Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo Ordinario

 

10a Domenica

(8 giugno 2008)

 

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Os 6,3-6;  Sal 49;  Rm 4,18-25;  Mt 9,9-13

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Gesù si trova a Cafarnao, dove ha stabilito la sua residenza. Conosce bene quindi i suoi abitanti. Ha appena guarito un uomo paralitico suscitando stupore e scompiglio: l’ha guarito dalla sua malattia, ma l’ha anche rimandato libero dai suoi peccati. Con quale potere osa comportarsi in tal modo? Uscendo di casa, si avvicina al banco delle imposte e invita l’esattore, di nome Matteo (o Levi), a seguirlo. Altra scena di scompiglio: Matteo (forse per sancire il commiato dalla vita solita) lo invita a pranzo e gli fa festa insieme ai suoi amici, gente poco raccomandabile dal punto di vista della purità legale seguita scrupolosamente dai farisei. “Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?”. Evidentemente, quel maestro colpisce: prende iniziative inaudite, sebbene poi alle parole faccia seguire i fatti. Ma se viene da Dio, perché non osserva la Legge?

I discepoli tacciono. Gesù però sente e ribatte: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati”. E giustifica il suo agire con le parole del profeta Osea: “Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”.

Perché Dio cerca la ‘misericordia’? Perché essa sola è segno della sua presenza, splendore della sua grazia. Quel ‘sacrificio’ che non parla della Sua misericordia, che non fa risplendere la Sua misericordia, non Gli è gradito. La ragione profonda mi sembra questa. Ciò che conta è l’accondiscendenza allo splendore del Suo amore. Più risulta autentica quell’accondiscendenza, più il suo amore, supplicato, accolto e condiviso, risplende nel mondo. E questo corrisponde alla gloria di Dio. Ora, l’accondiscendenza a quello splendore ci fa gustare la misericordia di Dio e ci dispone a ricercarla e a viverla come dono supremo, come il tesoro più prezioso del cuore.

L’aveva già proclamato il profeta Samuele davanti al re Saul che nella guerra contro gli Amaleciti aveva risparmiato, contro il comando del Signore, il meglio del bestiame minuto e grosso con l’intenzione di offrire poi sacrifici al Signore: “Il Signore forse gradisce gli olocausti e i sacrifici come obbedire alla voce del Signore? Ecco, obbedire è meglio del sacrificio, essere docili è più del grasso degli arieti” (1Sam 15,22). Anche lo scriba, lodato da Gesù, l’aveva sottolineato: “Hai detto bene, Maestro, e secondo verità che Egli è unico e non v' è altri all' infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olocausti e i sacrifici” (Mc 12,32-33).

La parola profetica di Osea, citata da Gesù, proclama: “Voglio l' amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti” (Os 6,6).

Se colleghiamo il passo di Osea con il brano evangelico ci accorgiamo che l’espressione di Gesù: ‘sono venuto a chiamare i peccatori’ risponde alla frase del profeta: ‘Affrettiamoci a conoscere il Signore’, frase che riassume l’atteggiamento di pentimento del popolo davanti a Dio. Nel testo del profeta, però, Dio non accoglie quel pentimento perché procede da un calcolo: torniamo al Signore e offriamogli sacrifici di modo che finiscano le sciagure che ci ha mandato! ‘Conoscere il Signore’ equivale a fare esperienza della sua benevolenza. Ma tale atteggiamento può derivare solo dal fatto di non poterne più dei rovesci della vita. Dio non può gradire un atto di culto che derivi solo dal non voler più subire afflizioni semplicemente. Per questo Dio dice al popolo: “voglio l' amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti”.

Nell’espressione profetica di Osea l’amore, la misericordia, allude alla lealtà in amore secondo l’alleanza con Dio. Ma l’uomo può vivere l’alleanza con Dio solo come una forma di protezione (che suona come un ‘tener buono’ chi è pensato detenere il potere sulle vicende umane) senza accedere allo spazio di un amore condiviso. Così, quando l’uomo, illuso dei beni che può godere, non sembra più interessato alla storia di amore con il suo Dio, non riesce a far fronte ai rovesci della vita e si ritrova abbandonato e disperso. Ricorre allora a Dio, ma come dall’esterno, solo per riottenere quei beni che ha perso. Fa cose sante senza lambire la santità.

Dio, invece, invitando alla misericordia e non ai sacrifici, è come se dicesse: tornare a me vuol dire tornare a vedere la mia Provvidenza per voi, tornare a vedere la mia grazia risplendere. Quando il salmo 149 parla del ‘sacrificio di lode’ allude proprio al’agire dell’ uomo che miri a far risplendere l’amore di Dio, non solo in me o per me, ma nel mondo, attraverso me. Così Dio è glorificato, così l’umanità torna a Dio. Così è vinto il peccato, quando non divide più né da Dio né dai fratelli e si realizza l’invocazione dell’antifona dopo la comunione: “Ci guarisca dal male che ci separa da te”. Di per sé la dinamica del sacrificio che tende a divenire ‘sacrificio di lode’ lavora proprio a impedire quella separazione e quindi a favorire l’esperienza della misericordia. E questo corrisponde al dar gloria a Dio, come Paolo dice di Abramo: dare gloria a Dio significa far spazio al compimento della sua promessa nella mia esistenza e la sua promessa non è che l’offerta della sua comunione perché su tutto e tutti risplenda il suo amore. Ora, la mia vita si gioca precisamente in questo punto: dare credito di fiducia alla sua potenza perché questo si compia anche in me e, attraverso me, nel mondo. Coltivare dunque la misericordia non vuol dire sforzarsi di essere generosi con il prossimo, ma coltivarsi nell’apertura all’esperienza del suo amore, al riconoscimento del suo agire nella nostra vita, allo splendore della sua presenza, alla condivisione dei suoi sentimenti.

Applicato al contesto in cui Gesù si rivolge ai farisei, la domanda che potremmo farci può suonare così: cosa fa conoscere di Dio quel modo di agire di Gesù? Se Dio non è per tutti, quale immagine di Dio adoriamo? Se adoriamo un Dio che tiene qualcuno lontano, l’orizzonte della nostra umanità resta limitato. Gesù, cercando i peccatori, facendo suoi discepoli gente peccatrice, svelando la bontà di Dio a coloro che si tenevano lontani dalla santità di Dio, svela sia la natura della conversione secondo Dio che la grandezza del suo amore salvatore: non è un invito alla virtù, ma un’introduzione ad una visione, ad una esperienza dell’anima che ‘conosce’ l’amore del suo Dio nella misericordia, gustata e condivisa.