Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo di Quaresima

 

5a Domenica

(21 marzo 2010)

 

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Is 43,16-21;  Sal 125;  Fil 3,8-14;  Gv 8,1-11

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Con quale sincerità e intensità sarebbero risuonate sulla bocca di quella donna spiata, scoperta, strattonata, minacciata, giudicata e poi lasciata sola perché potesse essere perdonata da Gesù, le parole del salmo: “Grandi cose ha fatto il Signore per noi: eravamo pieni di gioia” (Sal 125,3)! È da dentro questa gioia inattesa, confusa, che si apre per il cuore uno spazio di intimità tutto nuovo, secondo quella novità di cui parla il profeta Isaia: “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?... Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi” (Is 43,19.21). È lo spazio di una ritrovata dignità, che si percepisce dal tono dolce con cui ci viene rivolta la parola in quella intimità di benevolenza con cui veniamo accolti e che ci guarisce dal di dentro: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”.

Nell’antica colletta preghiamo: “Vieni in nostro aiuto, Padre misericordioso, perché possiamo vivere e agire sempre in quella carità, che spinse il tuo Figlio a dare la vita per noi”. All’inizio (forse è meglio dire: lungo il percorso della nostra vita), ancora confusi per il nostro peccato, non riusciamo a sentire l’amore che ci viene donato, non siamo ancora in grado di rispondere a quell’amore con il cambiamento dei nostri comportamenti. Ma la percezione della dignità ritrovata costituisce il punto di partenza nuovo. Tutto ciò che di male abbiamo commesso, se lo mettiamo davanti al Signore Gesù, resta scritto sulla polvere. Soltanto però il male riconosciuto, quello che non viene taciuto o giustificato, resta scritto sulla polvere! Quello che non è riconosciuto, che si mantiene nascosto, che si annida nelle rivendicazioni irose o latenti, resta in cuore e impedisce la scoperta della benevolenza di Dio. Tutti gli accusatori della donna se ne devono andare perché, effettivamente, non sono così stupidi da immaginare di essere senza peccato. Ma essi non hanno potuto fare esperienza della benevolenza di Dio.

Gesù ridà senso al dramma del peccato. Il peccato non è una semplice trasgressione della legge né una questione personale di inclinazioni o scelte. La posta in gioco è assai più alta, ma senza l’esperienza della benevolenza perdonante del Signore non si esce dal tranello che i farisei avevano preparato a Gesù: se si pronuncia per l’assoluzione, va contro la legge; se approva la condanna, va contro l’immagine di Dio che va predicando, con la conseguenza che allora è un falso nuovo profeta, non è degno di credito. Con il peccato non è in gioco semplicemente la nostra vera o supposta rettitudine, bensì la nostra fiducia nella promessa di Dio per noi. Se l’uomo viene condannato per il suo peccato, gli si impedisce di credere alla promessa di Dio per lui; e lo stesso avviene se il peccato è banalizzato. Il peccato, riconosciuto da dentro una relazione col proprio Dio, diventa la porta della grazia.

La logica interiore di questa esperienza è ben descritta da Paolo, nella lettera ai Filippesi: “ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. ... So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro ...”. Non puoi non tendere a ciò da cui è venuto per te il senso della tua dignità. Non puoi più stare riverso sul tuo passato, ormai abbandonato alla polvere: non puoi che guardare al futuro di Dio che viene a te nella condivisione del suo progetto di bene e di salvezza per gli uomini.

Ma la conoscenza di cui parla Paolo in termini così coinvolgenti è la conoscenza dell’amore perdonante di Dio che in Gesù si rivela in tutta la sua intensità e drammaticità. È l’esperienza di una vita, che oramai non può più essere vissuta diversamente tanto è stata segnata in profondità.

L’inganno che può ancora nascondersi nelle pieghe dell’anima resta ormai quello di ‘dimenticare’ il proprio peccato e perdere così la solidarietà con i nostri fratelli peccatori. Il segno di tale dimenticanza è ravvisabile nel momento in cui mi difendo dai miei fratelli, rivendico qualcosa a Dio contro i miei fratelli. Ciò significa che la benevolenza di Dio è diventata per me un diritto e quindi ha perso tutta la profondità dell’intimità con cui mi era stata rivolta.

S. Cipriano ricorda, nel suo commento al Padre Nostro, che all’invocazione ‘rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’, la prima cosa che domandiamo non è la generosità per essere capaci di perdonare, ma la coscienza di essere peccatori, bisognosi noi di misericordia. Sentendoci peccatori, non abbiamo titolo di avanzare diritti e possiamo sperimentare in tutta la sua dolcezza il perdono di Dio. Resteremo allora solidali con tutti i nostri fratelli, non avendo alcun motivo di rivendicazione nei loro confronti e quindi non separandoci da loro per nessun motivo. E così facendo restiamo nella carità di Dio per gli uomini. E tutto prende le mosse da quella dignità ritrovata: “Donna, nessuno ti ha condannata? ... Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”.