Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo Ordinario

 

22a Domenica

(29 agosto 2010)

 

_________________________________________________

Sir 3,19-21.30-31;  Sal 67;  Eb 12,18-24;  Lc 14,1.7-14

_________________________________________________

 

Un invito a pranzo permette a Gesù di aprire orizzonti insospettati per i suoi ospiti. La liturgia fa presagire il clima particolare di quel banchetto introducendo il brano con il canto al vangelo: “Prendete il mio giogo sopra di voi .. e imparate da me, che sono mite e umile di cuore”. L’uditorio in realtà è particolare: sono tutte persone ragguardevoli, persone che - annota l’evangelista – lo stavano ad osservare. E a giudicare dall’intervento di uno di loro, lo stavano ad osservare a cuore aperto. Ciò che Gesù diceva ai suoi ospiti, aveva indotto un commensale a sognare il banchetto messianico: “Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!”, provocando la parabola del banchetto disertato dagli invitati e offerto ai poveri, con la quale Gesù svela il mistero dell’agire di Dio. Purtroppo nella liturgia di oggi manca questo ultimo riferimento, che resta però essenziale per comprendere le parole dette prima: “Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto ... Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici ...” sulla base del principio: “chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”.

La questione potrebbe essere così posta: dove sta il valore dell’umiltà? Perché l’umiltà ottiene quello che la grandezza sogna?

Rispetto all’agire dell’uomo, potremmo domandarci: chi cerca i primi posti, lo fa riguardo all’ospite che l’ha invitato o riguardo agli altri commensali? Evidentemente riguardo ai commensali. Ma così facendo non cerca più l’intimità col padrone di casa che l’ha invitato, motivo vero dell’onore di fronte ai commensali. Così, chi dà un pranzo ai suoi pari, si muove nell’ordine di una qualche grandezza condivisa.

Agendo in tal modo il di più della vita va perso, perché non si coglie quello che è in gioco. Solo l’umiltà fa intravedere la posta in gioco della vita. E l’umiltà non consiste nel farsi piccolo per essere riconosciuto poi (sarebbe una furbizia raffinata!), ma piuttosto nel vedere così grande l’invito alla vita da non sentirsene degno. Non mi faccio piccolo ora per essere esaltato dopo, ma sono piccolo perché troppo grande è il dono ricevuto. Più mi sento piccolo, più vuol dire che colgo la grandezza di colui che mi invita. Quando la vita non è più giocata nel confronto, di nessun tipo, con gli altri o sugli altri, vuol dire che il cuore sta saldo nell’intimità con Colui che gliel’ha data, ne percepisce il mistero e si sente piccolo. A questa piccolezza è aperto il Regno. Di quella piccolezza sono beati coloro che siedono alla mensa di Dio.

Anche il brano del Siracide va letto nello stesso senso: “Quanto più sei grande, tanto più fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore. Molti sono gli uomini orgogliosi e superbi, ma ai miti Dio rivela i suoi segreti”. È il segreto di quella compiacenza di Dio per i poveri ed i peccatori che siamo, svelata da Gesù e presagita da quel commensale, perché davanti a Lui non vale distinzione di persona: vale solo il suo amore per noi, la sua misericordia. Se l’uomo si attarda ancora a considerare la distinzione delle persone, rivendicando per sé o esibendo davanti agli altri titoli particolari di dignità, non ha ancora conosciuto l’intimità dell’amore di Dio e può perfino rifiutare l’offerta di Dio. Chi non conosce l’intimità dell’amore di Dio non può ancora dirsi umile.

La ragione profonda di tale verità risiede nello stesso agire di Dio. La grandezza di Dio si gioca nell’accondiscendenza verso tutti, nell’offrire a tutti la sua mensa senza che alcuno abbia titolo a qualcosa. Se Gesù esorta il suo ospite a invitare poveri, zoppi, storpi e ciechi, è perché Dio fa lo stesso. Davanti a Dio nessuno gode di qualche titolo particolare di rivendicazione, ma tutto dipende dal dono supremo suo, offerto a tutti.

Così la preghiera pressante che scaturisce dalla liturgia di oggi non è quella di apprendere la virtù dell’umiltà, ma di imparare a percepire così intensamente la grandezza del mistero di Dio, che in Gesù si accompagna a noi, da disprezzare ogni altra nostra grandezza. La conseguenza strana, ma salutarmente evangelica, di tale atteggiamento è che meno ci si preoccupa della propria grandezza, più ci sta a cuore la grandezza di tutti. Perché questi è il giusto: colui che sta contento dei doni di Dio a tutti, colui che si rallegra della gioia di Dio per i poveri e i peccatori, ai quali appunto è stato inviato il Salvatore.