Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo di Avvento

 

1a Domenica

(29 novembre 2009)

 

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Ger 33,14-16;  Sal 24;  1Ts 3,12-4,2;  Lc 21,25-36

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La Bibbia si conclude con un grido: “Lo Spirito e la sposa dicono: Vieni!... Amen. Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,17.20). Riassume l’anelito di Dio per l’uomo e quello dell’uomo per Dio di cui tutte le Scritture sono intessute. L’incompletezza delle cose e l’insoddisfazione dell’uomo, a qualunque causa si addebitino, rimandano a quel grido. A noi percepirlo, perché dalle profondità del cuore proviene, eco della promessa del Signore di dare la vita per la quale siamo fatti.

Qui si innesta il tema della vigilanza del tempo di Avvento, tempo che è celebrato nelle sue tre dimensioni attorno alla figura di Gesù: a) l’evento della nascita di Gesù nella storia; b) il suo ritorno glorioso alla fine della storia; c) l’oggi della storia vissuto nel Signore che nasce e cresce nei cuori. Il colore viola dei paramenti liturgici richiama la fatica storica della rivelazione dello splendore del Cristo in e tra di noi, in attesa della letizia del Natale con la consuetudine di farci doni perché ci è stato fatto il Dono per eccellenza: Dio si è fatto uno di noi, la terra può vivere come il cielo. Proprio come diciamo nel Padre nostro: sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra, cioè perché la nostra terra diventi tutta cielo.

Possiamo dare uno sguardo di insieme alla liturgia di oggi partendo dall’esortazione di Paolo ai Tessalonicesi: “Fratelli, il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi, per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi”. La lettera è il più antico documento letterario del Nuovo Testamento, scritta da Paolo verso l’anno 51, appena una ventina d’anni dopo la morte e risurrezione di Gesù. La generosità degli inizi con la partecipazione entusiasta alla carità di Dio rivelata in Gesù che tutti coinvolge trasformando la vita si riflette nella fede nell’imminenza del ritorno di Gesù. Il mistero è percepito come nella sua globalità e nella sua estensione.

La liturgia rielabora quell’esperienza proclamando Dio come colui che mantiene le promesse. Lo diciamo nella colletta: “Padre santo, che mantieni nei secoli le tue promesse”; lo annuncia il profeta: “io realizzerò le promesse di bene che ho fatto”. Il salmo responsoriale si apre sulle intenzioni di Dio che parlano al nostro cuore: “Il Signore si confida con chi lo teme: gli fa conoscere la sua alleanza”. Il testo ebraico è ancora più eloquente: “Il segreto (l’intimità) del Signore è per chi lo teme”. Come a dire: le vie del Signore che chiediamo di conoscere sono la verità del suo amore, che in Gesù si è reso toccabile. Non c’è evento nella nostra vita che possa cancellarlo o soffocarlo o far desistere il Signore dal suo amore. Temere lui vuol dire non impedire al cuore di vivere di quel suo desiderio di amore per noi. Non è proprio agevole né per nulla scontato accettare che i sentieri di Dio nei nostri confronti siano amore e fedeltà. Ma il Signore Gesù, nato nella nostra storia, è lì a proclamarlo, a ricordarcelo, a far  risplendere il suo amore perché ci conquisti e ci acquieti, ciascuno e tutti insieme.

La vigilanza serve a questo: a tenerci desti all’amore del Signore. E l’uomo è colui che alza il capo per essere capace di vedere le promesse di Dio, di vederle compiersi nel suo cuore. Per tutto l’avvento risuonerà l’esortazione: ‘vegliate e pregate’, come a dire: abbiate un occhio acuto e un cuore ardente. Non si tratta solo di un esercizio di intelligenza (vegliate!) ma di un processo di confidenza (pregate!). Un antico saluto degli indiani Hopi suonava: sta’ attento a che la tua testa resti aperta verso l’alto! Tenere aperta la testa verso l’alto significa allora superare la paura, perché il Dio che siamo chiamati a conoscere è un Dio di amore per noi. Attende solo – anche Dio attende! – di incontrare cuori aperti alla sua promessa, fiduciosi di vedere il bene che la sua promessa ci rivela.

Del resto, è caratteristico che l’anno liturgico finisca e cominci con la stessa lettura evangelica del cap. 21 di Luca. Ciò che si attende per la fine è lo stesso di ciò che si contempla per l’inizio. Ciò vuol dire che tutta la storia riceve senso a partire da un unico punto: la realtà del Signore Gesù nel suo amore per noi. Se il canto all’alleluia proclama: “Mostraci, Signore, la tua misericordia e donaci la tua salvezza”, vuol dire che possiamo vivere la nostra storia nell’attesa della rivelazione dell’amore di benevolenza del Signore per i suoi figli! Attesa, che non si riferisce solamente al premio finale, ma al desiderio di godibilità, nel tempo, di quella rivelazione, nella quale si incontrano e si consumano due desideri, quello dell’uomo e quello di Dio.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo di Avvento

 

2a Domenica

(6 dicembre 2009)

 

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Bar 5,1-9;  Sal 125;  Fil 1,4-11;  Lc 3,1-6

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La chiesa introduce la testimonianza di un profeta d’eccezione per predisporci ad accogliere la venuta di Gesù: Giovanni Battista. È definito come la ‘Voce che grida nel deserto’, voce per una Parola che ancora deve mostrarsi, ma dalla quale è già conquistato e di cui diventerà testimone.

Il brano del vangelo di Luca, in questo inizio del capitolo terzo, si espande in continue e misteriose allusioni. La persona di Gesù è compresa in rapporto a Giovanni Battista e Giovanni Battista è compreso in rapporto al popolo di Israele che attende la manifestazione del proprio Dio secondo la sua promessa, ma le coordinate storiche degli avvenimenti sono situate entro la cornice della storia pagana, a indicare la centralità dell’evento per la storia umana. Siamo nell’anno 28/29 d.C. Vengono nominate le autorità che derivano il loro potere dal beneplacito di Roma: anzitutto Tiberio, poi Ponzio Pilato (governatore/prefetto della Giudea tra il 26 e il 36 d.C.), Erode Antipa (che governa tra il 4 a.C. e il 39 d.C.), Filippo (al potere tra il 4 a.C. e il 34 d.C.) e Caifa, sommo sacerdote, che svolge il suo incarico tra il 18 e il 36, dopo che Anna, suo suocero, era stato deposto nell’anno 15. Le coordinate di senso, però, sono definite in rapporto alla storia sacra d’Israele con allusioni, dirette e indirette, alle Scritture. Il Battista è definito con un riferimento diretto al profeta Isaia 40,1-5 e con un’allusione alla vocazione di Geremia 1,1 e alla promessa di Dio in Osea 2,16-22. A questi brani la liturgia aggiunge il testo di Baruch, essenziale a cogliere il grido del Battista.

La voce del Battista risuona forte: “Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!”. Eppure, la colletta fa pregare così: “O Dio grande nell’amore, che chiami gli umili alla luce gloriosa del tuo regno, raddrizza nei nostri cuori i tuoi sentieri …”. Identica cosa dice il profeta Baruc: “Poiché Dio ha deciso di spianare ogni alta montagna e le rupi perenni, di colmare le valli livellando il terreno, perché Israele proceda sicuro sotto la gloria di Dio”.

Se è Dio che raddrizza i sentieri, come si concilia questo agire di Dio con l’invito del Battista? Due sono i movimenti che si intersecano: l’azione di Dio e l’azione dell’uomo. L’azione di Dio riguarda l’invio del Figlio all’umanità, Figlio che riunisce i figli di Dio dispersi, che diventa segno glorioso dell’amore di Dio per gli uomini. A questa azione di Dio, che riassume il suo desiderio di stare con gli uomini e di renderli partecipi finalmente dell’amore suo di cui è ricolmo il Figlio, corrisponde l’azione dell’uomo che consiste proprio nell’aprirgli le porte, nell’accoglierlo, nel cogliere il segno che lui rappresenta. Sarà il Figlio, accolto, ricevuto in casa (pensiamo agli incontri avuti da Gesù con i vari discepoli e personaggi nei vangeli!), che ‘raddrizza i sentieri di Dio in noi’, nel senso che nel Signore Gesù e con il Signore Gesù l’uomo ritrova la sua vocazione divina e la possibilità di compierla in pienezza, per cui torna ad essere capace di compiere i comandamenti, che costituiscono i sentieri di Dio per noi.

E quando il Battista applica all’uomo l’esortazione di raddrizzare i sentieri di Dio non fa che scuoterlo dai suoi sogni e dalle sue illusioni perché apra il suo cuore a quel Figlio che sta per venire, che è venuto a portare e a far vivere la vita di Dio. E aggiungendo: “ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!”, non fa che sottolineare l’estensione del progetto di Dio per l’umanità. Come non si tratta di una salvezza che riguardi me più degli altri, così non si tratta di una salvezza che riguarda me senza gli altri. È la via di Dio per l’uomo, che diventa la via dell’uomo per Dio: lasciare libero il sentiero tra uomo e uomo è il segno più inequivocabile della rimozione di ostacoli nel sentiero tra uomo e Dio. Amare il prossimo torna a gloria di Dio perché è segno dell’esperienza dell’incontro con Dio, segno dell’accoglienza gioiosa e solidale con l’umanità di quel Figlio, mandato a riunire i figli di Dio dispersi, di cui ci prepariamo a celebrare il natale tra noi.

L’allusione alla voce che grida nel deserto riprende il testo di Osea: “Perciò, ecco, io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore… Là mi risponderà come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese d’Egitto… Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella benevolenza, ti farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore”, dove il brano, reso pudicamente in italiano, ha un connotato molto più realistico: ti sedurrò, parlerò sul tuo cuore, con espressioni tipiche dell’intimità delle relazioni tra l’uomo e la donna; risponderà, nel senso della risposta della sposa che si dona a suo marito. Allora, portare nel deserto da parte di Dio allude, sì, allo spogliamento (= penitenza) dei beni e delle cose nei quali ci si è illusi di trovare felicità, ma soprattutto allude a una nuova storia di amore che Dio è pronto a intessere col suo popolo su basi nuove, con una nuova alleanza, perché finalmente il cuore possa godere la vita in modo soddisfacente. Quando il Battista comincia a gridare nel deserto, nella sua voce c’è l’eco di questo desiderio di Dio di venire dal suo popolo, un’eco che non rimbomba più da lontano ma si fa sempre più vicino, fino a tramutarsi nel suono diretto della Parola d’amore che appare in mezzo al suo popolo quando Gesù si manifesterà.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Solennità e feste

 

Immacolata Concezione

(8 dicembre 2009)

 

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Gn 3,9-15.20;  Sal 97;  Ef 1,3-6.11-12;  Lc 1,26-38

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Rallegrati, piena di grazia” è il saluto dell’angelo Gabriele a Maria. La festa di oggi fa presagire quanto siano insondabili i confini di questa sua pienezza di grazia: unica tra tutte le creature non è toccata da ombra di peccato fin dal suo primo istante di esistenza. Dire che non ha ombra di peccato non è che la modalità per negativo di dire quanto sia coperta dall’ombra dello Spirito Santo: “Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra”.

La liturgia oggi non fa che proclamare l’insondabile e straordinaria volontà di benevolenza di Dio per gli uomini in tutto lo splendore d’amore che comporta, che,  per dirla con l’espressione di Paolo agli Efesini, esprime tutto ‘il beneplacito della sua volontà’. Se leggiamo la festa di oggi sulla falsariga dell’inno di Paolo, nel capitolo primo della sua lettera agli Efesini, potremo comprendere più adeguatamente sia l’inno del magnificat pronunciato dalla Vergine che la ragione della profezia rivoltale di essere ‘la benedetta tra tutte le donne’. Dice Paolo: “In lui siamo stati fatti anche eredi, predestinati - secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà – a essere lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo”. Vediamo in lei la prima che ha sperato in Cristo e che perciò è stata fatta a lode della sua gloria, vale a dire adatta a rivelare la sua gloria, adeguata a portare la sua gloria. E se la gloria non è che lo splendore del suo amore per gli uomini, allora è lei colei che più di tutti l’ha fatto risplendere con il portare in grembo, partorire, custodire, condividere il mistero di quel Gesù, suo Figlio, dato per noi, a rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini. La pienezza di grazia della Vergine è in funzione di quella rivelazione, che costituisce la ragione per cui lei è chiamata a dare carne a colui nel quale riposa il sommo beneplacito, la totale compiacenza di Dio, come sarà dichiarato espressamente nel momento del battesimo e della trasfigurazione del Signore Gesù.

È lei che può esprimere in tutta la sua profondità ed esultanza quell’amore di benevolenza di Dio che salva l’uomo, di cui tutti siamo chiamati a fare esperienza: “Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo”. Ci può essere per l’uomo motivo più autentico di benedizione di Dio di questo ‘riconoscimento’ dell’amore Suo per noi, in Cristo, che ha presieduto alla stessa origine del mondo e che ha avuto nella Vergine Immacolata il suo segno tangibile?

Riflettendo sul passo del racconto del peccato narrato dal libro della Genesi si può osservare come le varie creature si pongano nei confronti di Dio. Quando Dio chiede ad Adamo se abbia trasgredito il suo comando, lui risponde addossando la colpa ad Eva. Quando Dio si rivolge ad Eva, lei risponde addossando la colpa al serpente. Ma quando Dio è davanti al serpente, il serpente tace. Adamo ed Eva rispondono a Dio, pur giustificandosi, perché hanno nostalgia di Dio. Il serpente sembra non avere alcuna nostalgia: non semplicemente ha peccato, ma non è proprio d’accordo sul fatto che Dio conceda i suoi favori agli uomini e resta quindi avversario di Dio. È avversario di Dio chi è geloso dei beni che Lui riversa sulle sue creature e perciò resta astioso, astio di cui facciamo le spese noi continuamente. Chi è capace di far risplendere i doni di Dio solo godendo dell’immenso amore di Dio per gli uomini è pieno di grazia. E da tale pienezza di grazia non può non derivare il Salvatore, che è la rivelazione dell’infinito amore di Dio per gli uomini. Credo voglia dire anche questo la pienezza di grazia della Vergine, dalla quale nasce Gesù, il Salvatore. Ed è per questo che la tradizione saluta la Vergine come la gioia dell’universo.

Non avevo mai riflettuto sul fatto di chiamare ‘nostra Signora’ la Vergine, Madre di Dio. Qual è il significato di questo appellativo? Un passo di un’omelia di Gregorio Palamas è illuminante: “La Vergine è Signora non solo perché è libera dalla schiavitù del peccato e partecipe del dominio divino, ma anche perché è diventata causa e radice della libertà del genere umano” (Omelia 14,8). Così, se l’uomo vuole accedere al regno della libertà, non ha che da guardare a questa sua sorella, al suo mistero, alla sua storia, alle sue emozioni, ai suoi dolori, al suo amore perché in lei ritrova tutto il mistero dell’amore di Dio per l’uomo. E non si può vivere l’amore senza libertà. Nella sua grandezza non cessa di essere sorella nostra, come noi nella nostra miseria non cessiamo di essere oggetto dell’amore di Dio. Il suo ‘avere’ il Signore con lei è motivo di fiducia per noi di trovarlo, di essere accompagnati a lui, di stare in sua compagnia. ‘Il Signore è con te’ diventa, nella nostra preghiera: “tu che hai il Signore supplicalo perché sia anche con noi, ora e sempre!”.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo di Avvento

 

3a Domenica

(13 dicembre 2009)

 

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Sof 3,14-18;  Sal: Is 12,2-6;  Fil 4,4-7;  Lc 3,10-18

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Rallegrati, figlia di Sion, grida di gioia, Israele; esulta e acclama con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme! Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico”; “Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino!”. Così la liturgia, oggi, accoglie i fedeli: li chiama alla gioia, insistentemente. Con quali ragioni?

Riferire la gioia a Dio comporta due significati: Dio è pieno di gioia per noi (= noi siamo la sua gioia) e Dio è fonte di gioia per noi (= Dio è la nostra gioia). La colletta fa pregare: “O Dio, fonte della vita e della gioia, rinnovaci con la potenza del tuo Spirito, perché corriamo sulla via dei tuoi comandamenti, e portiamo a tutti gli uomini il lieto annunzio del Salvatore”. La potenza dello Spirito è collegata al mistero della letizia che ci rinnova facendoci ‘correre’, non semplicemente ‘camminare’, sulla via dei comandamenti. Se il cuore non percepisce mai come Dio non si dia pace finché noi vediamo quanto è contento di poter stare con noi, come potremo fare esperienza che i suoi comandamenti sono la gioia del nostro cuore? Il profeta Sofonia lo dice chiaramente: è Dio ad esultare di gioia per noi. La cosa è tanto singolare che la nostra psicologia interiore sembra non riuscire a produrre una sensazione del genere. Eppure, la percezione della gioia di Dio per noi è la radice della nostra dignità.

Essa è appunto il frutto della conversione, vale a dire della impossibilità di negare che Dio viene a noi con gioia, non si stanca di venire a noi con gioia, gioia che è frutto del suo amore per noi che conquista il nostro cuore. Quando il Battista riconosce in Gesù l’Inviato di Dio lo riconosce appunto come riflesso della gioia che quell’incontro gli procura. Fin dal grembo materno Giovanni ha esultato di gioia alla presenza di Gesù. Da adulto, ormai al termine del suo cammino, di sé dice: “Ma l’amico dello sposo, che è presente e lo ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo” (Gv 3,29). Così, quando Luca vuol descrivere la premura di Dio per gli uomini, non ha di meglio che narrare la parabola del figlio ritrovato, della pecorella e della dramma ritrovate (Lc 15) dove la rivelazione del cuore di Dio si fa evidente proprio attraverso la sua gioia per noi. Ciò vuol dire ancora che la nostra gioia non può derivare dalla nostra innocenza, perché davanti a Dio suonerebbe solo come una pretesa di giustizia, mentre deriva dal suo amore per noi.

Alla gioia esultante di Dio che descrive il profeta Sofonia dopo l’annuncio del terribile giorno del Signore, tra le pagine più buie dell’Antico Testamento, fa riscontro la gioia del popolo descritta dal profeta Isaia che oggi fa da salmo responsoriale, gioia che parla dell’esultanza del popolo dopo la traversata del Mar Rosso e la liberazione dall’esilio babilonese. Della stessa gioia, data dal Signore Gesù riconosciuto e accolto, parla la lettera ai Filippesi, gioia che si traduce in un tratto di dolcezza verso tutti e tutto, tanto da gustare una pace che sovrasta ogni afflizione e ogni contrasto.

Dove trovare nel vangelo di oggi l’allusione a questa gioia? In un’allusione misteriosa. La liturgia mostra il motivo della gioia nella proclamazione che il Signore è in mezzo a noi come un salvatore potente, dove potente significa ‘capace di dare letizia’ e salvatore ‘pieno della gioia che arriva anche a noi’, capaci finalmente di condividerla. Giovanni chiama Gesù ‘colui che è più forte di me’ e mette in relazione quella forza allo Spirito Santo nel quale Gesù battezzerà. Come riporterà Luca più avanti, cap. 11, v. 22, il definire Gesù ‘il più forte’ significa riconoscergli la dignità di Messia. E la forza del Messia sta nel fatto che fa vedere Dio presente, che fa vedere il Regno che si compie. Ma il Regno che si compie è proprio l’amore di Dio che si fa condiviso, apertamente e fraternamente condiviso con tutti gli uomini, nello Spirito, cioè nella letizia che non viene più tolta. E la letizia che non viene più tolta (si pensi alla ‘perfetta letizia’ di s. Francesco di Assisi) è proprio quella che custodisce la gioia di Dio per noi perché il suo amore ormai risplende senza farsi più turbare o distrarre da altro. È la letizia come segno del Regno che viene, come l’opera di Dio che si fa manifesta. I nostri peccati annegano in questa gioia di Dio per noi.

Insieme allo Spirito Santo viene nominato il fuoco. È l’altra faccia della medaglia: condividere la gioia di Dio per l’uomo comporta evidentemente il bruciare tutto quello che a quella gioia si oppone o che quella gioia contraddice. E poi scopriamo che ciò che contraddice alla gioia di Dio è la chiusura nei confronti dell’umanità, prima di tutto del nostro Dio e poi di tutti i suoi figli, per cui l’indicazione delle varie opere che il Battista indica come segno dell’incipiente conversione si muove nella prospettiva di una dinamica di solidarietà con gli uomini.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo di Avvento

 

4a Domenica

(20 dicembre 2009)

 

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Mic 5,1-4;  Sal 79;  Eb 10,5-10;  Lc 1,39-48

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La liturgia di oggi si apre con l’antifona tradizionalmente cantata nella novena in preparazione del Natale: “Rorate coeli desuper et nubes pluant justum: aperiatur terra, et germinet salvatorem”; “Stillate dall’alto, o cieli, la vostra rugiada e dalle nubi scenda a noi il Giusto; si apra la terra e germogli il Salvatore” (Is 45,8). Si tratta della versione della Volgata che interpreta messianicamente l’espressione più neutra dell’ebraico e del greco della LXX: “Stillate, cieli, dall’alto e le nubi facciano piovere la giustizia; si apra la terra e produca la salvezza”.

Siamo ormai prossimi alla festa del Natale e tutta la liturgia oggi è un invocare il compimento del ‘volere’ la nostra salvezza da parte di Dio. Non è l’uomo a muovere Dio, ma è il volere salvatore di Dio che investe l’uomo. Il salmo 79 riassume bene gli aneliti dei cuori: “Risveglia la tua potenza e vieni a salvarci ... Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna”. Quel ‘volere’ si rivela in un volto di cui godremo finalmente la vista. Quel Giusto, quel Salvatore, di cui si invoca la discesa contemporaneamente dall’alto e dalla terra, è colui che di sé dice entrando in questo mondo: “Ecco, io vengo per fare la tua volontà” (Eb 10,7). La sua non è una dichiarazione puntuale, che avviene cioè in un determinato momento sottintendendo che prima non pensava in questi termini, ma è una dichiarazione eterna, frutto del colloquio eterno tra il Padre e il Figlio nell’amore che li lega tra loro e al mondo. L’apparire finalmente di Gesù nella storia umana non riguarda semplicemente la cronaca storica, ma concerne la dimensione eterna della storia umana. Lui ne è il fulcro, ne è la radice ed insieme il frutto.

Si invoca la sua discesa dall’alto: Dio si avvicina all’uomo, non l’uomo a Dio; Dio si fa figlio dell’uomo, non l’uomo Figlio di Dio. Ma si invoca pure dal basso, dalla terra: Dio non sopraggiunge come un meteorite, come importato da fuori, benché dall’alto; Dio, nel suo agire, sempre accondiscende all’uomo e quando si avvicina all’uomo lo fa in modalità umana, da dentro quella storia che ha messo in moto per condividere con l’uomo il suo Bene. Invocare la sua discesa dalla terra è proclamare la santità dell’umanità della Vergine che Dio stesso si è preparato perché finalmente si compia quel ‘volere’ che ha costituito il desiderio di Dio dall’eternità: Dio e l’uomo in uno, tutto Dio per l’uomo e tutto l’uomo per Dio.

A quel ‘volere’ si appella la Vergine con le sue parole all’angelo: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola” (Lc 1,38), come proclama il canto al vangelo. Il volere di benevolenza di Dio per l’uomo, che si era espresso nel volere di intimità del Figlio con il Padre per essere il testimone del suo amore per gli uomini tra gli uomini, si rispecchia nel volere di obbedienza della Vergine che sta unita al suo Dio. Si rivela qui la santità dell’umanità della Vergine che diventa lo spazio di realizzazione del desiderio di Dio per gli uomini, ritrovando in ciò tutta la sua dignità di creatura e tutto lo splendore nel quale era stata concepita fin dall’inizio. E non per nulla l’elogio di Elisabetta si appunta proprio su questo: “beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”. E parafrasando potremmo aggiungere: beata colei che ha fatto esperienza così forte e totale dell’amore di benevolenza di Dio per l’umanità da non ricercare altro nel suo vivere se non che quell’amore di benevolenza avesse tempo e modo di riversarsi su tutto e su tutti, su di lei come sul mondo. É da tale consapevolezza che sgorgano le parole del magnificat e il canto di esultanza della creatura che vede lo spazio di vita ormai  totalmente occupato da quell’amore. Anche nella preghiera del Padre nostro, quando invochiamo: ‘sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra’, per prima cosa chiediamo di fare esperienza di quell’amore di benevolenza da parte di Dio, amore nel quale siamo stati concepiti e voluti e che costituisce tutto il nostro splendore.

Se si accoglie il Verbo di Dio, se ne accoglie anche la dinamica di amore che l’ha spinto a venire a noi, dinamica che investe il mondo e che costituisce il suo splendore. Ecco perché in quell’“avvenga per me secondo la tua parola” c’è anche l’impeto di carità che muove la Vergine ad andare da sua cugina Elisabetta. Le parole del magnificat alludono anche alla carità che ha investito il suo cuore e del cui splendore il suo agire è ormai testimone, segno della presenza fatta carne del Figlio di Dio. Di quell’amore Lui è il rivelatore per eccellenza perché conoscendo il Padre in verità sa che è amore per noi. Proprio questo è venuto a ‘far vedere’! E in questo sta la nostra salvezza e la nostra pace.

Nel salmo 79 il versetto che fa da ritornello responsoriale “Fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi”, viene ripetuto tre volte. Quel volto che risplende su di noi è il Messia cantato come ‘figlio dell’uomo che per te hai reso forte’. Forte da vincere ogni nemico e farci godere la pace, cioè ricondurci all’esperienza dell’amore di Dio così forte da non concepire la vita in altri termini se non nella logica di quell’amore. La pace non è evidentemente assenza di afflizioni, ma condivisione dell’amore, amore che esprime tutto il volere di Dio per l’uomo e da parte sua e da parte nostra.

È interessante osservare che l’espressione della lettera agli Ebrei: “entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato Allora ho detto: Ecco, io vengo - poiché di me sta scritto nel rotolo del libro - per fare, o Dio, la tua volontà” riprende la versione greca del salmo 40, ma l’ebraico porta: “gli orecchi mi hai aperto”, ad indicare la disponibilità totale al volere di Dio. Ma se Gesù prende un corpo, lo prende non solo per compiere il volere di salvezza di Dio per l’uomo, ma anche per mettersi in condizioni di compiere quella salvezza in termini di splendore di amore e di nient’altro. Non c’è ombra di ‘potenza’ nell’amore che Gesù manifesta nascendo come un bambino, vivendo da uomo e morendo sulla croce; eppure, non c’è potenza più forte di quell’amore che non si fa vincere da nulla. È l’amore che ‘magnifica’ il Signore davanti all’uomo e l’uomo davanti a Dio.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo di Natale

 

Natale di N. S. Gesù Cristo

(25 dicembre 2009)

 

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Messa della notte: Is 9,1-6;  Sal 95;  Tt 2,11-14;  Lc 2,1-14

Messa dell’aurora: Is 62,11-12;  Sal 96;  Tt 3,4-7;  Lc 2,15-20

Messa del giorno: Is 52,7-10;  Sal 97;  Eb 1,1-6;  Gv 1,1-18

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La liturgia natalizia, con i suoi tre formulari della messa nella notte, all’aurora e di giorno, illustra il mistero della nascita di Gesù a Betlemme nella luce di tre sguardi: lo sguardo del profeta, lo sguardo del discepolo e lo sguardo dei testimoni oculari.

Anzitutto lo sguardo del profeta, quello di Isaia. Il suo sguardo potente si affissa sulla promessa di Dio e sulla visione di consolazione per il popolo. Se la promessa riguarda un bambino che deve nascere: “un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio”, l’immagine di fondo dei brani è invece un’immagine nuziale, che possiamo riassumere nell’espressione: “Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia Gioia e la tua terra Sposata, perché il Signore troverà in te la sua delizia e la tua terra avrà uno sposo”. Dio è lo sposo che gioisce della sua sposa, la quale passa da una percezione di angosciosa solitudine, di abbandonata e sola, all’emozione di essere svelata a se stessa in una dolcezza di riposo che la fa sentire abitata, mio compiacimento e sposata (forse, meglio: abitata in dolcezza). La percezione di quella nuova realtà, di cui è indegna, ma di cui gode nell’intimo, grata e consegnata, costituisce il contenuto del nome nuovo con la quale è chiamata. È la situazione dell’umanità dopo la nascita di quel Bambino che è nato per svelare quanto è grande l’amore di Dio per l’uomo e come l’uomo possa accogliere e vivere questo amore in tutta umanità.

Poi c’è lo sguardo del discepolo, di Paolo, che nella sua lettera a Tito riassume la rivelazione del natale di Gesù con le espressioni: “è apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini”, “quando apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini”. Con la nascita di Gesù, con il Figlio di Dio fatto uomo, questa ‘apparizione’ è diventata visibile, toccabile. Potremmo intendere: proprio la vita umana di Gesù rivela la bellezza di Dio; proprio la pratica di umanità conforme alla volontà di Dio, in Gesù, racconta la salvezza e il progetto di Dio su tutta l’umanità.

Infine c’è lo sguardo dei testimoni oculari: la Vergine, gli angeli, i pastori. Gesù nasce povero, in condizioni disagiate e senza riconoscimenti, nonostante la potenza delle immagini messianiche che lo preannunciavano. La Vergine, sua madre, però, non gli ha fatto mancare la grazia dell’umanità, quell’umanità che poi lui, da grande, svelerà in tutta la sua portata divina nel suo passaggio pasquale. Gli angeli svelano tutta la preferenza di Dio per l’umanità e la loro gioia deriva dalla condivisione di questo segreto della creazione con il loro Dio. I pastori rappresentano l’umanità che non possiede titoli di gloria o di merito. Sentiamo l’emozione dei loro cuori, che passa ai loro piedi e riempie i loro occhi: quando ritornano ai loro greggi a riprendere la vita di sempre hanno la sensazione che la vita non può essere come quella di prima. Lo intuiamo dalla gioia della condivisione con altri di quanto hanno sperimentato.

A dire il vero, la liturgia propone nella messa del giorno un altro sguardo, quello dell’apostolo Giovanni, che guarda alla storia da dentro una profondità inattingibile, la stessa vita divina intratrinitaria. La particolarità però è che quella vita a noi appare nell’umanità di quel Bambino, perché la luce del Natale rimanda alla Pasqua, come un poema natalizio di s. Efrem canta: “Gloria al Nascosto che non potrebbe essere intravisto con l’intelligenza, ma che si è reso palpabile nella sua bontà tramite la sua umanità! La natura che non fu mai toccata, per le mani fu legata e appesa, per i piedi fu fissata e crocifissa: come a lui è piaciuto, ha preso corpo perché lo si potesse prendere”. Proprio a questo, con tutta la potenza di rivelazione che comporta quanto all’amore di Dio per l’uomo, vanno riferite le parole dell’apostolo Giovanni: “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia”. È la luce di tale splendore, fonte della nostra dignità, che rifulge nel Natale. La luce, la gioia, la pace che caratterizzano il clima della festività natalizia, tanto da indurre pressoché tutti a riversarle nelle case, nelle strade, nelle città, hanno a che fare proprio con quel Figlio, nato bambino, che vuol condividere all’uomo il segreto di Dio.

Sempre s. Efrem canta: “Sia benedetto Colui che ha fatto del nostro corpo una tenda per la sua Invisibilità! Sia benedetto Colui che nella nostra lingua ha tradotto i suoi segreti!”.

Cosa hanno visto i pastori e tutti i discepoli? Qualcosa che ha a che fare con l’apertura di un orizzonte e la possibilità di una esperienza fino ad allora impraticabili: “Dio, nessuno l’ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato”. Quell’orizzonte e quell’esperienza costituiscono il dono natalizio della pace. Se l’amore che ha originato quel dono è intravisto, allora si possono risanare le ferite della storia, si è abilitati a costruire un altro tipo di storia, si è raggiunti così nel profondo da non volere altro per sé e per tutti. È l’esperienza che farà dire all’apostolo: se Dio ci ha dato il suo Figlio unigenito, come non ci darà anche tutti gli altri beni? Come a dire: in lui potremo trovare tutti i beni ai quali anela il nostro cuore. È il perenne annuncio profetico dei credenti in Cristo al mondo.

Buon Natale a tutti!

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo di Natale

 

Santa Famiglia

(27 dicembre 2009)

 

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1Sam 1,20-28;  Sal 83;  1Gv 3,1-2.21-24;  Lc 2,41-52

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Celebrare la festa della santa famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, è un altro modo di sottolineare la verità e la veridicità dell’incarnazione del Figlio di Dio. Per porre la sua tenda tra di noi, Dio ha assunto la storia di una determinata genealogia (Gesù è ascritto alla discendenza davidica), carica delle promesse divine ma intessuta anche di peccato e di miserie umane e ha assunto pure la struttura che ha consentito a quella storia di svolgersi, cioè la famiglia. L’uomo che viene al mondo senza ritrovarsi in una famiglia che l’accoglie porta i segni dello strappo subito perché non garantito nel suo diritto a vivere e a crescere. Anche per Gesù, che è nato da una Vergine, è stato essenziale il contesto famigliare per crescere e scoprire il senso della sua vita. E tutto questo ha attinenza non solo con il bisogno dell’uomo, ma con il mistero di Dio. Voglio dire che il fatto che Gesù abbia avuto una famiglia non significa solo che Dio abbia voluto assumere la realtà umana della famiglia, ma ancor più che la famiglia nella sua realtà umana parla di Dio. Con tutti i misteri che comporta.

Nel racconto del ritrovamento al tempio di Gesù da parte dei suoi genitori ne abbiamo un indizio rivelatore. Al padre e alla madre che lo cercavano angosciati Gesù non teme di rispondere: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. Altre volte nel vangelo Gesù risponderà con questo tono a sua madre. Quando gli dicono che lo cercano sua madre e i suoi fratelli, egli dichiara: “Mia madre e miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 8,21). Oppure, a Cana, durante il banchetto di nozze, a sua madre che lo sollecitava ad intervenire risponde: “Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora” (Gv 2,4). Gesù rimanda continuamente, da dentro gli affetti familiari, ad una dimensione ancor più profonda che costituisce la radice stessa di quegli affetti e la garanzia più sicura. Rimanda cioè a quel ‘Padre’, di cui ogni affetto parla, al quale ogni affetto rimanda e nel quale ogni affetto trova la sua radice più appropriata ed il termine verso il quale ogni affetto anela.

Gli orizzonti sono mantenuti larghi, è un continuo andare oltre la cronaca e la materialità degli eventi, dentro la necessità e la difficoltà di un superamento continuo di quello che si pensava ovvio. Tutti i genitori conoscono questa ambivalenza nella crescita dei figli: fanno tutto per i figli e la loro gioia sta in questo, ma sanno che i figli sono chiamati a realizzare un loro progetto, spesso senza poterlo condividere, almeno all’inizio. Ma corrisponde al progetto di Dio sia la premura dei genitori che la libertà dei figli e se entrambi, genitori e figli, sono consapevoli di questa unità di progetto in Dio, tutti e due trovano la loro gioia, misteriosamente. Diventa così essenziale, per i genitori e per i figli, la consapevolezza della verità di questo rimando. La comprensione non è immediata, ma è assicurata. Della Vergine si annota nei vangeli: “Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”. Non comprendere subito il piano di Dio non significa non accoglierlo. Trattenere perciò eventi e parole, misteriose, che vengono da Dio, significa accogliere in cuore il suo piano in attesa di comprenderne il senso. E questo vale soprattutto negli affetti, negli affetti familiari in particolare, quando la forza del legame farebbe valere il legame tra madre e figlio, a volte in senso perfino ricattatorio e  non invece con Colui che di quel legame è la Sorgente ed il Criterio di verità. Se un legame non sta aperto ad un progetto superiore rischia di soffocare.

Forse non è inutile sottolineare che la prima e l’ultima parola di Gesù nel vangelo di Luca è una evocazione del Padre. Nel tempio, quando è ritrovato dai suoi genitori: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”; sulla croce, prima di morire: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46); oppure, prima dell’ascensione: “Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso” (Lc 24,49). Gesù fa vedere come in tutto ciò che vive, in tutto ciò che possiamo vivere noi, quello che è essenziale è scoprire e far valere la radice di vita, di senso, di sentimenti, che è il Padre dei cieli, Colui dal quale ogni bene riceviamo e verso il quale porta ogni bene vissuto. Senza questo ‘sconfinamento’, da dentro i legami degli affetti, l’uomo si insacca su se stesso e non trova più slancio e passione per un progetto grande di vita. In altre parole, non ritrova più lo Spirito donato da Gesù. Lo dice assai bene la seconda lettura tratta dalla prima lettera di s. Giovanni: “Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato”. In altri termini, osservare i comandamenti risulta possibile in forza dello Spirito che ci fa una cosa sola con Gesù, nel quale abita la pienezza della divinità. E lo Spirito è Colui che continuamente tiene aperti gli orizzonti verso il Padre, tanto in Gesù quanto in noi perché il desiderio di comunione di Dio con gli uomini si compia finalmente. Così è stato per la santa famiglia di Nazareth, così è stato per Gesù e così è per noi tutti. E solo così gli uomini possono vivere i loro affetti senza sottrarre loro quel vigore e quello slancio che li apre ad aneliti sempre più profondi e veritieri, dentro un’umanità così larga di orizzonti da sentire tutti della stessa famiglia.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo di Natale

 

Maria ss. Madre di Dio

(1 gennaio 2010)

 

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Nm 6,22-27;  Sal 66;  Gal 4,4-7;  Lc 2,16-21

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Con la riforma liturgica del 1969, l’antica festività di “Maria Santissima Madre di Dio” venne ripristinata in tutta la sua solennità il 1° gennaio. La chiesa, sottolineando la verità e la veridicità dell’incarnazione del Figlio di Dio, celebra, da una parte, la gloria della madre nella sua divina maternità, ‘madre del Cristo e di tutta la chiesa’, come recita la preghiera dopo la comunione espressamente voluta da papa Paolo VI e, dall’altra, il rito della circoncisione e dell’imposizione del nome al bambino nell’ottavo giorno. Consacrando poi la giornata all’intercessione per la pace, la chiesa annunzia al mondo che in Cristo è fatta pace tra cielo e terra e che la pace tra gli uomini ne è come il riverbero, lo splendore di benedizione.

