Quinto ciclo

Anno liturgico A (2013-2014)

Tempo Ordinario

 

XXV  Domenica

(21 settembre 2014)

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Is 55,6-9;  Sal 144;  Fil 1,20c-27a;  Mt 20,1-16a

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L'antifona d'ingresso canta: "Io sono la salvezza del popolo, dice il Signore, in qualunque prova mi invocheranno, li esaudirò, e sarò il loro Signore per sempre". Evidentemente questa dichiarazione di Dio non la prendiamo troppo sul serio se, di fronte agli eventi che caratterizzano la nostra storia esteriore e interiore e che sono retti dalla Provvidenza di Dio, abbiamo sempre da ridire. Cosa impedisce ai nostri cuori di fidarci di Dio? È il problema della parabola del vangelo di oggi. La domanda di fondo è proprio questa: perché i pensieri di Dio non corrispondono ai nostri? Oppure, perché i nostri pensieri sono sempre così diversi e distanti da quelli di Dio? Cosa andiamo cercando da Dio, dalla vita?

Una prima risposta si trova già nel brano di Isaia: 'Cercate il Signore ...l'empio abbandoni la sua via e l'uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore ...'. Ecco, noi non cerchiamo il Signore, ma i suoi doni; non ritorniamo a Lui, ma semplicemente domandiamo. Non ci interessa molto il suo desiderio di stare con noi, non ci tocca la sua voglia di fare comunione con noi. E non percependo questo, siamo troppo intenti a guardarci l'un l'altro, a vivere di confronti, a temere di avere di meno.

Ma questo atteggiamento verso i nostri fratelli rivela la povertà del nostro legame con Lui, l'insensibilità del nostro cuore al Suo desiderio. E come allora non cadere nella 'gelosia', proprio secondo il rimprovero del padrone della parabola agli operai della prima ora: "Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?". Perché vorremmo limitare la misericordia e la benevolenza di Dio se non perché in realtà non l'abbiamo mai sperimentata, non ce ne siamo mai lasciati toccare? Ritorna alla mente il lamento del fratello maggiore della parabola del figlio prodigo: ma come? Io ti ho sempre servito e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici? (cfr. Lc 15,11-32). Che tipo di intimità aveva con il proprio padre un figlio siffatto? Eppure la sua è la nostra condizione, spesso. Rivelatrice di essa è l'incapacità per il nostro cuore di condividere la gioia, la gioia dei fratelli che possono avere quanto e più di noi, ma soprattutto la gioia del Padre che può dare a tanti quello che di per sé sarebbe riservato a pochi. Noi sicuramente non siamo nel numero di quei pochi e chi, come l'apostolo Paolo, si trova tra quei pochi, lo si riconosce dal fatto che gode più per la partecipazione del bene a tutti che non a se stesso. Non per nulla ritiene la sua vita di nessun conto, e la concepisce solo 'per il progresso e la gioia della fede' (Fil 1,25) di tutti. Non semplicemente per il progresso e la gioia dei fratelli, ma per il progresso e la gioia che i fratelli potranno godere nella loro relazione di intimità con il Padre che è venuto in loro soccorso, che ha inviato loro il suo Salvatore, che hanno conosciuto la misericordia del Signore. L'occhio allora non potrà più essere geloso o invidioso ed il cuore non avrà più pensieri propri, ma solo quelli di Dio e potrà godere con Dio del fatto che la Sua bontà è celebrata sopra ogni giustizia.

Quello che il salmo 144 proclama: “Giusto è il Signore in tutte le sue vie e buono in tutte le sue opere” rivela il frutto di un cammino consumato alla scoperta del nostro Dio; non indica la condizione di partenza. Non per nulla la verità della bontà di Dio è tema di rivelazione: la si può scoprire solo accettando di relazionarsi al proprio Dio, secondo quella radicalità di rapporto che una relazione d’amore comporta. E come in tutte le relazioni d’amore, il mondo interiore viene rivoluzionato. Senza accettare questa ‘rivoluzione’ non si vive l’amore e non si troverà il senso del vivere. Il salmo riporta la definizione di Dio “misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore” che era stata rivelata a Mosè sul Sinai in uno dei momenti più drammatici della storia di Israele. E proprio perché tale ‘Nome’ di Dio non è evidente per il nostro cuore, la liturgia si premura di richiamarcela in vari modi.

