa proclamare nel canto d’ingresso: “Tutte le cose sono in tuo potere, Signore, e nessuno può resistere al tuo volere”, parole pronunciate dalla regina Ester nel momento più drammatico della sua vita (cfr. Est 13,9), lo fa riferendosi alla fedeltà di Dio nel suo amore per il popolo, amore che viene descritto dal passo del profeta Isaia della prima lettura. L’immagine dell’uomo che pianta una vigna, la circonda di cure e si attende di raccoglierne i frutti è l’immagine di Dio che, preso d’amore per il suo popolo, stabilisce un’alleanza con lui, vuol condividere con lui il suo Bene. Il legame è così profondo che l’immagine assume sfumature coniugali ad indicare la profondità e la totalità di questa passione d’amore. Così, quando il popolo si ribella e non lo segue, Dio si sentirà ferito non solo nel suo diritto e nella sua proprietà, ma nei suoi affetti, nel suo cuore. Gesù sfrutta questa immagine celebre del profeta Isaia che canta per Dio l’inno d’amore per il suo popolo.

Non per nulla, il canto al vangelo introduce il brano con l’espressione giovannea: “Io ho scelto voi, perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16). In quel scegliere occorre ravvisare tutta la passione d’amore di Dio per l’uomo. Dio sceglie (= pianta la vigna del suo regno, manda a lavorare nella vigna, offre la stessa paga a chiunque accetti di andarvi a lavorare) per raccogliere il frutto, che è la sua conoscenza in intimità; il frutto rimane nel senso che quella conoscenza è l’eredità di tutti, vissuta in solidarietà con tutti, finché tutti possano riconoscere e vivere dell’amore di Dio per l’uomo.

Così, quando Gesù, applicandosi il Sal 118,22 (“La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo”), esprime il suo giudizio: “Perciò vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti”, non intende certo escludere gli israeliti dal suo regno (che passione d’amore sarebbe per il suo popolo!) e darlo ai pagani, alla chiesa dei gentili, ma intende far prevalere la logica della rivelazione di tutte le Scritture: l’elezione è in vista del portare la conoscenza di Dio nel mondo perché tutti godano dello stesso amore. Gesù è colui che questa elezione vive nella sua carne al massimo grado possibile e perciò costituisce, dalla parte di Dio e dalla parte dell’uomo, colui che ne mostra lo splendore di amore che l’ha originata e di cui ne sostiene la dinamica.

Dinamica che Paolo, scrivendo ai Filippesi, dichiara rivelarsi nel fatto di essere lieti nel Signore, lui che ci ha manifestato così grande amore. Letizia, che si trasforma in amabilità nei rapporti con tutti e nel fatto di non angustiarsi per nulla, poiché, come dice Pietro nella sua lettera: “… riversando su di lui tutte le vostre preoccupazioni, poiché gli state a cuore” (1Pt 5,7).  Per questo l’apostolo invita a elevare preghiere, suppliche e ringraziamenti, interessandosi di ogni cosa buona per esprimere nella vita quello splendore che ha illuminato il cuore. Nel suo testo però Paolo dice una cosa misteriosa, non immediatamente accessibile alla nostra psicologia interiore. Invita a stare nella supplica della preghiera con rendimento di grazie. Se non si fa riferimento alla rivelazione di Gesù come pietra d’angolo, non solo in rapporto a ebrei e gentili, ma rispetto a tutte le tensioni che accompagnano la nostra vita e che in lui trovano modo di saldarsi in ricchezza di umanità, come poter rendere grazie nella supplica originata dalla ferita della prova? A questo si ricollega anche la parola di Gesù: “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia” (Mt 6,25).

Nella parabola poi si leggono tra le righe aspetti che suonano tragici. Il ragionamento dei contadini alla vista del figlio mandato dal padrone ‘Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!’ ne è un esempio. Se proprio il Figlio è stato inviato per metterci in possesso della nostra eredità (cfr. Gal 4,4-7), come possono questi illudersi di ottenere diversamente quello che già era stato loro destinato? Spesso ci si ritrova nella vita in tale posizione: volere a tutti i costi un certo risultato, senza immaginare nemmeno che ci verrebbe dato in dono se solo lo sapessimo accogliere dalle mani di Dio! I nostri desideri di gioia, di felicità, di fraternità, non sono forse così spesso disattesi dai nostri comportamenti? Il nostro guardare al Figlio non è forse così spesso appiattito sulle pretese che avanziamo senza poter mai aver sentore della bontà di quell’amore che in Lui ci viene donato? L’amore di Dio non risponde al buon senso, non è contenuto nei limiti del giusto; è proprio folle, folle come quel padrone che, dopo aver visti picchiati e scacciati i suoi servi, non teme di mandare il suo unico figlio. Lui, almeno, lui sì che non deluderà le sue attese, Lui sì resterà sempre testimone di quell’amore folle proprio nel subire la morte e poter riscattare, con la sua risurrezione che lo rende pietra angolare per tutti, la malvagità di quei contadini, la nostra malvagità di uomini peccatori.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo Ordinario

 

XXVIII  Domenica

(12 ottobre 2014)

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Is 25,6-10;  Sal 22 (23);  Fil 4,12-14.19-20;  Mt 22,1-14

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La domanda di fondo che emerge dalla liturgia di oggi potrebbe suonare: la dignità dell’uomo su cosa si misura? Nella parabola, altamente drammatica anche per l’accenno alla catastrofe subita da Gerusalemme nel 70 d.C. ad opera dei Romani (“Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città”), il re sentenzia: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni”.

Le nozze dell’Agnello (“sono giunte le nozze dell’Agnello”, Ap 19,7) sono l’immolazione del Figlio nella sua dimensione di compimento e vivibilità della comunione tra Dio e gli uomini dentro lo splendore di un amore goduto. Perché il re proclama che gli invitati non erano degni? Non ci sono condizioni previe da osservare; c’è semplicemente il fatto di non aver accolto l’invito. L’indegnità corrisponde dunque al rifiuto dell’invito del proprio Signore. L’uomo non è mai indegno rispetto all’amore del Signore perché è il Signore che prende l’iniziativa di rivolgergli il suo amore, senza condizioni. Ma l’uomo può sempre opporre le sue ragioni, può ripararsi dietro la nobiltà ostentata delle sue ragioni e non aderire.