Con lei, la Vergine Madre, che ha dato alla luce il Salvatore, si è compiuta in tutta la sua estensione l’antica benedizione di Israele: “Ti benedica il Signore e ti custodisca …”. Dante, nell’ultimo canto del Paradiso, dopo aver innalzato una lode sublime alla Regina del cielo, di lei dice: “Gli occhi da Dio diletti e venerati …”. Chi ha provato l’estasi di uno sguardo amoroso sa a quale intimità si allude, quale ‘benedizione’ si riceve e quale gioia ciò procura. Il mistero grande è il fatto che anche Dio è rapito dallo splendore dello sguardo della Vergine tanto è puro e sconfinato, specchio limpidissimo dell’amore di Dio per lei e per tutta l’umanità. Sì, perché la bellezza della Vergine allude alla bellezza, resa visibile, del Figlio Unigenito, nostro Salvatore, il cui amore per noi lo renderà disposto a perdere ogni ‘bellezza d’uomo’ per ridare a noi quella bellezza che attira il suo sguardo. In questo sguardo di Dio su di lei si concentra tutto il senso della sua intercessione allo scopo di ottenerci la suprema benedizione che si risolve nel voler vedere Dio, vedere il volto di Dio che risplende su di noi.

‘Il nome di Dio è ormai posto su di noi’: non c’è più motivo di paura e se la paura non fa più presa sui cuori, allora vengono meno anche la violenza e l’ingiustizia che di quella paura sono gli strumenti di offesa per autodifesa. Quel nome di Dio, pur nel suo mistero, ha un volto, risponde a un nome che è stato scelto umanamente, anche se dietro suggerimento angelico: Gesù. Quel ‘Gesù’, che ora adoriamo bambino nella stalla di Betlemme  – questa è la bella notizia per il mondo intero! – è ormai la benedizione e la custodia di Dio per gli uomini, è il volto di Dio che risplende benevolo e misericordioso, è il sigillo della pace di Dio sugli uomini, come la solenne preghiera di benedizione israelita profetizzava: “Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace”. Ora possiamo vedere che il Signore ha effettivamente benedetto, ha rivolto il suo volto e ci ha concesso la sua pace. È un bambino ‘nato da donna’, a sottolineare che è veramente figlio, contemporaneamente suo e del Padre, motivo per cui coloro che come tale lo riconosceranno, a loro volta saranno chiamati figli di Dio. Ma chi sono coloro che sono chiamati figli di Dio? Coloro che lo Spirito Santo guida, coloro che lo Spirito Santo governa, coloro che in forza di quello Spirito saranno operatori di pace (‘beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio’).

Nella lettera ai Galati s. Paolo scrive: “… Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: «Abbà! Padre!». Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio”. Non schiavi di nessuno e di nessuna ideologia, non schiavi per comodo o per paura, non schiavi di beni, esteriori o interiori, che non procedano da quell’unico Bene, che è Cristo stesso, pace di Dio, il cui godimento sorpassa ogni intelligenza e custodisce cuori e pensieri (cfr. Fil 4,7). La pace che viene da Dio non tollera mascheramenti o ambiguità, perché porterà tutti a riconoscere la stessa dignità condivisa che deriva dall’unico Padre, l’unico che è Giusto perché Misericordioso. Il Figlio, Gesù, che fa risplendere il suo volto tra gli uomini, ha fatto vedere come sia possibile declinare la pace di Dio nella storia degli uomini. Coloro che vogliono vivere e gustare la sua eredità non hanno che da seguirlo e, a loro volta, far risplendere il suo volto tra gli uomini: è il dono più bello che possono regalare ai loro fratelli, come la Vergine che, dandoci il Verbo di Dio, ha fatto il regalo più bello all’umanità.

Così la preghiera non può che essere quella della colletta: “ Padre buono che in Maria, vergine e madre, benedetta fra tutte le donne, hai stabilito la dimora del tuo Verbo fatto uomo tra noi, donaci il tuo Spirito, perché tutta la nostra vita nel segno della tua benedizione si renda disponibile ad accogliere il tuo dono”, cioè la pace del tuo Cristo e nulla resti fuori.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo di Natale

 

2a Domenica

(3 gennaio 2010)

 

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Sap 24,1-12;  Sal 147;  Ef 1,3-6.15-18;  Gv 1,1-18

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Nelle liturgie natalizie non manca mai il riferimento alla benedizione divina che in Gesù scende sull’uomo e che dall’uomo sale copiosa a Dio. Gesù è il Dono fatto da Dio all’umanità e contemporaneamente il frutto dell’umanità che nella Vergine raggiunge il suo esito esemplare. Nelle sue poesie sul mistero del Natale s. Efrem lo sottolinea egregiamente: “Maria è il giardino sul quale discese dal Padre la pioggia della benedizione; di quella effusione lei asperse il volto di Adamo”. O ancora, facendo parlare la stessa Madre di Dio, vede nel riferimento a Cristo lo scopo supremo della vita, capace di una visione nuova, trasformante: “Se una madre ha un bambino, questo diventa fratello del mio diletto. Se ha una figlia o una congiunta, questa diventa la sposa del mio Signore. Colui che ha un servo, gli conceda la libertà, affinché venga per servire il suo Signore … A causa tua una serva diventa libera. Se una ti ama, c’è nel suo seno una invisibile liberazione”.

Nel contesto di quel Dono fatto da Dio all’umanità, che costituisce il mistero del Natale del Verbo di Dio in mezzo agli uomini, va letto il primo capitolo della lettera agli Efesini. In quel suo procedere solenne, spazioso, Paolo delinea l’orizzonte di benedizione nel quale è compresa la vita dell’uomo: “Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato”. Con l’attestazione dell’apostolo Giovanni: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria”, che di quella benedizione fa l’oggetto specifico dell’esperienza della vita.

Come a dire: se prima della creazione del mondo, l’uomo è stato pensato da Dio in funzione della capacità di portare la bellezza del Figlio di Dio, allora come non vedere nell’esperienza della conoscenza di quel Figlio, ormai diventato Figlio dell’uomo, l’esito supremo della vita, il compimento di ogni desiderio di verità e bellezza? È in ragione di questa possibilità che l’annuncio evangelico si rivolge a tutti, a tutte le genti, a tutto l’uomo. Quando s. Gregorio di Nissa si domanda quale sia quel regno dei cieli che si trova dentro di noi (cfr. Lc 17,21) non può che rispondere: “Di cos’altro si può trattare, se non della gioia che si riversa dall’alto nelle anime tramite lo Spirito? Essa è come l’immagine, la garanzia e la prova della gioia eterna di cui godranno le anime dei santi nel secolo che attendono”. Proprio come chiediamo nella colletta della liturgia di oggi: “Padre di eterna gloria … illuminaci con il tuo Spirito, perché accogliendo il mistero del tuo amore, pregustiamo la gioia che ci attende, come figli ed eredi del regno”. È la richiesta di fare anche noi l’esperienza dell’apostolo Giovanni: “venne ad abitare in mezzo a noi e noi abbiamo contemplato la sua gloria”; di entrare anche noi in quel circolo di benedizione che descrive Paolo: “Benedetto Dio … che ci ha benedetti con ogni benedizione …”. A tal punto che, se davvero quella benedizione è sopra di noi e sgorga profonda dal nostro cuore, come non attraversare le afflizioni del vivere custoditi, come cercare altrove quello di cui ha bisogno il nostro cuore, come avere paura di veder scemare la speranza che portiamo, come volere dal prossimo quello che invece a lui dobbiamo nel segno della condivisione di quella benedizione? Del resto è proprio questo l’argomento e l’orizzonte della preghiera, luogo di adorazione e di memoria perché e finché quella benedizione ci conquisti e conquisti il mondo con la sua pace.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo di Natale

 

Epifania del Signore

(6 gennaio 2010)

 

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Is 60,1-6;  Sal 71;  Ef 3,2-6;  Mt 2,1-12

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Epifania vuol dire manifestazione. La festa di oggi ingloba tre momenti della manifestazione del Signore: la manifestazione di Gesù alle genti con la venuta dei magi; la manifestazione del Signore all’inizio della sua carriera messianica con il battesimo al fiume Giordano; la manifestazione del Signore con il primo miracolo alle nozze di Cana.  Recita l’antifona al Magnificat: “Tre prodigi celebriamo in questo giorno santo: oggi la stella ha guidato i magi al presepio, oggi l’acqua è cambiata in vino alle nozze, oggi Cristo è battezzato da Giovanni nel Giordano per la nostra salvezza”. E l’inno ai Vespri canta: “I magi vanno a Betlem e la stella li guida: nella sua luce amica cercan la vera luce. Il Figlio dell’Altissimo s’immerge nel Giordano, l’Agnello senza macchia lava le nostre colpe. Nuovo prodigio a Cana: versan vino le anfore, si arrossano le acque mutando la natura”. Ma ancora più significativa è l’antifona al Benedictus: “Oggi la chiesa, lavata dalla colpa nel fiume Giordano, si unisce a Cristo, suo Sposo; accorrono i magi con doni alle nozze regali e l’acqua cambiata in vino rallegra la mensa”.

Lasciando da parte ogni considerazione sul battesimo di Gesù, la cui festa ricorre domenica prossima, immergiamoci nel racconto dell’adorazione dei magi.  Da notare la differenza degli atteggiamenti dei vari personaggi in questione. I magi non sanno ma il loro cuore si è mosso tanto che si mettono in viaggio, arrivano a Gerusalemme, chiedono, cercano. Invece la Gerusalemme colta, gli scribi e gli anziani, sa le cose ma non si muove. Se Erode sembra muoversi lo fa solo per paura di perdere il potere e quindi in realtà non si muove per cercare in verità. Sono i possibili atteggiamenti che può assumere l’uomo davanti al mistero ed alla storia di Dio. I magi sono la figura della manifestazione di Dio alle genti; portando i loro doni, si aprono al mistero di Dio (con l’oro riconoscono la regalità misteriosa di quel ‘bambino nato per noi’, con l’incenso riconoscono la sua divinità, con la mirra la sua umanità pronta a soffrire la passione per la nostra salvezza) e permettono al loro cuore di vedere la gloria di Dio. Fanno ritorno a casa loro per altra strada, come a dire che chi si apre all’adorazione di Dio riscopre la casa propria in altro modo, con altro sguardo, sotto altri orizzonti.

Questo mi induce a due osservazioni: 1) se il Messia è promesso alle genti, di che cosa noi credenti siamo debitori al mondo? Siamo debitori proprio della conoscenza del Signore. E questo debito pende sulla nostra testa. Qui si ricollega la responsabilità della testimonianza dei credenti di fronte al mondo; 2) se il Messia è promesso alle genti, vuol dire che fin tanto che tutte le genti non l’hanno conosciuto, la nostra stessa conoscenza del Messia è manchevole, resta limitata. Come in amore: fin tanto che non ho trovato qualcuno che voglia bene a me, io non potrò scoprire quello che sono in verità, quello che porto e di cui sono capace. Così è con Dio. Fin tanto che tutti non l’hanno conosciuto, Dio non ha ancora avuto modo di manifestarsi in tutta la sua ricchezza. Attendere questa manifestazione, nel cuore di tutti, rende umili e adoranti e risponde al comandamento dell’amore verso tutti, anche verso i nemici, finché la gloria di Dio si manifesti compiutamente.

Quanto al mistero della trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana (cfr. Gv 2,1-10), simbolo delle nozze del Signore Gesù con l’umanità nostra, anche questo ha a che vedere con la manifestazione della gloria di Dio nella nostra vita. Potremmo chiederci: quando siamo acqua e quando siamo vino? Essere acqua significa accettare, sì, i comandamenti del Signore, ma limitarsi all’esecuzione esteriore. Passare dall’essere acqua al diventare vino significa passare dalla volontà di osservanza del comandamento al gusto del frutto che il comandamento comporta. La promessa nascosta in ogni parola di Dio è questa: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Come a dire: ogni comandamento ha un’ispirazione; senza cogliere tale ispirazione non potremo mai gustare la promessa che è nascosta dentro ogni comandamento, la promessa della conoscenza cordiale del Signore, la promessa del gusto della sua compagnia. Come in un rapporto d’amore. Non basta fare delle cose, neanche farle per l’altro; se non si coglie l’ispirazione che muove il cuore ad agire, se non si coglie l’effetto che il nostro agire ha sul cuore dell’altro, se non ci viene rimandata la gioia dell’altro che coglie il movimento del nostro cuore, si resta acqua. Il vino invece, dice la Scrittura, rallegra il cuore dell’uomo. E nel gustare quel vino, il cuore si apre alla conoscenza della gloria del Signore: proprio quello che i magi hanno sperimentato, che gli apostoli hanno testimoniato, di cui i credenti in Cristo sono debitori al mondo. Nel Cristo divinità e umanità sono inscindibilmente unite, Dio finalmente risplende nell’uomo e l’uomo risplende del suo Dio. E se tutto diventerà più svelato con la morte e risurrezione di Gesù, già però se ne può intravedere il mistero fin dalla sua nascita dalla Vergine Maria, almeno per coloro che gli si avvicinano con stupore e sanno vedere nelle parole e negli eventi che lo riguardano gli indizi della sua gloria.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo di Natale

 

Battesimo del Signore

(10 gennaio 2010)

 

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Is 40,1-11;  Sal 103;  Tt 2,11-14; 3,4-7;  Lc 3,15-22

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Con la festa del battesimo di Gesù si chiude il ciclo natalizio. L’Avvento si era aperto con l’invocazione del profeta: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 63,19). I cieli si sono effettivamente squarciati lasciando ‘piovere il Giusto’, come oggi la scena del Battesimo di Gesù fa intravedere: “il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento»”. I cieli che si aprono non preludono ad una visione del mondo celeste, ma alla discesa sulla terra dei beni divini, beni che dovevano caratterizzare il popolo di Dio dell’era messianica, dei quali il principale è proprio lo Spirito Santo, effuso su tutti, attraverso quel Figlio che lo possiede in pienezza.

Il simbolismo della colomba sembra alludere al carattere escatologico della visione che indica in Gesù il Messia e il punto di partenza della comunità messianica. Ricorda la colomba del Cantico dei Cantici, sposa di Yahvé e Giovanni Battista potrà poi esclamare: “Lo sposo è colui al quale appartiene la sposa; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è piena. Lui deve crescere; io, invece, diminuire” (Gv 3,29). Se nel racconto di Luca sembra che Gesù solo veda in visione la colomba, in quello di Giovanni anche il Battista vede lo Spirito discendere su Gesù sotto forma di colomba e comprende che Gesù aveva la missione di far apparire la colomba, cioè il nuovo popolo di Dio animato dallo Spirito Santo.

Il primo gesto di Gesù, nel dare inizio alla sua missione, è quello di stare solidale con i peccatori. Lui, l’Innocente, l’Agnello che toglie i peccati del mondo, è in fila con i peccatori per ricevere il battesimo di penitenza di Giovanni. Non ha bisogno del battesimo, eppure viene a farsi battezzare. Perché? Viene per celebrare il suo sposalizio: nella sua umanità oramai è lavata tutta l’umanità, che può stare unita a lui e godere, come lui, di quello Spirito che come colomba si posa sul suo capo, capo del suo corpo che siamo noi. Nessuno può ancora vedere lo Spirito però; solo Gesù, uscendo dalle acque, lo può vedere perché ne è ripieno ed anche Giovanni, che con quel battesimo dato a Gesù finisce la sua opera di battezzatore per lasciare posto a lui, al suo nuovo battesimo nello Spirito. La cosa si farà evidente a Pentecoste allorquando lo Spirito verrà effuso come lingue di fuoco sugli apostoli.

La chiesa prega che il Signore, come ha squarciato i cieli, si degni squarciare i nostri cuori perché anche a noi appaia, finalmente, in tutta la sua bellezza, il volto del Figlio di Dio, testimone supremo dell’amore di Dio per gli uomini. E come dice Paolo a Tito “… nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo”, noi aspettiamo la manifestazione del Signore al nostro cuore in ogni circostanza della nostra vita, in ogni azione e non soltanto alla fine della vita. Come se pregassimo: “fa’ che possiamo vedere il volto del tuo Figlio, fa’ che il nostro cuore sia rapito dalla sua bellezza, apri il nostro cuore alle sue parole perché venga rivelato al nostro cuore il tuo amore e possiamo venire risanati, facci fare l’esperienza viva del tuo perdono perché possiamo vivere un corpo solo e un’anima sola con tutti, nel suo Spirito, ormai popolo nuovo”.

Tu sei il Figlio mio, l’amato”. Nelle Scritture si parla del figlio, l’amato, a proposito di Isacco, figlio di Abramo (Gen 22,2), quando Dio gli chiede la sua vita e nella parabola dei vignaioli assassini (Mc 12,6) quando il padrone della vigna pensa di mandare loro il figlio, che poi mettono a morte. Quell’aggettivo l’amato, se rivela la radicalità della fede di Abramo, rivela a maggior ragione la radicalità dell’amore di Dio per l’umanità.

L’aggiunta: “in te ho posto il mio compiacimento”, si può tradurre: ‘in te il mio Amore è perfetto’. In te, però, non è più solo rivolto al Figlio nella sua divinità, ma nella sua umanità: l’amore di Dio e dell’uomo si corrispondono ormai perfettamente. Oppure, si può anche tradurre: ‘in te la mia volontà si compie, perfetta’. E la volontà di Dio non è che l’amore per l’uomo e nella vita e nella persona di Gesù questo amore risplende nella sua radicalità e totalità. Se noi stiamo in lui, allora anche in noi la volontà del Padre si compirà perché anche in noi il suo amore risplenderà. È ciò che comporta l’essere nati dallo Spirito, il vivere mossi e guidati dallo Spirito di cui Gesù è ricolmo e che ci ha effuso con la sua morte e risurrezione. Proprio come s. Francesco di Assisi proclamerà della nostra vita in Cristo: “ciò che devono desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”.

La figura di Gesù, nel racconto del battesimo, è definita da tre termini: figlio/servo/agnello. Il compiacimento del Padre si risolve nel fatto che Gesù viene a fare la sua volontà, vale a dire fa riferimento all’obbedienza del servo che accetta fino in fondo il compito affidatogli, ma allude anche all’intimità ed alla libertà del figlio che condivide intensamente con il Padre la sua passione d’amore per gli uomini. Per noi accogliere i due riferimenti contemporaneamente è proprio difficile! Per noi la volontà di Dio non suona subito come una volontà di Bene, come un Bene che vuole condividere con noi, come una gioia di Bene che riposa i cuori e di Dio e degli uomini. Ma se riconosciamo lo splendore dell’amore di Dio che rifulge dal volto di quel figlio/servo/agnello, potremo anche noi, come lui e in lui, cogliere e compiere il volere di bene di Dio in favore degli uomini e godere della sua gioia che consiste nell’unire ‘i figli di Dio dispersi’. Quando il cuore dell’uomo non si lascia guidare da alcun’altra ragione nel suo agire, saprà che la fraternità con gli uomini è il supremo desiderio di Dio e il luogo di manifestazione del suo splendore. Così si compiono i misteri di Dio, così l’uomo torna alle radici della sua gioia, nel suo Dio. Cose misteriose, certo, ma veritiere e fondanti il senso stesso del nostro vivere e del nostro desiderare.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo Ordinario

 

2a Domenica

(17 gennaio 2010)

 

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Is 62,1-5;  Sal 95;  1Cor 12,4-11;  Gv 2,1-12

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Il brano evangelico di oggi termina con questa annotazione: “Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”. Se ci rifacciamo a Gv 1,14: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità”, ci possiamo domandare: che cosa hanno visto i discepoli, a Cana, di questa gloria? Quando Giovanni usa il termine ‘segno’, non intende riferirsi al miracolo come se si trattasse di vedere la potenza straordinaria di Gesù in atto; allude a un’altra cosa, a qualcosa che sia in relazione con la ‘gloria’.

Possiamo afferrare meglio la rivelazione di Cana se incastoniamo l’episodio nella narrazione di Giovanni. Gli eventi che intercorrono dal riconoscimento di Gesù da parte di Giovanni Battista al Giordano fino alle nozze di Cana sono racchiusi nello spazio di una settimana, la settimana della nuova creazione, in riferimento alla settimana della creazione narrata dalla Genesi. L’episodio di Cana segue il riconoscimento di Gesù da parte di Natanaele, il quale segue quello da parte di Andrea e Giovanni, i quali seguono quello di Giovanni Battista. Per cogliere la portata del miracolo di Cana, bisogna percepire la densità di quel ‘andarono e videro’ di Andrea e Giovanni, i quali svelando a Pietro tutta l’emozione che li abitava riferiscono la loro scoperta in questi termini: ‘abbiamo trovato il Messia’. E ancora, bisogna intuire la sorpresa di Natanaele, che risiedeva proprio a Cana, quando Gesù gli si rivolge con quelle parole: ‘vedrai cose più grandi di queste!’. Tutti i segni che Gesù compie sono collocati nella scia di questo ‘vedere cose più grandi’ fino alla rivelazione suprema, con la morte e risurrezione di Gesù, allorquando le ‘cose più grandi’ sono ormai le ‘cose ultime’, definitive, supreme, a partire dalle quali tutto prende senso e splendore. La sua ‘gloria’ finalmente è svelata in tutto il suo splendore, la gloria del suo amore per gli uomini.

I segni sono dunque in relazione con la gloria dentro un movimento di rivelazione di cose sempre più grandi fino alla rivelazione suprema, la morte/risurrezione di Gesù. I segni sono allora gesti simbolici che hanno la funzione di indicare che in Gesù si realizza l’evento escatologico (“In verità, in verità io vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo”, compiendo il sogno di Giacobbe di Gen 28,17); invitano tutti gli uomini a percepire la filiazione divina di Gesù, come dirà Giovanni alla fine del suo vangelo riferendosi ai segni che ha descritto nella sua narrazione: “Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome”. Il mistero di Gesù allude al mistero della Trinità, la quale si rivela nel suo amore agli uomini tramite Gesù e nel dono dello Spirito Santo che ci rende atti a vivere di e dentro quell’amore.

A Cana Gesù viene invitato alle nozze, simbolo dell’antica alleanza. Ma manca il vino, quello che solo il Messia avrebbe portato, il vino simbolo dell’amore e della gioia, compimento delle promesse di Dio al suo popolo. Se ne accorge sua madre, che appartiene all’antica alleanza, ma la cui fedeltà a Dio la rende capace di vedere in Gesù il Messia, per cui si rivolge fiduciosa ai servi: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”. Gesù, che fa riempire d’acqua le giare e fa attingere e portare in tavola, realizza il passaggio dall’antica alla nuova alleanza con il dono del vino che simboleggia l’esperienza diretta e personale, nella gioia e nell’amore, della relazione tra Dio e l’uomo: “Perché la legge fu data per mezzo di Mosé, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1,17). Non per nulla, l’episodio che segue alle nozze di Cana è la purificazione del Tempio a Gerusalemme da parte di Gesù che scaccia venditori e cambiamonete. Quello che la legge prometteva, Gesù lo rende possibile in sovrabbondanza; quello a cui anelava il cuore dell’uomo ora diventa vivibile, gustosamente esperibile: l’uomo vive finalmente la pace con il suo Dio, in un amore ritrovato e condivisibile. E questo si vedrà proprio nella sua ‘ora’ quando dalla croce risplenderà il suo amore infinito, amore che con il dono dello Spirito Santo diventa radice di vita e di azione nel suo discepolo e segno di Dio per il mondo intero.

Il miracolo di Cana con la trasformazione dell’acqua in vino, mentre allude al passaggio dalla Legge alla Grazia, allude anche al mistero dell’intelligenza delle Scritture. Tutte le Scritture parlano di lui (‘Voi scrutate le Scritture pensando di avere in esse la vita eterna: sono proprio esse che danno testimonianza di me’, Gv 5,39): tutte le parole alludono alla Parola fatta carne. E quando si incomincia a intravedere questa tensione profonda che percorre tutta la Scrittura, allora si passa dal bere l’acqua al gustare il vino. Così come nel compiere i comandamenti di Dio: un conto è praticarli materialmente, un conto è praticarli cogliendo l’ispirazione e la rivelazione di vita che comportano.

L’immagine di fondo è quella delle nozze, a illustrare il mistero della comunione di Dio con l’uomo. Le nozze alludono al compimento dei desideri del cuore ormai abitati dal desiderio di Dio che ci è venuto incontro, che ci ha guadagnati al suo amore e che ci ha conquistati al suo splendore.

Quest’ultimo aspetto è ben delineato nel brano di Isaia che descrive Dio come lo Sposo che gioisce della sua sposa, la quale passa da una percezione di angosciosa solitudine, di ‘abbandonata’, all’emozione di essere svelata a se stessa in una dolcezza di riposo perché ‘sposata’ ( forse, meglio: ‘abitata in dolcezza’). La percezione di quella nuova realtà, di cui è indegna, ma di cui gode nell’intimo, grata e consegnata, costituisce il contenuto del nome nuovo con la quale è chiamata.

Così possiamo pregare con la chiesa: “… la santa chiesa sperimenti la forza trasformante del suo amore e pregusti nella speranza la gioia delle nozze eterne” allorquando tutti ci relazioneremo come figli di Dio nell’esperienza assoluta e sovrana dell’amore di Dio per noi.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo Ordinario

 

3a Domenica

(24 gennaio 2010)

 

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Ne 8,2-10;  Sal 18;  1Cor 12,12-31;  Lc 1,1-4; 4,14-21

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Nel racconto di Luca la predicazione a Nazaret assume il valore di avvenimento emblematico, collocato all’inizio dell’attività apostolica di Gesù, subito dopo il battesimo e le tentazioni nel deserto, come se l’evangelista volesse riassumere in una immagine premonitrice il senso del messaggio messianico di Gesù. Il lettore viene posto subito in una posizione ‘critica’ di fronte all’agire di Dio tramite Gesù.

L’inizio del brano comporta un particolare significativo. Il testo dice che Gesù ritorna in Galilea ‘con la potenza dello Spirito’, mentre in precedenza aveva riportato che Gesù, dopo il battesimo al Giordano, ‘pieno di Spirito’, era stato spinto nel deserto per essere tentato da diavolo. Avendo vinto il maligno, avendo accettato di condursi, come Messia, secondo i segreti di Dio e non del diavolo, Gesù inizia la sua missione. E quando si presenta nella sinagoga a Nazaret riferisce a se stesso il passo di Isaia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me … Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”. Gesù si presenta come l’Inviato, capace di dare compimento alle promesse di Dio, come riporta il canto al vangelo: “Il Signore mi ha mandato ... ”. Quello che forse non cogliamo più della manifestazione di questa autocoscienza di Gesù è il suo carattere dinamico. L’invio non rimanda semplicemente all’opera per la quale è inviato, ma all’intimità che vive con il Padre nel mostrare, con le parole e l’agire, il suo grande amore agli uomini.

La profezia messianica di Isaia 61, che parla di poveri, di prigionieri/oppressi, di ciechi, allude alle ‘deficienze’ del nostro vivere che Gesù è venuto a redimere: a) la nostra vita è mancante, soffre di limiti; b) viviamo sotto l’oppressione di una schiavitù imposta o procurata, subita o provocata; c) camminiamo all’oscuro, non distinguiamo bene nulla. Gesù si presenta, dalla parte di Dio, capace di rinnovare la letizia, di offrire la libertà e di suggerire un senso. Sono le coordinate di un vivere felicemente la propria vocazione umana, in comunione con Dio. La felicità, come la vita stessa di Gesù mostrerà, è ‘dire bene Dio’ con la premura della cura dell’uomo fino a dare la vita perché la vita dell’altro cresca. Ma come vivere questa felicità senza la rivelazione del volto di Dio che si fa conoscere come ‘cura per l’uomo’? Per questo Origene annota come sia da invidiarsi l’assemblea che tutta intera, alla lettura della parola di Dio, tiene gli sguardi fissi su Gesù! Come accogliere – come Gesù rivelerà in molte parabole – la felicità di Dio per il pentimento del peccatore senza accusarlo di ingiustizia e senza sentire la gioia dell’altro come un’offesa alla mia di uomo giusto?

Tutti i frutti dello Spirito “amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22) sono espressione della cura per l’uomo e chi più li possiede, più si prende cura. E più ci si prende cura, più il volto di Dio è rivelato nella sua verità e la letizia riempie il cuore dell’uomo, secondo l’invito di Neemia al popolo dopo la lettura della Legge: “Non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza”. Gli ebrei erano appena ritornati dall’esilio di Babilonia, avevano ricominciato a costruire il tempio e le mura di Gerusalemme, ma la vita si prospettava piena di insidie sia sociali che religiose. Il popolo viene ricompattato con la proclamazione del libro della legge, la lettura del quale suscita un’emozione grandissima. Il popolo piange, si rattrista, si accorge di quanto sia stato infedele al suo Dio. Come era successo al re Giosia: “Udite le parole del libro della legge, il re si stracciò le vesti” (2Re 22,11); come succederà alla gente che aveva ascoltato il discorso di Pietro a Pentecoste: “all’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore” (At 2,37). Ma Esdra e Neemia invitano alla gioia, sia perché quello era un giorno di festa e nella festa è prescritto di stare lieti insieme alla mensa, invitando anche i poveri sia perché la parola di Dio proclamata, spiegata, vissuta e condivisa nella sua potenza di letizia rende solidali gli uomini, non avendo più nulla da rivendicare in senso egoistico.

La gioia cela un’energia potente, diventa la forza che il salmo 18 descrive e che potremmo interpretare sinteticamente: la giustizia del Signore, il contenuto cioè della parola di Dio, è quella di portare gioia al cuore e questa gioia è quella che consente al nostro cuore di vivere secondo la sua giustizia, cioè di manifestare la sua presenza con il prenderci cura di ognuno fino a dare la vita perché l’altro possa averla abbondante. Solo il Messia poteva rivelare che consisteva in questo la manifestazione del Signore e che in questo risiedeva e il compimento del desiderio dell’uomo e la felicità di Dio.

L’esito della predicazione di Gesù a Nazaret sarà però drammatico e questo sarà il tema delle letture di domenica prossima.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo Ordinario

 

4a Domenica

(31 gennaio 2010)

 

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Ger 1,4-5.17-19;  Sal 70;  1Cor 12,31-13,13;  Lc 4,21-30

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La scena è la medesima della domenica precedente: Gesù predica nella sinagoga di Nazaret. Interessa però sottolineare l’esito di quell’evento: un fiasco! Ma Luca, che ne ha fatto l’immagine emblematica della predicazione di Gesù, annota molti particolari che introducono alla comprensione della figura di quel profeta singolare. Se viene fatto conoscere il rifiuto di Gesù da parte dei suoi concittadini, la sottolineatura si deve al valore ‘profetico’ di quel rifiuto, che l’evangelista Giovanni descriverà come “Venne fra la sua gente, ma i suoi non lo hanno accolto” (Gv 1,11). Oltre ad alludere alla passione di Gesù, allorquando il rifiuto comporterà la sua messa a morte, allude anche all’universalità di quella morte che toglierà il muro di separazione tra Israele e Gentili, aprendo Israele ai Gentili, pena l’esclusione del dono di grazia. In quella prospettiva Gesù si applica il proverbio riferito al medico, che suonava ironico sulle labbra dei suoi concittadini, ma che lui realizzerà in verità: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati” (Lc 5,31).

La richiesta dei miracoli da parte dei suoi concittadini era forse una supplica? Evidentemente no, come non sarebbe suonata supplica la richiesta “È il re d' Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo” (Mt 27,42). Si supplica se si apre il proprio cuore perché oppresso, malato, afflitto. Diversamente, si provoca. Può compiersi un miracolo dietro provocazione? Lo scopo del miracolo è proprio quello di aprire il cuore al Signore che mi è venuto incontro e mi può guarire. Ma se il cuore non è disposto ad aprirsi, quale miracolo si può vedere? Non per nulla, il brano in Matteo termina con “E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi” (Mt 13,58) e in Marco con “E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità” (Mc 6,5-6). È la meraviglia del profeta che non si capacita della insensibilità dei cuori degli uomini che davanti all’apertura del cuore di Dio tengono chiusi i loro.

Gesù non si era limitato a constatare la diffidenza dei suoi concittadini. Ne trae uno spunto profetico e allarga l’evento di cronaca alla storia di Israele perché i cuori si rendano conto di cosa sia in gioco. Il passaggio è segnalato da un parlare solenne con le formule ‘Amen, in verità vi dico’. Vi invito a guardare più nel profondo, a rendervi conto di cosa vi giocate. E anche quando riferisce il proverbio del profeta che non è ben visto in casa propria, usa un termine che si riferisce al brano del profeta Isaia che aveva appena letto all’assemblea: il Servo di Dio avrebbe proclamato l’anno di grazia del Signore. Quello che traduciamo con ‘di grazia’ in greco corrisponde a ‘gradito, bene accetto’, termine che Gesù si applica come profeta. Ora, è accogliendo un profeta che si può accogliere il messaggio di grazia che porta, la grazia che porta. La liturgia rinforza questa comprensione con l’annuncio della prima lettura dove viene presentata la vocazione del profeta Geremia. Quel testo descrive il contenuto di quell’essere pieno dello Spirito, come Gesù si era presentato a Nazaret. Il profeta è scelto/conosciuto da Dio, gode cioè di una intimità grande con Dio; è inviato alle nazioni, cioè ha il compito di togliere il muro di separazione nell’umanità; è come un muro di bronzo davanti a coloro che lo contrastano, cioè è pronto alla passione, perché lo splendore dell’amore di Dio conquisti i cuori. Così la ‘buona novella’ che Gesù annuncia come profeta non consiste semplicemente in buone parole o in determinati miracoli, ma rimanda a quella passione/morte/risurrezione in cui risplende in tutto il suo splendore l’amore di Dio all’uomo, rendendo l’uomo capace di muoversi verso i suoi simili da dentro quello stesso amore.

Nella preghiera dopo la comunione diciamo: “O Dio, che ci hai nutriti alla tua mensa, fa’ che per la forza di questo sacramento, sorgente inesauribile di salvezza, la vera fede si estenda sino ai confini della terra”. Preghiamo per diventare partecipi della potenza di quell’amore che ci è fatto conoscere in Gesù e di cui tesse l’elogio s. Paolo nel suo inno alla carità. Non c’è conoscenza che tenga, non c’è fede che conti, non c’è generosità che salva: solo la carità esprime lo splendore che deriva dalla fede in Gesù. Quando Paolo dichiara che senza la carità non sono nulla, non dice semplicemente che io non conto nulla davanti a Dio senza la carità, ma che tutte le cose eccelse, senza la carità, non hanno alcun valore presso Dio. E se non l’hanno presso Dio, vuol dire che non possono costituire strumenti di comunione tra gli uomini. La sapienza evangelica è radicale, ma consona al cuore dell’uomo, se si accoglie la buona novella del profeta di Nazaret.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo Ordinario

 

5a Domenica

(7 febbraio 2010)

 

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Is 6,1-8;  Sal 137;  1Cor 15,1-11;  Lc 5,1-11

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Luca descrive i primi passi della predicazione di Gesù e si premura subito di indicare come Gesù si sia associato alcuni discepoli, quelli che lo seguiranno ovunque, nonostante le loro manchevolezze e che verranno a loro volta inviati (=apostoli) come testimoni del loro Signore. Il brano di oggi evidentemente verte sulla ‘vocazione’ di Pietro, Giacomo e Giovanni: “Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono”. La pesca miracolosa è funzionale al racconto della vocazione dei discepoli. Solo Luca, a differenza di Marco e Matteo, riferisce della pesca miracolosa. Ritroviamo quel racconto anche nel vangelo di Giovanni, al cap. 21, quando Gesù, risorto, si manifesta agli apostoli. Si tratta di due episodi diversi o della diversa interpretazione di uno stesso episodio? Nella prospettiva degli evangelisti la domanda è del tutto secondaria. La domanda principale è la seguente: cosa ha comportato per i discepoli la manifestazione di Gesù? O, ancora più precisamente: cosa ha comportato per i discepoli la decisione di Gesù di manifestarsi a loro? Perché di questo essenzialmente si tratta: Gesù si manifesta e ‘succede’ qualcosa. Sia agli inizi della vita pubblica di Gesù sia dopo la risurrezione l’evento è della stessa natura.

C’è un particolare assolutamente eloquente che si richiama nei due racconti di Luca e di Giovanni. Davanti all’evento prodigioso della pesca abbondante Pietro è colto da profonda emozione: “Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: ‘Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore’”. L’apparizione della ‘gloria’ di Dio suscita sempre timore. Ma il contenuto di quel ‘sono peccatore’, nel cuore di Pietro, si cristallizza attorno al suo rinnegamento, che Gesù, dopo la sua risurrezione, evoca dolcemente al suo apostolo quando gli chiede per la terza volta se lo ama. Al gesto di gettarsi alle ginocchia di Gesù e di stringerle mentre dice di non essere degno di stare alla sua presenza, corrisponde il sussurro di Pietro, addolorato: “Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene” (Gv 21,17).

Se è vero, allora, che il racconto di Luca tende a presentare la vocazione degli apostoli, il contesto che giustifica tale vocazione è però la ‘manifestazione’ di Gesù ai discepoli con l’episodio della pesca miracolosa. La liturgia correla i due aspetti facendoci leggere, come prima lettura, il brano della vocazione del profeta Isaia. Il profeta si trova nel tempio, ha una visione ‘esaltante’ e ‘terribile’: partecipa alla liturgia celeste davanti al trono di Dio (le parole udite da Isaia sono quelle che ripetiamo ancora oggi nella liturgia eucaristica: “Santo, santo, santo il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria”) e si sente perduto perché peccatore, ma viene purificato (la tradizione ha visto, nell’immagine del carbone ardente che purifica, la realtà della comunione eucaristica) e successivamente inviato: “Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti”.

