Terzo ciclo

Anno liturgico C (2009-2010)

Tempo di Avvento

 

3a Domenica

(13 dicembre 2009)

 

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Sof 3,14-18;  Sal: Is 12,2-6;  Fil 4,4-7;  Lc 3,10-18

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Rallegrati, figlia di Sion, grida di gioia, Israele; esulta e acclama con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme! Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico”; “Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino!”. Così la liturgia, oggi, accoglie i fedeli: li chiama alla gioia, insistentemente. Con quali ragioni?

Riferire la gioia a Dio comporta due significati: Dio è pieno di gioia per noi (= noi siamo la sua gioia) e Dio è fonte di gioia per noi (= Dio è la nostra gioia). La colletta fa pregare: “O Dio, fonte della vita e della gioia, rinnovaci con la potenza del tuo Spirito, perché corriamo sulla via dei tuoi comandamenti, e portiamo a tutti gli uomini il lieto annunzio del Salvatore”. La potenza dello Spirito è collegata al mistero della letizia che ci rinnova facendoci ‘correre’, non semplicemente ‘camminare’, sulla via dei comandamenti. Se il cuore non percepisce mai come Dio non si dia pace finché noi vediamo quanto è contento di poter stare con noi, come potremo fare esperienza che i suoi comandamenti sono la gioia del nostro cuore? Il profeta Sofonia lo dice chiaramente: è Dio ad esultare di gioia per noi. La cosa è tanto singolare che la nostra psicologia interiore sembra non riuscire a produrre una sensazione del genere. Eppure, la percezione della gioia di Dio per noi è la radice della nostra dignità.

Essa è appunto il frutto della conversione, vale a dire della impossibilità di negare che Dio viene a noi con gioia, non si stanca di venire a noi con gioia, gioia che è frutto del suo amore per noi che conquista il nostro cuore. Quando il Battista riconosce in Gesù l’Inviato di Dio lo riconosce appunto come riflesso della gioia che quell’incontro gli procura. Fin dal grembo materno Giovanni ha esultato di gioia alla presenza di Gesù. Da adulto, ormai al termine del suo cammino, di sé dice: “Ma l’amico dello sposo, che è presente e lo ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo” (Gv 3,29). Così, quando Luca vuol descrivere la premura di Dio per gli uomini, non ha di meglio che narrare la parabola del figlio ritrovato, della pecorella e della dramma ritrovate (Lc 15) dove la rivelazione del cuore di Dio si fa evidente proprio attraverso la sua gioia per noi. Ciò vuol dire ancora che la nostra gioia non può derivare dalla nostra innocenza, perché davanti a Dio suonerebbe solo come una pretesa di giustizia, mentre deriva dal suo amore per noi.

Alla gioia esultante di Dio che descrive il profeta Sofonia dopo l’annuncio del terribile giorno del Signore, tra le pagine più buie dell’Antico Testamento, fa riscontro la gioia del popolo descritta dal profeta Isaia che oggi fa da salmo responsoriale, gioia che parla dell’esultanza del popolo dopo la traversata del Mar Rosso e la liberazione dall’esilio babilonese. Della stessa gioia, data dal Signore Gesù riconosciuto e accolto, parla la lettera ai Filippesi, gioia che si traduce in un tratto di dolcezza verso tutti e tutto, tanto da gustare una pace che sovrasta ogni afflizione e ogni contrasto.

Dove trovare nel vangelo di oggi l’allusione a questa gioia? In un’allusione misteriosa. La liturgia mostra il motivo della gioia nella proclamazione che il Signore è in mezzo a noi come un salvatore potente, dove potente significa ‘capace di dare letizia’ e salvatore ‘pieno della gioia che arriva anche a noi’, capaci finalmente di condividerla. Giovanni chiama Gesù ‘colui che è più forte di me’ e mette in relazione quella forza allo Spirito Santo nel quale Gesù battezzerà. Come riporterà Luca più avanti, cap. 11, v. 22, il definire Gesù ‘il più forte’ significa riconoscergli la dignità di Messia. E la forza del Messia sta nel fatto che fa vedere Dio presente, che fa vedere il Regno che si compie. Ma il Regno che si compie è proprio l’amore di Dio che si fa condiviso, apertamente e fraternamente condiviso con tutti gli uomini, nello Spirito, cioè nella letizia che non viene più tolta. E la letizia che non viene più tolta (si pensi alla ‘perfetta letizia’ di s. Francesco di Assisi) è proprio quella che custodisce la gioia di Dio per noi perché il suo amore ormai risplende senza farsi più turbare o distrarre da altro. È la letizia come segno del Regno che viene, come l’opera di Dio che si fa manifesta. I nostri peccati annegano in questa gioia di Dio per noi.

Insieme allo Spirito Santo viene nominato il fuoco. È l’altra faccia della medaglia: condividere la gioia di Dio per l’uomo comporta evidentemente il bruciare tutto quello che a quella gioia si oppone o che quella gioia contraddice. E poi scopriamo che ciò che contraddice alla gioia di Dio è la chiusura nei confronti dell’umanità, prima di tutto del nostro Dio e poi di tutti i suoi figli, per cui l’indicazione delle varie opere che il Battista indica come segno dell’incipiente conversione si muove nella prospettiva di una dinamica di solidarietà con gli uomini.