Quarto ciclo

Anno liturgico C (2012-2013)

Tempo Ordinario

 

4a Domenica

(3 febbraio 2013)

 

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Ger 1,4-5.17-19;  Sal 70;  1Cor 12,31-13,13;  Lc 4,21-30

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Il brano evangelico di oggi ripresenta la stessa scena di domenica scorsa: la predicazione di Gesù a Nazaret. Possiamo così continuare la riflessione sul valore emblematico di quell’evento. Se viene fatto conoscere il rifiuto di Gesù da parte dei suoi concittadini, la sottolineatura si deve al valore profetico di quel rifiuto, che l’evangelista Giovanni descriverà come “Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto” (Gv 1,11). Oltre ad alludere alla passione di Gesù, allorquando il rifiuto comporterà la sua messa a morte, allude anche all’universalità di quella morte che toglierà il muro di separazione tra Israele e Gentili, aprendo Israele ai Gentili, pena l’esclusione del dono di grazia.

La scena è racchiusa da due identici sentimenti dal valore diametralmente opposto. Si apre con la meraviglia, sospettosa, che si tramuta poi in ostilità da parte degli ascoltatori presenti nella sinagoga e si chiude con la meraviglia, dispiaciuta, di Gesù che si vede costretto a fuggire (il passo parallelo di Marco conclude: “E si meravigliava della loro incredulità”, Mc 6,6). Una meraviglia, quella di Gesù, che non si tramuta in ostilità con la sua fuga, bensì  in tenacia e immaginazione per creare nuove occasioni, fino alla fine, perché i cuori finalmente si aprano all’amore del Padre testimoniato da lui e dalla sua attività in tutto il paese.

L’agire di Gesù tende a ristabilire in tutti, vicini e lontani, ebrei e pagani, la possibilità di tornare a dar credito alla promessa di Dio. Quella grazia è accessibile solo ai piccoli, come sottolinea il canto al vangelo: “Benedetto sei tu, Padre, Signore del cielo e della terra, perché ai piccoli hai rivelato i misteri del regno dei cieli” (Mt 11,25). I piccoli sono coloro che, ai propri pensieri, preferiscono quelli di Dio.  Così, voler mantenere la distanza delle differenze tra ebrei e pagani, tra giusti e empi, tra puri e impuri, ecc. (gli ascoltatori della sinagoga si sentono offesi quando Gesù ricorda loro che Dio non ha disdegnato i pagani – la vedova di Zarepta di Sidone e Naaman il siro – come se questa preferenza comportasse l’accusa ai suoi figli) significa stravolgere il piano divino della creazione e restare impassibili davanti all’amore di Dio che tutti ingloba nel suo amore salvatore, che non si piega al ricatto del figlio maggiore come non si ritrae dalla vergogna del figlio minore per riunirli entrambi nella gioia del Regno. La terribile lotta che l’uomo è chiamato a sostenere è quella contro il sospetto che la differenza non contenga la ricchezza della promessa di Dio, ma sia un attentato alla sua identità. La ragione di tale sospetto, che insidia ogni relazione, deriva non dalla paura dell’uomo, ma dalla paura di Dio al cui amore e alla cui promessa di vita non si dà credito. Questa mi sembra la ragione profonda della difficoltà a credere, a prestare fede alla testimonianza di Gesù come a Colui che davvero ci rivela il volto del Padre. Purtroppo troppe cose nella vita quotidiana e dentro noi stessi non fanno che confermare quel sospetto, che preferiamo rimuovere piuttosto che curare, per cui ci appare più pio difendere il nome di Dio nascondendoci nella giustizia di qualche pratica religiosa che ci dà il senso di vantare dei meriti piuttosto che fidarsi dell’amore di Dio che si traduce in prossimità per tutti gli uomini a gloria del suo nome, seguendo Gesù nella sua rivelazione del Padre.