La domanda di fondo che sorge può essere questa: perché la manifestazione della gloria di Dio ha sempre a che fare con una missione? ‘Vedere’ Dio non può non comportare la partecipazione ai suoi segreti, i quali non sono che i segreti dell’amore suo per gli uomini. ‘Vedere’ Dio non può non comportare allora l’invio agli uomini perché la sua promessa di Bene e di Vita sia condivisa da tutti e la Sua gioia sia piena. I passaggi sarebbero perciò questi: Dio manifesta la sua gloria - l’uomo confessa il suo peccato e viene purificato – si è inviati ai fratelli.

La tensione interiore della missione, allora, è direttamente proporzionale all’intensità della ‘visione’ di Dio. E la ‘visione’ di Dio è direttamente proporzionale alla confessione del proprio peccato. Questo, perché l’azione dell’uomo risulti pulita e non si appropri la gloria di Dio. È per questo che il segnale della fedeltà all’opera di Dio, tra gli uomini, non sarà costituito dal fatto che i cuori si convertono, ma dal fatto che un uomo non si allontana dalla carità anche quando viene oltraggiato e messo a morte. La missione comporta la condivisione di un ‘compito’ di intimità col proprio Signore finché la sua gloria risplenda e si manifesti.

Quando la liturgia ci fa pregare: “Dio di infinita grandezza, che affidi alle nostre labbra impure e alle nostre fragili mani il compito di portare agli uomini l’annunzio del Vangelo” ci invita non tanto ad essere pieni di zelo da andare in tutto il mondo, ma a ripetere l’esperienza di Isaia e di Pietro che ‘vedono’ la gloria del Signore e non possono non disporsi all’opera di Dio, in modo tale che un’esperienza del genere risulti così radicale e fondante per la vitalità del nostro cuore da diventare unica sorgente del nostro agire. Di questa ‘esperienza’ la missione vive e gli uomini ne attendono gli effetti ristoratori.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo Ordinario

 

6a Domenica

(14 febbraio 2010)

 

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Ger 17,5-8,  Sal 1;  1Cor 15,12-20;  Lc 6,17-26

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In cosa consiste la felicità che Gesù promette ai suoi discepoli? Quale beatitudine nella povertà, nella fame, nel pianto e nella vessazione, se tutta la fatica degli uomini, nella loro ricerca di giustizia e di dirittura morale, consiste proprio nel combattere quelle situazioni che prostrano la dignità delle persone? C’è qualcosa di assolutamente affascinante, ma paradossale, nelle parole di Gesù, come del resto gli stessi discepoli noteranno sempre rispetto alla vita e al comportamento del loro Maestro.

Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che guariva tutti. Con questa annotazione Luca introduce la proclamazione delle beatitudini e la conclude con l’esemplificazione concreta del ‘dove’ si esercita quella forza che da lui usciva e che guariva: “Ma a voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male”. Il punto di raccordo è dato dalla promessa e dall’esperienza della ‘beatitudine’. Per noi, seguaci di Gesù, la domanda allora suona: ha forza per il nostro cuore la gioia che viene dall’incontro con Gesù? Ciò che in realtà Gesù proclama per i discepoli non è che la condivisione di quello che lui vive. Così, l’essere beati comporta l’essere in lui, l’essere a lui solidali, l’essere come il Figlio dell’uomo che è venuto per testimoniare quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini.

La chiave di lettura la possiamo dedurre dall’apostrofe del profeta Geremia ai suoi concittadini: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo … Benedetto l’uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia”. Nel linguaggio di Gesù l’apostrofe diventa la proclamazione della felicità accessibile all’uomo. È come se Gesù dicesse: so che il vostro cuore anela alla felicità, ma per quanto vi angosciate per trovarla o per imporvela è assai facile rimanere nell’amarezza invincibile dell’illusione. Quando Gesù parla della ricompensa grande nei cieli allude alla natura della felicità che partecipa dell’eterno e che si esprime nella nostra storia con uno splendore che ha a che fare con l’eterno.

Gesù sta parlando ai discepoli, come a dire: ciò che vi sto annunciando vale in ragione del fatto che avete accolto in me l’Inviato di Dio, colui che dalla parte di Dio non solo vi richiama al mistero del Regno ma vi concede di gustarlo e di condividerlo. Nei termini delle beatitudini, la parola di Gesù si può intendere: chi cerca la sua felicità senza che la Mia gioia lambisca il suo cuore resterà nella fame e nel pianto; chi vuole a tutti i costi la sua felicità, solo calcolando come una eventuale aggiunta il dono della Mia gioia, finirà per trovarla traditrice e si troverà ingannato dai suoi fratelli e perderà la sua integrità. Perché la felicità di cui parla Gesù, quella alla quale anela profondamente, sebbene con mille contraddizioni, il nostro cuore, ha a che fare con la scoperta della prossimità di Dio che in Gesù rivela tutto il suo mistero di amore e accondiscendenza per noi e che sana i nostri cuori.

In effetti, le beatitudini sono costruite in un contrasto tra prospettiva mondana e prospettiva spirituale. Se gli uomini pensano in prospettiva mondana come potranno vedere i segreti di Dio che Gesù rivela e a cui i nostri cuori anelano nella sete di felicità che li tormenta? Il contrasto è tra una logica mondana e una logica divina, secondo l’espressione di Paolo ai Galati: “Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). Rispetto all’amore, rivelato dall’alto e colto nel seguire il Signore Gesù, non c’è nulla nel mondo che meriti la preferenza e non c’è nulla in me che può trovare adeguato compimento a partire dal mondo.

S. Gregorio di Nissa commentando la prima beatitudine scrive: “Siccome tutti gli uomini sono abitati dalla superbia, il Signore comincia le beatitudini, eliminando il male iniziale dell’orgoglio e invitando a imitare il vero Povero volontario che è beato in verità, in modo da rassomigliargli, secondo quanto sta nelle nostre possibilità, attraverso una povertà volontaria per aver parte alla sua beatitudine”. E dopo aver descritto l’ascesa di tutte le beatitudini, commentando l’ottava, dice: “Qual è lo scopo che perseguiamo? Quale la ricompensa? Quale la corona? Mi sembra che ogni oggetto della nostra speranza non è nient’altro che il Signore stesso … è lui l’eredità ed è lui che ti dona la tua parte; è lui che arricchisce ed è lui la ricchezza; è lui che ti mostra il tesoro e che è il tuo tesoro …”. La beatitudine allora è vivere quella comunione con colui che è l’Amato del tuo cuore. E tale amore risalterà in tutto il suo splendore proprio quando tutto e tutti cercheranno di rapirtelo e tu non cederai a niente e a nessuno. La cosa strana sarà che ti accorgerai che non te lo farai rapire quando lo custodirai per tutti, senza separarti da nessuno proprio a causa di quell’Amore. È quanto di più paradossale possa succedere a un uomo, ma è proprio questa la verità di Dio per il cuore dell’uomo.

La prima beatitudine comporta il verbo al presente, le altre al futuro: “perché vostro è il regno di Dio”, “perché sarete saziati”. Il presente sottolinea che il dono è reale, ci appartiene; il futuro sottolinea che siamo chiamati a viverne la dinamica in tutta la sua estensione, a realizzarne i frutti, con la pazienza di chi sa di non essere lasciato solo e confuso, ma felicemente accompagnato. Così voler essere felici per poi vivere bene è un’assurdità, come voler prima vedere il Signore per poi seguirlo. L’unica possibilità è quella della promessa: accetto di vivere per essere felice perché la felicità è la promessa della vita. E questa suona veritiera nella parola di Gesù perché è venuto a dare la vita e a darla in abbondanza. È l’abbondanza di un amore non più soggetto a oppressioni, invincibile davanti ad ogni tormento o afflizione o ingiustizia perché il nome del Signore sia rivelato ad ogni cuore, al mondo intero. È lo spazio di tensione della promessa che riempie la nostra vita di discepoli di Cristo.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo di Quaresima

 

1a Domenica

(21 febbraio 2010)

 

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Dt 26,4-10;  Sal 90;  Rm 10,8-13;  Lc 4,1-13

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Il tema portante del periodo quaresimale nel ciclo C è la conversione, mentre nel ciclo A era il cammino catecumenale e nel ciclo B era l’alleanza ricostituita.

Nella liturgia di oggi la resistenza di Gesù al diavolo è considerato come un atto di fedeltà verso Dio suo Padre, così come la lettura del Deuteronomio presenta il grido del popolo nell’afflizione come la confessione della sua fiducia in Dio che lo salva.

Per cogliere il dramma dell’evento delle tentazioni di Gesù nel deserto, possiamo farci questa domanda: quale potere comporta la verità dell’essere ‘Figlio di Dio’? Il diavolo riconosce a Gesù questa verità. Ne può però comprendere la reale portata? In effetti, le tentazioni seguono l’esperienza di una pienezza, quella del battesimo, con la manifestazione dello Spirito che riposa su Gesù, come se lo zelo per il Signore che muove Gesù nel suo compito messianico potesse risultare equivoco. Il diavolo lo tenta non nel senso di distoglierlo da Dio inducendolo al male, ma nel senso di suggerirgli che c’è un modo molto più diretto ed efficace per arrivare al suo scopo. L’inganno starebbe nel fatto di fargli fare qualcosa in nome di Dio senza condividere il segreto di Dio, senza il compiacimento di Dio.

Il perno dell’equivoco tra Gesù e il diavolo è proprio il ‘potere’. L’offerta del diavolo è un’offerta di potere: conquistare gli uomini, ma assoggettandoli. Conquistarli facendoli strabiliare; servirsi di Dio piuttosto che servire Dio. Il diavolo riconosce che Gesù è Figlio di Dio. “Se tu sei Figlio di Dio” significa: dato che tu sei Figlio di Dio, allora puoi … hai il potere di .... Quando gli offre la gloria del mondo, è consapevole che Gesù è inviato al mondo, ma il diavolo non conosce i segreti di Dio né desidera averne parte, per cui tratta Gesù da par suo ed è disposto a passare in sordina davanti al mondo, per bearsi del fatto che chi conquista il mondo riconosca che lo deve alla sua nefasta liberalità.

Passiamo brevemente in rassegna le tre tentazioni considerando le risposte di Gesù. “Non di solo pane vivrà l’uomo”: ecco la prima risposta. Riprende la citazione di Dt 8,3: “Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore”. Gesù proclama la sua fiducia nel Dio che sempre soccorre perché la sua parola è ‘potente’ nella sua fedeltà. Gli israeliti non avevano nulla da mangiare e Dio dà loro la manna. Gesù si fida di Dio e non dei suoi ‘poteri’, come maliziosamente il diavolo gli riconosce.

Davanti all’offerta dello splendore dei regni di questo mondo, Gesù risponde: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”, riprende Dt 6,13: “Temerai il Signore, tuo Dio, lo servirai e giurerai per il suo nome”. Dio si adora per nessun altro motivo che per lui stesso, non in vista di qualcos’altro. Evidentemente, come fa supporre il diavolo, chi cerca potere e gloria non adora Dio.

Dall’alto del pinnacolo del tempio, ecco la terza risposta: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”, che riprende Dt 6,16: “Non tenterete il Signore, vostro Dio, come lo tentaste a Massa”. La fiducia in Dio è proclamata senza bisogno alcuno di certificazione di nessun genere. Non ha bisogno di dimostrare nulla a nessuno, se stesso compreso, chi si fida del suo Dio.

La testimonianza suprema di questa ‘fiducia’ di Gesù risalterà nella sua passione quando tutti dovranno sapere come lui ama il Padre e come sia grande l’amore del Padre per gli uomini.

Le risposte di Gesù frantumano l'illusione con la quale il diavolo irretisce per impedirci di essere liberi e veritieri. E lo scopo del vincere l'illusione lo rivela assai bene s. Francesco nel commentare il Padre Nostro: “sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra: finché ti amiamo con tutto il cuore, sempre pensando a te; con tutta l'anima, sempre desiderando te; con tutta la mente, orientando a te tutte le nostre intenzioni e in ogni cosa cercando il tuo onore. E con tutte le nostre forze, spendendo tutte le nostre energie e sensibilità dell'anima e del corpo a servizio del tuo amore e non per altro; e affinché amiamo il nostro prossimo come noi stessi, trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo amore, godendo dei beni altrui come dei nostri e compatendoli nei mali e non recando offesa a nessuno”.

È davvero condotto dallo Spirito di Dio chi prima, durante e dopo il suo agire sta sempre dalla parte di Dio. Per vivere questo è necessario rinunciare ad ogni forma di esercizio di potere, sotto qualsiasi forma esso si esprima. Il cammino penitenziale mira precisamente a liberare gli spazi interiori all’agire dello Spirito che ci guida alla e nella alleanza con il Dio che salva, senza aver bisogno di dimostrare nulla a nessuno in nessun modo. E quando con la colletta preghiamo: “O Dio, nostro Padre … concedi a noi tuoi fedeli di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e di testimoniarlo con una degna condotta di vita”, è come domandassimo: concedici di entrare in quella intimità di sentire e volere del tuo Figlio con il tuo amore per noi da trovarvi le radici del nostro vivere.

Un’ultima annotazione. Il diavolo si serve del salmo 91 per convincere Gesù. Nella tradizione ebraica il salmo 91 è proclamato come chiusura del sabato allorquando, ritornando alla vita quotidiana settimanale, si teme di perdere la santità di Dio goduta. Quel salmo è proclamato proprio per essere difesi dalla santità di Dio contro gli assalti del maligno.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo di Quaresima

 

2a Domenica

(28 febbraio 2010)

 

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Gen 15,5-18;  Sal 26;  Fil 3,17-4,1;  Lc 9,28-36

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L’antica colletta ci fa supplicare: “purifica gli occhi del nostro spirito perché possiamo godere la visione della tua gloria”, mentre il canto al vangelo proclama: “Questi è il mio Figlio, l’amato: ascoltatelo!”. Viene delineato l’intero arco del percorso del discepolo di Gesù: ascoltarlo, conoscerne il mistero e vederne la gloria. Tutto il cammino quaresimale è teso a questo obiettivo.

A quale condizione possiamo essere ammessi alla visione? Solo chi dal fondo del cuore, nonostante le sue resistenze e confusioni, dice con il salmista: “Di te ha detto il mio cuore: "Cercate il suo volto"; il tuo volto, Signore, io cerco” potrà intuire l’esperienza dei tre discepoli sul monte della trasfigurazione. Qualcosa della bellezza di quel Volto ha ferito allora i cuori dei discepoli, come del resto ogni nostro cuore aspetta di esserne ferito. Intervengono gli occhi, ma sono guidati dagli orecchi: la contemplazione del Signore avviene nello spazio creato nel cuore dalla voce misteriosa di cui gli occhi ne vedono i contorni di bellezza. Già al battesimo era stata udita la voce dal cielo, che proclamava Gesù come il Figlio prediletto, ma ora, per i discepoli, viene aggiunto: “ascoltatelo!”. I discepoli ancora non possono sapere fin dove li porterà l'ascoltare il loro Maestro e ancora non possono conoscere tutta la profondità di quell'espressione: “il mio Figlio, l’Amato”, come poi si rivelerà alle loro coscienze e ai loro occhi con la passione-morte-risurrezione di Gesù e con la testimonianza della loro vita, resa capace di portare quello stesso amore di Dio, visto in Gesù e da lui partecipato, in se stessi e per tutti gli uomini. Anzi, tutta la scena della trasfigurazione sembra abbia lo scopo, nella narrazione evangelica, di segnare i cuori dei discepoli in vista della prova della croce. Così non può che seguire la consegna del silenzio, perché l'evento divino, ancora misterioso al loro cuore, non si trasformi in un motivo di vanto o di confusione.

Il racconto della trasfigurazione segue la confessione di Pietro a Cesarea e il primo annuncio della passione da parte di Gesù ai discepoli increduli. Soltanto Luca però annota che Gesù aveva preso i discepoli con sé per passare la notte in preghiera sul monte, descrivendoli in preda all’oppressione del sonno e soltanto lui svela il contenuto del colloquio tra Gesù e i due uomini apparsi nella gloria con lui, Mosè ed Elia. Il tutto, evidentemente, allude alla scena futura del giardino degli ulivi nella notte del tradimento di Gesù. I discepoli sembrano accorgersi dell’evento della trasfigurazione all’ultimo momento, allorquando, svegliandosi, vedono Gesù, Mosè ed Elia in colloquio mentre si stanno congedando. Quasi nello stesso tempo li sorprende la nube e sentono la voce: “Questi è il mio Figlio, l’amato: ascoltatelo!”, voce che costituisce il punto di fuga della visione.

La proclamazione della voce misteriosa, già sentita al battesimo di Gesù nel Giordano, è costruita sul salmo 2,7: “Egli mi ha detto: Tu sei mio figlio” e su Isaia 42,1: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui”. Lo conferma il redattore della seconda lettera di Pietro: “Infatti, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli infatti ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria:«Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento».Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte” (2Pt 1,16-18).

L’annotazione della preghiera sul monte allude alla rivelazione che sta per compiersi. Di per sé, però, la rivelazione non riguarda la visione della gloria, ma il senso misterioso di quella gloria. In un attimo folgorante, i discepoli vedono, sì, la gloria di Gesù, ma senza rendersi ben conto. La rivelazione della gloria ha a che fare invece con il segreto di Dio per l’uomo, che costituisce il colloquio tra Gesù e i due personaggi: “e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme”, ma che Pietro e i suoi compagni non sanno ancora reggere. Pietro, che non aveva potuto accettare una settimana prima l’umiliazione e la sofferenza del suo Maestro, ora davanti al Signore trasfigurato, non sa quel che dice. Se l’evento della Pasqua del Signore sta al centro del mondo, del senso del mondo, come possono i discepoli comprendere che fin dalla creazione del mondo il colloquio tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo verte sull’immolazione dell’agnello, figura dell’amore che Dio riversa sul mondo e di cui la gloria della trasfigurazione è l’allusione misteriosa? Sanno solo che quel Figlio, l’Eletto, è degno di Dio, custodisce il segreto di Dio per l’uomo e attendono di conoscerlo per davvero imparando ad ascoltarlo, ad ascoltarlo per seguirlo e a seguirlo per ascoltarlo finché si manifesti finalmente al cuore. Il senso della paura che prende i discepoli è appunto il segno del desiderio e del rischio insieme che caratterizza l’avventura dell’uomo toccato dalla presenza di Dio.

Eppure, nel riconoscere Mosè ed Elia in colloquio con Gesù, intuiscono che tutte le Scritture, di cui Mosè ed Elia costituiscono l’espressione riconosciuta, tendono a quella rivelazione, che tutte le Scritture si compiranno in quell’evento. Non solo, ma presentare il colloquio che avviene ‘nella gloria’ significa collocare quell’evento nella dimensione divina, nella quale si radica la storia degli uomini.       

L’esperienza misteriosa dei discepoli è la stessa che vive Abramo, con una fede così radicale nella promessa di Dio che si compie, nonostante l’evidenza umana contraria, da permettere anche a noi di fidarci dell’alleanza di Dio che in Gesù si rivela in tutta la sua profondità ed estensione. Così, se domandiamo, come nella colletta, di vedere la sua gloria, in realtà non facciamo che domandare a Dio di credere alla sua promessa, di fare esperienza del suo amore a tal punto da esserne tutti riverberati perché la gloria di Dio è l’amore che risplende dal trono della croce e la gloria dell’uomo è vivere di quello splendore.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo di Quaresima

 

3a Domenica

(7 marzo 2010)

 

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Es 3,1-15;  Sal 102;  1Cor 10,1-6.10-12;  Lc 13,1-9

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Nel vangelo risuona forte oggi il grido di Gesù: convertitevi! Tutto il capitolo 13 di Luca tende a dirigere gli sguardi sulla rivelazione che comporterà la sua passione a Gerusalemme. Quando Gesù sollecita i cuori alla conversione, la posta in gioco è proprio la possibilità di partecipare ai segreti di Dio che si svelano al mondo, la possibilità di un’esperienza di umanità ritrovata e guarita nell’accoglienza dell’amore salvatore di Dio che in Gesù ha appunto il suo sigillo ultimativo. La cosa è così essenziale per la vita dell’uomo che non è più possibile tergiversare, non è più possibile far finta, pena la rovina.

Quando la gente cerca di ottenere da Gesù la conferma di un senso plausibile alle crudeltà della storia (vedi l’esempio dei Galilei uccisi da Pilato e degli altri periti in un incidente di vita quotidiana), riceve una risposta paradossale. È assurdo pensare che, se io sono risparmiato dal dolore, significa che ho Dio dalla mia parte! L’uomo non ha alcun potere su Dio e quindi è perfettamente inutile che cerchi di avere Dio dalla sua parte. Dio è già dalla sua parte, ma in un modo che non è scontato vedere e vivere. L’esempio di Gesù è lì a evidenziarlo. Lui è l’Inviato di Dio, Lui è la rivelazione dell’amore di Dio. Da come accogliamo Lui, accogliamo la vita. Gesù è tutto teso a quel ‘gridare’: ‘convertitevi!...’. Senza la conversione all’alleanza di Dio, di cui Lui costituisce il sigillo, periremo tutti nel senso di non poter saziare il desiderio del nostro cuore e di venire lasciati in balia delle nostre ossessioni, rendendoci la vita impossibile gli uni contro gli altri.

Ora, la conversione si gioca proprio nell’accogliere la rivelazione di Dio, nello scoprire chi sia Dio per noi. Il grido di Gesù sale dalla profondità del mistero di Dio rivelato a Mosè nel roveto ardente, che il salmo responsoriale, il salmo 102, modula in mille sfumature. Dio confessa a Mosé: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto … conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo …”. In quel ‘conosco le sue sofferenze’ si rivela tutta la partecipazione dell’amore di Dio per le sue creature, tutta la sua prossimità all’uomo, tutta l’accondiscendenza che lo muove nei confronti dell’uomo. Gli antichi commentatori ebraici spiegano così i sentimenti di Dio: ‘io pure soffro come soffrono loro … le loro pene mi riguardano; vedo anche le pene che non dicono, ma che opprimono i loro cuori…’. E quando Mosè chiede a nome di chi dovrà presentarsi, Dio risponde: “Io sono colui che sono! … il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi”. Il Nome di Dio esprime ciò che l’uomo di Lui può sperimentare quando lo invoca, quando, avendolo invocato, ne coglie la vicinanza e la sua potenza di liberazione e di favore. L’espressione, misteriosa nella sua disarmante semplicità ‘Io sono colui che sono’ può voler dire allora: ‘Io sono colui che sarò’; ‘Io sono là con voi come voi vedrete’; ‘io sono colui che tu vedrai quando invocandomi io ci sarò’; ‘chi io sia voi lo saprete da quello che farò per voi’. Il nome di Dio non rinvia semplicemente all’essere di Dio, ma al suo essere per noi. Tanto che Dio è sempre Dio di: Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, Dio di Israele, Dio di Gesù Cristo, Dio di ciascuno di noi… Così il popolo fa parte del nome di Dio, come Dio, El, fa parte del nome del popolo, Isra-El. ‘Nostro’ o ‘mio’ ed ‘unico’ in rapporto a Dio stanno sempre insieme. Tale è l’alleanza di Dio con l’uomo. Tanto che, secondo la bellissima espressione di Origene, in questa alleanza che si rivela nel Nome di Dio è sottesa tutta la dinamica della nostra crescita spirituale: “Magari venisse concessa anche a me l’eredità di Abramo, Isacco, Giacobbe e divenisse mio il mio Dio allo stesso modo che è diventato Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, in Cristo Gesù, Signore nostro”.

Se il salmo 102 lo mettiamo in bocca allo stesso Mosè, quante sfumature di senso si potrebbero cogliere! Lui può comprendere quello che Gesù dice di sé nelle parole di benedizione dei credenti che lo riconoscono come l’Inviato: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”. La nostra lode al Signore è l’eco di quella benedizione: “Benedici il Signore, anima mia, quanto è in me benedica il suo santo nome”. Tutto il mio intimo lo benedica; la benedizione di Lui salga dal mio cuore, dalla mia storia, dal mondo che per quella benedizione vive. Quando proclamiamo: “Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue malattie… Buono e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore”, noi intendiamo esprimere la scoperta del Nome di Dio per il nostro cuore che ha cambiato tutta la nostra vita, ce l’ha fatta apparire sotto tutta un’altra luce, trasfigurandola. E ancora: quello che proclamiamo con il salmo 102 corrisponde alla preghiera dopo la comunione: “O Dio, che ci nutri in questa vita con il pane del cielo, pegno della tua gloria”, vale a dire: quando ci attrai alla comunione con te e con i fratelli e noi gustiamo il tuo perdono nella capacità di condividerlo con tutti, allora scopriamo la dolcezza del tuo Nome, allora portiamo frutti degni di conversione e tutta la nostra vita risplende di un’altra luce. Proprio alla scoperta del Nome di Dio che si rivela in Gesù ci rimanda l’invito evangelico: “Convertitevi!”.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo di Quaresima

 

4a Domenica

(14 marzo 2010)

 

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Gs 5,9-12;  Sal 33;  2Cor 5,17-21;  Lc 15,1-3.11-32

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Il mistero che s. Paolo proclama essere il contenuto stesso della rivelazione (“Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione”) la parabola del vangelo lo narra splendidamente.

Gesù risponde alle lamentele, che diventano perfino accuse, dei farisei di fronte al suo agire: “I farisei e gli scribi mormoravano: Costui riceve i peccatori e mangia con loro” (Lc 15,2). Non si davano pena dei sentimenti di Dio come rivela il profeta Isaia: “Sion ha detto: "Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato". Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai” (Is 49, 14-15) Non si ricordavano più il rimprovero che Dio aveva rivolto al profeta Giona per la sua irritazione a causa della pianta di ricino seccata (cfr Gio 4,10-11).

Più che denominare la parabola ‘del figlio prodigo’, dovremmo parlare di parabola ‘del padre misericordioso’ o ‘del figlio ritrovato’. L’accento non è posto sul o sui figli, ma sul padre. La parabola è costruita su tre personaggi: i due figli, il minore e il maggiore ed il padre. I personaggi si caratterizzano tanto per i silenzi che per le parole proferite. Possiamo notare subito che non esiste dialogo diretto tra i due figli, ma solo tra i figli e il padre. Questa parabola, come le due precedenti della pecora e della moneta ritrovate, finiscono sull’invito a condividere la gioia del ritrovamento.

Le parabole, prima che di noi, parlano di Dio, di Dio in rapporto a noi. Siamo a metà del cammino quaresimale e la chiesa si interroga: come Dio agisce con i peccatori? Possono i peccatori trovare salvezza? O, più direttamente: ha diritto alla gioia l’uomo peccatore? In cosa consiste il segreto della gioia? Oppure ancora: come si riconosce la vera devozione?

La risposta a questi interrogativi si potrebbe riassumere così: nel partecipare ai sentimenti di Dio; nel prendere parte alla gioia di Dio che vuole i suoi figli con lui. Ogni altro motivo del proprio agire risulterebbe alla fine discriminatorio tra fratelli e quindi non gradito a Dio. Non per nulla i due figli non si parlano mai direttamente, in quanto il loro rapporto o deriva dalla condivisione dei sentimenti del padre e sarà vicendevolmente benevolo oppure è corroso dalla gelosia tra loro e rivelerà l’incomprensione dei sentimenti del padre.

La parabola è viva e rimane aperta. Possiamo farci allora due domande.

La prima: se la comunione con il padre resta il segreto della felicità dei due figli, come si collocano rispetto ad essa? Il figlio minore l’ha disprezzata e l’ha rotta; il figlio maggiore, che sembra averla mantenuta, non l’ha però mai goduta e quindi in fondo anche lui la disprezza. Tutti e due falliscono la loro felicità. Il padre tuttavia accoglie entrambi, segue premuroso entrambi: come corre incontro al figlio minore che torna pentito, così esce per convincere il figlio maggiore a partecipare alla sua festa.

La seconda: cosa sarebbe successo se il figlio minore, ritornato pentito, si fosse stizzito per l’atteggiamento del fratello maggiore che non poteva accettare quel trattamento di riguardo del padre a suo favore? Se avesse preteso comprensione anche dal fratello maggiore, non sarebbe stato sincero nel suo pentimento verso il padre. E se il figlio maggiore si fosse sentito solidale con il padre nella sua gioia, avrebbe potuto rivendicare qualcosa per sé? Evidentemente non si è mai trovato, insieme al padre, durante tutto il tempo dell’assenza del fratello, a dire: ‘speriamo non gli capiti qualcosa di irreparabile ’. Il punto è esattamente questo allora: stare solidali con il padre, con la sua premura e la sua angoscia per poter godere della sua gioia.

In questa prospettiva, tutte le annotazioni a proposito dei sentimenti del padre sono particolarmente preziose perché rivelano la natura dell’amore di Dio per i suoi figli. Voglio rimarcare solo due particolari. Del padre si dice che, vedendo da lontano il figlio che tornava, ‘ebbe compassione’, vale a dire: si lasciò commuovere fin nelle viscere. Quel movimento del cuore è così intenso che non lascia respiro al figlio, nel senso che tutto quello che il figlio aveva da dire nella sua vergogna non ha più bisogno di essere ascoltato perché il suo cuore l’ha già accolto e ristabilito nella sua dignità, di nuovo erede di tutti i beni. Dietro tutte le parole della Scrittura sta quello stesso movimento di compassione di Dio per l’uomo; dietro le parole e l’agire di Gesù sta quello stesso movimento, come spesso si annota nei vangeli (cfr Mt 14,14; 18,27; Mc 1,41; 6,34; 8,2; Lc 7,13; 15,20). La stranezza sta nel fatto che l’uomo può cogliere gli effetti di quel movimento di compassione per lui proprio quando gli brucia la vergogna di essersi perso. La conversione inizia con la coscienza di aver disprezzato la sua dignità di figlio e di non meritarsi più nulla, senza però chiudersi in se stesso. L’amore che si riceve non è dovuto, ma ‘sorprendente’.

Del padre si dice ancora che vuole fare festa, che chiama alla festa ed esce per invitare anche il figlio maggiore alla festa. Quella festa è però misteriosa. È la festa della grande cena per gli invitati che non vogliono venire (Lc 14,15-24), la festa del banchetto di nozze che il re vuole per il figlio (Mt 22,1-14). Ma soprattutto è la festa in cui si uccide il vitello grasso. Come non pensare al ‘sacrificio’ del figlio amato, inviato dal padre a riscuotere i frutti della vigna (Lc 20,9-19)? Così, il far festa non richiama semplicemente alla gioia, ma alla gioia dell’amore di Dio che vuole radunare i suoi figli e non teme di vedere il figlio ‘sacrificato’ perché l’amore deve rivelarsi in tutta la sua immensità. La gioia ha a che vedere con l’esperienza di quell’amore sconfinato che solo permette di attraversare il male senza restarne vittime e che in Gesù ha il suo testimone per eccellenza.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo di Quaresima

 

5a Domenica

(21 marzo 2010)

 

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Is 43,16-21;  Sal 125;  Fil 3,8-14;  Gv 8,1-11

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Con quale sincerità e intensità sarebbero risuonate sulla bocca di quella donna spiata, scoperta, strattonata, minacciata, giudicata e poi lasciata sola perché potesse essere perdonata da Gesù, le parole del salmo: “Grandi cose ha fatto il Signore per noi: eravamo pieni di gioia” (Sal 125,3)! È da dentro questa gioia inattesa, confusa, che si apre per il cuore uno spazio di intimità tutto nuovo, secondo quella novità di cui parla il profeta Isaia: “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?... Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi” (Is 43,19.21). È lo spazio di una ritrovata dignità, che si percepisce dal tono dolce con cui ci viene rivolta la parola in quella intimità di benevolenza con cui veniamo accolti e che ci guarisce dal di dentro: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”.

Nell’antica colletta preghiamo: “Vieni in nostro aiuto, Padre misericordioso, perché possiamo vivere e agire sempre in quella carità, che spinse il tuo Figlio a dare la vita per noi”. All’inizio (forse è meglio dire: lungo il percorso della nostra vita), ancora confusi per il nostro peccato, non riusciamo a sentire l’amore che ci viene donato, non siamo ancora in grado di rispondere a quell’amore con il cambiamento dei nostri comportamenti. Ma la percezione della dignità ritrovata costituisce il punto di partenza nuovo. Tutto ciò che di male abbiamo commesso, se lo mettiamo davanti al Signore Gesù, resta scritto sulla polvere. Soltanto però il male riconosciuto, quello che non viene taciuto o giustificato, resta scritto sulla polvere! Quello che non è riconosciuto, che si mantiene nascosto, che si annida nelle rivendicazioni irose o latenti, resta in cuore e impedisce la scoperta della benevolenza di Dio. Tutti gli accusatori della donna se ne devono andare perché, effettivamente, non sono così stupidi da immaginare di essere senza peccato. Ma essi non hanno potuto fare esperienza della benevolenza di Dio.

Gesù ridà senso al dramma del peccato. Il peccato non è una semplice trasgressione della legge né una questione personale di inclinazioni o scelte. La posta in gioco è assai più alta, ma senza l’esperienza della benevolenza perdonante del Signore non si esce dal tranello che i farisei avevano preparato a Gesù: se si pronuncia per l’assoluzione, va contro la legge; se approva la condanna, va contro l’immagine di Dio che va predicando, con la conseguenza che allora è un falso nuovo profeta, non è degno di credito. Con il peccato non è in gioco semplicemente la nostra vera o supposta rettitudine, bensì la nostra fiducia nella promessa di Dio per noi. Se l’uomo viene condannato per il suo peccato, gli si impedisce di credere alla promessa di Dio per lui; e lo stesso avviene se il peccato è banalizzato. Il peccato, riconosciuto da dentro una relazione col proprio Dio, diventa la porta della grazia.

La logica interiore di questa esperienza è ben descritta da Paolo, nella lettera ai Filippesi: “ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. ... So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro ...”. Non puoi non tendere a ciò da cui è venuto per te il senso della tua dignità. Non puoi più stare riverso sul tuo passato, ormai abbandonato alla polvere: non puoi che guardare al futuro di Dio che viene a te nella condivisione del suo progetto di bene e di salvezza per gli uomini.

Ma la conoscenza di cui parla Paolo in termini così coinvolgenti è la conoscenza dell’amore perdonante di Dio che in Gesù si rivela in tutta la sua intensità e drammaticità. È l’esperienza di una vita, che oramai non può più essere vissuta diversamente tanto è stata segnata in profondità.

L’inganno che può ancora nascondersi nelle pieghe dell’anima resta ormai quello di ‘dimenticare’ il proprio peccato e perdere così la solidarietà con i nostri fratelli peccatori. Il segno di tale dimenticanza è ravvisabile nel momento in cui mi difendo dai miei fratelli, rivendico qualcosa a Dio contro i miei fratelli. Ciò significa che la benevolenza di Dio è diventata per me un diritto e quindi ha perso tutta la profondità dell’intimità con cui mi era stata rivolta.

S. Cipriano ricorda, nel suo commento al Padre Nostro, che all’invocazione ‘rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’, la prima cosa che domandiamo non è la generosità per essere capaci di perdonare, ma la coscienza di essere peccatori, bisognosi noi di misericordia. Sentendoci peccatori, non abbiamo titolo di avanzare diritti e possiamo sperimentare in tutta la sua dolcezza il perdono di Dio. Resteremo allora solidali con tutti i nostri fratelli, non avendo alcun motivo di rivendicazione nei loro confronti e quindi non separandoci da loro per nessun motivo. E così facendo restiamo nella carità di Dio per gli uomini. E tutto prende le mosse da quella dignità ritrovata: “Donna, nessuno ti ha condannata? ... Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo di Quaresima

 

Domenica delle Palme

(28 marzo 2010)

 

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Lc 19,28-40// Is 50,4-7;  Sal 21;  Fil 2,6-11;  Lc 22,14-23,56

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Con la liturgia delle palme si dà inizio alle celebrazioni della Settimana Santa. Un sentimento di esultanza, di euforia quasi, introduce agli avvenimenti pasquali: Gesù entra trionfalmente in Gerusalemme acclamato da ali festanti di discepoli. Presto l’euforia cederà il passo alla paura, al tradimento. E quando tutto sembrerà ormai definitivamente cancellato nel silenzio della morte, risuonerà ancora un grido di gioia la domenica di Pasqua, ma questa volta senza nessuna euforia, come strappato a forza, trasfigurante nella sua assoluta imprevedibilità. Sarà il grido, non che vince la morte, ma che l’attraversa, che l’assume, che la libera dai suoi confini mondani aprendola allo splendore del mistero di Dio.

Tutti i vangeli riportano il solenne ingresso di Gesù in Gerusalemme, nell’ottica del compimento della profezia di Zaccaria, unico testo messianico dove il Messia è umile: “Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina” (Zc 9,9). L’accentuazione di Luca cade sulla ‘regalità’ di Gesù, con le allusioni alla consacrazione di Salomone (cfr 1Re 1,33-40) e alla proclamazione di Ieu re di Israele con lo stendere da parte dei grandi i mantelli per terra (cfr 2Re 9,13), regalità che la liturgia latina sottolinea con la solenne processione.

È assolutamente significativo che Gesù accolga il riconoscimento del suo essere re soltanto a partire da questo ingresso in Gerusalemme che introduce la sua passione. Nel racconto di Luca Gesù aveva puntato diritto a Gerusalemme nel corso del suo ministero. Quando sta per entrarvi, i discepoli lo acclamano festosi pensando evidentemente altra cosa rispetto a quello che ha in mente lui, pur sottolineando comunque la Benedizione che rappresenta per loro tutti da parte di Dio. La liturgia, prima segue i pensieri dei discepoli con la solenne processione e, subito dopo, quelli di Gesù - quei pensieri che i discepoli non potevano ancora leggere - facendo intravedere i pensieri di Dio sul suo Figlio venuto a rivelare l’amore del Padre per gli uomini. Gesù si proclamerà re davanti a Pilato quando ormai nessuna ambiguità impedirà la comprensione di quel titolo e verrà proclamato re dalla croce con il titolo che compare sugli antichi crocifissi: ‘re della gloria’.