La parabola allude sia al possibile rifiuto di Israele come al possibile rifiuto della Chiesa: gli invitati rinunciano, il commensale, che non porta la veste nuziale, verrà estromesso dalla sala di nozze. Tra la vocazione gratuita e il giudizio escatologico, che appartiene solo a Dio, sussiste lo spazio che possiamo chiamare della dignità cristiana. Sono chiamati tutti, buoni e cattivi; non c’è alcuna distinzione rispetto all’invito. Anzi, come prega la colletta: “O Padre, che inviti il mondo intero alle nozze del tuo Figlio …”, la dignità dell’uomo si misura sul fatto di non impedire a nessuno l’accesso all’invito: siamo chiamati tutti alla stessa tavola del re. Quando però disprezziamo il nostro fratello, quando portiamo rancore, quando creiamo distanza con i nostri fratelli, è come se impedissimo a qualcuno di ricevere l’invito del re ad andare alla stessa tavola della vita. Disprezziamo la volontà del padrone e noi non possiamo più goderla. E questo avviene perché qualche ragione ‘nobile’ ci ha impedito di accogliere l’invito del re, perché non abbiamo conosciuto la premura dell’amore di Dio per noi.

Il parallelo con il brano di Isaia è illuminante. Il profeta descrive il lauto banchetto imbandito sul monte Sion per tutte le genti. L’elezione di Israele è per attirare tutte le genti all’amore del Signore, amore che il Signore farà gustare a tutti. Nella visione del profeta tre sono gli aspetti che caratterizzeranno la gioia della vita: la conoscenza del Signore invaderà i cuori (‘il velo strappato), la morte non avrà più potere, ognuno godrà personalmente (‘lacrime asciugate). Allora si dirà: “Ecco il nostro Dio”, sottolineando nostro come espressione di una esperienza goduta. Allorquando le nozze del Figlio saranno celebrate, guardando a Colui che è stato trafitto, allora si potrà dire: “Ecco il nostro Dio”, ecco dove l’amore ha condotto il nostro Dio, ecco l’amore che fa vivere il nostro cuore. La visione di quell’amore non vale semplicemente per me, ma per me se vale contemporaneamente per tutti. Così, non si tratta di credere semplicemente al Figlio di Dio, ma di vedere il suo amore per noi che diventa in noi radice di vita per tutti. Così custodiamo per tutti l’invito alla tavola del re.

Quando il salmo 22 riprende la visione di Isaia usa l’immagine del pastore che ci procura ristoro. In realtà allude alla rivelazione di Gesù: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,29-30). L’invito alle nozze corrisponde al ‘venite’ di Gesù e per noi si traduce nell’andarci in compagnia di tutti i nostri fratelli perché il suo desiderio di comunione con noi si compia nel suo splendore.

Se ancora ci perseguita l’idea di indegnità rispetto alla chiamata all’amore, allora valgono le parole del canto di ingresso:  Se consideri le nostre colpe, Signore, chi potrà resistere? Ma presso di te è il perdono, o Dio di Israele” (Sal 130,3-4). Il perdono di Dio corrisponde all’invito alla sua stessa tavola in compagnia di tutti. Così sono custodite la preziosità dell’invito e l’umiltà per l’invitato. Come suggeriva il versetto dell’alleluia tratto dalla lettera agli Efesini, il cui passo completo suona: “il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi …” (Ef 1,17-18). Possa davvero il nostro cuore aprirsi al dono di speranza e di gloria che il Signore ha preparato per noi! Quello che il passo dice ai nostri orecchi, l’icona della Trinità di Rublev lo fa vedere ai nostri occhi: i tre angeli in dolce colloquio, uniti nell’amore all’uomo per il quale il Padre celebra le nozze del Figlio e invita tutti, nella forza dello Spirito, a partecipare alla sua gioia. Sulla mensa giace l’Agnello immolato, simbolo e mistero di questo infinito amore che siamo tutti invitati a gustare.

Alle nozze del Figlio fa riscontro la nostra gioia, non la nostra perfezione. Ma la gioia dice l’apertura del nostro cuore all’invito del Padre, nonostante la nostra patente indegnità. In questo contesto suona strana la dichiarazione finale della parabola: ‘molti sono chiamati, ma pochi eletti’. Di tutta la moltitudine che riempiva la sala, solo uno è stato trovato senza la veste appropriata! Se non è un invito alla speranza questo, a fidarci dell’amore di Dio!!!

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo Ordinario

 

XXIX  Domenica

(19 ottobre 2014)

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Is 45,1-6;  Sal 95(96);  1Ts 1,1-5;  Mt 22,15-21

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La vita di Gesù volge al termine e il confronto-scontro con i farisei si fa implacabile. Cercano di incastrarlo con un pretesto politico per consegnarlo all’occupante romano e farlo fuori. Dal loro punto di vista, la strategia è vincente, perché al processo contro Gesù sarà proprio un’accusa di tipo politico a farlo condannare. La questione, scottante allora, era il tributo che ogni cittadino ebreo doveva pagare all’occupante romano. Non era una questione di esosità di tasse, ma di umiliazione di un popolo. Gli zeloti, l’ala intransigente dei farisei,  proibiva ai suoi simpatizzanti di versare il tributo e saranno proprio loro la miccia dell’insurrezione di Gerusalemme nell’anno 67 che causerà, tre anni dopo, la distruzione della città ad opera dei Romani.

Si tratta della tassa pro capite (in latino, census) che i romani esigevano da tutti gli abitanti (uomini, donne e schiavi) di Giudea, Samaria e Idumea, dai 12/14 anni fino ai 65. La tassa versata corrispondeva a un denaro d’argento, l’equivalente della paga giornaliera di un operaio, pagata con una moneta speciale che portava l’immagine dell’imperatore Tiberio (14-37 d.C.) con l’iscrizione: TIBERIUS CAESAR DIVI AUGUSTI FILIUS AUGUSTUS PONTIFEX MAXIMUS (Tiberio Cesare, augusto figlio del divino Augusto, sommo sacerdote).

Come al solito, Gesù evita il tranello ma non evita la domanda e la sua risposta lascia pieni di ammirazione i suoi stessi avversari: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Gesù non ha furbescamente evitato il tranello: se rispondeva sì, si sarebbe attirato l’antipatia del popolo; se rispondeva no, si sarebbe messo contro l’autorità. Gesù, pur conoscendo la malizia della domanda, risponde in verità.

Il senso della sua risposta è illuminato dal canto al vangelo, tratto da un passo della lettera ai Filippesi 2,15-16: “Risplendete come astri nel mondo, tenendo salda la parola di vita”. I credenti in Cristo devono al mondo la luminosità dell’annuncio evangelico, segnale di quella vita eterna che Gesù ci partecipa con il suo amore perché conquisti tutti. Come dicesse: la vita che vivete nel mondo tenetela aperta alla gloria di Dio, le vostre azioni devono restare aperte all’Eterno se non volete restare oppressi e opprimere. Del resto, è caratteristico che nella tradizione ebraica il salmo 95, cantato dopo la lettura di Isaia che presenta un re pagano, Ciro, come il servo di Dio mandato a consolare il suo popolo liberandolo dalla schiavitù di Babilonia, sia tra i salmi recitati in famiglia per il ricevimento dello shabbat. Il ‘sabato’ ci si espone alla luce del Regno perché si possa percepire la presenza del Signore in mezzo al suo popolo, cessando ogni altra attività. Il ‘riposo’ del sabato allude alla luminosità del Regno che attraversa la vita sebbene le preoccupazioni mondane ce ne impediscono la percezione. L’invito a lodare il Signore nella storia quotidiana è l’invito a vedere la luce del Regno. Come se il cuore, nella preghiera, invocasse la fatica che prolunghi nel quotidiano la luce dello shabbat.

