Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Tempo di Natale

 

Epifania

(6 gennaio 2008)

 

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Is 60,1-6;  Sal 71; Ef 3,2-6;   Mt 2,1-12

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Epifania vuol dire manifestazione. La festa di oggi ingloba tre momenti della manifestazione del Signore: la manifestazione di Gesù alle genti con la venuta dei magi; la manifestazione del Signore all’inizio della sua carriera messianica con il battesimo al fiume Giordano; la manifestazione del Signore con il primo miracolo alle nozze di Cana. 

L’antifona di ingresso della messa si richiama al libro del profeta Malachia, l’ultimo libro dell’Antico Testamento: “È venuto il Signore nostro re: nelle sue mani è il regno, la potenza e la gloria”. Quale visione singolare: un bambino è proclamato ‘sovrano, potente e glorioso’! La proclamazione comporta qualcosa di radicalmente nuovo per gli occhi umani o, se vogliamo, comporta la visione di una realtà con occhi radicalmente nuovi. Stessa ‘novità’ che sta dietro la proclamazione di Gesù come re nei vangeli (soltanto durante la sua passione Gesù accetta il titolo di re) e particolarmente come re della gloria (titolo che fornisce, da una parte, la ragione della condanna sul patibolo della croce e, dall’altra, per la visione di fede dei credenti, la ragione dell’amore di Dio per l’uomo che proprio sulla croce risplende). È in ragione di quella ‘novità’ che la manifestazione di Gesù può conquistare le genti e può convincere Israele. Quando la colletta fa pregare: “O Dio, che in questo giorno, con la guida della stella, hai rivelato alle genti il tuo unico Figlio, conduci benigno anche noi, che ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la grandezza della tua gloria”, guida i credenti alla percezione di quella ‘novità’ e li predispone a cogliere e a vivere dello splendore di quell’amore, che costituisce ormai la ragione di senso del vivere nella storia.

La visione dei popoli che si ritrovano a Gerusalemme, ripresa anche dal salmo 71 e celebrata dal salmo 87 (Il Signore scriverà nel libro dei popoli: “Là costui è nato”. E danzando canteranno: “Sono in te tutte le mie sorgenti”), mostra come ormai non esiste più motivo di distinzione tra gli uomini perché la loro dignità deriva da un’unica radice. La dignità degli uomini parla dell’amore di Dio che si è rivelato in quel Figlio di Dio fatto uomo e che nella liturgia odierna è adorato da tutte le genti. Quando Paolo ricorda agli Efesini che il mistero manifestato ora agli uomini è il fatto che i Gentili sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità di Israele, rivela che davanti a Dio sussiste un’unica famiglia umana, destinataria e portatrice allo stesso tempo del Suo amore. Se il Signore, come dice il salmo 71, interviene a favore del povero e del debole, categorie che attraversano la diversità dei popoli e si riferiscono all’umanità di tutti, significa che chi calpesta il povero e il debole ferisce la propria dignità umana e non rispetta l’immagine di quel Figlio che si è confuso con l’umanità di tutti. Davanti a quel Figlio, Bambino, adorato dalle genti – dice il salmo, eco del pensiero di Dio: chiunque tu sia, da qualunque paese provenga, qualsiasi sia stata la tua storia, a qualsiasi cultura appartenga, da qualsiasi parte proceda, sappi che qui sei nato, di qui trai vita e qui conducono i tuoi desideri perché qui si compiono i miei progetti: nel mio Figlio! Non è evidentemente una forma di imposizione spirituale all'umanità. Si tratta invece di una visione lucida, nella fede, sulla realtà delle cose e del mondo. Non si tratta di contrapporre una visione ad altra visione, una fede ad altra fede. Si tratta di imparare a stupirsi a tal punto dei pensieri di Dio per l'umanità che la modalità stessa di vivere e testimoniare quella visione diventa 'divina'. Per questo l'amore è l'ultima parola convincente, sebbene non sia la parola più potente. La debolezza di Dio è più forte della forza degli uomini e la stoltezza di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini: per questo a tutti gli uomini, di ieri, come di oggi e di domani, a tutti spetta questa 'eredità', che è il Figlio di Dio fatto uomo.

I magi sono la figura della manifestazione di Dio alle genti; portando i loro doni, si aprono al mistero di Dio (con l’oro riconoscono la regalità misteriosa di quel ‘bambino nato per noi’, con l’incenso riconoscono la sua divinità, con la mirra la sua umanità pronta a soffrire la passione per la nostra salvezza) e permettono al loro cuore di vedere la gloria di Dio tanto che fanno ritorno a casa loro per altra strada, come a dire che chi si apre all’adorazione di Dio riscopre la casa propria in altro modo, con altro sguardo, sotto altri orizzonti. Questo mi induce a due osservazioni: 1) se il Messia è promesso alle genti, di che cosa siamo noi credenti debitori al mondo? Siamo debitori proprio della conoscenza del Signore. E questo debito pende sulla nostra testa. Qui si ricollega la responsabilità della testimonianza dei credenti di fronte al mondo; 2) se il Messia è promesso alle genti, vuol dire che fin tanto che tutte le genti non l’hanno conosciuto, la nostra stessa conoscenza del Messia è manchevole, resta limitata. Come in un’amicizia: fin tanto che non ho trovato qualcuno che voglia bene a me, io non potrò scoprire quello che sono in verità, quello che porto e di cui sono capace. Così è con Dio. Fin tanto che tutti non l’hanno conosciuto, Dio non ha ancora avuto modo di manifestarsi in tutta la sua ricchezza. Attendere questa manifestazione, nel cuore di tutti, rende umili e adoranti e risponde al comandamento dell’amore verso tutti, anche verso i nemici, finché la gloria di Dio si manifesti compiutamente.