È curioso osservare che l’esultanza dei discepoli richiama l’esultanza degli angeli a Betlemme: la proclamazione della pace, dono di Dio all’umanità, là annunciata, qui si delinea in tutta la sua drammaticità, senza che alcuno ancora se ne renda conto, eccetto Gesù. Forse, la sua risposta ai farisei, sorpresi e intimoriti per le possibili conseguenze di fronte all’occupante romano: “Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre”, allude al ‘giudizio’ della storia nella tragedia della prossima distruzione di Gerusalemme. Gesù si rivolge alla città, piange su di essa, la richiama a riconoscere la visita del suo Dio. Già altre volte Gerusalemme era stata richiamata dai profeti a leggere gli avvenimenti tragici nell’ottica della storia con il suo Dio.

La liturgia si fa carico di mostrarci tale drammaticità, subito dopo la solenne processione, con la colletta: “Dio onnipotente ed eterno, che hai dato come modello agli uomini il Cristo tuo Figlio, nostro Salvatore, fatto uomo e umiliato fino alla morte di croce …”. Non c’è più ombra dell’esultanza di prima. Viene letto il terzo canto del Servo del Signore del profeta Isaia: “Ho presentato il mio dorso ai flagellatori ... non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi”. Si canta il salmo 21: “hanno scavato [forato] le mie mani e i miei piedi... Si dividono le mie vesti”. S. Paolo canta la figura di Gesù nella sua passione d’amore per gli uomini: “… svuotò se stesso assumendo una condizione di servo ... umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”. E viene proclamato solennemente il racconto della passione di Gesù.

Proprio su questo Gesù la chiesa invita a fissare gli sguardi, in tutta la potenza della sua rivelazione quanto all’amore di Dio per gli uomini. Quanto sono preziosi gli uomini per lui! Quanto può essere rivoluzionata la vita se vissuta dentro e a partire dal suo amore! Quando la colletta ci propone l’immagine di Gesù umiliato non è per suggerirci un modello di umanità sofferente. Gesù resta modello perché, per realizzare la nostra vocazione all’umanità, non possiamo non rifarci a lui che di questa umanità ha svelato tutta la bellezza nel suo stare fedele in comunione con Dio, dalla parte degli uomini ed in comunione con gli uomini, dalla parte di Dio. E la sua bellezza traspare proprio nel momento in cui, sfigurato dal dolore e calpestato, non rinnega l’alleanza di Dio ed apre, per lui e per tutti, la promessa di una vita inattaccabile dalla morte. Ed è la sua bellezza a generare speranza, quella di cui il mondo oggi, come sempre, ha tremendamente ed urgentemente bisogno.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo di Pasqua

 

Domenica di Pasqua

Risurrezione del Signore

(4 aprile 2010)

 

 

Aveva introdotto le celebrazioni del triduo sacro la messa del crisma, che sottolinea l’unità della chiesa attorno al suo vescovo che consacra il sacro crisma con cui i candidati al battesimo e alla cresima verranno unti, per essere testimoni nel mondo dello splendore del nome di Cristo.

La cena del Signore del giovedì santo, incastonando l’istituzione dell’eucaristia e del sacerdozio con il sacramento del servizio attraverso il rito della lavanda dei piedi, ha celebrato il mistero della comunione con Dio e tra gli uomini, scopo supremo dell’agire del cuore, profumo della conoscenza del Cristo. La proclamazione della passione del Signore e l’adorazione della croce il venerdì santo hanno rivelato l’intimità e la tenacia dell’amore di Gesù per gli uomini, colte nel mistero della sua obbedienza fino alla morte di croce. Con la conseguenza: se il Figlio di Dio non ha preferito nulla a noi, come possiamo noi preferire qualcosa a Lui?

Il sabato santo trascorre nel silenzio liturgico in attesa della solenne veglia pasquale che annuncia la restituzione ai discepoli del loro Signore, il Vivente, con i segni indelebili nel corpo della sua passione salvatrice. Il senso specifico di tutte le letture della grande veglia pasquale mi sembra quello di collocare e leggere la nostra storia personale dentro la grande storia d’amore di Dio per i suoi figli di cui sentiamo narrare le gesta, storia che in Gesù, annunciato dai profeti, si fa esperibile per noi. Tutta la veglia pasquale è imperniata sulla ‘luce’, la luce del Signore risorto che arriva ad accendere i nostri cuori. Abbiamo così bisogno di una luce calda, amica, tenera, per vedere la vita e le sue angosce! La liturgia tende proprio a infondere nei cuori la sovrabbondanza della luce amica, calda, del Signore Gesù che è il Dono di Dio per la nostra umanità.

Se viva è stata la compassione per l’Uomo dei dolori, prorompente sarà la gioia per la notizia della risurrezione del Signore. È una notizia certa, ma non evidente. È una notizia vera, ma non apodittica. Quella notizia ha bisogno di tempo per apparire in tutta la sua potenza, per convincere i nostri cuori e scoprir loro la sorgente di gioia inesauribile che costituisce. Ha bisogno di spazi per espandersi, ha bisogno di condivisione per rafforzarsi, ha bisogno di testimonianze per risplendere. Sono i tempi della chiesa, gli spazi dell’umanità, la condivisione e le testimonianze dei credenti, perché i nostri cuori finalmente si convincano a vedere e a riconoscere il Signore Gesù in tutta la sua bellezza, morto e risorto per noi.

Così esulta la chiesa nell’inno pasquale: “Irradia sulla tua Chiesa la gioia pasquale, o Signore, unisci alla tua vittoria i rinati nel battesimo”. La gioia, quella vera, stabile, agognata, non può che essere pasquale; non solo nel senso che ci deriva dall’evento della Pasqua del Signore, che rende nota al cuore dell’uomo la motivazione inconfutabile della possibilità ritrovata di essere nella gioia, ma anche nel senso che la gioia è strettamente correlata al dramma, alla fatica, alla fedeltà di un amore che svela il mistero stesso della vita e che si esprime nel suo rivelare la potenza d’intimità con il Padre, autore della vita. Gioia che per noi si risolve nel dolce perdono che Gesù ci riversa: “Tu, o Cristo, sei il nostro dolce perdono. Fa’ che di Te in ogni istante io mi sappia rivestire e non abbia potere su di me la miseria con cui mi vedo e mi sento. Con le tue ferite risanami, che io respiri e viva del tuo sguardo verso il Padre. Nelle tue piaghe nascondimi, che il sentimento della mia malinconia non si erga a obiezione della tua grandezza. Lasciami entrare nel tuo cuore, che io mi avvolga della sua benevolenza e mi faccia rinascere, finiti i terrori della notte, al mattino della tua presenza”.

Accenno solo a un particolare del brano evangelico che viene proclamato nella messa del giorno di Pasqua. Giovanni parla della pietra tolta via dal sepolcro per sottolineare, in questo Giorno della Risurrezione, che viene tolto l’ultimo impedimento alla vista, alla visione, come poi il brano dirà a proposito del discepolo entrato nel sepolcro. L’episodio dei due discepoli che corrono al sepolcro lo conferma in una tensione crescente per giungere, alla fine, alle straordinarie parole: “Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette”. È come una richiesta che viene sussurrata al cuore dei possibili lettori del vangelo, la richiesta di avanzare nella conoscenza del mistero, di salire fino all’intelligenza della risurrezione che viene svelata poco a poco: “Vide e credette”. La tensione del racconto punta qui. Un invito per noi alla gioia della sua conoscenza perché profumi la nostra vita e ne manifesti lo splendore. Possiamo tutti essere custoditi e accompagnati dalla tenacia dell’amore del Signore per noi, che, come ha promesso: “ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.

Il Signore è risorto! È davvero risorto!

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo di Pasqua

 

2a Domenica

(11 aprile 2010)

 

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At 5,12-16;  Sal 117;  Ap 1,9-19;  Gv 20,19-31

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Se il proverbio popolare, di Tommaso, ha ritenuto la sua incredulità e testardaggine, la liturgia ne ha colto l’audacia e l’ardore: “Attingendo ricchezza dall’inviolabile tesoro del tuo divino costato trafitto dalla lancia, Didimo ha riempito il mondo di sapienza e conoscenza”. La valenza simbolica del suo mettere la mano nel costato di Gesù è la medesima del reclinarsi di Giovanni sul petto di Gesù nell’ultima cena: “O straordinario prodigio! Giovanni ha riposato sul petto del Verbo, Tommaso ha ottenuto di toccare il suo costato: e l’uno ne ha tremendamente tratto l’abisso della teologia, mentre l’altro è stato reso degno di iniziarci all’economia, perché chiaramente ci presenta le prove della sua risurrezione, esclamando: O mio Signore e mio Dio, gloria a te”.

Se, da parte di Gesù, il suo rivolgersi ai discepoli e poi a Tommaso con il mostrare le sue cicatrici significa: ‘sono proprio io, colui che per voi, per te, ha patito’, il riconoscimento da parte dei discepoli significa: ‘Dio ha proprio amato il mondo, le nostre vite hanno senso solo come risposta a quell’amore che in Gesù ha svelato il vero volto di Dio pieno di accondiscendenza per gli uomini, solo l’amore che da lui deriva e a lui si volge sazia il cuore fino alla letizia di vedere che tutti i cuori si possano di lui saziare’.

Tommaso non è un pavido, un insicuro. Le altre due volte che il vangelo di Giovanni parla di Tommaso ce lo presenta come un uomo generoso, pronto ad andare a morire con Gesù. Il suo dubbio procede da un cuore che ha preso molto sul serio la vicenda di Gesù. Quando Gesù, ricomparendo, gli dice di mettere la mano nel costato e nelle cicatrici, non ha bisogno di ricredersi o di scusarsi: è tutto teso a quel Signore che ha sempre voluto seguire e che ora riconosce per davvero "mio Signore e mio Dio", la più solenne professione di fede del vangelo di Giovanni e, nello stesso tempo, la più intima delle professioni. In quel mio, c'è tutto l'anelito del suo cuore, la sua appassionata esperienza di lui; in quel Signore e Dio, c'è tutta la rivelazione di Gesù al suo cuore, l’intelligenza di tutte le Scritture.

La sua esclamazione ricalca quella di Maria Maddalena: “Hanno portato via il mio Signore” (Gv 20,13) e quella di Gesù: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, al Dio mio e Dio vostro” (20,17). Non solo, ma in essa si avverte la risposta alla domanda che nell’ultima cena l’apostolo Giuda aveva rivolto a Gesù: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?” (Gv 14,22). Gesù si rende presente a coloro che lo amano, non si manifesta al mondo: questo è il mistero da accogliere. In effetti, Tommaso riceve la rivelazione del Signore risorto dentro la comunità degli apostoli, divenuta il luogo della sua manifestazione nel mondo a partire dall’amore che gli apostoli esprimono al loro Signore e tra di loro, come segno della vita nuova ricevuta con il dono dello Spirito. È caratteristico che la conoscenza del Signore, ormai, non si riferisca più alla modalità con cui i discepoli hanno conosciuto Gesù nella sua storia terrena, ma si riferisca all’esperienza della sua presenza tra loro come Messia crocifisso (con le cicatrici sul corpo), nella pace che rassicura e accompagna nelle difficoltà dell’impegno nel mondo. La sua presenza è esperita a partire dalla comunità dei credenti, che diventano testimoni e nello stesso tempo ‘donatori’ al mondo della possibilità della visione del Signore.

Gesù aveva promesso nell’ultima cena: “Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi” (Gv 14,19-20). E quando rimprovera Tommaso gli dice: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”. Eppure, tutti i credenti sono chiamati a vedere il loro Signore. La visione, però, deriva ormai dallo sperimentare la vita che egli comunica, vita che diventa nostra praticando il suo comandamento e accogliendo il suo amore.

Qui si innesta la missione di cui ci fa portatori il Signore: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. La pace che dà il Signore è quella per la quale gli apostoli sono inviati nel mondo, per la quale viene loro dato lo Spirito Santo in modo che l’innocenza ottenuta da Dio e con Dio confermi la fraternità degli uomini, segno dello splendore della presenza di Dio ormai riconosciuto. Spiega Gregorio Magno: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi, cioè: come il Padre Dio ha inviato me Dio, così io uomo mando voi uomini. Il Padre inviò il Figlio, avendo stabilito che questi si incarnasse per la redenzione del genere umano: volle che entrasse nel mondo per subire la passione, e tuttavia amò il Figlio, che pure era stato inviato per affrontare la morte. E anche gli Apostoli non furono destinati dal Signore ai piaceri del mondo, ma vi furono inviati per subire dolori come era avvenuto per Lui. Così il Figlio è amato dal Padre, e tuttavia è mandato alla passione; come i discepoli sono amati dal Signore, ma inviati nel mondo per affrontare le sofferenze. Per questo Egli dice: Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi, cioè, quando vi espongo alle ingiustizie dei persecutori vi amo con lo stesso amore che ha verso di me il Padre, che pure mi ha inviato a subire tanti dolori”.

Se la liturgia pasquale proclama insistentemente: “eterna è la sua misericordia”, ciò significa non soltanto che Dio sarà eternamente fedele alla sua misericordia, che la sua misericordia durerà per sempre, ma soprattutto che, essendo la sua misericordia dall’eternità, si trova alle origini del nostro mondo, ne racchiude il senso e il mistero fino alla fine, finché il mondo sussisterà. Gesù rivela la verità di questa realtà e Tommaso si situa in quella verità con la sua sussurrata e potentissima confessione di fede: mio Signore e mio Dio!

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo di Pasqua

 

3a Domenica

(18 aprile 2010)

 

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At 5,27-42;  sal 29;  Ap 5,11-14;  Gv 21,1-19

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Il brano di vangelo di oggi chiude il vangelo di Giovanni. Sembra quasi un’appendice, che racchiude però un alto valore simbolico, soprattutto se incentriamo l’attenzione sull’apostolo Pietro. Nel vangelo di Giovanni, il primo incontro di Gesù con Pietro viene narrato in 1,42 quando “fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: "Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa" - che significa Pietro”. Nel corso della narrazione evangelica viene sempre denominato Simon Pietro o Pietro. Solo alla fine, di nuovo, Gesù lo chiama: “Simone, figlio di Giovanni ...” per tre volte. Perché? Sembra che Pietro, con tutto l’amore che porta al suo Maestro, abbia ancora bisogno di qualcosa di essenziale, di decisivo, per realizzare quello che il nome, Pietro, impostogli da Gesù, significa per lui e per la comunità dei suoi fratelli.

Gesù lo chiama con il vecchio nome rammentandogli l’amore che gli ha sempre protestato senza però essere stato capace di viverlo fino in fondo. Nell’ultima cena aveva protestato: “Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!” (13,37) e poi, nella stessa notte, l’aveva rinnegato tre volte. Ma Giovanni non dice nulla del suo pentimento, come gli altri evangelisti hanno annotato: “E, uscito fuori, pianse amaramente” (Lc 22,62). Sembra che Pietro conservi ancora qualcosa dell’antico discepolo del Battista, almeno nella sua visione messianica su Gesù, il Messia che avrebbe stabilito il regno di Dio, come d’altronde fa fede la sua prontezza nel difendere Gesù con la spada nell’orto degli ulivi e nella volontà di seguirlo fin dentro il cortile del sommo sacerdote. Pietro ha sempre preteso giocare un ruolo di primo piano per la sua generosità nella sequela del Maestro – cosa che Gesù e gli altri compagni gli riconoscono. Quando vuole uscire a pescare, e gli altri compagni lo seguono, lavora invano. Invece, quando si presenta Gesù sulla spiaggia e gli dice di gettare le reti alla destra della barca, la pesca è oltremodo sovrabbondante. Ma lui non capirà se non dopo il colloquio con Gesù: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”. Era chiaro a tutti che Pietro amava il Signore più di tutti per la sua impetuosità, ma ora Pietro non lo può più riconoscere perché era stato l’unico a rinnegarlo. E quando, la terza volta, Gesù gli dice: “Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?” Pietro non può che restare addolorato perché evidentemente si rendeva conto della sua posizione e, finalmente conquistato alla nuova modalità di sequela che Gesù esigeva, risponde affidandosi: “Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene”.

Solo ora la sua sequela diventa quella voluta da Gesù. Qui avviene la trasformazione definitiva di Pietro. In effetti, per l’apostolo, non si tratta semplicemente di dare la vita per Gesù – cosa che può avvenire anche dentro una visione delle cose mondana o ideologica! - ma di darla condividendo i suoi segreti, il suo sentire, la sua modalità di azione nel mondo perché tutti abbiano la vita. Potremmo anche interpretare: “Signore, non sono degno del tuo amore, e del mio non posso fare gran conto, ma tu conosci il mio cuore, tu sai che ti vuole bene”. Quando un uomo professa il suo amore come balbettando, appena sussurrando, vuol dire che il suo amore va oltre ogni forma di orgoglio o di pretesa e sarà immune dal tarlo del predominio, sotto qualsiasi forma si cerchi: in quell’amore c’è tutto il suo cuore perché si fida totalmente dell’accoglienza dell’altro. E non ha da esibire altro di sé. E quando l’amore è di tal fatta, allora può assumere il compito pastorale in nome del Signore: “Pasci le mie pecore”. A tutti verrà inviato, di tutti si prenderà cura, e di gran cuore, perché tutti e ciascuno appartengono a quel Signore, il cui amore l’ha conquistato e l’amore per il quale costituisce il vero obiettivo del suo interessamento per tutti perché tutti lo riconoscano e trovino riposo. Gesù può predirgli tranquillamente il suo martirio: l’intimità goduta, finalmente, non sarà più insidiata, così come è avvenuto per Gesù.

Allora avverrà, nelle afflizioni o nelle persecuzioni, come riporta la prima lettura, di essere “lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù”, con l’allusione al fatto che la letizia nella persecuzione rivela la dignità ottenuta dall’anima, dignità che si esprime nel suo splendore quando gli altri la calpestano e non viene meno. E non è un fatto personale, ma ecclesiale. Vale a dire: non è in gioco la virtù di una persona, ma la fede, una fede condivisa dentro uno stesso progetto di vita e di missione evangelica per il mondo. L’obbedienza è così dovuta a Dio prima che agli uomini e comporta appunto la condivisione del segreto di Dio per gli uomini nell’amore che ha mosso Gesù e che perdura nei suoi discepoli. Nel brano evangelico il pasto comune dopo la pesca miracolosa comporta due ‘offertori’ di sapore eucaristico: c’è il pesce preparato prima da Gesù e il pesce portato dai discepoli. Vi si può ravvisare il dono di Gesù ai suoi e il dono degli uni agli altri nell’amore che risponde a quello di Gesù.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo di Pasqua

 

4a Domenica

(25 aprile 2010)

 

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At 13,43-52;  Sal 99;  Ap 7,9-17;  Gv 10,27-30

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Le ultime domeniche del tempo pasquale sono tutte incentrate sulla comunità dei discepoli unita attorno al suo Signore, testimone del suo amore, pervasa dalla gioia dello Spirito Santo, in missione apostolica nel mondo fino alla fine dei tempi. La liturgia di oggi ruota attorno all’immagine del gregge e del suo pastore, tema del cap. 10 di Giovanni, insistendo sul fatto che la comunità è unita saldamente al suo pastore, che non può essere dispersa, che possiede ormai la vita dal suo Signore, per cui vive.

Gli ascoltatori sono divisi nei riguardi di Gesù: è vero, le sue parole suonano piuttosto strane, ma sono proferite da uno che ha guarito un cieco dalla nascita (cap. 9) e che è capace di ridare la vita a un morto (cap. 11, a Lazzaro). Cosa pensare di lui? Quale mistero divino sta svelando?

Gli uomini sono sempre in ricerca e si accorgono della ‘stranezza’ di Gesù: “Non potrebbe parlare più chiaramente?”, pensa il gruppo dei Giudei che lo attornia. Ma appena Gesù risponde, l’incertezza si trasforma in avversione e rifiuto. È vicino il dramma finale. Il punto centrale può essere espresso in questi termini: voi non mi potete capire perché non volete essere dalla mia parte; voi vi appellate a Dio per respingermi, ma è proprio lui che mi ha inviato a voi e se non accogliete me non potete nemmeno capire quanto è grande il suo amore per voi. Invece, chi mi ascolta, è perché mi appartiene, conosce in verità la grandezza dell’amore di Dio e nessuno potrà privarlo di questa certezza, nessuno potrà dividerlo da me. Come nessuno ha potuto rapire Gesù dalle mani del Padre, sebbene tutto congiurasse contro questa fedeltà del Figlio al Padre suo, soprattutto nel dramma della passione e della morte in croce, così nessuno potrà rapire i discepoli di Gesù dalle sue mani, per quanto si scateni la violenza degli avversari.

In effetti, l’unico impedimento risulta essere quello che l’uomo si giudichi non degno della vita eterna, come dicono Paolo e Barnaba ai convenuti in sinagoga ad Antiochia: “… poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna ...” (At 13). Il dramma dell’uomo consiste proprio in un giudizio cattivo su di sé, che nasconde un cattivo giudizio su Dio: non ci si ritiene degni dei misteri di Dio! Quando l’uomo non accoglie umilmente questa ‘dignità’ si fa violenza e la eserciterà su tutti: sarà in preda del tormento della morte. E il mondo è prostrato dagli effetti di questo tormento. I discepoli invece sono “pieni di gioia e di Spirito Santo” perché partecipano all’opera dello Spirito Santo che è l’edificazione di un’umanità con ‘un cuor solo e un’anima sola’. La partecipazione al mistero stesso della vita di Dio e in Dio non dipende minimamente da quello che fa il mondo o da quello che ci fa il mondo.

Quando cantiamo con il salmo responsoriale: “noi siamo suo popolo, gregge che egli guida”, non vogliamo dire che siamo semplicemente quelli che lui guida individualmente, ma che siamo coloro che hanno in lui una stessa vita e fanno risplendere la fraternità nel mondo come espressione della rivelazione del Padre ai loro cuori. Riconoscere con il salmo: “egli ci ha fatti” significa proclamare tutta la dignità dell’uomo di cui il gregge del Signore, che noi siamo, ha la responsabilità, in questo mondo, di far risplendere nella sua bellezza. L’esperienza dell’amore di Dio per l’uomo, rivelatasi in Cristo, condivisa e partecipata dai suoi discepoli, ha rivoluzionato la percezione interiore delle prime generazioni cristiane a tal punto da costituire la radice di una nuova umanità di cui essere fermento nel mondo intero. Qui si colloca la sfida della speranza per il mondo da parte della comunità dei discepoli del Cristo risorto.

In questa luce le parole di Gesù risuonano in tutta la loro densità. Gesù è amato dal Padre perché ‘dà la sua vita’ per le pecore (Gv 10,17) e questo comporta il suo ‘dare la vita eterna’ (10,28), vale a dire la vita come espressione di un amore che non cede davanti a nulla e che diventa la radice di vita di coloro che da lui l’accolgono. Se aggiunge che nessuno ‘strapperà’ le pecore a lui affidate vuol dire che per quanto si scateni il male contro di loro, all’interno e all’esterno, non verrà meno la percezione di quello che Gesù dirà nell’ultima cena: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Anche per noi, uniti a Gesù, varrà quello che lui dice di sé a conferma delle sue parole: “Io e il Padre siamo una cosa sola”, perché: “le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”. Da intendere secondo questi tre passaggi:

1) ‘le mie pecore ascoltano la mia voce’: non semplicemente ascoltano quello che dice, ma riconoscono che quello che dice viene da Dio. Sentono che la sua parola e la sua vita confermano tutte le parole della Scrittura e ne svelano il mistero;

2) ‘io le conosco’: vedendo l’intimità tra lui e il Padre, le pecore si sentono conosciute, cioè amate e cercate da lui. Il movimento di amore di Dio per l’uomo riguarda tutti e perciò dire ‘io le conosco’ comporta la sfumatura di senso: io conosco tutti, ma di quella conoscenza che fa godere l’intimità con lui sono capaci solo le pecore che si lasciano raggiungere, portare in spalla, come la parabola della pecorella perduta dirà. Ne consegue che chi non accetta questo, si trova come escluso dalla sua conoscenza e proprio perché escluso non può sentirsi amato;

3) ‘esse mi seguono’: solo lui può mostrare il segreto di Dio in tutta la sua estensione e bellezza. In gioco è sempre la disponibilità alla fede e la fede si gioca nell’accogliere il mistero di accondiscendenza di Dio, per l’uomo, in Gesù, rivelatore del Volto del Padre.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo di Pasqua

 

5a Domenica

(2 maggio 2010)

 

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At 14,21-27;  Sal 144;  Ap 21,1-5;  Gv 13,31-35

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Il salmo responsoriale proclama: “Benedirò il tuo nome per sempre, Signore”, a scandire il salmo 144 che commenta ed esprime la vicenda pasquale di Gesù in favore degli uomini. La benedizione è quella del riconoscimento, da parte della prima comunità cristiana formata da ebrei, dell’insondabile mistero di Dio nel suo amore agli uomini che ha voluto aprire anche ai pagani la porta della fede (cfr. At 14). Si realizza così quella ‘gloria’ di cui aveva parlato Gesù a proposito del suo sacrificio pasquale: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32) e che il vangelo di oggi richiama con l’espressione: “Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito”. Nella nuova Gerusalemme, secondo la visione dell’Apocalisse, non ci sarà più alcuna distinzione tra gli uomini ma tutti saranno il suo popolo: “Udii allora una voce potente che usciva dal trono: ‘Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro”. L’unica differenza tra quaggiù e lassù è costituita dal fatto che quaggiù le lacrime abbondano mentre lassù ogni lacrima verrà asciugata.

Un particolare è assolutamente rivelatore di quello che Gesù intende parlando della sua pasqua. Lo possiamo notare con una domanda: perché Gesù abbina il comandamento dell’amore alla menzione della sua gloria? Il capitolo 13 di Giovanni è il capitolo della lavanda dei piedi nell’ultima cena. Gesù ha lavato i piedi anche a Giuda e tutti hanno sentito la spiegazione di Gesù: “Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (Gv 13,15). Gesù ha chiara la percezione dell’imminente tradimento e sa quel che fa, a differenza dei discepoli che non comprendono, ma che comprenderanno in seguito. Solo quando Giuda se ne è andato e Gesù vede tutto quello che gli accadrà può aggiungere: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri”. Come a dire: l’amore di cui vi faccio comando comprende la disponibilità a lavarvi i piedi gli uni gli altri, senza distinzioni di sorta tra buoni o cattivi, perché in gioco è la rivelazione del segreto di Dio che mi è stato affidato e di cui vi rendo partecipi: la ‘gloria’ del suo amore deve risplendere in tutta la sua bellezza. Tra l’altro, è singolare che Gesù non faccia mai comando ai discepoli di amare lui, mentre il comando di amare Dio e amare il prossimo è diretto. Quando allude all’amore per lui, lo suggerisce attraverso le espressioni: ‘se mi amate, osserverete i miei comandamenti’; ‘rimanete nel mio amore’. Verso di lui invece il comando diretto è: ‘credete in me’. Perché? Credo che qui si comprenda il nocciolo dell’amore di cui Gesù ci fa comando. L’amore vicendevole non rivela la generosità dei cuori, ma l’esperienza dell’incontro con Gesù; l’amore vicendevole parla di Dio che ha toccato il cuore dell’uomo e non dell’uomo che è diventato buono e perciò è in rapporto diretto all’esperienza della fede, quella fede di cui Gesù ci fa comando nei suoi confronti. Le tribolazioni che la lettura degli Atti ci ricorda essere necessarie nel nostro cammino riguardano la fede e non l’amore o, meglio, l’amore nel suo radicamento nella fede: “è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio”. Così l’azione dell’uomo deve parlare di Dio e non di se stesso; solo allora la sua ‘gloria’ risplende e il cuore dell’uomo sarà saziato da quella gloria che allora esprimerà tutta l’intimità di amore che lega l’uomo al suo Dio.

Possiamo allora anche comprendere in cosa consista la novità del comandamento dell’amore annunciata da Gesù in funzione di tre cose. Anzitutto in funzione della radice che lo origina. L’amore di Gesù deriva dalla intimità della vita, del volere e dei sentimenti con il Padre. Quell’amore di cui ci fa comando deriva dalla partecipazione a quella stessa intimità. Il suo sigillo sta nel fatto di lavare i piedi ai discepoli per renderli partecipi del suo segreto con il Padre, segreto che a nessuno è dato di cogliere se non a coloro che credono nel Figlio. Circondarsi la vita con l’asciugatoio è l’immagine dell’umiltà come vestito della divinità, mistero di quell’accondiscendenza di Dio che raggiunge l’uomo nel suo cuore più segreto, là dove l’uomo può imparare la lingua stessa di Dio. In secondo luogo è in funzione della potenza che lo sottende, la potenza cioè dello Spirito Santo che da Gesù ci verrà effuso sulla croce. Quell’amore non è che l’accoglimento dell’azione dello Spirito Santo nei nostri cuori, esito di tutto l’impegno ad agire bene che ad altro non conduce se non a poter essere degni dei misteri di Dio. Perché l’opera specifica dello Spirito Santo è la costruzione della fraternità, come stupendamente dice la terza preghiera del canone eucaristico: “e a noi, che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito”. Ed infine è in funzione della dinamica che lo anima e che lo muove verso un unico punto di convergenza, contemporaneamente termine e scopo della storia stessa: che il regno di Dio si sveli in tutta la sua bellezza e in tutto il suo splendore, per tutti i cuori, per tutto il mondo, per tutti i tempi, regno che altro non è se non la condivisione dell’amore di Dio, in Cristo, fino a che sia partecipato a tutti.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo di Pasqua

 

6a Domenica

(9 maggio 2010)

 

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At 15,1-2.22-29;  Sal 66;  Ap 21,10-23;  Gv 14,23-29

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La liturgia di oggi predispone due piste per accedere alla rivelazione che comporta la parola di Dio.

Se partiamo dalla colletta, comprendiamo che la liberazione pasquale, che celebriamo nell’eucaristia per testimoniarla nella vita, è caratterizzata dalla letizia. Ma la letizia è per la comunione. Una letizia che non si traduca in ansia di comunione non risponde alla liberazione pasquale. La prima lettura mostra quella letizia in ansia di comunione alle prese con gli imprevisti della storia. I credenti provenienti dalla tradizione mosaica, pur accogliendo la fede in Gesù, temono di mancare alla santità di Dio non obbligando anche i fratelli provenienti dal paganesimo alle stesse leggi. La decisione apostolica ribadisce la fede di tutti: oramai c’è un unico popolo di salvati, circoncisi e incirconcisi e l’invito ai pagani sembra soltanto quello di non essere fonte di disagio per i fratelli circoncisi trovandosi alla stessa mensa. La liberazione è per la gioia e la gioia è per la comunione: questa è la dinamica pasquale.

Se partiamo dal canto al vangelo (‘Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui), ci appare un altro scenario. Le parole di Gesù sono incentrate attorno alla questione della ‘rivelazione’ del Messia. Rispondono alla domanda di Giuda, non l’Iscariota: “Come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?” (Gv 14,22). La domanda di Giuda, a sua volta, segue la promessa di Gesù ai suoi discepoli: tra poco lui subirà la passione, morirà e verrà sepolto, ma apparirà, risorto, ai suoi discepoli. Saranno loro a testimoniare al mondo la sua presenza, la presenza di colui che ha vinto la morte, perché loro lo conosceranno: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv 14,21). Perché la manifestazione del Risorto non sarà ‘evidente’ a tutti? Perché l’opera di Dio non sconvolgerà nessuno nel senso di strabiliarlo e farlo restare attonito e come obbligato a credere? Perché la sua parola è una parola di amore e chi non accoglie quell’amore non può capire la sua parola. La sua parola cela la potenza di amore del Padre per gli uomini e soltanto quando gli uomini si decideranno ad ascoltarla (come un bambino ascolta sua mamma facendo quel che lei gli dice) la parola rilascerà la potenza che essa racchiude, potenza che costituisce la radice della comunione con tutti perché a tutti quella parola è diretta.

La sottolineatura nelle parole di Gesù, però, è data dal fatto che accogliendo la sua parola si partecipa ad una intimità di vita; meglio, si condivide l’intimità di vita che corre tra il Padre e il Figlio nello Spirito, che proprio da Gesù ci è stato effuso e che proprio di Gesù ci fa vedere la verità di testimone dell’amore del Padre per gli uomini. Così la crescita spirituale sottende sempre un radicamento nell’intimità di un rapporto che permette ai cuori di schiudersi, di percepirsi nell’amore, di vedere le cose in verità. In effetti, quando Gesù dice ‘mi manifesterò’, in realtà vuol dire, non solo che lo riconosceremo, ma che tutto parlerà di lui, tutto splenderà per lui e quindi che la vita svelerà il suo segreto.

La condizione di possibilità perché ciò avvenga è svelata alla fine del brano, che nella versione CEI suona: “Non parlerò più a lungo con voi, perché viene il principe del mondo; contro di me non può nulla, ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così io agisco” (Gv 14,30-31). L’espressione ‘contro di me non può nulla’, tradotta più letteralmente sarebbe: ‘in me non ha nulla’. Siccome in Gesù c’è solo l’amore del Padre, il demonio non ha alcun diritto su di lui nel senso che può rovesciargli addosso tutto il male che vuole, ma senza poterlo deviare dal suo scopo, senza potergli sottrarre quell’amore; al contrario, suo malgrado, farà risplendere davanti a tutti quell’amore, affascinando i cuori. Questa espressione è costruita allo stesso modo dell’altra che la richiama: ‘chi ha i miei comandamenti’ (v. 21), che noi traduciamo: ‘chi accoglie i miei comandamenti’. Quando un cuore è conquistato all’amore di Gesù, non facendo valere altro che i suoi ‘comandamenti’, dato che in essi ha scoperto le radici del vivere beato, ne conoscerà la potenza di vita e il demonio nulla potrà contro quell’amore.

Quando al battesimo e alla trasfigurazione la voce dal cielo aveva proclamato su Gesù: “Questi è il Figlio mio, l’amato”, il significato non è semplicemente da riferire a Gesù ma anche a tutti noi in lui, vale a dire: tutti noi, credendo a quel Figlio, l’Inviato del Padre e accogliendo la sua parola per metterla in pratica, entreremo nella benedizione di quell’amore di predilezione nel quale il Padre vuole inglobare tutti. La rivelazione di Dio è sempre per noi perché non c’è rivelazione che non parli dell’amore di Dio per l’uomo. E se nel Padre nostro chiediamo: ‘sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra’, non chiediamo prima di tutto di poter stare fedeli alla sua volontà, ma più direttamente di poter sperimentare la sua volontà di amore per noi nella nostra vita, tanto da godere della comunione con lui al di sopra di tutto. Questo ci otterrà l’azione dello Spirito Santo, che ci farà memoria viva del Signore Gesù in questo mondo.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo di Pasqua

 

Ascensione

(16 maggio 2010)

 

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At 1,1-11;  Sal 46;  Eb 9,24-28; 10,19-23;  Lc 24,46-53

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Con l’ascensione di Gesù possiamo contemplare in tutto il suo arco la portata del mistero pasquale, come riferisce Luca all’inizio del racconto degli Atti: “Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo” (At 1,1). E insieme cogliere la tensione che caratterizza la vita dei credenti, come recita la colletta: “ ... nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo nostro Capo nella gloria”.

Gesù non ascende a un luogo. Gli angeli non sarebbero venuti a ricordare: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?”. Se si fosse trattato semplicemente della sparizione dalla loro vista, non sarebbe stato ragionevole annotare: “poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia”. Spiega Agostino: “Disparve agli occhi mortali perché noi ritornassimo al cuore e trovassimo il Cristo”. In effetti i discepoli hanno visto il fenomeno fisico dell’ascendere al cielo di Gesù, ma ne hanno anche intravisto la portata mistica. Il che significa che lo sparire di Gesù dalla vista dei loro occhi permetteva di coglierlo presente nei loro cuori, come lui stesso aveva promesso: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”, versetto con il quale si chiude il vangelo di Matteo.

L’aspetto singolare di quell’avvenimento è costituito proprio dall’esperienza di una gioia speciale, abbinata alla promessa dello Spirito Santo che di lì a poco gli apostoli avrebbero ricevuto. Con l’ascensione si inaugura lo spazio di testimonianza della chiesa nel mondo, testimonianza che può essere vissuta nella ‘forza dall’alto’ (= battezzati in Spirito Santo). Leggendo insieme i passi del vangelo di Luca e degli Atti, due particolari saltano agli occhi.

Primo particolare. La forza dello Spirito agisce nel nostro cuore rispetto a tre contesti ben precisi e interdipendenti: il riconoscimento della realtà e dell’identità del Risorto, lo stesso che ha patito per noi; l’intelligenza delle Scritture di cui il Risorto mostra il compimento; la missione nel mondo. Quando i discepoli di Emmaus si comunicano la sensazione interiore che li aveva accompagnati nel colloquio con il pellegrino dicono: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava [in greco, letteralmente: ci apriva] le Scritture?”. Identica ‘apertura’ che realizza il Risorto con i discepoli per illustrare il mistero della sua persona: “Allora aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture e disse …”. Aprire le Scritture al cuore e aprire il cuore alle Scritture è far entrare nel regno di Dio, argomento tipico del sostare del Risorto con i suoi discepoli prima di ascendere al cielo. Una volta riconosciuto il Risorto e compreso le Scritture, si apre lo spazio della missione e della testimonianza, perché quell’esperienza è offerta a tutti. Questo significa: “nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati”.

Così l’evento dell’ascensione al cielo di Gesù acquista tutto il suo senso. Il cielo non è il cielo fisico, ma il luogo dove lui abita nella sua santità. E dove può essere percepita la santità se non nel vivere fraterno? Così, la predicazione alle genti non riguarda semplicemente l’annuncio di ciò che Dio ha operato per gli uomini, ma comprende anche il mostrare da parte dei discepoli che tale annuncio si è tradotto per loro in splendore di vita.

Sarà proprio la potenza dello Spirito che permetterà ai discepoli di custodire la gioia di un amore condiviso, capace di attraversare odi e afflizioni senza cedere. La tensione apostolica della testimonianza e della missione, che vive sotto il segno della benedizione che Gesù costituisce per l’umanità, respira di quella gioia e di quell’amore. Il vangelo di Luca termina con l’immagine di Gesù benedicente. Se gli occhi non vedranno più la mano benedicente, sentiranno però nel cuore la potenza di quella benedizione perenne che lui costituisce, sigillo ultimativo della volontà di bene di Dio per l’uomo. Volontà, nella quale si radica tutta la dignità dell’uomo e il suo impegno di responsabilità di fronte al mondo.