L’elogio che viene tributato a Gesù (“Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno”) non risponde solo alla cattiva intenzione dei suoi accusatori, ma esprime anche la condizione per poter discernere l’eterno nel temporale. Diversamente, la storia soffoca o temerariamente esalta, ma non si apre alla salvezza. Aprirsi alla salvezza, alla fin fine, vuol dire sfuggire alla malizia del potere che vuole tutti ‘soggetti’, senza sapere bene in nome di che cosa. L’aspetto straordinario e straordinariamente potente della presa di posizione da parte di Gesù è dato dal fatto che lui è proclamato come non soggetto a nessuno e tuttavia, lui, di se stesso, si proclama sottomesso a tutti (pensiamo all’immagine di lui che si cinge il grembiule e lava i piedi ai discepoli), servo di tutti perché l’amore del Padre conquisti tutti. La libertà che gli è attribuita gli deriva dalla perfetta comunione con il Padre, che vuole tutti salvi e che lo abilita a vivere la vita nel servizio di questa straordinaria provvidenza di amore per l’umanità. Quando Gesù dice di dare a Dio quello che è di Dio allude proprio a quel Padre da cui lui proviene, che lui conosce, di cui testimonia l’amore e di cui mette anche noi in condizione di essere in comunione. Di qui scaturisce quella libertà che, non rendendoci soggetti alle cose, è capace di aprire gli spazi adeguati perché gli eventi si schiudano all’eternità, cioè a quella dimensione del vivere un amore nella storia perché tutti si possa dire: “Grande è il Signore e degno di ogni lode”.

Rispetto al “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” possiamo allora notare tre cose.

La prima: Gesù riconosce la legittimità dell’autorità dello Stato, ma svincola il potere da una legittimità autoreferenziale. Nell’antichità lo Stato si presentava come fonte dei diritti e dei doveri in assoluto, compresa la sfera religiosa. Gesù spezza l’alleanza tra religione e Stato che il paganesimo e l’impero esigevano.

La seconda: non separa semplicemente Dio e lo Stato, ma riorienta il temporale, la politica, alla dimensione spirituale che è costituita dal bene delle persone; non solo, ma riaggancia la politica all’eterno nel senso che nella storia è in gioco il compimento del piano divino di salvezza per l’uomo. Come dice Giovanni Crisostomo: “Il precetto di dare a Cesare quello che è di Cesare va inteso come riferito a quanto non si oppone al servizio di Dio. Diversamente, non sarebbe più un tributo pagato a Cesare, ma al demonio” (Omelia 70,2 su Matteo).

La terza: il principio di fondo è la sovranità di Dio, il suo Regno donato agli uomini che trascende ogni regno terreno. L’uomo è sopra il cittadino, il prossimo sopra il connazionale, la coscienza sopra la norma, la persona sopra la collettività. ‘Io sono il Signore e non c’è alcun altro’ non significa semplicemente che c’è un solo Dio, ma che tutto ciò che esiste a Lui si riconduce; tutto ciò che è veritiero di Lui solo parla; tutto ciò che ambisce ad essere e a permanere in Lui deve essere fondato; tutto ciò che di vero, di bello, di buono, desideriamo non può avere compimento se non in Lui. Essere discepoli di Cristo significa prima di tutto vedere la vita dal punto di vista di Dio: la possibilità di partecipare al dono del suo Regno nella responsabilità della storia.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo Ordinario

 

XXX  Domenica

(26 ottobre 2014)

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Es 22,20-26;  Sal 17(18);  1Ts 1,5-10;  Mt 22,34-40

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Il canto al vangelo (Gv 14,23: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui”) è la finestra di luce che fa intravedere la portata della risposta di Gesù al dottore della legge.

Nella cerchia dei farisei si discuteva sulla possibilità di stabilire una gerarchia tra i vari precetti (gravi o leggeri) o di riassumere tutta la Torà in un unico ‘principio’. La discussione verteva non tanto sul primo comandamento ma sul comandamento grande. La risposta di Gesù unisce il testo di Dt 6,4-5: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” con quello di Lv 19,18: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore” (cfr. anche i passi paralleli, nel contesto più cordiale di Mc 12,28-34 e Lc 10,25-28). Dove sta la novità della risposta di Gesù? La prima novità sta nel raccordare i due comandamenti, dichiarando il secondo simile al primo ed estendendone la portata a tutti gli uomini. L’altra novità consiste nell’uscire dallo schema di riferimento usuale per le Scritture con il porre i Profeti sullo stesso piano della Legge, con l’allusione all’unità delle Scritture che in lui trova ormai la sua chiave di lettura.

La luce, che il canto al vangelo getta sulla risposta di Gesù, fa intravedere  una dimensione ancora più potente nella novità portata da Gesù. Il comandamento allude alla possibile rivelazione del volto di Dio al nostro cuore. Non è la pratica a produrre la rivelazione, ma l’amore che presiede alla pratica e che alla pratica conduce. Perché?

La frase di Gv 14,23 è la risposta di Gesù alla domanda dell’apostolo Giuda: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?”. Una manifestazione che procede da un amore è ravvisabile da chi non partecipa a questo amore? Come suggerisce l’antica colletta della messa di oggi: “Dio onnipotente ed eterno, accresci in noi la fede, la speranza e la carità, e perché possiamo ottenere ciò che prometti, fa’ che amiamo ciò che comandi”. Quando il ‘comandamento grande’ è l’unica parola che il cuore trattiene, quando tutto viene vissuto in rapporto a quello e tutto a quello riconduce, allora avviene secondo la promessa di Gesù: se mi ami, metti in pratica la mia parola e il tuo cuore conoscerà il segreto che a lui è riservato, cioè vivrai della comunione con il tuo Dio e saprai quanto è grande il suo amore per tutti, amore che costituisce il senso di tutti i comandamenti. La pratica dei comandamenti è l’espressione di questo amore nel tempo e nello spazio e niente e nessuno ci può sottrarre questo amore. È evidente che questo solo in Gesù si compie assolutamente, ma la sua promessa è che la stessa cosa varrà per i discepoli, se stanno in lui.