La parabola di Gesù è costruita proprio per sorprendere gli operai della prima ora nei loro pensieri segreti. Se il fattore avesse cominciato a pagare gli operai dai primi, non sarebbero stati svelati quei pensieri. Si sarebbero conosciuti solo quelli degli ultimi. Ma la parabola insiste proprio sui primi; il che significa che in quei ‘primi’ siamo compresi tutti noi, per un verso o per l’altro. Dal punto di vista ecclesiale, si può interpretare la parabola come un avvertimento agli israeliti (gli operai della prima ora) rispetto ai pagani (gli operai dell’ultima ora), ai giudeo-cristiani rispetto agli ellenisti, ai pastori rispetto ai fedeli, ecc. La parabola però ha un’estensione molto più larga e allude agli atteggiamenti dei cuori nei confronti di Dio. Tutti vengono pagati nella stessa misura: è proprio questo che urta la nostra sensibilità. Notiamo subito che il padrone della parabola non manca di giustizia perché ai primi dà esattamente quello che avevano pattuito. Semplicemente, non si attiene solo a quella giustizia e dà anche agli altri la stessa paga. Dove sta allora la malizia dei pensieri dei primi? Tutto dipende da come leggiamo l’agire di Dio nei nostri confronti. Le vite degli uomini sono effettivamente diseguali, la sua provvidenza è misteriosa, la conoscenza di lui è misteriosa, le nostre sorti sono diverse, le gioie e le sofferenze sono amministrate nella nostra vita in modo così diverso gli uni dagli altri! Perché tutto questo? Porci questa domanda significa rapportarci agli altri e non a Dio. Non è certamente una domanda maliziosa, ma rivela la difficoltà di cogliere la bontà di Dio e per ciò stesso rivela la natura del nostro rapportarci a Dio in rivendicazione. La rivendicazione esprime gelosia, come dice il padrone della parabola ai primi operai. Il segno della purità di cuore è proprio la mancanza di gelosia, vale a dire la gioia della felicità altrui. La punta segreta di questa gioia sta nella confidenza nel proprio Dio di cui si spera il godimento della promessa fatta a noi. Così, nonostante le diseguaglianze delle nostre vite, nulla ci manca se Dio è con noi.

Potremmo anche domandarci: quando i primi restano i primi? Pensiamo agli apostoli. Sono tra i primi e primi sono restati. Essere primi significa rallegrarsi del fatto che gli ultimi sono preferiti, godere con Dio della sua misericordia per gli ultimi. Anche perché l’invito a scoprire e gustare la bontà di Dio salva i cuori dai confini angusti e li libera da ogni forma di rivendicazione in modo da partecipare ai sentimenti di Dio che vuole tutti suoi amici, senza distinzione.

 

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I TESTI DELLE LETTURE (dal “Messale Romano”):

 

Prima Lettura  Is 55, 6-9

Dal libro del profeta Isaia

 

Cercate il Signore, mentre si fa trovare,

invocatelo, mentre è vicino.

L’empio abbandoni la sua via

e l’uomo iniquo i suoi pensieri;

ritorni al Signore che avrà misericordia di lui

e al nostro Dio che largamente perdona.

Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri,

le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore.

Quanto il cielo sovrasta la terra,

tanto le mie vie sovrastano le vostre vie,

i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.

 

Salmo Responsoriale  dal Salmo 144

Il Signore è vicino a chi lo invoca.

Ti voglio benedire ogni giorno,

lodare il tuo nome in eterno e per sempre.

Grande è il Signore e degno di ogni lode;

senza fine è la sua grandezza.

 

Misericordioso e pietoso è il Signore,

lento all’ira e grande nell’amore.

Buono è il Signore verso tutti,

la sua tenerezza si espande su tutte le creature.

 

Giusto è il Signore in tutte le sue vie

e buono in tutte le sue opere.

Il Signore è vicino a chiunque lo invoca,

a quanti lo invocano con sincerità.

 

Seconda Lettura  Fil 1,20c-24.27a

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési.

Fratelli, Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia.

Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno.

Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo.

Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo.

 

Vangelo  Mt 20, 1-16

Dal vangelo secondo Matteo

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:

«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”.

Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”.

Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».