Secondo particolare. Gli apostoli hanno come la sensazione che forse è arrivato finalmente il momento della ricostituzione del regno di Israele, il momento cioè dell’immissione nella storia della potenza di Dio che tutto trasforma nel suo regno e non lascia più posto a null’altro: “Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?”. Sono cose che non vi riguardano – risponde però Gesù. A voi basta sapere che ‘avrete forza dallo Spirito Santo … e mi sarete testimoni’. Quello che vi riguarda è che siate agiti dalla potenza dello Spirito Santo per essermi testimoni. Ora è il tempo della testimonianza, il tempo cioè della conoscenza del Figlio dell’uomo, il tempo della fraternità ricostituita nella potenza dall’alto, nella potenza dello Spirito Santo.

Essere allora testimoni del Signore Gesù nel mondo vuol dire partecipare alla testimonianza dello stesso Signore che ha fatto risplendere nel mondo il volto di Dio nel suo amore per gli uomini; vuol dire godere di quella gioia, pace e libertà che il mondo desidera, ma non conosce e di cui invece il Risorto fa dono ai suoi senza che nessuno possa rapirle dai loro cuori. Per questo, anche se gli apostoli non vedono più con i loro occhi il loro amato Signore, non possono che essere pieni di gioia, perché in lui e con lui continuano la rivelazione dell’alleanza di Dio con gli uomini.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo di Pasqua

 

Pentecoste

(23 maggio 2010)

 

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At 2,1-11;  Sal 103;  Rm 8,8-17;  Gv 14,15-26

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Come mai la manifestazione del dono dello Spirito Santo comporta quasi un’esplosione del linguaggio? A cosa alludono le lingue come di fuoco che segnalano il dono dello Spirito? “Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi”.

Nella settimana che precede la festa, la chiesa aveva fatto pregare: “Venga su di noi, o Padre la potenza dello Spirito Santo perché aderiamo pienamente alla tua volontà per testimoniarla con amore di figli” (colletta lunedì) e “Venga, o Padre, il tuo Spirito e ci trasformi interiormente con i suoi doni; crei in noi un cuore nuovo perché possiamo piacere a te e cooperare alla tua volontà” (colletta giovedì). Dunque, l’invocazione allo Spirito Santo è finalizzata all’adesione alla volontà di Dio. E se ci domandiamo quale sia la volontà di Dio, non possiamo che rispondere: la comunione di tutti gli uomini con lui. Come dirà san Paolo: “Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (2Cor 5,20). Questa è appunto l’opera dello Spirito che la preghiera eucaristica condensa nelle parole: ‘dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito’ (III canone).

L’antifona d’ingresso della festa proclama: “Lo Spirito del Signore ha riempito l’universo, egli che tutto unisce, conosce ogni linguaggio”, riprendendo il passo di Sap. 1,7. La lingua dello Spirito è una lingua di comunione e l’invio dello Spirito è per la comunione. È evidente che gli uomini sono tra loro diversi, sono dispersi in ogni angolo e parlano lingue differenti. È un bene o un male? La Scrittura dà del fatto due spiegazioni. Una, positiva: dopo il diluvio Dio ha voluto che gli uomini abitassero la terra secondo la loro diversità (Gen 10); una, negativa: Dio ha condannato gli uomini alla diversità per evitare che si coalizzassero contro di Lui (Gen 11, racconto della torre di Babele). Ci sono due modi per far fronte alla diversità, percepita come una minaccia: o quello di esercitare un dominio da rendere irrilevante la diversità, e questo corrisponde alla volontà dell’uomo, che genera però schiavitù (l’esperimento di Babele comportava la costituzione di un dominio del più forte contro tutti gli altri per assoggettarli e Dio sarebbe stato negato come Padre); o quello di aprire la diversità alla comunione, lasciando alla diversità la sua consistenza e invitando ogni diversità a dare il proprio apporto a un mondo comune (e questo corrisponde alla volontà di Dio, che di tutti è Padre).

Quando, a Pentecoste, compaiono sul capo degli apostoli le lingue, la proclamazione evidente è: l’opera di Dio unisce tutti gli uomini. E l’opera di Dio è la verità del suo amore per gli uomini che in Gesù si è fatto visibile e accessibile. Il miracolo che a Pentecoste acquista una rilevanza fisica, tanto che ognuno sente proclamare l’opera di Dio nella sua lingua nativa (= ogni lingua, ogni uomo, nella sua diversità, è chiamato a proclamare la stessa ed unica cosa), è lo stesso miracolo che è operato nei cuori dallo Spirito quando li convince a muoversi nella carità, aprendo la diversità alla comunione e facendo esperienza che così viene proclamato l’amore di Dio che riempie i cuori. Riconoscere, assecondare, favorire tale dinamica, significa aver ricevuto e agire nella potenza dello Spirito Santo.

L’aspetto singolare per i credenti è dato dal fatto che l’impegno della testimonianza, di cui è fatto loro comando, consiste proprio in questa lingua di comunione. Tanto che, propriamente parlando, la testimonianza non si risolve in un impegno, ma in una sovrabbondanza. Proprio come per Gesù. La ‘verità tutta intera’ che lo Spirito farà conoscere è prima di tutto la verità dello splendore dell’amore di Dio per gli uomini che in Gesù rifulge, ragione per la quale l’unione dei discepoli con il Cristo precede e fonda la carità che sono chiamati a usarsi vicendevolmente. Anzi, quella carità sarà segnale per il mondo perché testimonia la potenza della presenza del Signore nel mondo.

È caratteristico che la settima beatitudine suoni: ‘beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio’ (Mt 5,9), da comprendere insieme all’altra espressione: ‘tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio’ (Rm 8,14). Lo Spirito agisce nei discepoli di Gesù nel senso di renderli come lui, il Figlio di Dio, la cui testimonianza si risolve nel mostrare quanto è grande l’amore di Dio per gli uomini. E come per il Figlio la fonte della sua testimonianza sta nella comunione di vita con il Padre, così nei discepoli la potenza della loro azione deriva dalla intimità di comunione con il Figlio che non si stanca di trascinarli a cercare gli uomini perché godano anch’essi dell’amore del Padre. In questo i discepoli imparano a parlare la lingua della comunione, la lingua dello Spirito.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Solennità e feste

 

Ss. Trinità

(30 maggio 2010)

 

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Pro 8,22-31;  Sal 8;  Rm 5,1-5;  Gv 16,12-15

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L’antifona di ingresso definisce bene la prospettiva nella quale accostare il mistero della Trinità: “Sia benedetto Dio Padre, e l’unigenito Figlio di Dio, e lo Spirito Santo: perché grande è il suo amore per noi”. Se possiamo accedere al mistero di Dio è perché Dio si è rivelato come ‘amore per noi’. È però il Padre che è indicato come amore, di cui il Figlio è rivelatore e testimone e della cui vita d’amore lo Spirito è donatore. Gesù, che pur rappresenta per noi l’espressione stessa dell’amore (“li amò sino alla fine”, Gv 13,1), non si definisce mai come amore, termine che invece è riservato al Padre, come la preghiera stessa della Chiesa sottolinea: “Ti glorifichi, o Dio, la tua Chiesa, contemplando il mistero della tua sapienza con la quale hai creato e ordinato il mondo; tu che nel Figlio ci hai riconciliati e nello Spirito ci hai santificati, fa’ che nella pazienza e nella speranza possiamo giungere alla piena conoscenza di te che sei amore, verità e vita”, dove ‘amore’ fa riferimento al Padre, ‘verità’ al Figlio, ‘vita’ allo Spirito Santo.

Tutto ciò che si può dire del Padre e dello Spirito deriva dal Figlio. Quello che il Figlio, la Sapienza incarnata, la Parola fatta carne, ha rivelato di Dio, è la verità su Dio. Tutte le letture poggiano su questo fondamento. La lettura dei Proverbi illustra il Figlio come Sapienza che ha presieduto alla creazione, che ha dato senso alla storia degli uomini. Non si parla tanto di Dio Creatore, ma della sua Sapienza, con la quale ha creato, nella quale Dio si deliziava e che l’ha indotto a trovare le sue delizie nei figli degli uomini perché quella Sapienza era il Figlio che avrebbe preso carne, si sarebbe fatto uomo. “Io ero con lui” prima di ogni cosa, quando ogni cosa è stata fatta; il che significa che per cogliere il senso di quelle cose che sono state fatte, a Lui occorre rifarsi, perché di Lui parlano. Nulla è al di fuori di quella Sapienza, di quel Figlio. Quando si parla di ‘sapienza’ non si allude soltanto al fatto che il mondo è creato secondo una razionalità, ma più direttamente al fatto del mistero di Dio che trasuda dalle cose. In un certo senso, la storia può essere concepita come l’esercitazione di Dio a stare in compagnia degli uomini perché questa è la sua delizia, come per gli uomini la storia prende senso se vissuta come l’esercitazione a stare in compagnia di Dio. E se l’essenza del mondo è rivelazione dell’umanità, l’essenza dell’umanità è rivelazione di Dio. È ciò che ci ha insegnato la Sapienza incarnata, quel Figlio dell’uomo che è il più bello dei figli degli uomini. Difatti, a Lui dobbiamo la rivelazione suprema di Dio: Dio è Amore. E la rivelazione dell’amore di Dio è lo scopo dell’opera del Figlio nella sua passione-morte-risurrezione.

La seconda lettura, tratta dalla lettera ai Romani, presenta la Sapienza, che è il Cristo, come nostra pace, trasparenza diretta tra creato e Creatore, tra i figli e il Padre, nella ‘speranza della gloria di Dio’, vale a dire nella speranza che lo splendore dell’amore di Dio, rivelatosi nel Figlio e partecipato nel suo Spirito, conquisti tutti, per sempre. Ed è una speranza che non può andare delusa, nonostante le afflizioni e le vicende della storia, perché è tenuta desta dalla verità di quell’amore che ha sanato le radici dell’anima e di cui non esiste bene più prezioso e desiderabile.

Nel brano di vangelo a parlare è sempre la Sapienza, Gesù, che annuncia l’effusione dello Spirito. È da questa effusione che si può conoscere l’amore del Padre, perché ci fa riconoscere il Figlio come l’Inviato di Dio, il Rivelatore del Volto di Dio, che è Amore. Ma sempre a partire dalla stessa ‘Sapienza’. Quello che il Padre possiede Le appartiene; quello che dirà lo Spirito non sarà che la rivelazione di quella Sapienza. Tanto che si può definire così il criterio veritativo dello Spirito: se appartiene allo Spirito di Cristo, è Spirito di Dio. Se invece ci muove uno ‘spirito’ che non è riconducibile o che si oppone allo Spirito di Cristo, è segno sicuro che non proviene da Dio.

Quando la preghiera iniziale definisce Dio come ‘amore, verità e vita’, allude certamente al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, di cui preghiamo di avere piena conoscenza, nella pazienza e nella speranza. Ma tutto procede dalla ‘verità’ del Figlio che, dandoci il Suo Spirito, che è vita (cioè ci comunica quell’amore che non è più rapibile da niente e da nessuno), ci fa conoscere l’amore del Padre. Da parte nostra tutto procede dall’accoglienza del Figlio, perché il Padre che desideriamo conoscere è il Suo Padre, e lo possiamo conoscere nel Suo Spirito. La ‘verità tutta intera’ di cui parla Gesù riferendosi allo Spirito non riguarda tanto la verità nei suoi vari enunciati, ma la verità come comunione con Cristo. Di quanta ‘pazienza’ e di quale ‘speranza’ necessita allora l’uomo per realizzare radicalmente e totalmente nella sua vita quella comunione con Cristo! Ma è a partire da quella comunione che la rivelazione del Padre, del Figlio e dello Spirito costituirà la delizia del nostro cuore.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Solennità e feste

 

Ss. Corpo e Sangue di Cristo

(6 giugno 2010)

 

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Gn 14,18-20;  Sal 109;  1Cor 11,23-26;  Lc 9,11-17

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L’origine di questa festa, propria dell’Occidente latino, va messa in rapporto con il possente risveglio della devozione eucaristica che dal secolo XII in poi si sviluppò, accentuando particolarmente la presenza reale di Cristo nel sacramento e quindi la sua adorazione. Furono le visioni di Giuliana di Cornillon, monaca agostiniana di Liegi, ad avere un influsso decisivo nell’introduzione della festività, che per la prima volta si celebrò nella diocesi di Liegi nel 1247. Urbano IV, già arcidiacono di Liegi e confessore di Giuliana, la prescrisse per tutta la Chiesa nel 1264.

Non credo sia possibile cogliere il senso del mistero dell’Eucarestia senza percepire distintamente e profondamente nel cuore l’eco delle parole di Gesù: “Quanto ho desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima di patire! Alleluia” (antif. ora terza). È il desiderio di Dio che va percepito. Come sempre, in un legame d’amore, ciò che più conta è il desiderio dell’altro per me. Il desiderio di Dio copre tutto lo spazio del mistero, l’attraversa e ne segna la dinamica di cui entrare a far parte.

Nell’inno ai vespri di questa festa si canta: “Frumento di Cristo noi siamo .... In pane trasformaci, o Padre, per il sacramento di pace: un Pane, uno Spirito, un Corpo, la Chiesa una-santa, o Signore”. E Francesco d’Assisi, nel suo commento al Padre Nostro, annuncia: "Il nostro pane quotidiano, il tuo Figlio diletto, il Signore nostro Gesù Cristo, dà a noi oggi: in memoria, comprensione e reverenza dell'amore che egli ebbe per noi e di tutto quello che per noi disse, fece e patì".

La colletta della festa di oggi esprime assai bene il timbro eucaristico di tutta l’esperienza cristiana: “Dio, Padre buono, che ci raduni in festosa assemblea per celebrare il sacramento pasquale del Corpo e Sangue del tuo Figlio, donaci il tuo Spirito, perché nella partecipazione al sommo bene di tutta la Chiesa, la nostra vita diventi un continuo rendimento di grazie, espressione perfetta della lode che sale a te da tutto il creato”. Il mistero dell’eucaristia, dal punto di vista della chiesa che la celebra, si colloca al centro della sua azione e della sua tensione, della sua origine come del suo destino. Più la nostra vita diventa un continuo rendimento di grazie, perché trova il suo senso nella comunione con Dio e con tutti, del cui splendore l’eucaristia è la celebrazione stessa, più il desiderio di vita che ci abita e ci muove trova il suo fondamento e la sua realizzazione nella tensione al convito eterno, di cui l’eucaristia è l’anticipazione. Lo dice la preghiera dopo la comunione, quando chiede che l’intimità di vita con il Signore e l’unità con i fratelli siano godute finalmente in pienezza, senza ombre: “Donaci, o Signore, di godere pienamente della tua vita divina nel convito eterno, che ci hai fatto pregustare in questo sacramento del tuo Corpo e del tuo Sangue”.

Le letture di oggi colgono, del mistero eucaristico, la dimensione sacerdotale (Cristo sacerdote per sempre, nella figura profetica di Melchisedek), la dimensione sacrificale (“Questo è il mio corpo, che è per voi ... Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue ...”), la realtà mistica, prefigurata dal miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Il mistero del Dono di sé da parte di Dio all’uomo costituisce l'oggetto proprio della tradizione della chiesa, come dice san Paolo: "Io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso" (1Cor 11,23). Ha ricevuto e trasmesso il battesimo, nel quale viene confessato il dono di sé fatto da Dio all'uomo in Gesù Cristo e l’Eucaristia, il memoriale della passione e della risurrezione, insieme alla partecipazione attuale, esistenziale, personale, ecclesiale del credente alla Pasqua del Signore.

Accostiamoci ora al racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Anzitutto, il brano è incastonato tra l’invio degli apostoli a evangelizzare e a curare e la confessione dell’identità di Gesù da parte di Pietro. Il brano ha un’evidente connotazione messianica, anticipata dall’invio degli apostoli e seguita dal riconoscimento di Pietro. Siamo nel deserto, luogo di incontro con Dio; è imbandita la mensa del Signore, dove il cibo offerto da Dio è mangiato in sazietà (si veda l’episodio della manna nel deserto in Es 16,12; Sal 78,29; Gv 6); la sovrabbondanza è tale da avanzarne dodici ceste, perché a tutte le nazioni è destinato quel pane (si veda il miracolo di Eliseo in 2Re 4,43-44); la disposizione della gente richiama la disposizione ideale del popolo nel deserto (cfr. Es 18,21.25; 1Mac 3,55). Il racconto comporta pure un’evidente allusione liturgica eucaristica.

Gesù moltiplica i pani e i pesci, ma si lascia provocare dagli apostoli e affida a loro il compito di distribuirli alla gente. La Tradizione ha visto in questa distribuzione ad opera dei discepoli il ruolo dei ministri nella chiesa invitati a spiegare le Scritture come pane spezzato per nutrire l’intelligenza dei fedeli. Ma l’aspetto più misterioso risiede nel fatto che ci può essere intelligenza della Parola di vita solo in questo vicendevole servirsi comandato dal Signore Gesù. È la dimensione della fraternità che diventa il luogo dell’intelligenza della fede. E ciò che si partecipa nella condivisione, come ciò che si impara del mistero, è sempre la stessa cosa: entrare nella comunione con il Figlio di Dio dato per noi, renderci con il Cristo espressione di lode di tutto il creato senza più divisioni. È nel ‘dono di sé’ da parte di Gesù che gli uomini possono riconoscersi uniti e ritrovare l’energia santificante della comunione. In realtà è proprio questo l’aspetto più significativo del mistero dell’Eucaristia: l’Eucaristia fa l’unità, rende corpo unico, rende un cuor solo e un’anima sola. Quando il fedele risponde Amen all’invito del sacerdote: “Corpo di Cristo!” al momento della comunione, il significato è esattamente questo: sì, credo di far parte di quel Corpo e mi impegno a vivere in modo che quel Corpo non sia mai diviso, in modo da non separarmi mai da quel Corpo, in modo da non impedire a nessuno di vedere la bellezza di quel Corpo, in modo da favorire in ogni modo la fraternità in Cristo, perché a Dio sia riconosciuta la sua gloria.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Solennità e feste

 

Ss. Cuore di Gesù

(11 giugno 2010)

 

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Ez 34,11-16;  Sal 22;  Rm 5,5-11;  Lc 15,3-7

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I testi della liturgia di oggi parlano della ‘immensa carità’ del Cuore di Gesù, alludendo evidentemente al ‘cuore trafitto’ che il prefazio (‘dalla ferita del fianco effuse sangue e acqua’) e l’antifona alla comunione (‘un soldato trafisse il costato con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua’) esaltano. I brani delle letture invece illustrano l’amore divino secondo l’immagine del pastore, un pastore che raccoglie le sue pecore, che le conduce in ottime pasture, che le fa riposare, che cura quella malata, che non trascura quella forte, e soprattutto che riconduce in spalla la pecora smarrita. Un bellissimo commento di s. Ambrogio spiega: “Rallegriamoci, dunque, perché quella pecora, che in Adamo era andata perduta, in Cristo è sollevata in alto. Le spalle di Cristo sono le braccia della Croce. Là ho deposto i miei peccati, sul capo di quel nobile patibolo ho trovato riposo… Egli è dunque un pastore ben provvisto, perché tutti noi siamo la centesima parte della sua proprietà. Ma Egli possiede le greggi innumerevoli degli Angeli, possiede quelle degli Arcangeli, delle Dominazioni, delle Potestà, dei Troni e di tutti gli altri che ha lasciato al sicuro sui monti. E poiché sono creature spirituali, non a torto gioiscono per la redenzione degli uomini”.

Il mistero della parabola riguarda non semplicemente l'amore di Dio, ma l'esperienza che fa il nostro cuore dell'amore di Dio. Con le sue parabole Gesù vuol rispondere alle mormorazioni del cuore dell'uomo che non è più capace di onorare i suoi fratelli perché non sa più riconoscere il mistero di Dio, non riesce più a percepire il cuore di Dio. Per noi, in effetti, si tratta solo di 'riconoscere' e 'credere' a questo amore di Dio che viene a cercarci, ad usarci premura, a fare dono di Sé a noi, a perdonarci, noi, la sua gioia! Ma il nostro cuore, irretito nelle illusioni del peccato, è più aspro di quello di Dio; crede di salvare una specie di nobiltà teorica condannandosi, rinchiudendosi in una condanna sfiduciata. Non è che manchino nella vita motivi di sfiducia, ma la vita dell’uomo si gioca proprio nella fiducia a Qualcuno che è riconosciuto come Colui che ‘si perde’ per noi e ci ridà dignità. È vero che Dio può far nascere altri figli perfino dalle pietre, ma è ancora più vero che, per quanto indegni e ribelli, i figli che Dio preferisce sono quelli in carne ed ossa, quelli che siamo, che rimprovera ma di cui continua ad avere premura. Gesù, morto e risorto per noi, è il sigillo ultimativo di quella Volontà e il suo ‘Cuore trafitto’ è l’emblema più suggestivo di quella Volontà di Bene per noi.

L’antifona d’ingresso cantava: “Di generazione in generazione durano i pensieri del suo Cuore, per salvare dalla morte i suoi figli e nutrirli in tempo di fame”, eco del salmo 32 là dove proclama: “Il Signore annulla i disegni delle nazioni, rende vani i progetti dei popoli. Ma il piano del Signore sussiste per sempre, i pensieri del suo cuore per tutte le generazioni”. Il piano del Signore è la determinazione all’amore per l’uomo senza lasciarsi vincere dalla sua diffidenza e dalla sua cattiveria. Il Cuore di Gesù svela questo ‘piano’ e lo rende noto a tutti i cuori, perché è da sempre, ancor prima della fondazione del mondo, anzi, motivo della stessa fondazione del mondo, perché è perenne, definitivo, sempre nuovo, perché risponde al desiderio e alla gioia di Dio e perché risponde al desiderio e al riposo dell’uomo.

La cosa straordinaria è che Dio fonda la sua giustizia nel condividere la sua gioia. “Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7). Ora, tutti i nostri pensieri di autocondanna, di paura, di disprezzo di noi e degli altri, feriscono l'amore di Dio perché gli rendono impossibile la gioia. Ogni autocondanna è una incomprensione di Dio. Ogni condanna, di sé e degli altri, è un'incomprensione profonda del cuore di Dio: come non sapere quello che gli procura gioia? Il buon ladrone che non pretende la misericordia, ma riconosce in pace la sua pena di fronte al Giusto crocifisso e chiede, per grazia, un posto nel regno, è un esempio eloquente della misteriosa convergenza in Dio di giustizia e di misericordia, gioia Sua e gioia della creatura.

Del resto, chi sono i giusti? Nell'interpretazione spirituale dei Padri i novantanove giusti lasciati sui monti sono gli angeli. Ma sono anche coloro che, come gli angeli, adorano e lodano e gioiscono con Dio. Sono cioè coloro che gioiscono con Dio quando un peccatore ritorna, quando un uomo si pente. Di qui il criterio di discernimento della bontà, che ci rende 'sim-patici' di Dio, vale a dire degli stessi sentimenti di Dio: un cuore è buono quando gioisce del bene del fratello. Gioire della virtù di un fratello più che per la propria è segno di un cuore puro, ormai conquistato dalla bontà di Dio. Gioire per un altro rende intimi di Dio. E se l'uomo è invitato a riconoscere come agisce Dio, come 'sente' Dio, è perché è chiamato ad imitarlo. E l'imitazione consiste nell'impegnare la propria carità fino alla gioia, senza pretenderla comunque per sé. Non che la cosa risulti ovvia, ma se il nostro cuore si è sentito trafitto guardando al Cuore trafitto dalla lancia del soldato, allora qualcosa dei segreti di Dio si comunica a noi e proprio questo rende capaci di vivere nello splendore di quella rivelazione.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo Ordinario

 

11a Domenica

(13 giugno 2010)

 

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2Sam 12,7-13;  Sal 31;  Gal 2,16-21;  Lc 7,36-8,3

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Due sono gli episodi narrati nei vangeli a proposito di una unzione di Gesù da parte di una donna. Uno, riportato da Luca, nella casa di un fariseo, per mano di una donna peccatrice che piange sui piedi di Gesù e li asciuga con i suoi capelli e li cosparge di olio profumato insieme ai suoi baci. L’altro, a Betania, poco prima della passione: Matteo e Marco riferendo di una donna che versa sul capo di Gesù un olio profumato in casa di Simone il lebbroso; Giovanni, invece, riferendo di Maria, sorella di Lazzaro, che unge con nardo genuino i piedi di Gesù, suscitando la reazione dei discepoli, che gridano allo spreco.

Fermiamoci sull’episodio narrato da Luca; le sue accentuazioni sono assolutamente particolari. La donna non proferisce parola alcuna; non ne ha bisogno. Il suo cuore grida, come canta l’antifona di ingresso citando il salmo 26: “Ascolta Signore la mia voce: a te io grido. Sei tu il mio aiuto, non respingermi, non abbandonarmi, Dio della mia salvezza”. Lei gode della beatitudine descritta dal salmo responsoriale: “Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato. Beato l’uomo a cui Dio non imputa il delitto e nel cui spirito non è inganno”. I suoi sentimenti profondi riecheggiano nelle parole, sempre del salmo 26, dell’antifona alla comunione: “Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita”.

Ciò che è avvenuto nel cuore di quella donna è ben descritto dalle parole di Paolo: “E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20). La peccatrice perdonata non avrebbe potuto ancora esprimersi così, ma l’esperienza del cuore là la conduce. A tal punto l’amore ha toccato il cuore da non consentirle più di vivere se non dentro quell’amore, come Gesù le testimonia: “La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!”.

Il centro della scena tuttavia non è dato dalle espressioni di amore della donna, pur così tenerissime ed espresse come se il mondo attorno non esistesse nemmeno, tanto era rapito il suo cuore, ma dal comportamento di Gesù che accoglie quelle manifestazioni, le sa leggere svelandone il dinamismo segreto. Il centro è dato dalla grazia dell’amore ricevuto, dall’amore di Gesù che ha toccato e sanato il cuore della donna peccatrice, secondo la verità proclamata dalle parole del canto al vangelo: “Dio ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10). È la scoperta di una vita! Lei ne ha fatto esperienza viva e tutti i suoi gesti, semplici e splendidi, rivelano proprio quell’esperienza.

Gregorio Magno annota che quella donna non poteva avere alcuna vergogna esteriore tanto era assorta nella sua vergogna interiore. Il fariseo non interviene per allontanarla perché non infastidisca l’ospite, in quanto si è reso conto dell’accondiscendenza silenziosa e mite di Gesù verso di lei. Lei non vede nessun altro se non Gesù; anzi, vede solo i suoi piedi, si è rannicchiata ai suoi piedi, piange e asciuga e bacia e unge di profumo i suoi piedi. In quei gesti passa tutta la sua anima; non ha bisogno di alcuna parola, di alcun sguardo: sente il cuore di Gesù come lui sente il suo. La scena è così potente che s. Ambrogio può interpretarla come immagine della Chiesa che risponde all’amore del Cristo. Nell’offerta del suo amore la Chiesa è peccatrice non perché ‘semper reformanda’, ma perché, come Cristo assume l’aspetto del peccatore, così la Chiesa prende la figura della peccatrice: è la Chiesa che ama in quella donna; è la Chiesa che ama in Paolo, che ama in Pietro, che ama nei suoi santi.

Quando Gesù racconta la sua parabola per illustrare al fariseo l’agire di Dio, è come se ricordasse che l’uomo non può dare in cambio a Dio qualcosa per saldare il suo debito. Non può dare nulla, ma il suo amore sì. E l’amore è più grande tanto più grande è la coscienza del proprio debito, perché Dio condona proprio tutto il debito. Tra l’altro, l’episodio sembra rispondere all’accusa verso Gesù che è ‘un beone e un mangione, amico dei pubblicani e dei peccatori’. Sì, si tratta di quel ‘beone e mangione’ ma che conosce i segreti di Dio, che attende i cuori al varco e che svela a tutti la misericordia perdonante di Dio, perché questa è la sua gloria: vedere l’uomo riconciliato con Lui, convinto dal suo amore. L’esperienza appare sicuramente desiderabile, ma non è affatto scontata, tanto è vero che i pensieri del cuore degli uomini sembrano muoversi in altre direzioni. Tutto il racconto del vangelo mostra la difficoltà per gli uomini di accogliere la via di Dio. Ma non esiste un’altra via di Dio; la via è proprio Gesù, perché svela in verità il volto di Dio, dandoci la Sua vita, che è tutta la nostra vita.

Vale la pena di raccogliere ancora un’altra suggestione di s. Ambrogio. Solo l’episodio raccontato da Luca riporta il particolare delle lacrime: “Proprio per questo, forse, Cristo, non ha lavato i propri piedi, affinché noi glieli laviamo con le lacrime. Lacrime benedette, che non soltanto possono lavare la nostra colpa, ma anche bagnare i piedi del Verbo celeste, affinché i suoi passi abbondino dentro di noi”. Le lacrime non parlano soltanto della vergogna del nostro peccato, ma del desiderio di Dio che ha toccato il nostro cuore; parlano della bellezza del nostro cuore che è fatto per Dio e per rispondere al suo amore. Quando il mondo scompare, quando anche l’io non è più ingombrante, allora il cuore sta solo con il suo Signore e sa che può star lì perché il Signore si è fatto solidale con la nostra umanità peccatrice. Ed è per questo che quando ritorna alla vita quotidiana, un cuore siffatto non custodisce semplicemente in sé la grazia dell’incontro, ma si fa memoria vivente di quell’amore misericordioso per il mondo.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo Ordinario

 

12a Domenica

(20 giugno 2010)

 

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Zc 12,10-11;  Sal 62;  Gal 3,6-29;  Lc 9,18-24

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Il mistero della persona di Gesù non viene mai meno. Gesù ne è consapevole. Nonostante tutte le spiegazioni, quel mistero permane nel suo fascino e nella sua insondabilità.

Le folle, chi dicono che io sia?”; “Ma voi, chi dite che io sia?”. Se consideriamo il passo parallelo di Mc 8,31-38, ci accorgiamo che Gesù è in viaggio verso Gerusalemme e sembra giunto il tempo di traghettare i discepoli ad una comprensione più profonda e veritiera della sua persona. Le domande sottendono la stessa problematica di Giovanni Battista: è lui o dobbiamo aspettare un altro? La gente pensa che lui sia stato mandato a preparare la via al Messia (Erode pensava che Gesù fosse il Battista redivivo, i discepoli pensavano che fosse l’Elia che doveva venire o uno dei profeti, come Geremia, il modello profetico più consono alla figura di Gesù), mentre Pietro confessa invece che proprio lui è il Messia che si aspettavano. Gesù prende così sul serio la risposta di Pietro da svelare apertamente il suo futuro di passione, che la liturgia preannuncia con il brano di Zaccaria: “Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a me, colui che hanno trafitto”.

Subito dopo Pietro, che rifiuta questa rivelazione, è rimproverato da Gesù: “Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”. Pietro ha voluto mettersi davanti a Gesù, ma Dio, secondo la testimonianza di Es 33,20-23, si può vedere solo di spalle. Il che significa: solo accettando di camminare per dove Dio indica lo si potrà vedere in verità. E ancora: solo disponendoci a praticare la sua parola si può scoprire la verità della promessa di vita che la sua parola comporta. Solo stando dietro il Maestro si potrà scoprire il Volto di Dio in verità nel suo amore per gli uomini.

Quando Gesù, subito dopo, invita i discepoli a rinnegare se stessi, prendere la croce e seguirlo, non fa che estendere a tutti il rimprovero rivolto a Pietro. Potremmo intendere le cose così. Pietro, nel rimproverare Gesù, aveva probabilmente temuto per sé. Se Gesù, il Messia, avesse dovuto subire tutti quei tormenti, certamente sarebbe svanito il prestigio dell’essere ‘compagno’ del Messia. E allora che ne sarebbe stato di lui? Il ‘rinnegare se stessi’ vale in rapporto al mistero di Dio che in Gesù si fa prossimo agli uomini per la potenza del suo amore tanto da far scaturire la vita proprio là dove gli uomini mai la cercherebbero. Se gli uomini pensano in prospettiva mondana come potranno vedere i segreti di Dio? La rinuncia a ogni prospettiva mondana è la condizione per accogliere il mistero di Gesù che sulla croce rivela lo splendore dell’amore, motivo di ogni rinuncia a qualsiasi cosa che non sia collegabile o derivante da quell’amore. D’altronde qui risiede tutta la dignità della vita. Il portare la croce non si riferisce primariamente alla fatica del vivere, ma alla condizione perché la fatica del vivere risulti fruttuosa: la rinuncia ad ogni prospettiva mondana ci apre alla rivelazione dell’amore di Dio nella nostra vita, amore che possiamo cogliere in tutto il suo splendore proprio nella croce di Gesù. Seguire Gesù significa essere partecipi di questa rivelazione fino a viverla nel concreto della propria vita per dare spazio alla stessa dinamica di amore.

Il testo di Luca, invece, sottolinea la circostanza in cui Gesù pone la domanda ai discepoli: “Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui …”. Come a sottolineare: è da dentro la preghiera che scaturiscono domanda e risposta, perché le domande e le risposte vere non sono curiosità intellettuali ma riguardano la verità di cui ha bisogno il cuore per vivere e solo nella preghiera il cuore può lambire quella verità. Per Gesù, le domande nascono dalla volontà di fedeltà al Padre e nascono nella preghiera perché qui si esprime tutto il contenuto di intimità che quella volontà di fedeltà comporta. Così è per i discepoli, con la differenza che per loro, che non conoscono ancora quella intimità con il Padre, c’è bisogno prima di vedere come prega Gesù, di restare affascinati dalla intensità della sua preghiera, per desiderare a loro volta la stessa cosa. Gesù sa fin troppo bene che dietro allo slancio del cuore non c’è ancora tutta la loro mente, non ci sono ancora tutte le loro energie interiori perché i misteri di Dio hanno bisogno di tempo per conquistare l’uomo, che non si rassegna mai a perdere le sue ‘idee’ di Dio.

Un esempio dell’immensità di orizzonte e quindi della sfida che comporta per l’uomo la verità che viene da Dio ci è riportato dal brano della lettera ai Galati: “Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”. Quale sfida per l’uomo! Eppure quella verità fa parte dei segreti di Dio svelati all’uomo da Gesù. Nell’accogliere quei segreti sperimentiamo l’intensità e la profondità di quell’amicizia con l’uomo che Gesù ci ha offerto da parte di Dio. Tra il desiderio del cuore e l’accoglimento del mistero di Gesù si pone con tutto il suo peso la sfida di Dio che spesso si presenta debole, disprezzato, capace di mettersi nelle mani degli uomini per essere vilipeso e condannato. I comandamenti del Signore, rispetto alla sapienza del mondo che pervade la nostra carne, non hanno spesso quella stessa risonanza, quella per la quale non ci sentiamo attirati, ma come impauriti, respinti?

I discepoli accettano con gioia Gesù, anche se ancora con dubbi, ma faticheranno molto ad accettare la sua passione e morte. Accettare la realtà di Dio non è così agevole per l’uomo, perché l’uomo non ha mai abbandonato la ‘pretesa di bene’ dimenticando che il bene è tale solo se rivela Dio. Così il mistero di Gesù si riflette nel mistero della vita del discepolo di Gesù. Ma se il discepolo, oltre allo slancio del cuore, avrà la pazienza di misurare le sue ‘idee’ fino ad accantonarle pur di accogliere la verità che viene da Gesù, a dispetto di ogni altra aspettativa, allora incomincerà a godere di quella ‘amicizia’ che lo mette a parte dei segreti di Dio. E una volta che si sente custodito in quella offerta di amicizia, non basterà il mondo intero a dissuaderlo, pur sapendo che sarà proprio la ‘debolezza’ di Dio a custodirlo e non la sua forza.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo Ordinario

 

13a Domenica

(27 giugno 2010)

 

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1Re 19,16-21;  Sal 15;  Gal 5,13-18;  Lc 9,51-62

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La necessità di rendere in un buon italiano il testo del vangelo a volte fa perdere le sfumature di riferimento per comprenderne a fondo il senso. È il caso del brano di oggi. Inizia la lunga sezione della salita di Gesù a Gerusalemme dove si compirà la sua passione (9,51-19,28). Le espressioni che usa l’evangelista sono formulazioni solenni, a sottolineare l’importanza del momento e delle decisioni di Gesù. Noi leggiamo: “Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. ... non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme”. Letteralmente il testo suonerebbe: “Mentre si compivano i giorni della sua assunzione (stessa espressione usata sia per la morte sia per l’ascensione di Gesù), indurì il suo volto per incamminarsi verso Gerusalemme e mandò davanti al suo volto degli angeli … non vollero riceverlo, perché il suo volto stava seguendo il cammino verso Gerusalemme”.

Per Gesù è arrivato il momento di dare compimento alla sua missione. Aveva già preannunciato ai discepoli la sua passione; li aveva come consolati con l’evento della trasfigurazione, sapendo che non avrebbero retto allo scandalo della sua condanna; aveva cercato di istruirli sui misteri di Dio che con lui si compivano. Ora è venuto il momento di portare a compimento il disegno di Dio, come non sopportasse più alcuna dilazione. Il racconto di Luca fa risuonare le parole del profeta Isaia: “Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso” (Is 50,7) e quelle del profeta Malachia: “Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, eccolo venire, dice il Signore degli eserciti” (Ml 3,1).

La decisione di Gesù corrisponde al ‘rendere la faccia dura come pietra’, sottolineando sia la realizzazione della parola del profeta che la fedeltà di Gesù al volere del Padre, che così, con quel che avverrà a Gerusalemme, ha voluto mostrare tutto il suo amore agli uomini.