Potremmo riassumere il senso dei due comandamenti, ama Dio e ama il prossimo, in questo modo: il mondo possa scoprire l’amore del Padre e così vivere la dimensione della fraternità nella sua radicale luminosità. Il senso dell’amore al prossimo sta tutto nel fatto di far ‘sapere al mondo’ che l’amore del Padre è per lui. Per questo, se il primo comandamento esprime la radice di un’umanità che ha scoperto l’amore del Padre, il secondo ne segnala l’orizzonte di tensione, perché l’amore del Padre è per il mondo. Lo scopo della pratica dei comandamenti non è in funzione della mia perfezione, ma dello splendore dell’amore del Padre che a tutti è rivolto e di cui posso ammirare l’accondiscendenza per noi.

In questa prospettiva risulta illuminante anche la prima lettura, ripresa dall’Esodo nella parte che riporta le norme del Codice dell’alleanza, e precisamente rispetto alla cura dei deboli. La vedova, l’orfano e il forestiero sono le categorie di persone essenzialmente ‘deboli’ perché senza protezione. Proclamare allora nel salmo responsoriale: “Ti amo, Signore, mia forza” significa alludere alla forza tipica di Dio che è quella della ‘indulgenza, mitezza, pazienza…’. Chi calpesta il debole calpesta l’amore di Dio che sta con gli ultimi; impedisce a Dio di essere conosciuto in questo mondo. Chi calpesta il debole non conosce Dio.

Il senso delle parole evangeliche di oggi lo spiega stupendamente s. Francesco di Assisi nel suo commento al Padre Nostro: “Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra: affinché ti amiamo con tutto il cuore, sempre pensando a te; con tutta l’anima, sempre desiderando te; con tutta la mente, orientando a te tutte le nostre intenzioni e in ogni cosa cercando il tuo onore; e con tutte le nostre forze, spendendo tutte le nostre energie e sensibilità dell’anima e del corpo a servizio del tuo amore e non per altro; e affinché possiamo amare i nostri prossimi come noi stessi, trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo amore, godendo dei beni altrui come dei nostri e nei mali soffrendo insieme con loro e non recando nessuna offesa a nessuno” (FF 270).

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Solennità e feste

 

Tutti i Santi

(1 novembre 2014)

 

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Ap 7,2-4.9-14;  Sal 23;  1 Gv 3,1-3;  Mt 5,1-12a

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Oggi la chiesa mostra al mondo la sua visione: è l’Agnello, immolato fin dalla fondazione del mondo (Ap 13,8), ad attirare gli sguardi degli uomini che possono contemplare la santità di Dio, che è splendore di amore immolato. Il mondo è uscito dall’amore di Dio, di esso è intessuto e percorso, di esso parla, ma quanta tenebra ce ne impediva la visione! Ora tutto è nella luce, tutto splende in verità.

La domanda di fondo che possiamo farci è la seguente: ci sentiamo toccati dalla promessa di felicità di Gesù ai suoi discepoli: “Beati i poveri … Beati i misericordiosi …. Beati i puri di cuore…”? Ci sentiamo destinatari in verità di questa solenne promessa di Gesù? Come cantiamo nel salmo responsoriale, ci possiamo riconoscere nella generazione che cerca il volto del Signore? Sarebbe come domandarci se l’invito alla santità ci riguarda ancora. Vorrebbe dire che ancora crediamo possibile il compimento dei desideri che portiamo in cuore.

La visione celeste dell’Apocalisse presenta la moltitudine dei salvati come in due quadri distinti, che però si fondono insieme. Prima compaiono i segnati con il sigillo del Dio vivente, i 144.000 (il quadrato di 12 – numero delle tribù di Israele -, moltiplicato per 1000 – numero dell’universalità), gruppo che designa i martiri, coloro che hanno pagato il prezzo della fedeltà al Signore Gesù con la vita. Poi si presenta la moltitudine immensa, proveniente da ogni popolo e nazione, così definita: “ … quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti rendendole candide nel sangue dell’Agnello”. Sono coloro che hanno cercato di vivere la loro vita, nella precarietà degli sforzi e dei risultati, nella prospettiva del vangelo con il loro quotidiano martirio che la coerenza della vita spesso esige. Anche questi hanno riconosciuto il fascino del loro Signore crocifisso e risorto. Nel suo amore salvatore hanno confidato nonostante i tradimenti e gli affievolimenti della fede in lui. Ma tutti e due i gruppi si fondono all’unisono nella comune proclamazione: ora sappiamo che il nostro Dio è pieno di amore per noi. Perché questo significa l’acclamazione: “La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono e all’Agnello”.

L’antifona di ingresso e la preghiera dopo la comunione fanno come da cornice alla visione aperta dalle letture della festa di oggi. “Rallegriamoci tutti nel Signore in questa solennità di tutti i santi: con noi gioiscono gli angeli e lodano il Figlio di Dio”. È motivo di gioia la santità perché non può esserci gioia se non a partire da un amore accolto e condiviso. E la santità, come proclamano i beati davanti al trono dell’Agnello, è questo amore accolto e condiviso. Perché anche gli angeli sono implicati nella stessa gioia? E perché tutto si risolve nella lode del Figlio di Dio? La gioia degli angeli esprime il mistero del loro essere in adorazione: adorano un Dio che è pieno di amore per gli uomini, non per loro. L’amore di Dio per gli uomini l’ha indotto a farsi uomo come loro, di modo che l’uomo potesse, nella sua umanità, essere come il Figlio di Dio. Ne scaturisce una conseguenza: se l’amore che gli uomini si portano non parla di questo amore di Dio lodato dagli angeli, allora vuol dire che non si è più capaci di adorazione, cioè della gioia di vedere splendere l’amore di Dio per tutti gli uomini, non si è più figli di Dio. Un amore che non allude all’adorazione di Dio diventa tiranno.

Nella preghiera dopo la comunione diciamo: “... fa’ che raggiungiamo anche noi la pienezza del tuo amore”. Non preghiamo semplicemente per arrivare anche noi in paradiso, ma preghiamo perché quell’amore costituisca l’orizzonte della nostra vita. La proclamazione dei santi, come viene descritta nel brano dell’Apocalisse, non si riferisce ad un futuro dopo la storia, ma esprime la verità della nostra storia, verità che non passerà e riempirà tutto del suo splendore. Ma quello splendore costituisce già il senso della nostra storia, anche se spesso i nostri occhi sono così velati da non accorgersene più. Sarebbe il senso della preghiera: renderci accorti di quella verità.

La lettura della prima lettera di Giovanni parla di noi come dei ‘figli di Dio’, di cui il brano di vangelo, con le beatitudini, mostra la dinamica profonda di vita. Dice Paolo in Rm 8,14: “tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio”. Se ci chiediamo verso dove ci guida lo Spirito di Dio, non possiamo che rispondere: al Figlio di Dio, il quale ci ha riconciliato con Dio (cf. 2Cor 5,18; Ef 4,32). La santità parla di quel mistero di riconciliazione in atto nella storia, nella carne della propria vita, perché risplenda per tutti la possibilità della visione dell’amore di Dio per l’uomo.

