Secondo ciclo

Anno liturgico C (2006-2007)

 

Tempo Ordinario

 

25a Domenica

(23 settembre 2007)

 

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 Am 8,4-7; 1 Tm 2,1-8; Lc 16,1-13

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Il brano di vangelo odierno, quello dell'amministratore disonesto, lodato dal padrone, sembra a prima vista comportare un messaggio ambiguo. Gesù inviterebbe alla disonestà? Evidentemente, la parabola, raccontata ai discepoli, più volte paragonati nel vangelo ad amministratori, punta ad altro. Ma a che cosa? Fermiamoci sulla lode del padrone:  “Il padrone lodò quell' amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza”. La lode verte sul fatto che è stato scaltro, accorto. Sicuramente non si trattava di un amministratore imbecille, se era stato capace di quel comportamento; piuttosto, era stato avido e l’avidità gli aveva fatto perdere il posto. Se paragoniamo questa parabola a quella del possidente straricco (Lc 12,16-21) ci accorgiamo subito della differenza tra i due: il primo è accorto, il secondo stolto; il primo riesce a organizzarsi secondo i suoi interessi, il secondo vaneggia. Per ambedue la domanda decisiva è la medesima: cosa fare? Mentre lo stolto fantastica, l’accorto dispone. La loro azione si gioca in rapporto al futuro: mentre il primo si immagina cosa fare e resta chiuso in se stesso, il secondo sa cosa deve fare e si apre agli altri. Il punto allora è esattamente questo: ‘sapere cosa fare’ in rapporto al futuro.

La parola di Gesù illustra proprio quel ‘saper cosa fare’ in rapporto alla propria vita. In gioco è l’uso dei beni di questo mondo per ottenere vita piena. Il padrone della parabola è Dio che affida i suoi beni a noi come amministratori, ai quali a suo tempo chiederà conto. Se nessuno di noi è proprietario a titolo assoluto dei beni che usa temporaneamente, la prima conseguenza sarà quella di possederli senza che essi possiedano noi. L’avido, che consacra la sua vita ai beni, scava un fossato incolmabile tra lui e la felicità. Volendo però la felicità, l’accortezza consisterà allora nell’invertire la dinamica perversa che si era instaurata: invece di consacrare la vita ai beni, consacrerà i beni alla vita e ciò avverrà nella condivisione con tutti. In particolare, la scaltrezza si giocherà nel fatto che, non potendo rabbonire direttamente il padrone perché il nostro ammanco sarà risultato insolubile, si cercherà di carpire la sua lode con il condonare i debiti ai fratelli. La parabola può essere letta come un’illustrazione della richiesta del Padre Nostro: ‘rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’.

A questo punto si aprono nuovi livelli di comprensione della parabola, ulteriormente spiegata dalle parole di Gesù sulla distinzione tra ‘proprio’ e ‘altrui’, tra ‘molto’ e ‘poco’. Si tratta di ‘comprare’ ciò che è nostro con ciò che non è nostro; di ottenere il molto con il poco. Tutto ciò che usiamo in questo mondo non è nostro, non ci appartiene; non solo, ma non ha nemmeno importanza seria rispetto a quello che davvero cerchiamo e dunque è calcolato come poco. Eppure, non abbiamo altra possibilità di arrivare a ciò che è nostro se non attraverso le cose non nostre, a patto che le usiamo senza esserne usati, che le condividiamo con tutti e che le godiamo insieme. E che cosa è nostro? Cirillo di Alessandria definisce nostro ‘la santa e mirabile bellezza che Dio forma nelle anime delle persone, rendendole simili a se stesso, in accordo con ciò che eravamo in origine’. Questo è il molto, quello che ci definisce, quello che ci struttura. È nostro l’essere ‘figli dell’Altissimo’, è nostra quella ‘somiglianza’ con il Signore Gesù che è venuto a ristabilire.

Non per nulla il canto al vangelo introduce questa parabola con la citazione di 2Cor 8,9: “Gesù Cristo, da ricco che era, si fece povero, per arricchire noi con la sua povertà”, da raccordare all’altro passo di Fil 2,5-8: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce”. Condividere i beni con i poveri, stare solidali con l’umanità di tutti significa portare a compimento quella vocazione all’umanità che ci appartiene in proprio come figli dell’Altissimo, resi tali da quel Signore Gesù che ha scelto di stare solidale con gli uomini perché gli uomini potessero tornare a godere della comunione con Dio, il loro ‘vero Bene’. Ed è caratteristico che l’espressione di Paolo, riportata dal canto al vangelo, segua l’invito dell’apostolo ai Corinzi a partecipare alla colletta organizzata per la Chiesa di Gerusalemme, non solo perché si stabilisca una certa uguaglianza tra ricchi e poveri, ma soprattutto perché si renda visibile nei frutti della carità la riconciliazione, operata dal Signore Gesù, dell’umanità con Dio, simboleggiata dall’unità nell’unica famiglia di Dio di ebrei e pagani.

Un’ultima osservazione sull’espressione dell’amministratore disonesto lodato. Il suo dire: ‘so che cosa fare’ equivale all’affermazione di Giovanni: “Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell' amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1Gv 4,16). E si contrappone all’espressione che Gesù indirizza al Padre sulla croce a proposito dei suoi crocifissori: ‘non sanno quello che fanno’ (Lc 23,34).