Da dentro quella fedeltà vanno compresi sia il rimprovero a Giacomo e Giovanni sia le condizioni esigite da Gesù per seguirlo. La fedeltà di Gesù è la fedeltà a un amore che non si lascia mai distogliere dal suo obiettivo perché è il segreto di Dio che deve essere rivelato agli uomini: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito” (Gv 3,16). Gesù compie la fedeltà dei profeti, che non potevano ancora conoscere in tutta la sua consistenza quel segreto e rimprovera i discepoli che volevano imitare il profeta Elia (cfr. 2Re 1,10-12). E quando esige dai discepoli certe condizioni per seguirlo, non fa che trasmettere loro il principio della sua stessa fedeltà, che si fa urgenza di annunciare il regno di Dio ormai giunto, cioè urgenza di svelare il suo segreto, il segreto stesso di Dio (perché in questo consiste la missione degli apostoli!). Di fronte alla scoperta di tale segreto, non c’è bene o valore umano che possa prevalere.

La condizione prima è accettare il modello di Gesù che si definisce come Figlio dell’uomo che non ha dove posare il capo. E s. Chiara di Assisi commenta: “Cristo non ha dove posare il capo e quando lo reclinò sul suo petto, fu per rendere l’ultimo respiro” (FF 2864). Come a dire: chi cerca il suo riposo altrove, non segue Cristo; chi cerca il suo riposo prima di dare la sua anima, non segue Cristo; chi cerca il suo riposo nel vivere di quell’annuncio del segreto di Dio è beato, perché partecipa alla stessa fedeltà di Gesù.

Lo ripete il salmo 15 là dove dice: “Il mio Signore sei tu, solo in te è il mio bene”. L’antica versione latina cantava: ‘bonum mihi non est sine te. Nessun presunto bene è bene per me senza di te! Nessun bene è tale se non contribuisce a manifestare quel segreto di Dio, il suo amore agli uomini. È il senso profondo della vita come amore, amore che costituisce il valore di riferimento e di criterio per tutti i beni della vita, il segreto condiviso tra Dio e l’uomo. Se l’amore è esigente, lo è in proporzione della potenza e della qualità di vita che dischiude, nella fedeltà di un agire che non si lascia più distogliere dal perseguirlo sempre e comunque perché tutti ne godano e finalmente ci si possa riposare.

In tale contesto l’esortazione di Paolo ai Galati acquista nuova luce: “Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. ... Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri”. È la libertà frutto dell’amore, che non teme di sottomettersi ai fratelli pur di non essere distolti dalla partecipazione al segreto di Dio. Per questo la colletta ci fa pregare: “O Dio, che ci chiami a celebrare i tuoi santi misteri, sostieni la nostra libertà con la forza e la dolcezza del tuo amore, perché non venga meno la nostra fedeltà a Cristo nel generoso servizio dei fratelli”, dove ‘servizio’ non sta semplicemente per azioni buone ma per atteggiamento del cuore, del cuore di un uomo che ‘ha indurito il suo volto’ per non mancare lo scopo della sua vita.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo Ordinario

 

14a Domenica

(4 luglio 2010)

 

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Is 66,10-14;  Sal 65;  Gal 6,14-18;  Lc 10,1-20

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Il profeta Isaia aveva annunciato la prosperità di Gerusalemme, descrivendo l’invasione di consolazione che l’avrebbe sommersa. Ma di quale consolazione parlava? Quella che annuncia il canto al vangelo: “La pace di Cristo regni nei vostri cuori; la parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza” (Col 3,15.16) e che la missione dei 72 discepoli preannunciava essere l’eredità di tutte le genti. Il numero di 70 o 72 si riferisce appunto al numero delle nazioni secondo la tradizione ebraica di Gn 10 (70 per il testo ebraico, 72 per il testo greco).

Tre sono i passaggi significativi del brano: prima Gesù istruisce i discepoli, poi accoglie la loro gioia a missione compiuta e alla fine (purtroppo questo terzo passaggio manca nella proclamazione liturgica) svela la ragione profonda e della missione e della gioia con la sua preghiera di lode al Padre. Possiamo riprendere i tre passaggi con brevi annotazioni.

Il brano inizia con l’annotazione: ‘dopo questi fatti’, con l’allusione alle condizioni della sequela di Gesù presentate prima. Chi sono quei settantadue discepoli che il Signore invia davanti a sé nel suo cammino verso Gerusalemme? Sono coloro che, avendo incontrato Gesù, al pari di lui, non fanno riposare il loro capo se non nel volere di Dio che cerca la salvezza degli uomini; sono coloro il cui riposo consiste nella pace che portano nel nome del Signore.

Gesù li invia due a due. Come possono annunciare la pace del Regno se non la fanno vedere come compiuta nella loro relazione fraterna? Come possono invitare a condividere insieme a loro la pace del Signore che si fa nostro prossimo se quella pace non è diventata radice di benevolenza tra loro, segno dello splendore di Dio in mezzo a loro?

Gesù li invita a pregare perché Dio non si stanchi di far grazia di sé attraverso coloro che hanno trovato nella pace del vangelo il riposo del loro cuore. Il fatto di far pregare allude ad una rivelazione. Vuol dire che nell’annuncio del vangelo è Dio stesso che si approssima all’uomo e questo è il mistero che, se ha conquistato il cuore degli annunciatori, conquisterà anche quello degli ascoltatori. La tensione dell’annuncio in effetti è proprio quello di vivere in una situazione dove non ci sia bisogno di annuncio perché ormai tutti conoscono il Signore, direttamente, personalmente. Sarà la grazia degli ultimi tempi. Per ora, invece, la tensione si esprime nel rendere capace di annuncio chi a sua volta lo riceve perché a tutti giunga la pace del Signore.

Li invia come agnelli in mezzo ai lupi. Come dicesse: non cercate di imitare i lupi, perché avverrà come per il Figlio dell’Uomo, l’Agnello di Dio, che ha rivelato lo splendore dell’amore di Dio per gli uomini. Stare agnelli comporta la rivelazione di quel mistero d’amore. Ma non temete: la debolezza di Dio è più forte della forza degli uomini.

A missione compiuta, i discepoli tornano pieni di gioia. La letizia è il segnale della partecipazione all’opera di Dio di cui Gesù ci fa corresponsabili. Una prima ragione di gioia sta nella caduta di satana dal cielo. Il che significa: il demonio non ha più un potere superiore all’uomo. Cessa la sudditanza, anche se inizia la lotta, che si può vincere nel nome di colui che l’ha ormai detronizzato con l’annuncio evangelico: “è vicino a voi il regno di Dio”. La forza del nemico sta nell’intimorire, ma a chi non gli presta orecchio non fa alcun danno. Gesù però conferma la loro gioia sulla base del fatto che “i vostri nomi sono scritti nei cieli”. Come a dire: non rallegratevi di aver potuto fare cose straordinarie, impensate e impensabili fino ad ora, ma rallegratevi di godere del segreto di Dio, di stare solidali con il suo sentire, di partecipare alla comunione di conoscenza e amore col Padre. L’annuncio si gioca infatti sulla potenza del contagio della letizia di cui fanno esperienza i discepoli e di cui Gesù svela la vera ragione: i vostri nomi sono scritti nei cieli, avete parte al ‘far grazia di sé all’uomo da parte di Dio’, partecipate al suo amore per gli uomini.

I discepoli impareranno l’estensione e la natura di quella letizia nel seguire il loro Maestro che sta andando a Gerusalemme dove subirà la passione. Lo ricorda s. Paolo nella seconda lettura di oggi quando proclama: “Fratelli, quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). Come a dire: rispetto a quell’amore, rivelato dall’alto e colto nel seguire il Signore Gesù, di cui ho avuto la visione nel guardarlo trafitto in croce, non c’è nulla nel mondo che meriti la preferenza e non c’è nulla in me che può trovare adeguato compimento a partire dal mondo. La letizia evangelica è una letizia esigente.

Ma la vera radice di quella letizia è rivelata da Gesù quando firma la gioia dei discepoli con la sua esultanza: “Ti rendo lode, o Padre ... perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza” (Lc 10,21). È all’intimità di quella rivelazione che il discepolo attinge per fondare le ragioni di un vivere che si strutturano come radici di umanità nuova. E la sua forza sta tutta nella fiducia delle parole di Gesù: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno” (Lc 12,32)! Non è conquista nostra, non attiva meccanismi di rivendicazioni o esibizioni, non comporta grandezze umane che dividono; solo una gratitudine immensa, uno stare solidali con i sentimenti di benevolenza di Dio per tutta l’umanità.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo Ordinario

 

15a Domenica

(11 luglio 2010)

 

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Dt 30,10-14;  Sal 18;  Col 1,15-20;  Lc 10,25-37

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Il brano di vangelo conferma l’affermazione del Deuteronomio: “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. ... Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica”. Cosa significa che la parola del Signore, il suo comandamento, è vicino a noi? Almeno due cose: 1) non è qualcosa di complicato o assurdo o inarrivabile, ma accessibile a noi; 2) è adatto a noi, corrisponde al nostro cuore, nel senso che fa vivere il cuore, ne compie gli aneliti profondi. Ma allora perché facciamo così resistenza al suo comandamento nella nostra vita?

Già il testo del Deuteronomio lo sottolinea: la parola del Signore ti è vicina perché tu la metta in pratica. Vale a dire: il comandamento non rivela il suo segreto se non praticandolo. Non lo puoi praticare se non lo accogli da dentro un’alleanza col tuo Dio, ma non lo puoi comprendere se non praticandolo e così cogliere il gusto di quell’alleanza con Dio che si era prima appena percepita. L’amore di Israele per il suo Dio è un tema tipico del libro del Deuteronomio, assente negli altri libri del Pentateuco. Il brano di oggi chiude praticamente il libro del Deuteronomio e tutto il Pentateuco. Se il vangelo lo riprende è come se riprendesse in sintesi tutta la Legge mostrandone il compimento, come giustamente dimostra di conoscere il dottore della legge che interroga Gesù.

Luca e Matteo pongono la domanda del dottore della legge sotto un’angolatura negativa, mentre Marco sottolinea la sua buona fede. La prima domanda: “Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”, che sia posta con malizia o in buona fede, è comunque una domanda ben posta. Non si può chiedere: che cos’è la vita eterna? La comprensione segue sempre la pratica e la pratica fa riferimento a un’alleanza goduta. La seconda domanda: “E chi è mio prossimo?”, è comunque una domanda posta male. Se tradisce la sua cattiva intenzione, allora significa: non posso mica mettere sullo stesso piano tutti gli uomini, giusti e peccatori, Israele e i pagani! Ma così pensando, l’uomo crede di difendere le sue distinzioni in nome di Dio e si impedisce di conoscere in verità il volto del suo Dio. Se procede dalla sua buona fede, allora significa: perché non gusto ancora quella vita eterna che cerco? Cosa mi manca? E pone la domanda per conoscere in verità il pensiero di Dio. E Gesù narra la parabola del buon samaritano. La conclusione della parabola restituisce al dottore della legge l’ottica giusta, quella di Dio: non si tratta di sapere chi sia o non sia il prossimo meritevole del mio amore, ma di agire da prossimo con chiunque, anche con i nemici o gli avversari. “Va’, e anche tu fa’ così”, come il buon samaritano che si è mosso a compassione vedendo un uomo ferito sulla strada.

Il mistero della parabola però non finisce qui, perché le parabole parlano di Dio e non semplicemente dell’uomo. Il buon samaritano è Gesù, che ha lasciato le 99 pecore (gli angeli) al sicuro ed è venuto a cercare la pecora (l’uomo) perduta. Così, l’agire in compassione fa ereditare la vita eterna perché assimila a Dio, rende simili al Cristo e ne svela al nostro cuore la bellezza. È il mistero di ogni parola di Dio. Non viene pronunciata perché la si capisca, ma perché la si metta in pratica con lo scopo di godere di quella vita che da Dio deriva e tutti ingloba riempiendo il cuore. Davanti alla parola dovremmo domandarci: qual è il mistero che nasconde, di cui diventare partecipi, mettendola in pratica?

Lo rivela il salmo 18 con il proclamare: “La legge del Signore è perfetta, rinfranca l’anima; la testimonianza del Signore è stabile, rende saggio il semplice. I precetti del Signore sono retti, fanno gioire il cuore; il comando del Signore è limpido, illumina gli occhi”. La parola del Signore ristora l’anima, dà gusto all’intelligenza, gioia al cuore e luminosità agli occhi. Come a dire: è la parola del Signore, cioè la vita che deriva da lui, a costituire la fonte del ristoro (pace), del gusto (sapienza, senso), della gioia e della luminosità per i nostri cuori. E tutto questo si sperimenta accettando di condividere l’agire di Dio per gli uomini: farsi prossimo a tutti.

È curioso osservare come la lettera ai Colossesi presenti il Cristo nella sua preminenza quanto alla creazione e quanto alla redenzione: “Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. ... è  piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose ...”. Il che significa conferire alla parola evangelica non tanto la natura di ideale ma quella di radice. In altri termini: se vogliamo conoscere cosa davvero vuole il nostro cuore in profondità non abbiamo che da riferirci alla parola di Gesù; se vogliamo realizzare i desideri profondi che portiamo, la dinamica da seguire per ottenere soddisfazione è quella mostrata dalla parola evangelica. Non sembra affatto scontato riconoscere la cosa, ma beato colui al quale è concesso vedere il mondo sotto questa angolatura.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo Ordinario

 

16a Domenica

(18 luglio 2010)

 

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Gen 18,1-10;  Sal 14;  Col 1,24-28;  Lc 10,38-42

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La lettura della Genesi ed il brano di Luca sono accomunati da un atteggiamento di fondo caratteristico: la sollecitudine. Abramo 'corre' per onorare i suoi ospiti; Marta, presa dalla stessa sollecitudine, è tutta indaffarata nei molti servizi per un'ospitalità degna dell'illustre Ospite, mentre Maria, con lo stesso atteggiamento di sollecitudine anche se in modalità differente dalla sorella, è tutta presa dall'Ospite dal quale non stacca occhi e orecchi. Da dove scaturisce quella sollecitudine? Senza cogliere la radice di quella sollecitudine, difficilmente possiamo avvertire il mistero che questi testi illustrano.

Gesù intesse l’elogio di Maria per rimproverare Marta? Dopo l’intervento della sorella e la risposta di Gesù, Maria avrà continuato a stare ai piedi di Gesù? La finale del brano riporta: “Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta”. Cosa significa: ‘non le sarà tolta’? Semplicemente, che Gesù l’avrebbe lasciata stare ai suoi piedi e non l’avrebbe comunque importunata invitandola ad aiutare la sorella nel servizio? Il vangelo non riporta semplici annotazioni di cronaca quotidiana.

In effetti, il fulcro dell’episodio sta appunto in quel ‘non le sarà tolta’, in quanto rivela la ragione del fatto che la scelta di Maria è migliore (nel testo: ‘Maria ha scelto la parte buona’). L’allusione è al desiderio profondo del cuore dell’uomo che è fatto per Dio e di cui brama vedere il Volto. Ciò che sazia il cuore dell’uomo è la ‘conoscenza’ del suo Dio. L’elogio di Gesù si riferisce ad un tempo in cui sarà Lui stesso a servire i suoi discepoli (cfr. Lc 12,37). Ciò che non verrà mai meno e di cui si potrà godere in assoluto, quello è la parte buona, l’unica cosa necessaria, quello di cui c’è bisogno. In primo piano c’è Dio che viene incontro all’uomo, Dio che compie i desideri dell’uomo, Dio che ristora l’uomo. La figura di Maria ai piedi di Gesù apre a quella visione. Ma quella visione è percepibile se il cuore avverte la natura del suo ‘ascoltare’, tutto teso a godere la verità dell’amore del suo Dio che la nutre e la ristora. Così, la sua figura è figura di ogni discepolo, la figura di ogni lettore/ascoltatore della Parola di Dio.

Quando Gesù fa l’elogio di Maria, rivela la natura vera del servizio di Marta. In effetti, due sono gli aspetti dell'ospitalità: la sollecitudine nel servizio e la intimità con l'ospite. Dei due, la parte migliore è l'intimità, nel senso che è l'intimità la forza e la finalità della sollecitudine, la quale serve a dare concretezza all'intimità. Tutto converge verso l'intimità. Ma la domanda vera per noi può essere: posso godere l'intimità senza aver mostrato la sollecitudine? Volere l'intimità senza essere capace di sollecitudine non suonerebbe forse come una pretesa, come una ricerca interessata, come un privilegio esibito?

Nel rapporto tra le due sorelle, che simboleggiano tutta la chiesa considerata unitariamente nelle sue molteplici manifestazioni di doni e carismi, Maria deve ringraziare Marta: può stare con il Signore senza che il Signore sia privato del dovuto onore; e Marta può ringraziare Maria: può onorare il suo Signore senza che il Signore sia lasciato solo.

In realtà la suddivisione dei ministeri non comporta lo spezzettamento dell'unica cosa necessaria, che resta sempre la medesima per tutti, in tutte le circostanze. Quando gli apostoli hanno scelto di dedicarsi al ministero della parola e di affidare ad altri il servizio delle mense, nel racconto degli Atti degli apostoli, non hanno scelto di fare Maria piuttosto di Marta. L'esempio testimoniale dell'unica cosa necessaria è dato da Stefano, incaricato del servizio delle mense, che aveva il cuore rapito nella visione del suo Signore. L’unica cosa necessaria non è l'opera migliore fra altre; è di altra natura: il possesso di quell'unica cosa necessaria rende 'fruttuosa' ogni opera di servizio. Fruttuosa, vale a dire capace di far sbocciare l'opera eseguita in frutto di intimità. Come a dire, ancora, che il frutto dell'agire bene non è semplicemente la virtù, ma la visione: aprire gli occhi del cuore alla conoscenza del Signore, all'unione con il Signore che davvero ristora il nostro cuore. E se il cuore è ristorato, allora, nel suo servizio ai fratelli, lascerà intravedere 'quanto è buono il Signore', quanto è desiderabile il suo possesso. In realtà, il senso stesso della sollecitudine del servizio consiste nel permettere agli altri di desiderare l’intimità col Signore, che di quel servizio è motivo e scopo.

Quando di Abramo si descrive la sua sollecitudine per gli ospiti, in primo piano non sta la sua virtù, ma la promessa di Dio che viene incontro all’uomo e lo rende degno della sua accondiscendenza. Quello che il testo vuol far vedere è l’accondiscendenza di Dio per il suo servo, capace di tener fede alle sue promesse e di garantire al suo servo la verità della sua conoscenza, per lui e per i suoi discendenti. Le antiche leggende ebraiche non fanno che sottolineare questo aspetto nella fantasia dei particolari del racconto. Abramo è visitato da Dio il terzo giorno dopo la sua circoncisione, segno dell’obbedienza al suo Dio, quando è ancora sofferente. Il caldo era insopportabile perché nessun viandante passasse a disturbare Abramo. Ma la cosa aveva reso Abramo molto triste perché se non capitava nessuno non avrebbe potuto esercitare alcuna ospitalità. Dio stesso decide allora di fargli visita e non vuole che nemmeno si alzi per venirgli incontro perché era sofferente, dicendogli, anzi, che i suoi discendenti, già all’età di quattro o cinque anni, staranno seduti nelle scuole e nelle sinagoghe dove Lui dimorerà. Ma quando arrivano gli angeli in veste di uomini, Abramo supplica il Signore di permettergli di andare loro incontro per offrire ospitalità, preferendola alla compagnia stessa della Sua Presenza. Tutti particolari che rivelano l’estrema accondiscendenza di Dio, percepita come la benedizione perenne sul popolo che da Abramo prende discendenza.

La colletta della liturgia di oggi coglie bene la natura della sollecitudine che fa da radice sia all’agire che all’ascoltare: “Padre sapiente e misericordioso, donaci un cuore umile e mite, per ascoltare la parola del tuo Figlio che risuona ancora nella Chiesa, radunata nel suo nome, e per accoglierlo e servirlo come ospite nella persona dei nostri fratelli”. Poter avere un cuore umile e mite significa poter partecipare all’umanità di quel Figlio che di sé dice: ‘Venite a me voi tutti … che sono mite e umile di cuore’ (cfr. Mt 11,29). E partecipare alla sua umanità significa poter godere dell’intimità del Figlio con il Padre e poter esprimere nel proprio agire tutta l’accondiscendenza di Dio per l’uomo, radice della nostra sollecitudine per i fratelli.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo Ordinario

 

17a Domenica

(25 luglio 2010)

 

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Gen 18,20-32;  Sal 137;  Col 2,12-14;  Lc 11,1-13

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La liturgia ci introduce oggi al mistero della preghiera. Il brano di vangelo inizia con l’annotazione che i discepoli vedono Gesù pregare. Cosa li ha dunque colpiti, cosa ha affascinato i loro cuori nel vedere il loro maestro assorto in preghiera da far nascere in loro una profonda nostalgia:“Signore, insegnaci a pregare”? La risposta di Gesù, con l’insegnamento della preghiera del Padre nostro, è estremamente rivelativa. Se Gesù insegna il Padre nostro, vuol dire che ciò che rendeva singolare la sua preghiera era l’intensità di intimità con quel Padre di cui custodiva i comandamenti, di cui annunciava la prossimità, di cui svelava il volto, di cui mostrava la verità nell’amore all’uomo e di cui suscitava la nostalgia in questo mondo.

La profondità di tale rivelazione è svelata dalla preghiera di intercessione di Abramo. Il brano è introdotto dal pensiero del Signore: “Devo io tenere nascosto ad Abramo quello che sto per fare, mentre Abramo dovrà diventare una nazione grande e potente e in lui si diranno benedette tutte le nazioni della terra?”, secondo la proclamazione del salmo: “Il Signore si confida con chi lo teme: gli fa conoscere la sua alleanza” (Sal 25,14), che nel testo ebraico suona: “Il segreto (o l’intimità) del Signore è per quanti lo temono”. Abramo, che si sente polvere e cenere, può parlare al suo Signore da dentro l’alleanza che gli è stata offerta e alla quale ha aperto il suo cuore in tutta fiducia.

Quando intercede per Sodoma è come osasse richiamare il Signore alla sua dignità di giustizia e di misericordia, come a lui si era rivelato. Abramo sapeva che non erano bastati otto giusti per salvare l’umanità dal diluvio (nell’arca si  salvano  Noè e quelli della sua famiglia, otto in tutto). Nella sua intercessione si ferma dunque a dieci: se ci fossero dieci giusti nella città, come potrà il Signore distruggerla, proprio per riguardo a quei dieci? Ma l’umanità non ha dieci giusti, ne ha uno solo: quel Figlio di Dio fatto uomo, l’unico Giusto. Sarà per riguardo a lui che Dio abbandona la sua giustizia per mostrare la sua misericordia. Ogni preghiera si fa forte presso Dio per la forza di quel Giusto che costringe Dio alla misericordia. Sarà quel Giusto a mostrare il volto di misericordia del Padre.

La tradizione ebraica è unanime nel riconoscere ad Abramo la condivisione dei sentimenti di Dio tanto che sembra che il servo custodisca il senso dell’alleanza in favore di tutti i popoli in modo più sollecito dell’Altissimo. E in questo piace all’Altissimo. E in questo è il padre della fede. Negli antichi racconti su Abramo si fa notare che quando un uomo prega con devozione può star sicuro che la sua preghiera sarà esaudita, perché è detto: “Il desiderio degli umili tu sempre ascolti, Signore, disponi il loro cuore, fai attento il tuo orecchio” (Sal 10,17). Nessuno ha pregato con tale fervore come Abramo: “Lontano da te agire in questo modo, il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lontano da te!”. Quando l’Altissimo vide come intercedeva perché non distruggesse il mondo, lo lodò: “Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è stata versata la grazia” (Sal 45,3).

Quando Gesù insegna la preghiera del Padre nostro, l’allusione concerne la confidenza di Abramo con il suo Dio, concerne il volto di misericordia del Padre per i suoi figli che quel Figlio dell’uomo incarna e rivela. La forza della preghiera dipende dal contesto di confidenza con Dio che fa leva sulla sua misericordia per i suoi figli. Potremmo commentare brevemente le invocazioni del Padre nostro con le indicazioni dei nostri padri: possa il tuo nome essere mantenuto santo in noi, nelle nostre menti e nelle nostre volontà; venga per noi ora quel regno che hai promesso di dare ai tuoi santi: ‘venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo (Mt 25,34); quando chiediamo il nostro pane quotidiano stiamo chiedendo la vita eterna in Cristo e l’essere una cosa sola con il suo corpo. E per sottolineare la confidenza in Dio che ci può liberare dalla tentazione, Gesù racconta la parabola dell’amico importuno.

Nella tradizione cristiana si sottolinea costantemente che ogni nostra richiesta a Dio, se non può essere ricondotta ad una domanda del Padre Nostro, non sarà esaudita. E tutte le richieste confluiscono in una sola, come la conclusione della spiegazione di Gesù mostra chiaramente: “ ... quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!”. Raramente abbiamo coscienza nella nostra preghiera che questa sia la domanda essenziale. Probabilmente, perché non abbiamo né coscienza dell’urgenza che ci agita dentro né della confidenza di cui ci è dato l’accesso.     

L’invadenza dell’amico importuno fa pensare alla mancanza di ritegno della donna cananea (cfr. Mt 15, 28), all’insistenza della vedova presso il giudice disonesto (cfr. Lc 18,1-8). E dire che Dio esaudisce prontamente le suppliche dei suoi eletti, quando la verità della storia è lì a provare il contrario, come tutti ne facciamo amaramente esperienza, significa riconoscere che solo la richiesta di Spirito Santo sarà esaudita. Vale a dire, sarà esaudito l'anelito del cuore che non si accontenta delle cose che provengono da Dio, ma che cerca proprio Dio, la confidenza con lui. Allora, per le cose di cui abbiamo bisogno, prima che di richiesta, si tratta di affidamento. Affidamento, che risalta in tutta la sua potenza nel riferirci a Dio come al Padre, come Gesù ci ha insegnato e rivelato.

La drammaticità della logica della preghiera (ottieni se chiedi, non necessariamente ciò che chiedi) è la drammaticità di una relazione d’amore, espressa proprio dalla preghiera di quel Giusto di cui viene detto: “Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì” (Eb 5,7-8).

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo Ordinario

 

18a Domenica

(1 agosto 2010)

 

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Qo 1,2; 2,21-23;  Sal 94;  Col 3,1-5.9-11;  Lc 12,13-21

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La risposta di Gesù all’uomo che gli chiedeva di usare la sua autorità per ottenere giustizia in una questione di eredità svela l’intenzione nascosta di tante nostre domande: cercare giustizia non è forse un diritto? Ma tale domanda è evangelica? In altri termini: il cuore può trovare davvero soddisfazione? È fin troppo evidente che non si può vivere bene senza giustizia, ma quale giustizia assicura il vivere bene? La riflessione sapienziale della prima lettura, tratta dal libro del Qoelet, lo evidenzia molto bene: tutto è vanità. Vale a dire: è fatica vana cercare nei beni di questo mondo la felicità.

Come sempre, le risposte di Gesù fanno riformulare le domande in modo più pertinente. Che tipo di giudizio Gesù formula? Il suo giudizio non riguarda questo mondo, ma il mondo futuro, che però si gioca in questo mondo, come illustra anche la seconda lettura. L’uomo cerca i beni di questo mondo per vivere bene, ma – ricorda Gesù – il vivere bene non dipende dai beni di questo mondo. La parabola dell’uomo ricco che aveva accumulato molti beni, nel suo significato più immediato, è chiara. Corrisponde al senso di molti altri passi evangelici: che giova all’uomo guadagnare il mondo se poi rovina se stesso o muore? (cfr Lc 9,25). Non si tratta però di scegliere tra la povertà evangelica e la ricchezza, ma tra la cupidigia e la solidarietà: “Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio”. Ecco la domanda meglio posta: come arricchire davanti a Dio? In altre parole: quali beni permangono? Di quali beni va in cerca il nostro cuore?

Sembra che l’uomo non possa evitare questa contraddizione: i beni affascinano, ma non soddisfano; il regno di Dio soddisfa, ma non affascina, almeno come noi ci immaginiamo o vorremmo! La profondità della portata delle parole di Gesù risalta più avanti, nel v. 32: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno”. Contrapposto ai beni sta il Regno. Ma noi siamo ancora nella condizione di percepire la natura dell’offerta di Gesù con il suo parlare della benevolenza del Padre che in lui ci fa gustare il suo Regno? Riusciamo ancora a sognare cosa possa comportare l’invito: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo” (Mt 25, 34)? In effetti, si tratta di una rivelazione singolare, che risalterà ancora di più quando leggeremo domenica prossima il seguito del nostro brano.

La rivelazione di Gesù procede per due passaggi: prima risponde alla folla, poi ai discepoli. Rispondendo alla folla indica come la discriminante per la giustizia in questo mondo risulti dal fatto di stare solidali con l’umanità. Alla domanda: come ci si arricchisce davanti a Dio, la Scrittura dà una risposta univoca: dando al povero (Pr 3,27; Is 58,7). La solidarietà con chi è nel bisogno rende la vita degna di essere vissuta. Allora chi è il ricco? È colui che assomiglia a Gesù: “egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo...” (Fil 2,6-7). Dietro l’ammonizione di Gesù, si nasconde anche questa rivelazione.

Gesù continua poi a spiegarsi con i discepoli e risponde alla domanda: qual è la radice della confidenza nella vita? Sta forse nei beni di questo mondo? No! Sta nell’alleanza con Dio, la cui fruizione permette quel vivere bene che il nostro cuore cerca, a volte troppo affannosamente, solo nei beni di questo mondo. Se prima si sottolineava che i beni vanno condivisi, adesso si sottolinea che il bene vero è l’accoglienza del desiderio di prossimità all’uomo da parte di Dio, che in Gesù si fa manifesta: al Padre è piaciuto dare a voi il regno. Tutte le parole di Gesù sono l’eco di questa rivelazione. Qui si radica quella confidenza capace di aprire la vita, capace di aprirci alla vita, attraversando l’usura del tempo e l’inconsistenza dei beni. Qui si radica l’opposto di quella cupidigia che scardina il cuore dell’uomo e che rende la vita una battaglia persa per la felicità. Cercare prima di tutto il Regno è volere prima di tutto la compagnia di Dio, voler godere la benevolenza di Dio nella nostra vita. Godere la benevolenza porta ad offrirla, a condividerla, a vivere i beni nell’ottica di una benevolenza condivisa. Il segreto? La possibilità di imparare a percepire, nelle parole della voce che dice: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno”, la tenerezza con cui quella voce risuona. Come a dire: il cuore dell’uomo cerca una pienezza che nessuna delle ragioni del mondo soddisfa. Le ragioni del mondo non riescono a dare ragione delle ragioni del cuore. Solo in quella voce quelle ragioni trovano quiete.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo Ordinario

 

19a Domenica

(8 agosto 2010)

 

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Sap 18,3-9;  Sal 32;  Eb 11,1-19;  Lc 12,32-48

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Il brano evangelico di oggi illustra il mistero della grandezza divina del servizio, rivelazione tipicamente evangelica: “Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli”. Proprio come annunciava il profeta Isaia: “Io, il Signore, sono il primo e io stesso sono con gli ultimi” (Is 41,4); come riporta anche Mc 10,45: “Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”; e ancora Lc 22,27: “Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve”. Ecco l’immagine di fondo che l’uomo non avrebbe potuto inventarsi e che riassume invece il senso della persona e dell’agire di Gesù: Dio si mette a servizio e in servizio degli uomini! Si tratta per noi di accogliere la rivelazione dei segreti di Dio, gustarne la potenza e lasciarsene riverberare nell’intimo. L’invito alla vigilanza tende a questo.

In effetti, l’esortazione alla vigilanza, con le parabole che la illustrano, dice assai più di quello che saremmo portati a credere. I beni sono precari, e anche la vita è precaria. Stare vigili significa allora non perdere la coscienza di quella precarietà? Oppure, ancora, significa aspettare con timore l’arrivo del padrone, che comunque verrà e che dovrà ricompensare o castigare i suoi servi a seconda di come si sono comportati? Non c’è nulla di evangelico in questo tipo di vigilanza.

La vigilanza evangelica è in rapporto ad altro. Si tratta di un’esperienza di fede che equivale a un vivere nell’orizzonte di una promessa che ha toccato il cuore. In primo luogo non sta la fatica del vegliare, ma la percezione della fedeltà di Dio alla sua alleanza. Non per nulla la liturgia comincia con l’antifona: “Sii fedele, Signore alla tua alleanza, non dimenticare mai la vita dei tuoi poveri. Sorgi, Signore, difendi la tua causa, non dimenticare le suppliche di coloro che t’invocano”. Si tratta di un vegliare in funzione della percezione del regno di Dio arrivato a noi, in funzione della sua promessa di prossimità all’uomo che si è compiuta e che continuamente si va compiendo. La forza dell’esortazione del vegliare sta tutta nel riportare il cuore a sentire l’alleanza di Dio, a vederla realizzata nel Signore Gesù che diventa il tesoro del cuore perché in lui si concentrano le promesse di Dio e i nostri aneliti. E prima ancora che tradursi in fatica di veglia perché il nostro cuore non si allontani dalla verità percepita, diventa ardore di veglia perché il Signore non dimentichi, perché non abbia timore delle nostre miserie, perché non ci abbandoni, perché si costringa alla fedeltà a quell’amore che ha così fortemente voluto per noi.

Il senso della parabola dell’attesa del padrone quando torna dalle nozze va cercato in quel tipo di vigilanza evangelica. L’immagine non ha nulla di usuale perché non esiste sulla terra padrone che si metta a servire coloro che sono al suo servizio. Non è possibile non pensare al gesto di Gesù di lavare i piedi ai discepoli nell’ultima cena, come non è possibile non riferirsi al versetto di Giovanni “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Quel gesto, quella volontà del Signore nei nostri confronti, è ben sottolineata dal versetto iniziale del brano di oggi: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di dare a voi il Regno”. E corrisponde, nella ricostruzione della vicenda del popolo di Israele che esce dall’Egitto, secondo il libro della Sapienza, all’annotazione: “Quella notte fu preannunciata ai nostri padri, perché avessero coraggio, sapendo bene a quali giuramenti avevano prestato fedeltà”.*

La fede, che diventa  una colonna di fuoco, come guida di un viaggio sconosciuto’, nel viaggio cioè della nostra vita, sta tutta nella percezione di quel “al Padre vostro è piaciuto”. In quella volontà assoluta di benevolenza per l’uomo, volontà manifestata in Gesù, sta il segreto della vigilanza evangelica, come anche della fatica apostolica. Come potremo liberarci dagli affanni e dalle preoccupazioni per i beni di cui abbiamo bisogno per vivere, come potremo vivere in sicurezza una vita assolutamente precaria, come non doverci servire dei fratelli per colmare il vuoto della precarietà che ci attanaglia, se non abbiamo mai percepito quella volontà di benevolenza nei nostri confronti? L’insistenza delle Scritture e della Tradizione quanto al non dimenticare, state attenti, vegliate, trova qui la sua ragion d’essere.

In questa ottica anche un altro particolare del brano evangelico di oggi assume tutta la sua rilevanza. Sembra che le parabole sulla vigilanza si riferiscano a un tempo finale, allorquando il padrone arriverà e non ci saranno più scuse che tengano. In realtà non si tratta di un tempo (il tempo eterno dopo il tempo storico) ma di una dimensione (il tempo eterno che attraversa il tempo storico). Come a dire: il padrone che arriva è l’immagine della rivelazione che si compie quando la vita quotidiana si apre al mistero del regno dei cieli. Non si tratta di un vivere oggi in un certo modo quaggiù per meritarsi di andare domani lassù. Si tratta piuttosto di un’imminenza del Regno che si può rivelare in ogni punto della nostra vita. A questo tende il servizio del padrone riguardo ai suoi servi: lui si rivela al cuore nella sua volontà assoluta di benevolenza per noi, visione che cambia radicalmente l’orizzonte della nostra vita.

A ricordarci che non si tratta, però, di una beatitudine beata, ma angosciosa, lavorata, paziente, sta l’esempio di Abramo riportato nella seconda lettura. È vero che, se Abramo ha potuto vedere solo di lontano i beni promessi, noi possiamo dire di averli conseguiti, avendoli visti realizzati in Gesù. Ma per noi, come per lui, se la promessa è certa, l’attuazione è precaria. Professare che in Gesù le promesse si compiono non significa ancora che si compiono in verità in noi. Non per nulla le parabole sulla vigilanza parlano della responsabilità dell’agire dei discepoli, con l’insidia dell’illusione sempre alle porte, con l’insidia della durezza di cuore rispetto all’attesa del padrone e al trattamento dei fratelli. L’accento però, nell’esperienza evangelica, non è più posto sulla funzionalità dell’agire (faccio bene per avere una ricompensa) ma sulla qualità della vigilanza (sono così desideroso del mio padrone che mi preoccupo di tutti i suoi servi). È l’attesa di Qualcuno, di Qualcuno che si sveli al mio cuore che informa ormai la qualità dell’agire.

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* Secondo la traduzione in lingua corrente: “I nostri antenati già prima furono preavvisati di questa notte memorabile. Sapevano dunque a quali promesse avevano creduto e in piena sicurezza potevano rallegrarsi”.

Secondo la versione CEI 1974: “Quella notte fu preannunziata ai nostri padri perché, sapendo a quali promesse avevano creduto, stessero di buon animo”.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Solennità

 

Assunzione della Beata Vergine Maria

(15 agosto 2010)

 

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Ap 12,1-10;  Sal 44;  1Cor 15,20-26;  Lc 1,39-56

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Nella festa di oggi riguardo alla Madre di Dio proclamiamo che è stata assunta alla gloria celeste nella sua persona, corpo e anima, e dal Signore esaltata come Regina dell’universo, partecipando in modo singolare alla risurrezione del suo Figlio e anticipando quella che sarà la risurrezione di noi tutti. Il nome antico della festa è ‘Dormizione della Vergine’ con l’evidente allusione al mistero del suo transito. Un bellissimo tropario della liturgia bizantina canta: “Nella tua maternità hai conservato la verginità, nella tua dormizione non hai abbandonato il mondo, o Madre di Dio; hai raggiunto la sorgente della Vita, tu che hai concepito il Dio vivente e che con le tue preghiere liberi le nostre anime dalla morte”. E un altro tropario canta: “Tomba e morte non hanno trattenuto la Madre di Dio, sempre desta con la sua intercessione e immutabile speranza con la sua protezione: quale Madre della vita, alla vita l’ha trasferita colui che nel suo grembo semprevergine aveva preso dimora”.