Un ulteriore motivo di riflessione è dato dalla corrispondenza tra le letture di oggi. Il profeta Geremia, tormentatissimo, che ha dovuto subire l’ostilità del suo paese e del suo popolo fino alla fine, richiama la vicenda dell’altro profeta, Gesù, anche lui non accettato, ma fedele esecutore e contemporaneamente rivelatore dell’amore del Padre. Il dramma del rifiuto davanti al profeta non sottolinea la grandezza del profeta, ma la tenacia del disegno di Dio che comunque si rivela nel suo desiderio di prossimità con l’uomo. Il dramma del rifiuto perdura finché si giunge alla rivelazione del punto di incandescenza dell’amore di Dio nel profeta tanto da fargli divorare l’ingiustizia e far trionfare l’amore. Ma se questo avviene nel profeta, vuol dire che può avvenire in ogni fedele, in ogni credente. Così l’esperienza del profeta diventa emblematica, ripetibile da ogni credente, come lo sottolinea il salmo 70 che ognuno, nel crogiolo della sua esperienza, può proclamare: “In te mi rifugio, Signore … Sii per me rupe di difesa … Sei tu, Signore, la mia speranza … Dirò le meraviglie del Signore”, cioè le meraviglie di quell’amore che non è venuto meno davanti all’ingiustizia ed è rimasto fisso nel suo scopo perché finalmente su tutti risplenda il volto del Signore. Così per l’esperienza di Gesù, che fornisce il contenuto divino-umano dell’esperienza di ogni credente. Quando Paolo dirà: “non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20), “avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti, sull’esempio di Cristo Gesù” (Rom 15,5) o Giovanni : “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23), non faranno che alludere a quella esperienza di Gesù che diventa la stessa esperienza del discepolo.

Nella preghiera dopo la comunione diciamo: “O Dio, che ci hai nutriti alla tua mensa, fa’ che per la forza di questo sacramento, sorgente inesauribile di salvezza, la vera fede si estenda sino ai confini della terra”. Preghiamo per diventare partecipi della potenza di quell’amore che ci è fatto conoscere in Gesù e di cui tesse l’elogio s. Paolo nel suo inno alla carità. Non c’è conoscenza che tenga, non c’è fede che conti, non c’è generosità che salva: solo la carità esprime lo splendore che deriva dalla fede in Gesù. Quando Paolo dichiara che senza la carità non sono nulla, non dice semplicemente che io non conto nulla davanti a Dio senza la carità, ma che tutte le cose eccelse, senza la carità, non hanno alcun valore presso Dio. E se non l’hanno presso Dio, vuol dire che non possono costituire strumenti di comunione tra gli uomini. E senza vivere la comunione con gli uomini non si può sperare di godere la comunione con Dio, che è Padre. Ogni vanto umano qui cessa. Ogni giustificazione umana qui tace. Ogni differenza che non si traduca in fantasia di prossimità ci condanna al sospetto, alla negazione di Dio, alla lacerazione dell’illusione e della prevaricazione. La sapienza evangelica è radicale, ma consona al cuore dell’uomo, se si accoglie la buona novella del profeta di Nazaret.

 

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I TESTI DELLE LETTURE (dal “Messale Romano”):

 

Prima Lettura  Ger 1,4-5.17-19

Dal libro del profeta Geremia

 

Nei giorni del re Giosìa, mi fu rivolta questa parola del Signore:

«Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto,

prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato;

ti ho stabilito profeta delle nazioni.

Tu, dunque, stringi la veste ai fianchi,

àlzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò;

non spaventarti di fronte a loro,

altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro.

Ed ecco, oggi io faccio di te

come una città fortificata,

una colonna di ferro

e un muro di bronzo

contro tutto il paese,

contro i re di Giuda e i suoi capi,

contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese.

Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno,

perché io sono con te per salvarti».

 

Salmo Responsoriale  dal Salmo 70

La mia bocca, Signore, racconterà la tua salvezza.

In te, Signore, mi sono rifugiato,

mai sarò deluso.

Per la tua giustizia, liberami e difendimi,

tendi a me il tuo orecchio e salvami.

 

Sii tu la mia roccia,

una dimora sempre accessibile;

hai deciso di darmi salvezza:

davvero mia rupe e mia fortezza tu sei!

Mio Dio, liberami dalle mani del malvagio.

 

Sei tu, mio Signore, la mia speranza,

la mia fiducia, Signore, fin dalla mia giovinezza.

Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno,

dal seno di mia madre sei tu il mio sostegno.

 

La mia bocca racconterà la tua giustizia,

ogni giorno la tua salvezza.

Fin dalla giovinezza, o Dio, mi hai istruito

e oggi ancora proclamo le tue meraviglie.

 

Seconda Lettura  1 Cor 12,31-13,13

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi

Fratelli, desiderate intensamente i carismi più grandi. E allora, vi mostro la via più sublime.

Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.

E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo, per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.

[ La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.

La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino.

Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità! ]

 

Vangelo  Lc 4,21-30

Dal vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».

Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro».

All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.