Terzo ciclo

Anno liturgico B (2008-2009)

Tempo di Avvento

 

1a Domenica

(30 novembre 2008)

 

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Is 63,16-19; 64,1-7;  Sal 79;  1Cor 1,3-9;  Mc 13,33-37

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L’anno liturgico comincia come finisce, inscrivendo il tempo della nostra storia nell’attesa della venuta del Signore. È curioso osservare che il brano di Mt 25 del giudizio finale dell’ultima domenica dell’anno come l’odierno passo di Mc 13 concludano la narrazione evangelica, immediatamente prima del racconto della passione di Gesù. La liturgia, in queste quattro settimane che precedono il Natale, ruota attorno all’attesa del Salvatore nelle sue tre venute: la venuta del Cristo alla fine dei tempi come giudice glorioso, la venuta nella carne del Figlio di Dio fatto uomo a Betlemme e la venuta mistica del Signore nel cuore di ciascuno che l’accoglie. L’invito alla vigilanza è il tema comune. Ma come intenderla, come viverla?

La colletta di oggi fa pregare: “O Dio, nostro Padre ... donaci l’aiuto della tua grazia, perché attendiamo vigilanti con amore irreprensibile la gloriosa venuta del nostro redentore”. Attendere non significa semplicemente aspettare, ma ‘operare in vista di’, ‘operare in modo che’. La vigilanza ha a che fare con un certo tipo di operosità, quella che la parabola del giudizio finale illustrava e di cui la festa del Natale fornisce la ragione più convincente.

Tale operosità scaturisce da una presa di coscienza precisa. Lo dice il profeta Isaia sottolineando come la percezione dell’assenza di Dio si trasformi in una nuova rivelazione: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi!”. L’uomo, che pur ha già visto le meraviglie di Dio, resta sempre alle prese con l’iniquità che gli serpeggia dentro, lo opprime e lo rende schiavo. A causa dei nostri peccati “siamo diventati da tempo gente su cui non comandi più, su cui il tuo nome non è stato mai invocato. Se tu squarciassi i cieli e scendessi!”. Occorre fare memoria della storia di alleanza di Dio con noi così da supplicare il Signore che non ci metta in balìa della nostra iniquità perché siamo opera delle sue mani. Scenda a noi come ha fatto con Mosè liberando il popolo dalla schiavitù dell’Egitto, come ha fatto con Ciro permettendo al popolo di tornare da Babilonia a Gerusalemme, come ha fatto con la Vergine nascendo come suo figlio, come ha fatto con gli apostoli aprendo il loro cuore al suo mistero. Il primo movimento della vigilanza è appunto la coscienza della lontananza. Il servo addormentato della parabola evangelica è colui che non si risveglia per stringersi al suo Signore, è colui che resta in balìa della sua iniquità e perciò non potrà più riconoscere la benevolenza del suo padrone che viene a lui. La vigilanza scongiura tale esito.

Paolo, scrivendo ai Corinzi, giustifica la vigilanza in questi termini: “Degno di fede è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro”. Indica la direzione di sguardo della vigilanza, la innerva sulla promessa di Dio di far vivere l’uomo in comunione con lui, partecipandogli la sua stessa vita e lo splendore della sua santità, aprendolo alla comunione con il Figlio suo. Lo proclama anche l’antifona alla comunione citando il sal 84: “Il Signore elargirà il suo bene e la nostra terra produrrà il suo frutto”. Vi è l’allusione alla nascita di Gesù dalla Vergine Maria, ma anche alla nascita di Gesù in ogni cuore perché il frutto della terra del nostro cuore non può che essere la conoscenza del Figlio di Dio, lui che racchiude tutti i tesori della sapienza e della scienza (cf. Col 2,3). La vigilanza ha a che fare allora con la memoria della promessa di Dio, con la fedeltà di Dio che si fa prossimo dell’uomo.

C’è dell’altro ancora nella vigilanza evangelica. Paolo aveva descritto la vigilanza come ‘attesa della manifestazione del Signore’. L’espressione non va però considerata semplicemente nella tensione dei credenti al ritorno glorioso del Signore quando si chiuderanno i tempi e la sua parola giudicante svelerà tutta la verità. Quella tensione caratterizza anche il desiderio del cuore dei credenti nella vita quotidiana. Chi riceve le parole del Signore, chi si sforza di metterle in pratica senza desiderare di poter percepire e vedere la presenza del Signore nella sua vita? Questo è appunto l’oggetto specifico della vigilanza, mentre la sua dinamica è la tensione a entrare nel processo della manifestazione del Signore al nostro cuore, nella nostra storia, manifestazione di cui la nascita di Gesù a Betlemme presenterà la realtà alla nostra portata. Se a livello dell’agire dell’uomo la vigilanza si risolve nella fatica di evitare il male e di compiere il bene, a livello del cuore si risolve in una memoria calda della presenza del Signore, in una memoria di eventi e parole che ci possono significare quella presenza, memoria che tenda a esplodere nella percezione della sua presenza. La vigilanza allora è il compito di responsabilità dei servi della parabola del vangelo in attesa del ritorno del loro padrone. Perché è nello splendore di quella presenza percepita che possiamo vivere fino in fondo la nostra vocazione all’umanità e tornare a far risplendere il mondo della luce di Dio.