Se cerchiamo di cogliere il mistero della festa di oggi a partire dai brani proclamati, possiamo intravedere in cosa consista la ‘beatitudine’ della Madre di Dio, sempre vergine Maria, fonte di speranza per noi, come dice Dante: “Qui se' a noi meridiana face di caritate, e giuso, intra' mortali, se' di speranza fontana vivace” (Paradiso, canto XXXIII).

Il vangelo della vigilia mette in scena la lode a Gesù di una mamma: «Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!», alla quale Gesù risponde:«Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (Lc 11,27-28). Anche quando, in un’altra circostanza, si avvicinano i suoi parenti e gli annunciano la presenza di sua madre, Gesù esclama: «Mia madre e miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8, 21).

Come a dire: i nomi di cui rallegrarsi sono quelli scritti in cielo, quelli che rivelano il segreto di Dio nel suo amore agli uomini. E quale persona, meglio della Vergine Maria, ha potuto permettere al segreto di Dio di svelarsi in questo mondo dal momento che lei ha accolto la sua parola di amore agli uomini in modo così radicale da farne sostanza della sua vita, espressione della sua carne, così che il mondo sapesse quanto fosse grande l’amore del suo Signore?

Comprendiamo meglio la cosa se colleghiamo la lode di Gesù con quella di Elisabetta che riceve la visita di sua cugina. Elisabetta proclama beata Maria perché ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto. Ascoltare e osservare la Parola non è semplicemente un mettere in pratica quello che Dio dice. È assai di più. Significa permettere alla promessa di Dio racchiusa nella sua parola di compiersi, di rivelarsi finalmente al cuore e al mondo. Significa acconsentire al desiderio di Dio di compiersi, significa fare in modo che il desiderio che Dio ha di incontrare l'uomo finalmente trovi compimento. Ora, da dove deriva la vita all'uomo se non da un incontro d'amore? Sia in senso fisico, un figlio, sia nel senso di procurare vitalità, gioia di vivere, visione di speranza, forza ed energia. Più questo consenso da parte dell'uomo è totale, più la vita che deriva da Dio è fluente e incontenibile. Vince la morte. Per sempre. La Vergine Maria ne è l’esempio luminoso.

Ma ancora un aspetto va sottolineato. Se la lode alla Vergine deriva dalla sua radicalità nell’obbedienza alla Parola, allora anche la sua ‘beatitudine’ ne sarà connotata. Così valgono soprattutto per lei le parole di Gesù: “Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete” (Lc 10,23), “a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli” (Mt 13,11). E vale in special modo per lei la beatitudine delle ‘beatitudini’ perché lei è come l’Unigenito, che è beato perché ha tradotto il desiderio di comunione di Dio con gli uomini in tutta la sua vita, completamente, sotto ogni aspetto. La preghiera del Magnificat della Vergine ricalca, nei movimenti del cuore, la preghiera di Gesù davanti ai discepoli che tornano contenti dopo la loro missione di annuncio: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza» (Lc 10, 21). La Vergine è colei che di quella benevolenza è il testimone per eccellenza, in tutto simile al Figlio sul quale sovrana e piena riposa, come viene proclamato al battesimo nel Giordano e sul monte della trasfigurazione.

Per queste ragioni, sicuri della sua potenza di intercessione, con confidenza possiamo pregarla, con le parole di una delle più antiche preghiere mariane: “Sotto la tua protezione troviamo rifugio, santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta”.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo Ordinario

 

21a Domenica

(22 agosto 2010)

 

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Is 66,18-21;  Sal 116;  Eb 12,5-13;  Lc 13,22-30

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Sembra che il Signore disattenda molte domande degli uomini. Abbiamo ascoltato nel vangelo: “Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?»” (cfr. anche At 1,6; Lc 10,29; Gv 21,21). Il fatto è che facciamo spesso domande inutili, devianti, illusorie. E se Gesù non risponde a domande mal poste, nemmeno noi dobbiamo cercare di comprendere le sue risposte a partire dalle nostre domande mal poste.

Luca aveva appena illustrato la potenza del Regno con le parabole del granello di senape e del lievito. Ora ne mostra l’accessibilità, aperta a tutti ma non scontata, tanto che restiamo stupiti delle immagini ‘dure’ che Gesù usa. Fatichiamo a capire il suo linguaggio. Usa l’immagine della porta stretta, dei pochi che possono oltrepassarla, della severità del padrone (cfr. anche Lc 19,22.27) che si rifiuta di far entrare i ritardatari nella sala del regno, del sovvertimento dei giudizi usuali: “Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi”.

Possiamo lasciarci condurre da due riferimenti che troviamo nella liturgia di oggi. Anzitutto dal canto al vangelo: “Io sono la via, la verità e la vita, dice il Signore; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. Poi dal brano di Isaia, conclusione dell’intero libro, che allude alla riunione dei popoli con l’Israele di Dio. Il profeta parla nel periodo della ricostruzione del tempio (535-520 a.C.) dopo il ritorno da Babilonia sottolineando espressamente che tutti i popoli sono ‘adatti’ alla santità di Dio dal momento che i sacerdoti saranno scelti anche al di fuori della discendenza di Aronne e della discendenza israelitica. In ragione di cosa? Ciò che è gradito a Dio è la docilità e questa vale per tutti, anche per i pagani, come il profeta aveva proclamato: “Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi trema alla mia parola” (Is 66, 2).

L’espressione di Gesù: “Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi” non vuol suggerire che ci sono differenze tra gli eletti né tanto meno ai pochi o ai tanti che si salvano né pretende far sapere chi siano i preferiti. Si riferisce invece al fatto che davanti all’offerta di salvezza da parte di Dio non c’è distinzione di persone; tutti siamo ugualmente destinatari di quell’offerta e guai a chi ritiene di avere un titolo speciale da avanzare perché non verrà riconosciuto. In primo piano, all’inizio della nostra storia come alla fine, davanti a me come davanti a tutti, ora e sempre, è lo sconfinato amore di benevolenza di Dio che vuole che ciascuno e tutti siano salvi. Chi si concepisce in riferimento ad altro si condanna.

L’espressione è anche da mettere in riferimento alla prima risposta di Gesù: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta”. Se è inutile indagare sul numero degli eletti, se non può valere alcun titolo di pretesa o di rivendicazione, l’unica cosa da sapere è per dove passare e ottenere la salvezza.

Lo sforzatevi allude a quello che poi s. Paolo chiamerà il combattimento della fede, a quello che i nostri padri chiameranno la lotta spirituale, la battaglia dello spirito. Senza questa ‘tensione’ interiore non si arriva a nulla, non si porta nulla a compimento. Ma di quale compimento in realtà si tratta? Della nostra ‘nascita dall’alto’, per il dono dello Spirito, fino a poter dire con Paolo: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20). È la nascita al Regno, descritto da Gesù come un banchetto, per sottolineare il mistero della pienezza e dell’intimità dell’amore che hanno conquistato il cuore. L’immagine ha una valenza escatologica, non tanto però per indicare quello che avverrà alla fine dei tempi, ma per mostrare che quella ‘fine’ dei tempi è venuta a visitare il cuore e a far assaporare la densità dei misteri di Dio.

La tensione interiore si rivela in tutta la sua potenza proprio nel punto di passaggio che permette l’accesso al regno. E il punto di passaggio non può essere che lo stesso Signore Gesù. Lui è la porta stretta attraverso la quale dobbiamo passare. È detta stretta perché ha la preferenza di Dio e non nostra, perché esprime la sapienza che viene dall’alto che è contraria alla sapienza del mondo di cui siamo impastati, rivela il sentire di Dio che si oppone al sentire della nostra carne. Ma è una strettezza che prelude al passaggio della vita, proprio come per un bambino il quale, per nascere, deve passare per la porta stretta. E non per nulla in Gesù si parla di nuova nascita perché soltanto a partire di lì scopriamo il nostro essere secondo quell’abbondanza di vita alla quale aneliamo sconfinatamente.

Il luogo di passaggio è indicato anche dal profeta Isaia, sebbene velatamente, là dove dice: “con le loro opere e i loro propositi. Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue”, reso invece, secondo un’altra traduzione: “Io sarò i loro atti e i loro pensieri …”, “Sono io che motiverò i loro atti e i loro pensieri …”, intendendo: quando Dio diventa la fonte di ogni nostro atto e di ogni nostro pensiero, saremo passati attraverso quella porta stretta che conduce al regno della vita. E la strettezza, almeno per il nostro uomo esteriore, è descritta sempre dal profeta come sopra riportavo: “Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi trema alla mia parola” (Is 66,2). Ma scegliere l’umiltà e il cuore contrito significa scegliere il Signore Gesù, che di sé dice: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,28-29).

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo Ordinario

 

22a Domenica

(29 agosto 2010)

 

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Sir 3,19-21.30-31;  Sal 67;  Eb 12,18-24;  Lc 14,1.7-14

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Un invito a pranzo permette a Gesù di aprire orizzonti insospettati per i suoi ospiti. La liturgia fa presagire il clima particolare di quel banchetto introducendo il brano con il canto al vangelo: “Prendete il mio giogo sopra di voi .. e imparate da me, che sono mite e umile di cuore”. L’uditorio in realtà è particolare: sono tutte persone ragguardevoli, persone che - annota l’evangelista – lo stavano ad osservare. E a giudicare dall’intervento di uno di loro, lo stavano ad osservare a cuore aperto. Ciò che Gesù diceva ai suoi ospiti, aveva indotto un commensale a sognare il banchetto messianico: “Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!”, provocando la parabola del banchetto disertato dagli invitati e offerto ai poveri, con la quale Gesù svela il mistero dell’agire di Dio. Purtroppo nella liturgia di oggi manca questo ultimo riferimento, che resta però essenziale per comprendere le parole dette prima: “Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto ... Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici ...” sulla base del principio: “chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”.

La questione potrebbe essere così posta: dove sta il valore dell’umiltà? Perché l’umiltà ottiene quello che la grandezza sogna?

Rispetto all’agire dell’uomo, potremmo domandarci: chi cerca i primi posti, lo fa riguardo all’ospite che l’ha invitato o riguardo agli altri commensali? Evidentemente riguardo ai commensali. Ma così facendo non cerca più l’intimità col padrone di casa che l’ha invitato, motivo vero dell’onore di fronte ai commensali. Così, chi dà un pranzo ai suoi pari, si muove nell’ordine di una qualche grandezza condivisa.

Agendo in tal modo il di più della vita va perso, perché non si coglie quello che è in gioco. Solo l’umiltà fa intravedere la posta in gioco della vita. E l’umiltà non consiste nel farsi piccolo per essere riconosciuto poi (sarebbe una furbizia raffinata!), ma piuttosto nel vedere così grande l’invito alla vita da non sentirsene degno. Non mi faccio piccolo ora per essere esaltato dopo, ma sono piccolo perché troppo grande è il dono ricevuto. Più mi sento piccolo, più vuol dire che colgo la grandezza di colui che mi invita. Quando la vita non è più giocata nel confronto, di nessun tipo, con gli altri o sugli altri, vuol dire che il cuore sta saldo nell’intimità con Colui che gliel’ha data, ne percepisce il mistero e si sente piccolo. A questa piccolezza è aperto il Regno. Di quella piccolezza sono beati coloro che siedono alla mensa di Dio.

Anche il brano del Siracide va letto nello stesso senso: “Quanto più sei grande, tanto più fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore. Molti sono gli uomini orgogliosi e superbi, ma ai miti Dio rivela i suoi segreti”. È il segreto di quella compiacenza di Dio per i poveri ed i peccatori che siamo, svelata da Gesù e presagita da quel commensale, perché davanti a Lui non vale distinzione di persona: vale solo il suo amore per noi, la sua misericordia. Se l’uomo si attarda ancora a considerare la distinzione delle persone, rivendicando per sé o esibendo davanti agli altri titoli particolari di dignità, non ha ancora conosciuto l’intimità dell’amore di Dio e può perfino rifiutare l’offerta di Dio. Chi non conosce l’intimità dell’amore di Dio non può ancora dirsi umile.

La ragione profonda di tale verità risiede nello stesso agire di Dio. La grandezza di Dio si gioca nell’accondiscendenza verso tutti, nell’offrire a tutti la sua mensa senza che alcuno abbia titolo a qualcosa. Se Gesù esorta il suo ospite a invitare poveri, zoppi, storpi e ciechi, è perché Dio fa lo stesso. Davanti a Dio nessuno gode di qualche titolo particolare di rivendicazione, ma tutto dipende dal dono supremo suo, offerto a tutti.

Così la preghiera pressante che scaturisce dalla liturgia di oggi non è quella di apprendere la virtù dell’umiltà, ma di imparare a percepire così intensamente la grandezza del mistero di Dio, che in Gesù si accompagna a noi, da disprezzare ogni altra nostra grandezza. La conseguenza strana, ma salutarmente evangelica, di tale atteggiamento è che meno ci si preoccupa della propria grandezza, più ci sta a cuore la grandezza di tutti. Perché questi è il giusto: colui che sta contento dei doni di Dio a tutti, colui che si rallegra della gioia di Dio per i poveri e i peccatori, ai quali appunto è stato inviato il Salvatore.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo Ordinario

 

23a Domenica

(5 settembre 2010)

 

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Sap 9,13-18;  Sal 89;  Fm 9-17;  Lc 14,25-33

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Gesù affascina ma non inganna. Le parole del brano di oggi sono inequivocabili: “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo”. La liturgia, con la prima lettura e la proclamazione del salmo 89, ci fa chiedere la sapienza del cuore proprio perché non è così agevole coglierla e accoglierla: “Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?”.

Emerge allora la domanda: può l’uomo accogliere le parole di Gesù senza che la sapienza dall’alto abbia raggiunto il suo cuore? Perché la sapienza che viene dall’alto comporta proprio l’apertura del cuore al mistero di quel Figlio di Dio che rivela lo splendore dell’amore del Padre per gli uomini. Se il cuore non intravede quello splendore, tutto risulta sbarrato. Da notare che la sapienza, avendo presieduto alla stessa creazione, conosce i misteri delle creature perché conosce i pensieri di Dio. Così, quando Gesù annuncia la grazia del suo vangelo, non scavalca la natura, ma ne rivela il compimento. Gesù è la verità da parte di Dio (= rivela il vero volto di Dio) e da parte dell’uomo (= conosce il desiderio dell’uomo e ne assicura il compimento). Perché allora il suo parlare, come nel brano di oggi, suona tanto ostico alla nostra natura?

Qui si cela il dramma e la gloria dell’uomo: l’uomo desidera il bene, ma sembra non poter ritrovare in sé il criterio di discernimento del bene. Nessuno, che sia sano di mente, sosterrà che non siano buoni gli affetti familiari (tra l’altro, oggetto di comandamenti precisi!); ma chi può sostenere che gli affetti familiari siano sempre e comunque buoni? “Perché mi interroghi su ciò che è buono? Buono è uno solo” (Mt 19,17) ebbe a dire Gesù. Gli affetti naturali vanno giudicati in rapporto a quella vocazione all’umanità che è il destino della vita, ma la vocazione all’umanità è definita sullo splendore dell’amore di Dio per gli uomini, manifestato in Gesù. Così, quando Gesù parla di preferire l’essere suo discepolo agli affetti naturali, intende rivelare che la radice della vita è nell’amore di Dio che fa da criterio di discernimento a ogni altra cosa. La cosa non è scontata però per il cuore dell’uomo; comporta una specie di ‘morte a se stessi’ per vivere se stessi in modo pieno imparando a servire gli altri, non a servirsi degli altri. Portare la croce significa morire alla logica del mondo che ci fa ricercare noi stessi contro o sugli altri per accedere davvero alla dimensione della fede, diventata radice di vita in Gesù, che si traduce in comunione di sentimenti con Dio nel suo amore per gli uomini. La sapienza che viene dall’alto ci è necessaria continuamente per operare questo passaggio, perché conoscere i pensieri di Dio comporta sempre scoprire le radici della vita. E questo è il motivo per cui la scoperta della sapienza, del tesoro nascosto nel campo, comporta sempre un’intima letizia, letizia che ti abilita a vendere, a lasciare tutto il resto. Chi vive un amore profondo lo sa.

In effetti, il brano di oggi termina con l’affermazione: “Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. Delle tre caratteristiche che contraddistinguono il discepolo di Cristo, questa è la prima; le altre due sono: il discepolo perdona condividendo la gratuità dell’amore misericordioso di Dio e resta fedele nelle prove vivendo nella pazienza la pace sperimentata. Gli averi, beni e affetti, sono tutto ciò che sostenta la vita, però non più vissuti a partire da se stessi, ma nella più totale confidenza con Colui che ne è il Dispensatore. Sottrarre confidenza ai beni significa godere della confidenza nella vita. Non è immediata la costatazione, ma risulta vera: facendo confidenza sui beni, si perde confidenza con la vita; guadagnando confidenza con la vita, si godono i beni. La vita però è quella che Gesù rivela e promette al suo discepolo; è quella che lui stesso vive e comunica al suo discepolo; è quella che proviene dal vivere il compimento della vocazione all’umanità che in lui acquista tutto il suo splendore perché a Dio rimanda e da Dio prende vigore. La sapienza che domandiamo conduce là.

E se è vero che la sapienza fa capolino nel cuore quando ci accorgiamo che non siamo eterni e che passiamo presto, come dice il salmo, può però entrare nel cuore quando risuonano vere per noi le parole: “si manifesti ai tuoi servi la tua opera e il tuo splendore ai loro figli” (Sal 89,16), frase che acquista tutto il suo significato davanti a Gesù, riconosciuto come lo splendore dell’amore del Padre per gli uomini, la vera opera di Dio per noi. Tanto che lasceremo tutto per seguire Gesù nel senso di non voler rivendicare nessun bene che si collochi al di fuori o contro la comunione con lui. Sarebbe il senso delle due parabole dell’uomo che costruisce una torre e del re che non vuole essere sconfitto.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo Ordinario

 

24a Domenica

(12 settembre 2010)

 

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Es 32,7-14;  Sal 50;  1Tm 1,12-17;  Lc 15,1-32

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Oggi viene proclamato il capitolo 15 di Luca, il vangelo della misericordia in parabole. Le parabole della pecorella smarrita e del padre misericordioso che si rallegra del ritorno del figlio prodigo sono forse tra quelle che più hanno segnato l’immaginario interiore cristiano. In esse la coscienza cristiana ha colto qualcosa di potente dell’assoluta verità di Dio.

Le parabole esemplificano la dinamica tipica dell’amore di Dio che si dà pena per i suoi figli, emersa con la lettura dell’Esodo. È vero, come dirà Gesù, che Dio può far nascere figli perfino dalle pietre (cfr. Lc 3,8). Ma è ancora più vero che, per quanto indegni e ribelli, i figli che Dio preferisce sono quelli in carne ed ossa, quelli che siamo, che rimprovera ma di cui continua ad avere premura. Mosè ha interceduto e Dio si è lasciato commuovere. Sembra paradossale che sia Mosè a ricordare a Dio i segreti del Suo cuore! Ebbene, Gesù, morto e risorto per noi, è il sigillo ultimativo di quella Volontà di bene di Dio.

Ciò che le parabole sottolineano, come la ragione convincente per il nostro cuore della fiducia che merita l’amore di Dio, è una cosa sola: la gioia di Dio nel suo essere misericordioso. Gesù non si cura degli angeli (le 99 pecore al sicuro, secondo l’interpretazione dei Padri) ma va in cerca dell’uomo peccatore e la sua gioia sta proprio nella compagnia dell’uomo che ha ritrovato tanto da condividerla con gli angeli. Il padre della parabola esprime la sua gioia nel veder il figlio prodigo ritornare al quale fa festa e nel desiderio di condividerla con il figlio maggiore. Il mistero a cui alludono queste parabole è l’eterno, solidale, amore di Dio per l’uomo, amore che non può non essere amore di misericordia perché l’uomo si è perso. Su quell’amore è costruito l’universo, in quell’amore consiste la gioia di Dio e non in altro.

Come ripete la seconda lettura: “Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io” e proclama il canto al vangelo: “Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo” (2Cor 5,19). La luminosità e il calore che si sprigionano per il cuore dell’uomo quando si rende conto di questa realtà, che in Gesù si fa evidente, derivano appunto dal percepire la gioia di Dio nel suo accogliere e andare incontro all’uomo peccatore. Gesù, che vuole rispondere alle critiche dei farisei sulla sua condotta, con le sue parabole intende svelare il mistero di Dio, il mistero del suo cuore. Ricordo che la parabola della pecora perduta e ritrovata è l’annuncio evangelico della festa del SS. Cuore di Gesù.

Il nostro cuore, invece, irretito nelle illusioni del peccato, è più aspro di quello di Dio; crede di salvare una specie di nobiltà teorica condannandosi, rinchiudendosi in una condanna sfiduciata. Allora è il momento di ricordargli che Dio è più grande e se il cuore lo riconosce esce dalla sua solitudine, si umilia e ritrova speranza, perché può consegnarsi fiducioso a quell'amore di misericordia di cui le tre parabole di oggi illustrano il mistero e la tipica realtà di cui siamo invitati a fare esperienza. Quando allora il nostro cuore cede alle condanne e ai disprezzi, vale la supplica della preghiera dopo la comunione: “La potenza di questo sacramento, o Padre, ci pervada corpo e anima, perché non prevalga in noi il nostro sentimento, ma l’azione del tuo santo Spirito”.

Possiamo aggiungere due costatazioni. La prima. Dio preferisce la sua gioia alla sua giustizia. “Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7). Ora, tutti i nostri pensieri di autocondanna, di paura, di disprezzo di noi e degli altri, feriscono l'amore di Dio perché gli rendono impossibile la gioia. Ogni autocondanna è una incomprensione di Dio. Ogni condanna, di sé e degli altri, è un'incomprensione profonda del cuore di Dio: come non sapere quello che gli procura gioia?

Seconda costatazione. Chi sono i giusti? Nell'interpretazione spirituale dei Padri i novantanove giusti lasciati sui monti sono gli angeli. Ma sono anche coloro che, come gli angeli, adorano e lodano e gioiscono con Dio. Sono cioè coloro che gioiscono con Dio quando un peccatore ritorna, quando un uomo si pente. Di qui il criterio di discernimento della bontà, che ci rende 'sim-patici' di Dio, vale a dire degli stessi sentimenti di Dio: un cuore è buono quando gioisce del bene del fratello. Gioire della virtù di un fratello più che per la propria è segno di un cuore puro, ormai conquistato dalla bontà di Dio. Gioire per un altro rende intimi di Dio.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo Ordinario

 

25a Domenica

(19 settembre 2010)

 

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Am 8,4-7;  Sal 112;  1Tm 2,1-8;  Lc 16,1-13

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Il brano di vangelo odierno, quello dell'amministratore disonesto, lodato dal padrone, sembra a prima vista comportare un messaggio ambiguo. Gesù inviterebbe alla disonestà? Evidentemente, la parabola, raccontata ai discepoli, più volte paragonati nel vangelo ad amministratori, punta ad altro. Ma a che cosa? Fermiamoci sulla lode del padrone: “Il padrone lodò quell' amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza”. La lode verte sul fatto che è stato scaltro, accorto. Sicuramente non si trattava di un amministratore imbecille, se era stato capace di quel comportamento; piuttosto, era stato avido e l’avidità gli aveva fatto perdere il posto. Se paragoniamo questa parabola a quella del possidente straricco (Lc 12,16-21) ci accorgiamo subito della differenza tra i due: il primo è accorto, il secondo stolto; il primo riesce a organizzarsi secondo i suoi interessi, il secondo vaneggia. Per ambedue la domanda decisiva è la medesima: cosa fare? Mentre lo stolto fantastica, l’accorto dispone. La loro azione si gioca in rapporto al futuro: mentre il primo si immagina cosa fare e resta chiuso in se stesso, il secondo sa cosa deve fare e si apre agli altri. Il punto allora è esattamente questo: ‘sapere cosa fare’ in rapporto al futuro.

La parola di Gesù illustra proprio quel ‘saper cosa fare’ in rapporto alla propria vita. In gioco è l’uso dei beni di questo mondo per ottenere vita piena. Il padrone della parabola è Dio che affida i suoi beni a noi come amministratori, ai quali a suo tempo chiederà conto. Se nessuno di noi è proprietario a titolo assoluto dei beni che usa temporaneamente, la prima conseguenza sarà quella di possederli senza che essi possiedano noi. L’avido, che consacra la sua vita ai beni, scava un fossato incolmabile tra lui e la felicità. Volendo però la felicità, l’accortezza consisterà allora nell’invertire la dinamica perversa che si era instaurata: invece di consacrare la vita ai beni, consacrerà i beni alla vita e ciò avverrà nella condivisione con tutti. In particolare, la scaltrezza si giocherà nel fatto che, non potendo rabbonire direttamente il padrone perché il nostro ammanco sarà risultato insolubile, si cercherà di carpire la sua lode con il condonare i debiti ai fratelli. La parabola può essere letta come un’illustrazione della richiesta del Padre Nostro: ‘rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’.

In particolare, l'apostolo è colui che froda il padrone nel suo diritto di giustizia invitando tutti ad entrare nel Regno. L'abilità dell'amministrare sta proprio nel favorire in ogni modo l'entrata nel Regno da parte del maggior numero. La misericordia è il calcolo più intelligente che possiamo fare per noi e per gli altri. Se tu servirai il tuo Signore onorando il tuo fratello, qualora tu dovessi mancare in qualcosa rispetto al tuo Signore, l'onore dato al tuo fratello richiamerà il favore del tuo Signore. Non solo, ma se il tuo fratello mancherà in qualcosa rispetto al suo Signore, l'onore che tu gli avrai portato funzionerà da intercessore per lui perché quell'onore è computato a merito. I meriti davanti a Dio sono energie di intercessione, pungoli all'amore di Dio a riversarsi su di noi.

A questo punto si aprono nuovi livelli di comprensione della parabola, ulteriormente spiegata dalle parole di Gesù sulla distinzione tra ‘vostra’ e ‘altrui’, tra ‘cose importanti’ e ‘cose di poco conto’. Si tratta di ottenere ciò che è nostro con ciò che non è nostro; di ottenere le cose importanti con le cose di poco conto. Tutto ciò che usiamo in questo mondo non è nostro, non ci appartiene; non solo, ma non ha nemmeno importanza seria rispetto a quello che davvero cerchiamo e dunque è calcolato come cosa di poco conto. Eppure, non abbiamo altra possibilità di arrivare a ciò che è nostro se non attraverso le cose non nostre, a patto che le usiamo senza esserne usati, che le condividiamo con tutti e che le godiamo insieme. E che cosa è nostro? Cirillo di Alessandria definisce nostro ‘la santa e mirabile bellezza che Dio forma nelle anime delle persone, rendendole simili a se stesso, in accordo con ciò che eravamo in origine’. Questa è la cosa importante, quella che ci definisce, quella che ci struttura. È nostro l’essere figli dell’Altissimo, è nostra quella somiglianza con il Signore Gesù che è venuto a ristabilire.

Non per nulla il canto al vangelo introduce questa parabola con la citazione di 2Cor 8,9: “Gesù Cristo da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà”, da raccordare all’altro passo di Fil 2,5-8: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”. Condividere i beni con i poveri, stare solidali con l’umanità di tutti significa portare a compimento quella vocazione all’umanità che ci appartiene in proprio come figli dell’Altissimo, resi tali da quel Signore Gesù che ha scelto di stare solidale con gli uomini perché gli uomini potessero tornare a godere della comunione con Dio, il loro vero Bene. Ed è caratteristico che l’espressione di Paolo, riportata dal canto al vangelo, segua l’invito dell’apostolo ai Corinzi a partecipare alla colletta organizzata per la Chiesa di Gerusalemme, non solo perché si stabilisca una certa uguaglianza tra ricchi e poveri, ma soprattutto perché si renda visibile nei frutti della carità la riconciliazione, operata dal Signore Gesù, dell’umanità con Dio, simboleggiata dall’unità nell’unica famiglia di Dio di ebrei e pagani.

Un’ultima osservazione sull’espressione dell’amministratore disonesto lodato. Il suo dire: ‘so che cosa fare’ equivale all’affermazione di Giovanni: “E noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi. Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui” (1Gv 4,16). E si contrappone all’espressione che Gesù indirizza al Padre sulla croce a proposito dei suoi crocifissori: ‘non sanno quello che fanno’ (Lc 23,34).

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo Ordinario

 

26a Domenica

(26 settembre 2010)

 

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Am 6,1-7;  Sal 145;  1Tm 6,11-16;  Lc 16,19-31

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Se ascoltiamo la proclamazione del vangelo di oggi insieme ai versetti 14-18 che lo precedono con l’illustrazione del rapporto Legge/Regno, la parabola si rivela potente sotto un duplice aspetto. A dispetto del contenuto ovvio sull’uso delle ricchezze, la parabola risponde a una duplice domanda di fondo:

 

1) possiamo conoscere il pensiero di Dio? E qual è? 

 

2) in rapporto a che cosa va giocata la vita?

 

Rispetto all’amministratore disonesto lodato dal padrone perché accorto, il ricco della parabola risulta evanescente: non s’avvede di nulla, non decide nulla, non agisce. Il giudizio di Dio che presenta le sorti rovesciate (di qui il ricco gaudente e il povero tribolato, di là il ricco tormentato e il povero consolato) intende proprio far conoscere il pensiero di Dio all’uomo perché questi si muova in conseguenza. La forza del racconto non sta nel deterrente di paura (si usano toni pacati e familiari) ma nello svelamento del segreto della vita di cui Dio è il custode e il dispensatore. La tensione della narrazione mira a svelare l’illusione provocata dalle ricchezze. Come a dire: se il ricco è ricco di beni materiali, dovrà però arricchirsi presso Dio con il condividerli con i poveri, se vuole avere la vita, perché presso Dio la sua ricchezza sarà costituita dai poveri che intercederanno per lui. Il che equivale a dire che la vita si gioca nell’amore e l’amore risulterà dalla dignità di tutti, custodita e favorita con ogni mezzo.

Ma la punta più decisiva della parabola sta nel sottolineare che in gioco è la fede nel Salvatore che convince alla fraternità nella comunione col proprio Dio. In effetti la parabola non si conclude con un’ammonizione a proposito delle ricchezze, ma con l’invito a riconoscere il Figlio dell’uomo, il Salvatore: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”. È l’allusione misteriosa dell’intera parabola. Gesù risusciterà, ma di per sé nemmeno questo sarà convincente per coloro che non sanno vedere l’opera di Dio, l’azione di Dio. Così dar credito alla parola di Dio, alla promessa di Dio celata nella sua parola e compiuta nel Crocifisso-Risorto significa aprirsi al segreto della vita, che si gioca nella fraternità condivisa.

Ci sono due cose da sottolineare a tale proposito.

a) Dio non si può vedere direttamente. A Lui ci si può aprire accogliendo la sua parola e avendo cura del povero. Non basta però condividere i propri beni; occorre anche aver premura del povero, perché è quella premura che rende preziosa e amabile la condivisione, che risulta così essere segno della fede in Dio, che vuole felici i suoi figli.

b) Tutte le parole della Scrittura vanno custodite e accolte, secondo l’invito di Paolo: “ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo”, perché, praticandole, possano svelare al nostro cuore il volto del Signore che si è fatto nostro prossimo, vicino a noi e raggiungibile nel nostro vicino.

Nella parabola ci sono come dei punti nevralgici che ci aprono gli occhi. È sintomatico che il ricco non porti nessun nome, mentre il povero è chiamato Lazzaro, che significa Dio aiuta. Voler avere la vita dalla ricchezza comporta dimenticare Dio e misconoscere il fratello. Il ricco non è presentato come cattivo, ma più semplicemente e più drammaticamente come uno che nemmeno s'accorge del povero tanto vive nella sua illusione. A tale riguardo, la prima lettura del profeta Amos celebra l'intervento di Dio nella storia come il sopraggiungere del disincanto, come la cessazione dell'illusione. Quella classe nobile che sperperava allegramente i beni del popolo senza curarsi del suo bene verrà spazzata via: la potenza assira conquisterà Israele e tutti saranno ridotti in schiavitù.

Lazzaro, nel paradiso, è descritto con l’immagine del banchetto messianico, nel posto d’onore, a fianco di Abramo. La scena corrisponde al banchetto dell’ultima Cena con Gesù e Giovanni al suo fianco che può reclinarsi sul suo petto. È la traduzione in immagine dell’affermazione: gli ultimi sono i primi.

Ma il particolare che, secondo me, è assolutamente rivelativo è la descrizione del ricco negli inferi che ‘alzò gli occhi e vide’. Non aveva mai alzato gli occhi durante la sua vita e perciò non aveva mai visto nulla in verità. L’alzare gli occhi comporta l’accoglienza della salvezza da Dio e se l’uomo fa questo non può non accorgersi del suo fratello. Questo particolare esprime il movimento del cuore che prelude al riconoscimento della verità della vita. Ciò che viene indicato avvenire là negli inferi, nel giudizio della parabola, è proprio quello che siamo invitati ad assumere adesso nella nostra vita.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo Ordinario

 

27a Domenica

(3 ottobre 2010)

 

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Ab 1,2-3; 2,2-4;  Sal 94;  2Tm 1,6-14;  Lc 17,5-10

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Il brano di vangelo ci presenta una serie di insegnamenti di Gesù che a prima vista sembrano assortiti, ma a ben guardare tutti ruotano sulla fede: “Gli apostoli dissero al Signore:«Accresci in noi la fede!»”.  

Il canto al vangelo lo sottolinea con l’affermazione di 1Pt 1,25, ripresa da Is. 40,8: “La parola del Signore rimane in eterno”. Quale parola? La Parola fatta carne, nata-morta-risorta per riconciliare il mondo con Dio. È da dentro tale riconciliazione che trovano senso e potere per il cuore tutte le parole del Signore, parole che portano vita, proprio come dice il profeta Abacuc nella prima lettura: “Soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede”. La situazione del popolo di Israele, sotto la pressione dell’impero caldeo che, distrutta la potenza assira, si abbatte sul Medio Oriente, si era fatta drammatica. L’azione di Dio nella storia diventa incomprensibile tanto era messa alla prova la fede nella sua capacità di salvezza. Ma proprio allora le illusioni umane vengono meno e la fede in lui diventa più radicale e potente.

Quella fede Gesù richiama paragonandola a un minuscolo seme di senape, che ha però la potenza di diventare un albero (cfr. Lc 13,18-19). Ma la richiesta degli apostoli non è una richiesta in generale. La circostanza precisa, a partire dalla quale scaturisce la loro supplica, è data dai versetti precedenti: “Se il tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo; ma se si pentirà, perdonagli. E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo: “Sono pentito”, tu gli perdonerai”.

Così tanto, in modo così nuovo Gesù aveva insistito nella sua predicazione su questo comando divino: “tu gli perdonerai”! Il cuore dell'uomo sa e sente che non può riacquistare l'innocenza perduta se non nel perdono ricevuto e offerto, costantemente. Qui si radica l'esperienza di Dio: ognuno sente che non riuscirà credibile nell'offerta del suo amore se l'Amore del Signore non l’avrà raggiunto, se non gli riverserà in grembo quella tenerezza che non guarda a meriti o a diritti. Nel perdonare si gioca la sincerità dell'aver incontrato Dio e dell'esserci percepiti solidali con i nostri fratelli. La difficoltà risiede proprio nel fatto che non è così semplice ritenerci peccatori, assillati come siamo dalla paura di venire respinti e che non è così facile non aver più paura di Dio.

La domanda di fede degli apostoli va in questa direzione. E la risposta di Gesù non riguarda la quantità della fede, come se importasse poterne avere poca o tanta. Si basa sulla sua natura, sul fatto di averla vitale, viva, proprio come un seme che nasconde l'energia di trasformazione per arrivare ad essere albero. “Se aveste fede quanto un granello di senape” non vuol dire: 'basta che ne abbiate un pochino, grande come un granello di senape', ma piuttosto: 'basta che sia viva come un seme, che pur piccolissimo, poi diventa una grande pianta'. Come sottolinea il salmo responsoriale, il salmo 94, il primo dei salmi che nella tradizione ebraica si canta al ricevimento del sabato, al versetto 7: “Se ascoltaste oggi la sua voce!”. Allora potremmo godere del vero riposo del sabato e vivere la nostra storia, la nostra storia tormentata, nella confidenza della compagnia del nostro Dio. Ciò che ci è richiesto, non è il poco o il tanto, ma la schiettezza, la verità del cuore nella confidenza col suo Dio.

A tale schiettezza si attiene il servo. Quanto è facile cadere nella rivendicazione dei nostri diritti, di quel che è giusto, di quel che ci viene! Atteggiamento più sbagliato non potremmo assumere. Essere servi, nell'esperienza evangelica, significa non aver più bisogno di dimostrare nulla, di esibire nulla, di imporci in nulla perché abbiamo trovato quello che il nostro cuore cerca, cioè l'intimità con Chi ci ha amato e ci muove da dentro ad amare a nostra volta. Il vero servo è proprio Gesù, che nella confidenza più totale con il Padre, serve tutti per conquistare tutti a quella stessa confidenza.