È caratteristico che l’antifona alla comunione, riprendendo la serie delle otto beatitudini proclamate nel vangelo,  le riduca a tre: puri di cuore, operatori di pace, perseguitati a causa della giustizia. La purità di cuore capace di vedere Dio è quella che scaturisce dall’esperienza della compassione, della misericordia, così tipica della santità di un cuore che consola e conforta, che accoglie in benevolenza e solidarietà, che rimanda a tutti quello che lui stesso riceve, cioè il perdono rigenerante del suo Signore, che viene così conosciuto come il Salvatore, come l’Amore che ti sottrae all’abisso. La purità però, intrisa di gioia, è solo quella che si traduce in un agire che porta pace a tutti, che rende capaci i cuori di pace, che si fa dono di pace, capace di far grazia di sé come il Figlio di Dio che fa dono di sé perché l’amore di Dio risplenda. E la pace donata è a prova di persecuzione, perché niente è più caro al cuore di colui che gli ha restituito la dignità di uomo e di figlio di Dio. L’amore a prova di persecuzione procede dal fatto di sentire la mia dignità sullo stesso piano della dignità di tutti. Dire che di questi è il regno di Dio significa proclamare che il cuore dell’uomo non può saziarsi che della verità di quell’amore che giunge sanante e potente, sebbene ora si sia sempre nell’occasione di perderlo di vista, di impedirci di goderlo, di impedire agli altri di farne esperienza. Eppure, così proclama tutta la liturgia di oggi, quella verità è la verità del mondo come dei cuori. È la verità di felicità per il cuore dell’uomo, che intravede nelle beatitudini evangeliche le coordinate precise per non fallirla.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Solennità e feste

 

Commemorazione di tutti i fedeli defunti

(2 novembre 2014)

 

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Gb 19,1.23-27a;  Sal 26;  Rm 5,5-11;  Gv 6,37-40

Is 25,6a.7-9;  Sal 25;  Rm 8,14-23;  Mt 25,31-46

Sap 3,1-9; Sal 41; Ap 21,15a.6b-7, Mt 5,1-12a

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Se ieri, festa di tutti i santi, la chiesa guardava al mistero dell’amore di Dio per l’uomo dal cielo, oggi, commemorazione di tutti i defunti, lo guarda dalla terra. È lo stesso mistero di salvezza celebrato ieri ma contemplato nella logica degli affetti umani, che di quel mistero sono la cifra visibile.

Applico alla celebrazione odierna quello che la Chiesa vive nella sua preghiera eucaristica: “Per mezzo del tuo Figlio, splendore d’eterna gloria, fatto uomo per noi, hai raccolto tutte le genti nell’unità della Chiesa. Con la forza del tuo Spirito continui a radunare in una sola famiglia i popoli della terra, e offri a tutti gli uomini la beata speranza del tuo regno. Così la Chiesa risplende come segno della tua fedeltà all’alleanza promessa e attuata in Gesù Cristo, nostro Signore” (Preghiera eucaristica V/D).

Fare memoria dei nostri defunti significa alludere a quella forza unificante di Dio che ci raccoglie alla mensa del suo amore, dove tutti siamo invitati. Significa fondare la nostra speranza nel suo amore salvatore e misericordioso, oltre il dolore della separazione. La liturgia di oggi suscita un grande senso di solidarietà umana. Non si tratta solo di tenere viva la memoria dei propri cari, ma di fare esperienza di una solidarietà in umanità che gli affetti sanno custodire. È qualcosa che rivela la percezione di una realtà misteriosa, ma potente, coinvolgente, insopprimibile. La radice la ravviso nel brano del giudizio finale narrato da Matteo. Con il suo giudizio il re manifesterà il segreto dell’agire di Dio fin dalla fondazione del mondo, lungo tutta la storia. Manifesterà il segreto sul quale si regge il mondo e che ne costituisce la dignità assoluta: Dio ha voluto farsi solidale con l’umanità a tal punto che chi tocca l’uomo tocca Dio, chi onora l’uomo onora Dio, chi disprezza l’uomo disprezza Dio. Tale segreto rifulge nella vita del Figlio dell’uomo, perché è lui che appare davanti agli occhi di Dio in ogni uomo. In un baleno apparirà tutta la verità dell’uomo e, contemporaneamente, tutta la gloria di Dio, che è gloria di amore per noi. La solidarietà negli affetti parla di questo ‘segreto’ di Dio.

La memoria per i nostri defunti tiene vivo nell’anima questo segreto nella prospettiva della supplica che si riveli loro in tutta la sua potenza, come capace finalmente di dare compimento ai desideri che hanno lavorato la terra dei cuori loro e nostri. Le letture di oggi definiscono i salvati come ‘nel riposo’ di Dio e si prega perché i defunti, coloro che ci hanno preceduto nel regno di Dio, godano il ‘riposo’ di Dio.

Quel ‘riposo’ allude al compimento di un atto di creazione particolare. Nel primo racconto della creazione, nel libro della Genesi, il testo dice che, dopo aver creato tutte le cose: “Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto”. Se i sei giorni precedenti non sono bastati a completare il lavoro, che cosa allora è stato creato il settimo giorno? La ‘menuchà’, la tranquillità, la serenità, la pace e il riposo, rispondono gli antichi rabbini (cf. Gen Rabbà, 10, 9). È lo stato in cui non vi è contesa né lotta, né paura né diffidenza; è felicità, pace e armonia; vita del mondo futuro, vita eterna. Proprio secondo la promessa di Gesù: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28) e soprattutto “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo” (Mt 25,34).

Con il ricevere il regno che è preparato fin dalla fondazione del mondo, finalmente è svelato il senso del mondo, come la risurrezione di Gesù svela il senso della sua vita e della nostra. Ciò che da sempre ha mosso il cuore di Dio ora, finalmente, si vede realizzato. In effetti, il riposo allude anzitutto alla condivisione dei sentimenti di Dio, al riposo dell’amore suo che tanta pena si è dato per convincere e conquistare; è il ristoro che segue l’incontro tra il desiderio di Dio e quello dell’uomo.

E la particolarità della liturgia di oggi è data dal fatto che la chiesa supplica il suo Signore perché quel riposo sia condiviso da tutti i suoi figli, che intercede presso di lui per tutti loro, fiduciosa nella misericordia immensa di Dio che si è dato pena per i suoi figli, nessuno escluso. La supplica procede dalla fiducia nella promessa di Dio che vuole con sé i suoi figli, ma anche dal desiderio, pieno di speranza, che finalmente potrà avverarsi, come dice Giobbe: “Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro”. Se questo desiderio alberga in ogni cuore, la chiesa supplica perché tutti possano vederlo realizzato, possano sentirlo finalmente come la verità del loro cuore.

