Terzo ciclo

Anno liturgico B (2008-2009)

Tempo di Natale

 

Epifania

(6 gennaio 2009)

 

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Is 60,1-6;  Sal 71;  Ef 3,2-6;  Mt 2,1-12

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La festa dell’Epifania, parola greca che significa manifestazione, è forse più antica della stessa festa del Natale, almeno in certe regioni della cristianità. Comunque, una volta che da Roma, a partire dal sec. IV, si è diffusa la celebrazione del Natale sia in oriente che in occidente le due feste si sono completate a vicenda: se il Natale celebra la manifestazione del Verbo di Dio fatto uomo, l’Epifania celebra la manifestazione della divinità di quel ‘Bambino nato per noi’. In occidente la liturgia ha preferito costituirsi attorno all’adorazione dei Magi, mentre l’oriente ha preferito privilegiare la manifestazione della divinità di Gesù al battesimo. Comunque tre sono i misteri della manifestazione della divinità di Gesù che la liturgia contempla: l’adorazione dei Magi, il battesimo, le nozze di Cana.

Se consideriamo il vangelo di Matteo, i primi due capitoli, che narrano degli eventi della nascita di Gesù, sono costruiti sul suo riconoscimento come Figlio di Dio e Re dei Giudei, nel quale si compiono le profezie e si svelano i progetti di Dio per il suo popolo e per l’umanità. Il capitolo primo contiene il riconoscimento da parte dei ‘piccoli’ in Israele, i pastori, mentre il capitolo secondo narra del riconoscimento da parte dei ‘grandi’ nel mondo, i Magi. Sono le primizie sia di Israele che dei pagani, preludio al riconoscimento universale dell’Israele di Dio, ebrei e gentili, destinatari insieme della salvezza operata da Dio per l’umanità.

Il numero dei Magi è fissato in funzione dei doni che sono ricordati nel vangelo: oro, incenso e mirra. Il titolo di magi è un titolo dottorale e religioso, ma la leggenda li ha immaginati come re, dal momento che i loro doni sono doni regali. I loro nomi, Melchiorre, Baltassarre e Gaspare, si ritrovano nel ‘Libro armeno dell’Infanzia’, risalente al sec. VI, che li reputa tre fratelli: Melchiorre re dei Persiani, Baltassarre re delle Indie, Gaspare re degli Arabi. La tradizione ha fissato anche il simbolismo dei tre doni: l’oro al Re, l’incenso al Sommo Sacerdote eterno, la mirra per la sua sepoltura. E Leone Magno, nelle sue bellissime omelie sull’Epifania, attualizza così il significato simbolico dei tre doni: chi viene al Cristo, offre l’oro dal tesoro del suo cuore quando lo riconosce re di tutte le creature, offre la mirra quando crede che il Figlio Unigenito di Dio ha assunto una vera natura di uomo ed offre l’incenso quando lo confessa uguale al Padre.

Se ora ci accostiamo al racconto evangelico dell’adorazione dei Magi, quanti particolari suggeriscono pensieri profondi! I Magi, persone colte e osservatrici degli astri, vedono sorgere una stella, fenomeno che interpretano come l’arrivo di un grande re in Giudea e decidono di venire a cercarlo. La strada per la Giudea la conoscono ed il testo non dice che la stella li guidava. Solo dopo aver ricevuto la conferma della profezia da Israele che un re sarebbe nato a Betlemme, ricompare la stella e li precede fin là. E quando devono ritornare indietro, cambiano strada. Intanto notiamo il contrasto: i Magi si sono mossi, senza sapere bene dove andare, mentre Israele conosce la profezia riguardo al bambino che deve nascere, ma non si muove; i Magi sono nella gioia, Gerusalemme nel turbamento. I Magi sono partiti perché spinti dal cielo, ma si affidano alle Scritture di Israele per conoscere il luogo di nascita del nuovo re e solo dopo essersi affidati alla parola rivelata ricompare la stella del cielo che conferma loro la profezia; dopo aver riconosciuto il nuovo re, ritornano al loro paese, ma per altra strada, come ad indicare che nulla è più come prima, come per i pastori che, dopo aver udito e visto, glorificano e lodano Dio tornando a casa loro, a sottolineare che un cuore convertito al Signore possiede una luce e un sapore prima sconosciuti.

Non è la stessa situazione dell’uomo di fronte al desiderio di infinito che porta dentro? Se va a cercare la ‘parola’ è perché questo desiderio lo rode e se si lascia condurre da questo desiderio non solo trova la ‘parola’, ma ritrova la gioia di quel desiderio che l’accompagna nella ‘pratica della parola’ fino a trasformare tutto il suo cuore e a volgerlo in perenne adorazione e nei pensieri e nella vita. È appunto il mistero della scoperta del tesoro nel campo, è il mistero dell’incontro dell’uomo con il suo Dio. Il brano finisce con l’accenno alla strage di Erode. La presenza del dramma non è lì a gettare una luce fosca sull’idillio appena descritto, ma prelude al dramma finale della vita di quel bambino che, morendo in croce e poi risuscitando, rivela la gloria dell’amore di Dio per l’uomo che non si arresta e non devia dai suoi progetti di fronte all’ingiustizia, che anzi fa diventare proprio luogo di rivelazione del suo amore.

Di fronte a questa rivelazione scaturisce una doppia responsabilità per i credenti: 1) se il Messia è promesso alle genti, di che cosa siamo noi credenti debitori al mondo? Siamo debitori proprio della conoscenza del Signore. E questo debito pende sulla nostra testa; 2) se il Messia è promesso alle genti, vuol dire che fin tanto che tutte le genti non l’hanno conosciuto, la nostra stessa conoscenza del Messia è manchevole, resta limitata. Come in un’amicizia: fin tanto che non ho trovato qualcuno che voglia bene a me, io non potrò scoprire quello che sono in verità, quello che porto e di cui sono capace. Così è con Dio. Fin tanto che tutti non l’hanno conosciuto, Dio non ha ancora avuto modo di manifestarsi in tutta la sua ricchezza. Attendere questa manifestazione, nel cuore di tutti, rende umili e adoranti.

L’augurio per noi che già l’abbiamo riconosciuto sia quello di trovare in lui, come dice il salmo 86, tutte le nostre sorgenti, cioè la vita in abbondanza. E, come i Magi, in ‘gioia grandissima’ da condividere con chiunque, senza paure.