Essere servi inutili significa essere semplicemente servi e nulla di più. Ma il nostro titolo di gloria e di onore sta proprio qui: non voler essere e avere altro che quello che l'amore del Signore ha voluto per noi. La rettitudine del servizio sta esattamente in questo accogliersi nei confronti del Padrone senza perdersi nei confronti con gli altri servi. È l’altra faccia dell’espressione: “il giusto vivrà per la sua fede” e vuol dire: chi non avanza pretese, confida davvero in Dio e non inciamperà nella vita perché non sarà in contesa con gli uomini.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo Ordinario

 

28a Domenica

(10 ottobre 2010)

 

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2Re 5,14-17;  Sal 97;  2Tm 2,8-13;  Lc 17,11-19

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Se in precedenza Luca aveva narrato di altre guarigioni di lebbrosi (cfr. Lc 5,12-14, parallelo a Mc 1,40-45 e a Mt 8,1-4), il brano di oggi sembra come sorvolare sull’evento del miracolo di guarigione per insistere su altro. Lo rivela il colloquio di Gesù con il samaritano lebbroso guarito che è tornato a ringraziarlo e il contesto in cui il brano è collocato. Gesù è in viaggio verso Gerusalemme e ciò che avviene deve essere compreso nell’ottica di quel viaggio, per lo scopo segreto di rivelazione del mistero di Dio che si compirà. Non solo, ma subito dopo il racconto dei dieci lebbrosi segue la domanda dei farisei sul regno di Dio. In gioco è appunto la questione del Regno di Dio che viene. Come non vederlo? Eppure, non sembra così facile vederlo.

In ottemperanza alla legge di Lev 13,46, i dieci lebbrosi si fermano a distanza e gridano al Signore il loro tormento, chiedendo di essere guariti. Il loro dramma non deriva solo dalla malattia che lacera le loro carni, ma anche dal fatto che venivano esclusi dalla comunità, non potevano accedere al tempio per il culto. La lebbra evoca direttamente il destino orribile del peccato che insidia la fraternità, irrigidisce i rapporti, contamina a tal punto il cuore da renderlo inaccessibile al cuore degli altri, separa e opprime, impedisce al volto di Dio di risplendere. La guarigione di un lebbroso da parte di Gesù allude sempre alla purificazione del cuore che torna così a far risplendere i rapporti di comunione e ridà accesso al mistero di Dio. Guarire dalla lebbra vuol dire ricevere la rivelazione che è giunto a noi il regno di Dio, vuol dire che possiamo tornare a non aver paura di Dio e del prossimo. Là appunta lo sguardo il racconto della guarigione dei dieci lebbrosi. Ma come lo fa vedere?

Dieci lebbrosi chiedono di essere guariti. Tutti e dieci sono sinceri e tutti e dieci hanno fiducia in Gesù perché credono alla sua parola e si muovono per andare a presentarsi ai sacerdoti. Lungo il cammino si ritrovano guariti. La loro fiducia è stata premiata. Nove proseguono, uno solo torna indietro per ringraziare Gesù. È qui che il racconto rivela la sua vera portata. Non si tratta del racconto di un miracolo, ma della rivelazione che consegue. I nove che proseguono non si accorgono di quel che è avvenuto in verità. Non hanno sentito in loro la parola del profeta: “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43,19) o, per dirla con il v. 2 del salmo 97, non hanno compreso che “Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza”.

Potremmo spiegare le cose così. Tutti i doni di Dio comportano un'intenzione segreta, un appello al nostro cuore da parte di Dio. Il rimprovero che Gesù fa ai nove lebbrosi rivela la sordità di fronte a questo appello. L'uomo si confonde con il dono che ottiene e si richiude su di sé. È rimasto sordo, non ha visto di cosa si trattava realmente. Quando invece prorompe la gratitudine, il cuore ha percepito l’appello, ha sentito l’intenzione segreta di Dio. L’incontro che segue, quando il samaritano torna da Gesù, fa accedere a una nuova visione (Alzati: ha scoperto che Colui che l’ha guarito nel corpo, l’ha toccato nel cuore e lo rende capace di sentire le cose in modo diverso) e a una nuova condotta (e va’: l’uomo diventa discepolo, tanto che la fede nel Salvatore gli sarà ormai cammino sicuro di umanità, di un’umanità aperta, solidale, trasfigurata).

Gesù, accogliendo il samaritano che torna a ringraziarlo, dice: “Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?”. ‘Rendere gloria’ è un’espressione semita per ‘dire la verità’. Spesso l’uomo dice cose vere, ma senza dire la verità. Oppure, in altri termini, diciamo di essere sinceri, ma spesso non siamo veri. Il fatto è che la sincerità ha a che fare con il dire quello che sentiamo, mentre la verità ha a che fare con quello che siamo. Ringraziare di un dono ricevuto non significa solo esprimere la propria riconoscenza ma prendere atto della benevolenza dell’altro che ci fa sussistere. Dire la verità implica sempre la responsabilità del nostro essere di fronte a Qualcuno. Questo è mancato ai nove che si sono dileguati, mentre è risultato così determinante per la conversione del samaritano.

È allora che Gesù può aggiungere: “La tua fede ti ha salvato”: è il tutto della vita vissuto a partire da un punto, il punto dell’incontro con il Salvatore che irradierà tutta la vita perché sono state toccate le radici del cuore. Se nel racconto del miracolo della guarigione dei lebbrosi venivano usati i verbi purificare, guarire, ora viene usato il verbo salvare, ora si fa riferimento alla fede: l’intenzione segreta di Dio è accolta, la sua azione di salvezza si traduce in percezione di alleanza che riempie il cuore.

La porta d’accesso? Il saper rendere grazie, come lo enuncia il canto al vangelo: “In ogni cosa rendete grazie: questa infatti è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi” (1Ts 5,18). A dire il vero, al rendere grazie Paolo unisce l’essere sempre lieti e il pregare ininterrottamente. Le tre cose insieme segnalano che il cuore ha presagito la presenza del suo Salvatore, che l’ha riconosciuto e al quale volgerà tutto il suo desiderio. A sottolineare la fecondità dell’atteggiamento del saper rendere grazie, i padri del deserto ripetevano che il rendere grazie in tutto solleva da ogni altro obbligo. Potessimo rimanere sempre in quell’atteggiamento, eviteremmo ogni intrusione del male nel nostro cuore.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo Ordinario

 

29a Domenica

(17 ottobre 2010)

 

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Es 17,8-13;  Sal 120;  2Tm 3,14-4,2;  Lc 18,1-8

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La liturgia di oggi risponde a una delle contraddizioni più lancinanti della vita: se Dio è Dio, perché non interviene quando il male devasta il mondo? Il popolo di Israele, provato dalla sete nel deserto, aveva espresso la sua angoscia negli unici termini possibili per dei credenti: “Il Signore è in mezzo a noi sì o no?” ed era seguito il miracolo dell’acqua scaturita dalla roccia che Mosè aveva percossa con il bastone di Dio. Ma subito dopo il popolo corre un altro tremendo pericolo: l’attacco degli Amaleciti. È il nemico che viene a cercarli; non semplicemente che trovano un nemico sulla loro strada. L’angoscia del popolo, questa volta, sembra sparire dietro alla figura di Mosè, ritto sul monte a pregare per la salvezza del popolo e a quella di Giosuè che è mandato a combattere. Il fatto però che Mosè salga sul monte significa che è visibile a tutti, ai combattenti e al popolo che attende angosciato l’esito della battaglia. Tutto il popolo prega con Mosè; tutto il popolo rinnova la sua fede nel Dio di Israele perché un’altra volta il loro Dio li salvi.

I testi salmici di questa liturgia alludono a una situazione drammatica. La vita dell’uomo non è drammatica semplicemente perché continuamente provata da afflizioni e ingiustizie, ma perché nelle afflizioni e nelle ingiustizie subite ci può essere preclusa la visione di Dio. Come a dire: l’aspetto più angoscioso per il cuore dell’uomo è la delusione nei confronti del suo Dio, la perdita di speranza e il tormento di un amore mancato. Il canto di ingresso (Sal 16,6.8) descrive la fiducia in Dio ma nella costatazione che gli empi opprimono il giusto; il salmo responsoriale, il salmo 120, allude alla fiducia in Dio ma nel pericolo di un’invasione (‘alzare gli occhi verso i monti’ allude al possibile alleato assiro contro l’attacco egiziano, aiuto che però si tramuterà in schiavitù e allora il salmista invita a fidarsi di Dio).

Ecco allora il punto: come riconoscere il suo amore? Come fidarsi del suo amore in modo da attraversare le prove senza venir meno nella fede? Non per nulla Gesù parla della pronta risposta di Dio che fa giustizia ai suoi eletti mentre sta salendo a Gerusalemme incontro alla sua ingiusta condanna. La parabola che racconta nasce da due domande precedentemente poste:

1) il regno di Dio si può vedere?

2) il Figlio dell’uomo sarà riconosciuto?

Se il regno di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, vuol dire che si dovrà imparare a percepirlo, a sentirlo. Se il Figlio dell’uomo “è necessario che soffra molto e venga ripudiato”, vale a dire: non si vedrà come ci si aspetta di vederlo, occorrerà imparare a riconoscerlo, a sentirne la presenza, a percepirne bellezza e potenza. Ma come? Con la perseveranza nella preghiera. Lo dice espressamente Luca nell’introdurre la sua parabola del giudice iniquo e della vedova che lo importuna fino ad ottenere giustizia: “Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi”. Il linguaggio è quello di Paolo e si possono citare numerosi passi paralleli: 2Ts 1,11.3,13; Fil 1,4; Col 1,3; Gal 6,9; Ef 3,13.

I discepoli che subiscono persecuzioni per fedeltà a Cristo si chiedono: perché Dio tarda? Certo Dio farà giustizia, ma quando? Dio mi aiuterà contro il peccato, ma perché si deve fare così tanta fatica? Sarà possibile resistere fino alla fine? Ecco, la parabola risponde a queste domande angosciose.

La parabola della vedova che importuna il giudice disonesto richiama quella dell’amico importuno raccontata sempre da Lc 11,5-8. Da notare che quest’ultima è introdotta dall’insegnamento della preghiera del Padre nostro, allorquando i discepoli erano rimasti affascinati dal modo in cui Gesù pregava e gli avevano chiesto di insegnar anche a loro a pregare così. Se poi colleghiamo alla parabola della vedova che assilla il giudice il commento di Gesù a questa sua parabola dell’amico importuno: “Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!” (Lc 11,13), il senso che ne scaturisce è più profondo. Cosa significa per noi dire che Dio “farà loro giustizia prontamente”, quando registriamo con sofferenza come un dato di fatto che il Signore tarda, che non viene quando vorremmo noi (cfr. 2Pt 3,9-11)?

Dio esaudisce prontamente, senza fare aspettare, ogni richiesta di Spirito Santo, vale a dire l’anelito del cuore che non si accontenta delle cose che provengono da Dio, ma che cerca proprio Dio, l’incontro, l’intimità con lui. Quando un discepolo è afflitto dalla fatica di perseguire il bene, quando non riesce a sopportare un’ingiustizia, quando è tormentato da persecuzioni interiori ed esteriori, anche se Dio tarda a rendergli soddisfazione così come se lo immaginerebbe, subito Dio gli concede lo Spirito del suo Figlio perché il suo cuore non si allontani da lui comunque, perché non venga meno l’anelito alla sua compagnia, perché si rafforzi la sua fede, cioè la sua visione di lui. Come dice Gesù alla fine della parabola: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”. Senza quella costante perseveranza nella preghiera la fede non potrà durare.

Perché dobbiamo pregare sempre? Perché il regno di Dio non lo vediamo e perché il Figlio non si manifesta secondo le nostre attese. La perseveranza costante nella preghiera è l’unica porta che ci fa accedere alla visione del Figlio ed al sentore del Regno. Senza dimenticare che un’antica tradizione ebraica rileva nelle braccia alzate di Mosè in preghiera sul monte la solenne benedizione sacerdotale di Nm 6,24-27, benedizione che misticamente fa sussistere il mondo.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo Ordinario

 

30a Domenica

(24 ottobre 2010)

 

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Sir 35,15-17.20-22;  Sal 33;  2Tm 4,6-8.16-18;  Lc 18,9-14

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Con la parabola del fariseo e del pubblicano Gesù illustra un altro aspetto del mistero della preghiera. Nel tempo della storia, stando davanti a Dio, gli uomini non si possono suddividere tra giusti e peccatori, ma necessariamente soltanto tra quanti presumono di ritenersi giusti e quanti si ritengono peccatori. Il giudizio dei cuori spetta a Dio e la parabola illustra proprio la verità di quel giudizio, che rivela la verità essenziale dei cuori.

Non si tratta evidentemente di disprezzare le pratiche buone, tanto più quelle inerenti al culto, che del resto procedono dai comandamenti di Dio, ma di svelare la condizione che rende quelle pratiche gradite a Dio e portatrici di frutto per il cuore dell’uomo.

Il brano del Siracide ci offre indicazioni preziose. Il passo tratta delle offerte al tempio e mette in guardia il credente dal presentare al Signore vittime ingiuste, sottolineando che “il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone (letteralmente: la gloria della persona non è nulla davanti a lui)”. Uno può offrire vittime ingiuste in tre modi: a) praticare il rito dell’offerta materialmente senza impegnare la propria vita convertendosi; b) portare una vittima sottratta al povero, frutto quindi di ingiustizia e oppressione; c) presentare una vittima difettosa. Il Signore, che è giudice, vede i cuori e non si lascia ingannare da nessuna gloria esteriore.

Quando il fariseo proclama la sua giustizia, non dice cose false, ma non è retto il suo cuore, perché interpreta la sua giustizia come una gloria da esibire e Dio, per il quale la gloria delle persone non conta nulla, non può accogliere la sua offerta. Il fariseo offre una vittima difettosa.

Ma la ragione più profonda della non accoglienza della sua preghiera è un’altra. Basta mettere a confronto la preghiera del fariseo con quella che Gesù innalza al Padre al ritorno dei discepoli da una missione di predicazione: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11,25). Almeno tre sono le differenze vistose: la preghiera di Gesù prorompe da un’intimità goduta, esprime solidarietà con Dio e con gli uomini, celebra Dio e non l’uomo. Quella del fariseo è appiattita sull’esteriorità esibita, fa rimarcare la separazione, celebra l’uomo e non Dio. Se nella preghiera di Gesù Dio è benedetto come Padre, in quella del fariseo, la caratteristica che manca, è proprio la proclamazione della sua paternità.

Nella preghiera del Padre Nostro, tutte le richieste sono dirette a Dio, eccetto una : “... come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. A questa richiesta che ci fa Dio rimanda la conclusione della parabola di Gesù: “chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato” (Lc 18,14). Chi è profondamente consapevole del suo peccato e chiede a Dio il perdono, come dice il pubblicano: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”, non ha bisogno di smarcarsi dagli altri, non avverte nemmeno che qualcuno sia in difetto verso di lui. Ed è solo a partire da questa consapevolezza che, risalendo all’indietro nella preghiera del Padre Nostro, chiediamo di nutrirci del Pane di vita, di accogliere, come desiderio e criterio supremo di condotta del cuore, il mistero di benevolenza di Dio per gli uomini, di farci guidare dallo Spirito e di cercarne il regno, di vivere in maniera che il Nome di Dio sia costantemente glorificato ed allora, come Gesù, potremo chiamare Dio Padre. Questo, il fariseo, non lo può fare. Ma se non fa questo, come può essere gradita la sua preghiera? In realtà la preghiera non tende ad altro se non a far sì che sia rivelata al nostro cuore la verità di Dio, cioè che è Padre.

La difficoltà per noi, provati dalla vita, affaticati e oppressi, sta nel fatto che non è così semplice presentarci davanti a Dio in tutta sincerità da peccatori, come fa il pubblicano della parabola. Vorremmo comunque poter esibire qualcosa di buono o rivendicare qualcosa che ci sarebbe dovuto; eppure, così facendo, non conosceremo mai la vera confidenza in Dio. Sembra questa la ragione per la quale Gesù ci invita a fare credito al prossimo per ottenerlo davanti a Dio.

Il movimento della preghiera non è quello di esibire qualcosa per convincere Dio a venire da noi, bensì quello di confidare nella sua offerta di salvezza, nella sua prossimità. Un passo del profeta Isaia lo esprime chiaramente: “Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi trema alla mia parola” (passo, che la versione greca rende con: “Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e sul mite…” (Is 66,2). E non è Gesù colui che di sé dice: “Venite a me … e imparate da me, che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,28-29)? Così, se Gesù è l’offerta di salvezza da parte di Dio, non c’è alcun bisogno di esibire alcunché davanti a Dio; di conseguenza, non c’è più alcun bisogno di separarci dai nostri fratelli, perché possiamo godere insieme la salvezza di Dio. Più un uomo si loda e più piccola è l’immagine di Dio che coltiva; più un uomo si distingue e si separa dagli altri, meno conosce la dolcezza che viene dalla salvezza di Dio.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Solennità e feste

 

Tutti i Santi

(1 novembre 2010)

 

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Ap 7,2-4.9-14;  Sal 23;  1Gv 3,1-3;  Mt 5,1-12

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L’immagine di fondo che caratterizza la liturgia di oggi è quella della comunità umana unita come famiglia di Dio, nella lode e nell’adorazione dell’unico Dio e Salvatore, in una gioia perfettamente condivisa tra gli uomini, gli angeli e Dio stesso. Lo sguardo della Chiesa non è però attirato come da un punto di fuga situato oltre la storia, come si trattasse di riempirsi gli occhi con una visione consolatoria. La sua visione parla di un’esperienza quotidiana, quella tipica della celebrazione eucaristica in cui, nel Corpo di Cristo presente sull’altare, i fedeli si riconoscono membri della comunione dei santi comprendente tutti coloro che, in ogni epoca, hanno creduto e vissuto in Cristo. Parla di realtà ultima, ma vicina, più ‘reale’ delle cose di tutti i giorni: un mondo che interpella e invita con soave insistenza. Parla al cuore degli aneliti che lo assillano, delle radici che lo costituiscono, delle tensioni che lo lavorano, dei desideri che l’abitano.

Penso all’esperienza esaltante degli abitanti di Siena quando l’enorme pala (tre metri per cinque) della Maestà di Duccio da Buoninsegna fu scortata dalla bottega dell’artista alla cattedrale in trionfo, tra gli applausi della cittadinanza e posta sull’altare. La visione di tutti quei santi schierati a destra e a sinistra del trono dove, in Maria, la natura umana viene rivelata come degna dimora dello Spirito, portatrice del Figlio dell’Altissimo, doveva suscitare l’impressione di trovarsi già partecipi della loro compagnia e del loro tripudio. Oggi, forse, non avvertiamo più l’attrazione del cielo allo stesso modo, ma la speranza, di cui era portatrice quell’attrazione, è ancora necessaria per vivere e cogliere il senso della nostra vita.

Per noi, oggi, la comunità dei santi attorno all’Altissimo, riuniti nella stessa lode e nella stessa gioia, fornisce come le coordinate di senso alla responsabilità della vita terrena. Non abbiamo altro modo di sconfinare nell’eterno se non quello di giocare la nostra vita terrena, secondo tutto lo spessore di dignità che comporta. L’immagine chiave di tale dignità è la realtà degli uomini come ‘figli di Dio’: “Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”. Quello che siamo, siamo chiamati a diventarlo: è tutto il senso della vocazione umana. Così, mentre vediamo delinearsi, anche solo per tratti sfumati, la gloria della santità compiuta nel Regno, che la liturgia celebra solennemente, ci accorgiamo che quegli stessi tratti caratterizzano la via per lambire la santità anche qui, nella nostra storia, con il percorso che segue il nostro cuore per arrivare all’evidenza dell’amore di Dio, motivo di purità per il nostro cuore, realtà di pacificazione e di riconciliazione con tutti i nostri fratelli, figli di Dio allo stesso titolo nostro, decisi a non perdere l’amore quando l’afflizione ci opprime. È la santità del Regno che poco a poco conquista il cuore, come l’insieme delle beatitudini mostra:

beati i poveri: beati coloro che non fanno consistere la loro ricchezza che nell’essere figli di Dio, che non hanno nulla di più caro al mondo se non quel Figlio che ha loro manifestato l’amore grande di Dio per l’umanità;

beati gli afflitti: beati coloro che non hanno lacrime più amare di quelle versate quando dovessero allontanarsi dall’agire come figli di Dio e, pentiti, ritornano al loro Signore, ritrovando la consolazione della solidarietà con Dio e con gli uomini;

beati i miti: beati coloro che con pazienza sopporteranno ogni prova per non venir meno al loro essere ed agire come figli di Dio, fin tanto che la terra del loro cuore sarà tutta diventata cielo;

beati quelli che hanno fame e sete della giustizia: beati coloro il cui unico tormento è quello di perseverare nella fedeltà all’essere figli di Dio, fin tanto che il volto di Dio si manifesti al loro cuore e li consoli;

beati i misericordiosi: beati coloro che, avendo sperimentato quanto è grande l’amore di Dio che li ha resi figli suoi, per sua sola misericordia, saranno capaci di estendere a tutti la possibilità di tale esperienza aprendo il loro cuore al perdono;

beati i puri di cuore: beati coloro che avranno sperimentato la luce dell’amore di Dio in modo da collocare i loro cuori nella luce e poter vedere tutto in questa luce;

beati gli operatori di pace: beati coloro che, come figli di Dio, vivono nella dinamica dell’amore di Dio per gli uomini che vuole tutti riconciliati; beati coloro che non hanno altro scopo nel loro vivere se non di perseguire questa pace ottenutaci dal Figlio di Dio;

beati i perseguitati per causa della giustizia: è l’ottava beatitudine, quella che ingloba le altre nel senso che di tutte rappresenta la condizione suprema: qualsiasi cosa abbiate a soffrire, non vi turbi e non vi distolga dalla volontà di vivere da figli di Dio, fiduciosi nella promessa del Signore, nella sua parola che è potente, cioè capace di far vivere quello che indica.

Ci ritroveremo così nel Cristo, nostro ‘ristoro’, come canta il versetto al vangelo. Ma quel ‘ristoro’ allude alla creazione del riposo da parte di Dio nei giorni della creazione e che Dio riverserà in pienezza alla fine dei tempi. Dopo aver creato tutte le cose, il libro della Genesi dice: “Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto” (Gen 2,2). Ma non era più logico attendersi che avesse terminato la sua opera nel sesto giorno? Gli antichi rabbini hanno concluso evidentemente che vi fu un atto di creazione anche il settimo giorno: “Che cosa è stato creato il settimo giorno? La ‘menuchà’, la tranquillità, la serenità, la pace e il riposo” (cfr. Gen Rabbà, 10,9). È lo stato in cui non vi è contesa né lotta, né paura, né diffidenza; è felicità, pace e armonia, vita eterna. Il vangelo lo chiama ‘ristoro’, quello che il Signore Gesù farà gustare: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28).

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo Ordinario

 

32a Domenica

(7 novembre 2010)

 

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2Mac 7, 1-2.9-14;  Sal 16;  2Ts 2,16-3,5;  Lc 20, 27-38

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E non osavano più rivolgergli alcuna domanda” (Lc 20,40): così finisce il brano di vangelo odierno. Gesù è ormai entrato a Gerusalemme; il rapporto con i capi del popolo si è definitivamente rotto. Con la discussione sulla risurrezione futura, che i sadducei, a differenza dei farisei, non ammettevano, si chiude il confronto dei capi con Gesù.

Dio è Dio dei vivi. Il senso di questa verità è illustrato da Origene nel suo commento a Giosuè là dove dice:  Magari venisse concessa anche a me l’eredità di Abramo, Isacco, Giacobbe e divenisse mio il mio Dio allo stesso modo che è diventato Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, in Cristo Gesù, Signore nostro” (Omelia XVIII,3). È l’invito a prendere possesso di una eredità, a diventare coeredi di Cristo (Rm 8,17), Lui il Risorto sul quale la morte non ha più potere; a diventare quelli che siamo: figli della risurrezione.

Nella risposta ai Sadducei, nei passi paralleli di Matteo e Marco, Gesù li apostrofa come coloro che non conoscono le Scritture né conoscono la potenza di Dio. Cita il passo di Es 3,6, dove Dio proclama che conosce le sofferenze del suo popolo e vuole scendere a liberarlo. La nota fondamentale di questa citazione riguarda il nome di Dio che non rinvia mai semplicemente all’essere di Dio, ma al suo essere per noi. Tanto che Dio è sempre ‘Dio di’: Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe. Ma ora, con la venuta di Gesù e con l’imminente mistero della sua morte e risurrezione, Dio oramai sarà il ‘Dio di Gesù’, il Dio che in Gesù ha sigillato il suo amore per noi nel modo più radicale e definitivo. Non solo ha fatto risorgere Gesù, diventato nella confessione di fede il Vivente, ma ha reso accessibile, in Gesù, il dono della sua vita eterna, quella vita sulla quale la morte non ha potere alcuno di mortificazione. Così, confessare la fede nella risurrezione significa contemporaneamente confessare la risurrezione di Gesù e il dono della vita che da lui scaturisce.

La risposta di Gesù ai Sadducei non riguarda semplicemente una verità degli ultimi tempi: i morti risorgeranno. Riguarda la potenza del dono di Dio che rende gli uomini che lo accolgono figli della risurrezione. D’altra parte, chi non accetterà il patire del Figlio dell’uomo, nemmeno accetterà la realtà della risurrezione. In gioco è la potenza della fede che non tollera la prospettiva mondana nel mistero di Dio. Il caso prospettato dai sadducei dei vari mariti e dell’unica moglie nel regno di Dio nasconde l’incapacità di comprensione del dono di Dio. Ogni proiezione mondana impedisce l’accoglienza del dono di Dio. Vale per la risurrezione come per ogni altra verità del mistero di Dio che in Gesù si rivela.

Per declinare in modo a noi accessibile la realtà della definizione di Gesù dei beati come figli della risurrezione, potremmo collegarla alla beatitudine: “beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5,9). Gesù dice che i figli della risurrezione sono i figli di Dio. Allora i figli della risurrezione sono gli operatori di pace: chi vive nella pace e nella concordia, quella che Gesù ci ha ottenuto con il dono del suo Spirito e che Paolo illustra in Ef 4,32 dicendo: ‘Dio ha perdonato a voi in Cristo’, espressione che secondo il verbo greco dovrebbe essere resa con ‘Dio ha fatto grazia di sé a voi in Cristo’. Un’esperienza profonda del suo perdono, di questo suo far grazia di sé a me, che rende capace me, a mia volta, di fare grazia di me a tutti nel suo amore, in fraternità. Questa è proprio l'opera del suo Spirito, quello che sulla croce Gesù ha reso al Padre perché venisse effuso su di noi. Lo stesso Spirito che invochiamo nella preghiera eucaristica perché ci renda un unico corpo e uno spirito solo, finché alla fine Dio sia tutto in tutti. Figli di Dio sono allora coloro che lo Spirito governa, coloro che si muovono sotto l'azione dello Spirito e l'unica perfezione desiderabile per l'uomo è appunto quella di lasciarsi penetrare fin nelle midolla da questo far grazia di sé da parte di Dio agli uomini, in Cristo, per la potenza del suo Spirito. Come dice stupendamente s. Francesco, sintesi dell’intera Tradizione: “ciò che devono desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”.

Vuol dire allora che la vita vissuta nel segno del far grazia di sé a noi in Cristo e del far grazia di noi a tutti in Cristo, è la vita non toccata dalla morte, non più toccata dal veleno della divisione e della separazione. E se il peccato porta la morte, vuol dire che il peccato non è che la resistenza, l'ostacolo, a vivere in radicalità la fraternità operata dallo Spirito, ostacolo che ci vela il volto di Dio e ci impedisce di conoscerlo come Padre. La morte è la rinuncia a questa proprietà di relazione con Dio, realtà misteriosa di cui anche gli affetti che si vivono in questo mondo sono allusivi. Una volta che la verità risplenderà in tutta la sua bellezza non ci sarà più bisogno di far valere le modalità allusive.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo Ordinario

 

33a Domenica

(14 novembre 2010)

 

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Ml 3,19-20;  Sal 97;  2Ts 3,7-12;  Lc 21,5-19

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L’anno liturgico volge al termine e la Chiesa si confronta con gli eventi della fine. La passione di Gesù è imminente e le sue parole alludono al giudizio di Dio sulla storia, giudizio che viene dalla croce: l’amore di Dio si è manifestato, venga meno ogni boria umana. In una visione volutamente complessa, secondo lo stile apocalittico della tradizione ebraica, si intersecano annunci di eventi storici drammatici come la distruzione del tempio e della città di Gerusalemme (probabilmente Luca ha conosciuto la tragedia del 70 d.C.) insieme ad allusioni catastrofiche riguardo alla fine della storia e del mondo, inserite però in un contesto di senso preciso: il dramma della storia fino alla sua fine si gioca per la testimonianza (“Avrete allora occasione di dare testimonianza”). Comprendere di che testimonianza si tratta significa trovare il senso della nostra vita.

L’aspetto curioso di questo brano lucano è il contrasto tra i terrori annunciati e la fiducia inculcata, aspetto che la liturgia si premura di sottolineare. L’antifona d’ingresso canta con il profeta Geremia: “Io ho progetti di pace e non di sventura” (Ger 29,11); l’antica colletta: “Il tuo aiuto, Signore, ci renda sempre lieti nel tuo servizio, perché solo nella dedizione a te, fonte di ogni bene, possiamo avere felicità piena e duratura”; l’antifona alla comunione: “Il mio bene è stare vicino a Dio, nel Signore Dio riporre la mia speranza”.

Lungo tutto il cap. 21, Gesù mette in guardia contro il pericolo di seduzione sempre in agguato: “Badate di non lasciarvi ingannare”, “State attenti a voi stessi”, “Vegliate in ogni momento”. La fedeltà al segreto di Dio svelato nel giudizio della croce non è un viaggio in carrozza per nessuno, per cui è necessaria una estrema vigilanza. Ciò che Luca ricordava a proposito della preghiera (‘necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai’, Lc 18,1), ora lo ricorda a proposito della responsabilità dei servi che attendono l’arrivo del padrone (‘Vegliate in ogni momento, pregando’, Lc 21,36). Nella vita è in atto qualcosa di grande che ci riguarda e che può costituire anche per noi, come per la Vergine, gli apostoli, Paolo, il segreto della vita. Là Gesù indirizza la nostra attenzione. Non si tratta però di attendere l’eterno dopo il tempo, ma di accogliere l’eterno nel tempo.

Il senso del brano evangelico non è che un’introduzione al mistero della fedeltà dei credenti, fedeltà che nasce da una sapienza goduta e che si gioca in una vigilanza capace di attraversare le prove e i tormenti della storia. La storia è piena di tormenti, i tormenti però non sono per la morte, ma perché si svelino i segreti di Dio. Assai istruttiva a tal riguardo è la prima lettura tratta dal profeta Malachia. Il testo di Malachia, secondo la suddivisione dei libri nella Bibbia accolta nella tradizione cristiana, è l’ultimo libro dell’Antico Testamento, quello che fa da cerniera con i vangeli. Il profeta parla del giorno rovente del Signore, ma nell’ottica della salvezza di coloro che hanno fatto memoria della parola del Signore. Sarà proprio la conversione a Gesù a introdurre negli eventi della fine, intendendo: se in lui è sigillata l’alleanza di Dio godibile per l’uomo, allora il segreto da condividere non è che quell’immenso amore svelato nel Cristo che nulla e nessuno potrà rapire. Lo scenario delineato, l’unico possibile rispetto alla potenza dell’amore che dal Cristo deriva e che diventa la nostra ragione di vita finché tutto e tutti possano goderlo, non resta che quello del martirio, cioè della testimonianza. Fatto, che anche le cronache quotidiane di questi ultimi anni ci rammentano con evidenza a proposito dei nostri fratelli di fede in certe parti del mondo. D’altra parte, il dire ‘finché tutto e tutti possano goderlo’ significa accettare ogni forma di avversità e tormento nell’ottica di vivere la potenza di quell’amore comunque. Significa vivere quell’amore fino alla fine, vale a dire fino a che il segreto che comporta si sveli in tutta la sua potenza, per me come per tutti.

È chiaro allora che la perseveranza a cui Gesù ci invita (“Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita”) non allude a uno sforzo di tenacia ma a una verità di esperienza: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20), le parole conclusive del vangelo. Perseveranza va coniugata con presenza del Risorto. In effetti, nell’ascolto del nostro brano odierno, non saremo tanto colpiti dalle predizioni dei tormenti, ma dalla fiducia che ci deriva dall’attraversarli in compagnia di Colui che abbiamo conosciuto essere l’Inviato di Dio, il Figlio di Dio, nato-morto-risorto per noi, come sottolinea all’evidenza l’espressione paradossale: “Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto”.

In gioco, nella storia, è appunto la fedeltà a Colui che il nostro cuore ha scoperto essere il sigillo della misericordia di Dio per noi, a Colui che per noi è diventato radice di vita e di sentimenti a tal punto da farci conoscere contemporaneamente il riposo e l’angoscia dell’amore, non potendo tollerare che nessuno ne resti privo per causa nostra. Tanto che il modo più sicuro di vivere del riposo dell’amore è quello di non rifiutarlo a nessuno. Con questa tensione dell’amore ha a che fare la perseveranza, che non è semplicemente la durata nel tempo, ma la tenuta di qualità dell’amore nel tempo e nelle prove.

‘Perseverare fino alla fine’ (cfr. Mt 10,22) non riguarda semplicemente la fine della vita, ma finché il fine della vita non si sveli pienamente al cuore, vale a dire finché non compare al cuore il volto misericordioso del Signore. Così, perseveranza o pazienza ha sempre a che vedere con la presenza del Signore, generatore di letizia, accanto a noi, pur nelle prove. È tale presenza che salva le nostre vite, che ci impedisce di intristire e di fallire nella realizzazione della nostra vocazione all’umanità. Se nemmeno un capello del nostro capo andrà perduto, non è per invitarci alla speranza, vanesia, che i tormenti non ci toccheranno, ma, al contrario, che nemmeno i tormenti ci ruberanno la confidenza ottenuta e non ci muoveranno ad agire contro il suo amore, come del resto è stato per lui, che non ha agito contro di noi, nella sua passione e morte.

 

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Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo Ordinario

 

34a Domenica

N.S. Gesù Cristo Re dell’universo

(21 novembre 2010)

 

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2Sam 5,1-3;  Sal 121;  Col 1,12-20;  Lc 23, 35-43

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Sopra di lui c’era anche una scritta: costui è il re dei Giudei”: è l’annotazione di Luca dopo il racconto degli scherni sotto la croce da parte dei capi e dei soldati. Scritta, che le generazioni cristiane hanno interpretato come ‘Costui è il re della gloria’.

Il vangelo presenta la crocifissione di Gesù secondo i possibili modi di contemplarlo incarnati dai vari personaggi. Al centro, ci sono i due malfattori, l’empio e il pio, che riassumono le due possibili visioni: l’empio si accoda, per motivi suoi, alla visione di scherno dei capi e dei soldati; il pio invece sa scorgere il mistero e si abbandona fiducioso.

Cosa ha visto quel malfattore pio, che l’iconografia cristiana rappresenta come colui che in paradiso aspetta l’ingresso di tutti i santi, da indurlo a pregare quel condannato: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”? Forse lo splendore di un’innocenza che si irradiava da Gesù e che lui, così vicino, poteva vedere bene. Il fatto è che, di fronte a quell’uomo ingiustamente condannato eppur così mite, vede la propria storia rovinosa e senza perdersi in rivendicazioni ormai inutili, crudeli perfino, accoglie in pace la sua sorte perché può aprirla su qualcosa di più grande. Con la sua richiesta e la risposta di Gesù veniamo a sapere che il regno di Dio è splendore di amore che si riversa sull’uomo, che Dio non rinuncia al suo amore perché l’uomo è cattivo, che Dio si manifesta con il volto mite dell’amore, proprio quando è rifiutato e calpestato, in attesa che l’uomo lo riconosca e ne faccia la radice della sua vita e del suo tormento.

L’immagine del buon ladrone è una di quelle immagini che svelano il paradosso del mistero di Dio aperto sull’uomo. Il giudizio della croce non parla dell’ingiustizia degli uomini, ma della giustizia di Dio. E la giustizia di Dio è esattamente quella che rende noi, indegni, degni dello splendore del suo amore a tal punto da farci partecipi di quella dinamica di amore da riversarla con lui sul mondo. Nel giudizio universale rappresentato da Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova, ai piedi della grande croce (e quasi a darle gambe perché muova incontro all’uomo) sta una piccola figura umana. Partecipa all’esaltazione della croce: due grandi angeli la reggono e lui – se ne vedono i piedi, uno scorcio del capo e le braccia – si stringe al cuore il dulce lignum. Un piccolo fragile uomo (buon ladrone, cireneo, ciascuno di noi) che si è imbattuto in quell’Uomo, l’ha riconosciuto Dio, gli si è affezionato: porta quindi il ‘giogo soave, il carico leggero’, nella prospettiva alta della felicità, la cui caparra è, qui e ora, la letizia dell’amore.

Secondo le letture della liturgia della festa odierna, il regno che il Signore ci acquista e che costituisce la nostra eredità (si veda la parabola del giudizio finale di Mt 25, dove il re proclamerà: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo...”) è presentato in tre immagini:

a) come un’alleanza, che il popolo riconosce nella decisione di Dio di pascere il suo popolo (2Sam 5,2) e che si realizzerà nella carità svelata dal Figlio morto e risorto;

b) come splendore di riconciliazione ( “È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose ...”, Col 1,19-20) che Gesù ci ottiene sulla croce, quando ci mette nella condizione di partecipare alla santità di Dio che è amore per gli uomini. È la carità di Dio, per noi, che si traduce in riconciliazione vicendevole, a livello della storia e che parla della pacificazione tra il cielo e la terra, del fatto cioè che la terra del nostro cuore diventa cielo dove Dio è adorato, goduto, condiviso in fraternità;

c) come comunione con lui, oltre ogni rivendicazione, sopraffatti dalla sua misericordia: “In verità ti dico: oggi con me sarai nel paradiso”. Nella nostra umanità, tribolata e pacificata, il Signore ci permette di godere della comunione con lui.

Ogni proclamazione di regalità che non partisse dalla croce non potrebbe convincere i cuori perché non renderebbe ragione dell’immensità dell’amore di Dio per l’uomo. Non per nulla il tono con il quale i capi, i soldati e il malfattore empio, si rivolgono a Gesù sa di scherno, è crudele: non possono concepire altra regalità se non nel registro della potenza. Il tono invece del malfattore pio è mite, esprime tenerezza e sa riconoscere il mistero di quella regalità così mal compresa. Ma è appunto un re del genere che la Chiesa contempla, è un re del genere che la chiesa annuncia e che serve.