E le letture tratte da s. Paolo aggiungono che addirittura la nostra stessa carne rifiorirà incorruttibile, addirittura nella nostra stessa carne sperimenteremo l’amore salvatore del Signore che dà la vita. È l’altra caratteristica della liturgia di oggi: la chiesa professa la sua fede nella risurrezione della carne, la sua speranza nella potenza di Dio che esprimerà la vittoria sulla morte nella nostra stessa carne, insieme ai nostri cari.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Solennità e feste

 

Dedicazione della Basilica Lateranense

(9 novembre 2014)

 

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Ez 47,1-2.8-9.12;  Sal 45;  1Cor 3,9c-11.16-17;  Gv 2,13-22

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La colletta così fa pregare: “O Padre, che prepari il tempio della tua gloria, con pietre vive e scelte, effondi sulla Chiesa il tuo Santo Spirito …”. Ora, la gloria di cui attendiamo la piena manifestazione e che forma il contenuto della visione nella fede non è che lo splendore dell’amore di Dio per l’uomo che ha in Gesù la sua cifra assoluta. La figura del tempio esprime il luogo di quello splendore, che però non si riferisce a un luogo di pietra, ma a un corpo vivo, alla Chiesa di Dio, a quella comunione viva e di viventi in Cristo. La festa di oggi rivive la dimensione mistica dell’immagine del tempio nella sua valenza ecclesiale. La basilica lateranense, chiesa fatta costruire a Roma da Costantino sotto il pontificato di Silvestro I (314-335), di cui si celebra oggi la dedicazione, è venerata come madre di tutte le chiese, essendo la chiesa cattedrale del vescovo di Roma, segno di unità per tutta la Chiesa. Pietro è colui che conferma i suoi fratelli nella fede, cioè nella visione di quello splendore dell’amore di Dio che in Gesù rifulge e ci viene comunicato con il dono del suo Spirito, Spirito di unità e di comunione.

Il canto al vangelo riprende l’immagine del tempio ma sottolineando l’opera di Dio di elezione e cura dei suoi figli fino a che risplendano della gloria del suo amore: “Io mi sono scelto e ho consacrato questa casa perché il mio nome vi resti sempre”. Sono le parole del Signore a Salomone dopo la consacrazione del tempio di Gerusalemme come riportato nel secondo libro delle Cronache (7,16). Ma al tempio si andava per rinnovare l’esperienza dell’alleanza di Dio con il suo popolo. E Gesù, che di quell’esperienza rappresenta la testimonianza più vivida, freme al vedere come ormai il tempio non risponda più allo scopo, consapevole, da parte di Dio, che è venuto il tempo di indicare il nuovo tempio, quello definitivo, non costruito dalle mani dell’uomo, dove la presenza di Dio in mezzo al suo popolo potesse risplendere con un sigillo di radicalità e di definitività non più passibile di cambiamenti. Gesù scaccia dal tempio venditori e cambiavalute a sottolineare la rivelazione che di lì a poco porterà: il nuovo tempio sarà il suo stesso corpo, dove non c’è mercato di sorta perché nulla è richiesto all’uomo se non l’accoglienza dell’offerta del Suo amore, sigillato dalla sua morte gloriosa, come dichiarerà l’evangelista Giovanni. La caratteristica del nuovo tempio è che non c’è più il velo a impedire l’entrata nel Santo dei Santi. Con la morte di Gesù il velo è squarciato; il che significa che l’intimità del Padre è ormai aperta, accessibile, proprio attraverso quella ferita da cui sgorga acqua e sangue, segni della vita nuova, della vita vera, della vita incorruttibile dell’amore di Dio che si comunica all’uomo e lo rende suo intimo.

È caratteristico il fatto che l’espressione di Gesù: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” (Gv 2,19) sia ripresa come accusa e scherno ai piedi della croce: “Ehi, tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce!” (Mc 15,29). Sarà l’ultima richiesta di segno: scendere dalla croce! Ogni richiesta di segno nell’ottica della potenza rivela la cecità del cuore di fronte all’agire di Dio. Gesù non scenderà dalla croce per convincere: se l’amore non convince, non c’è potenza che lo possa ottenere. La conseguenza sarà che il luogo della presenza di Dio nel mondo oramai è l’umanità: Dio risplende nell’umanità. E tutti i comandamenti sono in funzione di far risplendere quella umanità. L’amore di Dio per l’uomo è così radicale da far rivelare la Sua gloria solo a partire da e dentro l’umanità. Qui è racchiuso tutto il mistero dell’amore di Dio e della salvezza dell’uomo.

In tal senso si comprende allora come il cuore dell’uomo sia il luogo dell’adorazione del Dio vero, perché da lì può risplendere l’umanità. Le azioni buone provengono dallo splendore del cuore e lo splendore del cuore proviene dal riconoscimento dell’amore di Dio per noi. Solo così il nostro cuore non è più luogo di mercato, dove prevalgono interessi  e contraffazioni. Non è cosa così agevole da vivere per l’uomo che patisce lo scandalo e la stoltezza della croce. Ma se l’uomo fa fede all’amore di Dio, che in Gesù splende nella sua umanità, vilipesa e gloriosa, allora riuscirà ad abbandonare anche quella miriade di presunzioni e rivendicazioni che lo tormentano nella vita e che rendono i rapporti così difficili, impedendo all’umanità di risplendere.

La festa di oggi sottolinea la dimensione ecclesiale della nostra fede in Gesù. Abbiamo forse dimenticato che la bellezza della fede alla quale siamo stati generati non parla primariamente della tensione del nostro cuore, ma dello splendore della santità della Chiesa che riverbera nel nostro cuore. Parla cioè di un’esperienza di vita che ci precede e ci accompagna e che ci viene partecipata. Faremmo fatica oggi a sottoscrivere le parole di un antico prefazio ambrosiano per la festa della dedicazione della chiesa cattedrale: “Il Signore Gesù ha reso partecipe la sua Chiesa della sovranità sul mondo che tu gli hai donato e l’ha elevata alla dignità di sposa e regina. Alla sua arcana grandezza si inchina l’universo perché ogni suo giudizio terreno è confermato nel cielo. La Chiesa è la madre di tutti i viventi, sempre più gloriosa di figli generati a te, o Padre, per virtù dello Spirito Santo. È la vite feconda che in tutta la terra prolunga i suoi tralci e, appoggiata all’albero della croce, s’innalza al tuo Regno. È la città posta sulla cima dei monti, splendida agli occhi di tutti, dove per sempre vive il suo Fondatore”.

