Terzo ciclo

Anno liturgico A (2007-2008)

Solennità e Feste

 

Ss. Corpo e Sangue di Cristo

(25 maggio 2008)

 

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Dt 8,2-16;  Sal 147;  1Cor 10,16-17;  Gv 6,51-58

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La liturgia di oggi evidentemente ruota attorno all’immagine del mangiare. “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna” dice Gesù ripetutamente ai giudei che lo incalzano, desiderosi di seguire la via di Dio senza però riuscire ad accoglierla.

Il brano evangelico di oggi riporta le ultime battute del lungo discorso di Gesù con i giudei, prima dello scandalo finale degli ascoltatori e dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani che tanto entusiasmo aveva suscitato. Le parole di Gesù acquistano altra potenza se le intendiamo dentro il percorso di intelligenza del suo mistero. Gesù stesso aveva distribuito alla folla i pani che aveva moltiplicati: nel far dono di quei pani era sottinteso il dono che di sé faceva, ma non era scontato coglierlo. Come nell’ultima cena, il suo lavar i piedi agli apostoli sottintendeva il suo servire l’umanità che di lì a poco sarebbe sfociato nel dono di sé agli uomini nella passione. Se però i discepoli si scandalizzano della sua ‘discesa’, come potranno accettare la sua ‘salita’ al Padre, tramite la croce, come Gesù dirà: “Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima?” (Gv 6,61-62)? In effetti, dopo il miracolo la gente viene per farlo re, ma Gesù come può assumere dagli altri quello che non prende da Dio?

Inizia così la discussione tra Gesù e i suoi possibili discepoli nel tentativo di scoprire la vera via di Dio. Gesù obbliga la gente a riflettere riferendosi all’episodio della manna nel deserto e invitando a cercare un cibo che dura per la vita eterna. Introduce così l’accesso al suo mistero, perché proprio lui Dio ha consacrato per dare la vita al mondo. Se ci riferiamo alla prima lettura tratta dal libro del Deuteronomio, l’espressione più diretta che fa da premessa alle parole di Gesù è la seguente: “… per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l' uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore” (Dt 8,3). La manna è l’espressione della potenza di Dio che accompagna il suo popolo per farlo giungere alla terra promessa. Ma chi ha mangiato quella manna alla terra promessa non è giunto. Qual è allora il significato dell’episodio della manna? Gesù accosta quell’episodio ai pani che lui aveva distribuito. Qual è la posta in gioco? Semplicemente non far morire di fame il popolo? La manna era sì un pane del cielo, ma non quello vero, come Gesù fa intendere, perché quello vero ‘dà la vita al mondo’.

Così, nel discorso di Gesù i passaggi sono: io sono il pane dal cielo, quello vero; io sono il pane disceso dal cielo; io sono il pane della vita; io sono il pane vivo. Sempre rimanda al mistero della sua persona, a lui sul quale il Padre ha messo il suo sigillo, vale a dire a lui sul quale riposa la compiacenza del Padre e nel quale dimora la pienezza dello Spirito. Ogni dono dato da Dio ha lo scopo di rivelare il suo Donatore; in particolare, di rivelare che nel suo dono lui stesso si comunica perché l’uomo viva della comunione con lui. Gesù è proprio colui che di quella comunione è l’oggetto e il soggetto in assoluto. E quando dice che il pane vivo che egli darà è la sua carne (evidente l’allusione all’eucaristia) intende dire che lui, il figlio dell’uomo, l’Uomo pieno, è la carne piena dello Spirito, per cui mangiare lui vuol dire essere assimilati al suo Spirito, vivere del suo Spirito, vivere della vita che lo Spirito comunica, vivere della vita pienamente riconciliata con Dio.

La conseguenza sarà che chi mangia lui, potrà dimorare in lui come lui dimorerà in colui che lo mangia. Si stabilisce non solo comunanza di vita, ma la stessa vita e l’uomo ritrova la potenza del suo essere fatto a immagine e somiglianza di Dio. Non voler ‘mangiare’ lui significa non accogliere la rivelazione di Dio che vuole gli uomini in comunione con lui, perché vivano della sua stessa vita, che è amore donato e condiviso.

Qui si svela in tutta la sua radicalità l’invito del Deuteronomio: “Baderete di mettere in pratica tutti i comandi che oggi vi dò, perché viviate” (Dt 8,1). La parola del Signore è finalizzata alla vita e quando non si tiene conto, non si osserva la parola/comandamento, vuol dire che ci si dimentica del Signore, cioè non si vive più di quell’amore che ci è comunicato come radice di vita; non si vive più di quell’umanità santificata, abitata e colmata dallo Spirito, di cui le sue parole sono realizzatrici. Non per nulla Gesù, dopo aver detto che chi mangia la sua carne dimora in lui, aggiunge: “Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me”. È l’aspetto più singolare e impressionante dell’esperienza cristiana: essere inseriti nella stessa dimensione di essere di Dio. L’uomo è chiamato a vivere della stessa vita di Dio: come il Figlio vive del Padre, così i fedeli vivono di Gesù.

Le due perplessità che occupano il cuore della folla: 1) come può dire che è disceso dal cielo se conosciamo i suoi genitori? 2) come può darci la sua carne da mangiare?, occupano anche il nostro cuore. Le potrei esprimere così: è sempre terribilmente facile pensare di sapere senza sapere e di ascoltare senza imparare. Se vogliamo che l’udire si traduca in ascoltare dobbiamo arrivare a udire ‘da presso colui che ci parla’ e non tirare a noi le parole di colui che ci parla. Lo dice Gesù: “Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me” (Gv 6,45). ‘Imparare’ comporta l’essere attratti, come Gesù dirà: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Così il sapere comporta l’aver gustato, l’essere raggiunti dalla rivelazione di un amore che ci riguarda e che diventa radice di vita. Mangiare la carne del Figlio dell’uomo per avere la vita comporta il ‘vedere e il credere’, ‘l’ascoltare e l’imparare’, essere passati dalla ‘carne’ allo ‘spirito’: “È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita” (Gv 6,63).