Riferirsi alla fede della Chiesa significa intuire il mistero della sua santità. Santità, che non parla primariamente di noi, ma del dono di Dio che ci raggiunge e ci costituisce, segno perenne dell’alleanza di Dio con l’umanità che nulla e nessuno potrà mai distruggere, come l’antifona di ingresso canta secondo la visione dell’Apocalisse: “Vidi la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, preparata come una sposa adorna per il suo sposo”. È l’umanità intrisa della santità di Dio che splende di tutto l’amore che l’ha concepita. Di quella visione la festa di oggi è portatrice.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo Ordinario

 

XXXIII  Domenica

(16 novembre 2014)

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Pr 31,10-13.19-20.30-31;  Sal 127;  1Ts 5,1-6;  Mt 25,14-30

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La parabola di oggi è incastonata tra la parabola delle dieci vergini, che invita a stare vigilanti e la parabola del giudizio finale, che rivela su cosa saremo giudicati nel nostro fare, cioè sull’amore. La parabola dei talenti invita invece alla fedeltà nell’operare. Il padrone distribuisce i suoi beni per mettere gli uomini nella opportunità di giocare la loro vita, concepita nei termini di un esercizio di responsabilità. La domanda di accesso al mistero della parabola può essere la seguente: cosa è in gioco nella nostra operosità? In che cosa siamo servi? Servi per che cosa?

Anzitutto rendiamoci conto di che operosità si tratta. L’uomo che parte per un viaggio rappresenta Gesù stesso, che con la sua morte-risurrezione-ascensione lascia i suoi discepoli affidando loro i misteri del Regno. La somma data è assai cospicua (secondo alcuni calcoli corrisponderebbe a circa cento anni di paga o, in termini monetari, a una quantità d’oro enorme, equivalendo un talento a Kg 34). Anche per questo sembra strano che il padrone, alla resa dei conti, dichiari che questa cifra enorme è poca cosa! I talenti si riferirebbero cioè alla fede in Gesù con tutto quello che comporta quanto al partecipare ai segreti di Dio, come dirà Gesù nell’ultima cena ai suoi discepoli: “Non vi chiamo più servi … vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15).

Quello che fa problema è la spiegazione del terzo servo, che aveva ricevuto un talento e che dichiara la sua paura per averlo nascosto sottoterra. Le sue parole rivelano la sua indisponibilità verso il padrone. Da dove gli deriva il cattivo giudizio, la sua paura?

La liturgia sembra suggerire lo scenario per evitarci di cadere in quel cattivo giudizio. L’antifona di ingresso riporta le parole del Signore al popolo esiliato a Babilonia: “Io ho progetti di pace e non di sventura …”. Quelle parole si trovano nella lettera che il profeta Geremia aveva scritto ai deportati per diffidarli dal credere che l’esilio sarebbe durato poco, come alcuni millantati profeti andavano dicendo sulla base di notizie di rivolte che erano scoppiate qua e là nell’impero babilonese. Li invita a pazientare e a sfruttare il tempo dell’esilio per tornare al Signore, fiduciosi che a suo tempo il Signore li avrebbe riportati a casa. Quando la liturgia invita alla fedeltà quanto alla nostra operosità sa che il contesto in cui esercitare tale operosità è l’esilio, un tempo difficile da non sprecare in recriminazioni e ribellioni. Così l’antica colletta prega: “Il tuo aiuto, Signore, ci renda sempre lieti nel tuo servizio, perché solo nella dedizione a te, fonte di ogni bene, possiamo avere felicità piena e duratura”. E l’orazione sui doni proclama: “Quest’offerta che ti presentiamo, Dio onnipotente, ci ottenga la grazia di servirti fedelmente e ci prepari il frutto di un’eternità beata”.

Il ‘servizio fedele’ non può essere che il medesimo esercitato dal Maestro, quello di mostrare la grandezza dell’amore del Padre per i suoi figli, servizio che risalta in tutta la sua bellezza proprio nella lavanda dei piedi nell’ultima cena. Alla resistenza di Pietro a farsi lavare i piedi, Gesù non ha altro argomento per convincere Pietro che questo: “Se non ti laverò, non avrai parte con me” (Gv 13,8). Non è forse la stessa cosa che dice il padrone ai servi fedeli: “ .. sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”?

E se l’opera di Gesù si risolve nella gloria del Padre perché ne fa risplendere lo splendore in mezzo agli uomini con la sua testimonianza di amore fino alla fine (fino a raggiungere lo scopo della Provvidenza di Dio, che è quello di riunire a Sé i figli dispersi!), così sarà l’opera dei suoi servi. Siamo servi di questo ‘splendore’ di Dio dovuto all’umanità perché ottenuto da Gesù per noi. Il servo che ha nascosto il talento è colui che vuole solo per sé ciò che invece è trovato donandolo, è il servo che non vuol seguire la dinamica della fede, ne svigorisce il potere e chiude agli uomini la possibilità di cogliere, almeno per la parte di cui è responsabile, lo splendore dell’amore di Dio. Non è più ‘buono a nulla’ ed è malvagio perché impedisce a Dio di essere conosciuto dai suoi figli! Non sa o non vuol sapere che la sua felicità dipende dal farsi dono a tutti perché l’amore del Signore splenda in questo mondo.

Ora, se la ‘responsabilità’ del dare se stessi è esercitata di fronte a Colui che per noi ha dato se stesso, l’esercizio di tale responsabilità è volto direttamente verso i fratelli, in specie i fratelli più piccoli, per i quali, come per noi, il Signore ha dato se stesso. Come ci ricorda un racconto chassidico. Un uomo entusiasta di Dio vagò nell’universo fino ad arrivare alle porte del segreto. Bussò. Da dentro gli fu chiesto: “Che cosa cerchi qui?”. Disse: “Ho proclamato la tua lode agli orecchi dei mortali, ma erano sordi alla mia parola. Allora giungo a te, perché tu stesso mi ascolti e mi risponda”. “Torna indietro”, si udì dall’interno, “qui non c’è orecchio per te. Ho inabissato il mio udito nella sordità dei mortali”.

Così, per cogliere la natura del trafficare i talenti, bisogna rivolgersi alla parabola di domenica prossima, quella sul giudizio finale, allorquando il Signore Gesù dirà a ciascuno: ‘avevo fame e mi hai dato da mangiare …’. La vita si gioca nel dare amore e scoprirsi figli dello stesso Padre. Quando l’uomo teme di dare se stesso,  come nel caso del servo cattivo, in gioco non è semplicemente la sua pigrizia verso gli altri uomini, ma l’autocensura rispetto alla vita e l’incapacità del pentimento perché dice: è tutto sbagliato se Dio ha fatto così le cose, se Dio agisce così! E così la vita non assurge mai a quel livello di dignità che la rende desiderabile, feconda e fruttuosa.

 

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Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo Ordinario

 

XXXIV  Domenica

Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'universo

(23 novembre 2014)

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Ez 34,11-12.15-17;  Sal 22;  1Cor 15,20-26a.28;  Mt 25,31-46

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Questa domenica chiude il ciclo liturgico dell’anno. La liturgia di oggi ci pone nel punto di intersezione tra questo mondo e il mondo futuro, facendoci contemplare nello stesso tempo, con uno sguardo d’insieme, la verità di questo mondo e quella del mondo futuro. Non si tratta però di guardare a quello che avverrà alla fine dei tempi, ma di renderci conto di quello che è in gioco in questo tempo dal punto di vista dell’eternità.

Il brano del vangelo, non propriamente una parabola, ma la visione di un giudizio profetico, nel personaggio che è seduto per giudicare assomma le figure del Figlio dell’uomo, del Pastore e del Re. Il giudizio è presentato come inappellabile. La collocazione del brano però nella struttura della narrazione di Matteo fornisce una luce tutta speciale per la sua comprensione.  Al brano segue immediatamente il racconto della passione di Gesù. Quel Gesù, di cui si comincia a raccontare la passione e la morte in croce, è lo stesso Figlio dell’uomo che siederà glorioso a giudicare le genti.

La liturgia poi suggerisce il clima in cui l’evento si compie fugando l’emozione di angoscia istintiva che la scena tende a scatenare. Il Figlio dell’uomo, il Pastore, il Re, è anche l’Agnello immolato, Colui che per noi ha dato la sua vita, Colui che è il segno per eccellenza dell’amore di Dio per l’uomo. La liturgia ci fa cantare all’inizio: “L’Agnello immolato è degno di ricevere potenza e ricchezza e sapienza e forza e onore: a lui gloria e potenza nei secoli, in eterno” (Ap 5,12; 1,6). Celebra la figura del buon pastore con il salmo 22 a commento del brano di Ez 34. Ripete con il canto al vangelo l’osanna della folla che vede la venuta di Gesù a Gerusalemme come il compimento dell’attesa del Regno di Dio che viene (cf. Mc 11,9-10).

Ma prima di appuntare lo sguardo sul giudizio, è bene sottolineare la corrispondenza, segreta, di alcuni particolari. Il re dice a quelli di destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo”. Quel ‘venite’ corrisponde all’invito dello Sposo alla sposa nel Cantico dei cantici (c.4), ma è anche il grido della chiesa, l’ultima parola del cuore dell’uomo al suo Signore ed insieme l’ultima parola di Dio all’uomo, quella sulla quale si chiudono le Scritture: “Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”… Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,16.20). Eco dell’invito di Gesù: “Venite a me, voi tutti, che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28), esprime il riposo raggiunto dell’amore che tanta pena si è dato per convincere e conquistare. Il ‘regno’ è preparato fin dalla fondazione del mondo. Con il ‘riceverlo’, finalmente è svelato il senso del mondo, come la risurrezione di Gesù svela il senso della sua vita. Quello che da sempre ha mosso il cuore di Dio, quello che ha costituito il suo primo pensiero per l’uomo, ora, finalmente, si vede realizzato,  l’uomo lo può gustare in tutta la sua potenza e grandezza. Se gli aggettivi sembrano comportare un registro di potenza e di gloria, la realtà di cui parlano è invece tutta di intimità, gioia, condivisione; è il ‘ristoro’ che segue l’incontro tra il desiderio di Dio e quello dell’uomo.

Venendo ora al giudizio in se stesso, dal punto di vista dell’uomo, della storia dell’uomo, il vangelo di oggi rivela il senso insospettato delle nostre azioni. Nel bene e nel male, le nostre azioni hanno echi assai più misteriosi e infiniti di quanto siamo soliti considerare perché la storia umana non è mai stata semplicemente storia umana, bensì sempre storia sacra, storia di Dio e dell’uomo. È  caratteristico che il giudizio non menzioni  nessuna distinzione tra gli uomini e che nessuno abbia chiara coscienza delle conseguenze dell’agire. Non saremo giudicati sulla fede, ma sull’amore. E davanti a questo, ciò che conta è la sincerità dei cuori. E la sincerità dei cuori sembra giocarsi tutta nella solidarietà con l’umanità là dove non c’è alcun titolo speciale di gloria. Quando Gesù dice: “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” allude proprio a coloro che non hanno alcun titolo a ricevere le nostre attenzioni oltre l’appartenenza all’umanità. È la visione più radicale dell’etica ed insieme la visione più divina dell’umanità. Se già non è scontato credere che la nostra storia personale sia comunque una storia sacra, e se già è difficile credere che la nostra storia sacra costituisca l’unica forma possibile per noi per entrare in possesso della gioia del Regno che sempre sembra sfuggirci, è ancora più arduo credere che quella promessa di vita e di gioia che sempre ci accompagna dipenda dalla nostra solidarietà con l’umanità e non da altro. Ma qui si gioca appunto la nostra fede. La vigilanza delle vergini, l’operosità del servo fedele, si vedono qui, quando la fede ha toccato a tal punto il cuore da convertirlo interamente al desiderio di Dio, alla visione di Dio, cioè al modo di sentire e di vedere di Dio stesso riguardo agli uomini, suoi figli. Il riferire, da parte di Gesù, fatto a Lui quello che viene fatto agli uomini, comporta, da parte dei suoi discepoli, riferire fatto a Lui quello che fanno agli uomini. Non nel senso di voler amare Gesù in un uomo, ma nel senso di amare concretamente un uomo perché anche a lui si manifesti lo splendore dell’amore di Dio che si è rivelato in Gesù e così, solidali in umanità, ancora nel dramma della storia, ci si incammini verso ciò che costituisce il compimento della nostra storia: Dio tutto in tutti (1Cor 15,28).

Il racconto evangelico vuole introdurre al segreto di Dio per il mondo. Forse possiamo anche capirlo, ma come siamo lontani dal viverne la potenza e lo splendore!  Non esiste però altra norma del bene, altro segreto di felicità: chi vive solidale con l’umanità di tutti è arrivato al segreto di Dio, in attesa di goderne la sovrabbondanza di grazia perché quel segreto inondi e sommerga ogni altro sentire, ogni altro giudizio, ogni altro pensiero, in noi stessi e in tutti, nel mondo intero.

Aggiungo anche una suggestione particolarissima di Origene. L’immagine delle pecore richiama il mistero della passione di Gesù che come pecora muta di fronte ai suoi tosatori (Is 53,7) manifesta il mistero della sua mansuetudine che lui stesso rivela: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,28-29). La bontà consiste nella partecipazione alla sua mansuetudine tanto da restare solidali con la debolezza degli uomini e in questa solidarietà ciò che Dio vede è la mansuetudine del suo Figlio. Un versetto di un salmo canta: “Beato l'uomo che ha cura del debole, nel giorno della sventura il Signore lo libera”, che l’antica versione greca rende con: “Beato colui che ha intelligenza del povero e del misero …”. Il debole non è semplicemente il fratello bisognoso, straniero, malato, carcerato, ma è proprio il Figlio dell'uomo, che ha sacrificato la sua vita per invitare tutti e ciascuno alla comunione con lui, che non abbandona pur quando è abbandonato, che non si rifiuta pur quando è rifiutato.