Secondo ciclo

Anno liturgico C (2006-2007)

Tempo Ordinario

 

22a Domenica

(2 settembre 2007)

 

_________________________________________________

 Sir 3,17-29;  Sal 67; Eb 12,18-24;  Lc 14,1.7-14.

_________________________________________________

 

Un invito a pranzo permette a Gesù di aprire orizzonti insospettati per i suoi ospiti. La liturgia fa presagire il clima ‘misterioso’ di quel banchetto introducendo il brano con il canto al vangelo: “Il Signore mi ha mandato ad annunziare ai poveri la buona novella, a proclamare ai prigionieri la liberazione”. L’uditorio in realtà è particolare: sono tutte persone ragguardevoli, con una certa importanza, persone che - annota l’evangelista – lo stavano ad osservare. E a giudicare dall’intervento di uno di loro, lo stavano ad osservare a cuore aperto. Ad un certo punto, un commensale, colpito dalle parole o dal modo di parlare di Gesù, esclama apertamente: “Beato chi mangerà il pane nel regno di Dio!”. Quello che Gesù diceva agli invitati e al suo ospite di riguardo l’aveva indotto a sognare il banchetto messianico. Gesù, rispondendo con la parabola del banchetto disertato dagli invitati e offerto invece ai poveri raccolti dentro e fuori la città, ad indicare Israele e le nazioni pagane, svela il mistero dell’agire di Dio, che costituisce il criterio di riferimento per comprendere le parole dette prima. Così, per cogliere il senso vero del brano proclamato oggi dalla liturgia, cioè Lc 14,7-14, bisognerebbe leggerlo fino al v. 24.

È appunto il riferimento al banchetto messianico che apre la comprensione del brano. Le parole di Gesù: “Quando sei invitato a nozze da qualcuno non metterti al primo posto …”; “Quando offri un pranzo non invitare i tuoi amici …invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti”, vanno comprese in quell’ottica, sulla base del principio: “chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”. Ma dove sta il valore dell’umiltà? Perché l’umiltà è così determinante agli occhi di Dio? Perché l’umiltà ottiene quello che la grandezza solamente sogna? Due sono i passaggi da notare: primo, in rapporto all’agire dell’uomo e secondo, in rapporto all’agire di Dio. Consideriamo l’agire dell’uomo. In rapporto a chi si pone colui che, invitato, cerca i primi posti? In rapporto all’ospite che l’ha invitato o agli altri commensali? Evidentemente, cerca i primi posti per distinguersi dagli altri, per far valere la sua importanza. Ma così facendo non cerca più l’intimità col padrone di casa che l’ha invitato, motivo vero dell’onore di fronte ai commensali. Così, chi dà un pranzo ai suoi amici, ai suoi pari, non va oltre l’interesse di ricevere altrettanto e sempre nell’ordine di un riconoscimento, esibito e ricercato, di una qualche grandezza condivisa. Il di più della vita va perso, perché non si coglie quello che è in gioco. Solo l’umiltà fa intravedere la posta in gioco della vita. E l’umiltà non consiste nel farsi piccolo per essere riconosciuto poi (sarebbe una furbizia raffinata!), ma piuttosto nel vedere così grande l’invito alla vita da non sentirsene degno. Non mi faccio piccolo ora per essere esaltato dopo, ma sono piccolo perché troppo grande è il dono ricevuto. Più mi sento piccolo, più vuol dire che colgo la grandezza di colui che mi invita. E’ questo l’atteggiamento che apre le porte dei cieli, che attira all’anima i doni celesti, i doni della vita in abbondanza, di cui il banchetto è l’immagine. Quando la vita non è più giocata nel confronto, di nessun tipo, con gli altri e sugli altri, allora vuol dire che il cuore sta saldo nell’intimità con Colui che gliel’ha data, ne percepisce il mistero e si sente piccolo, tanto piccolo. A quella ‘piccolezza’ è aperto il Regno. Di quella piccolezza sono beati coloro che siedono alla mensa di Dio.

La cosa è vera perché corrisponde all’agire di Dio. Dio è tanto grande (nella sua misericordia) che non ha bisogno di elevarsi al di sopra di nessuno, ma la sua grandezza si gioca nell’accondiscendenza verso tutti, nell’offrire a tutti la sua mensa senza che alcuno abbia titolo a qualcosa. Se Gesù esorta il suo ospite a invitare poveri, zoppi, storpi e ciechi è perché Dio fa lo stesso. ‘Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro’… La ragione risiede nella coscienza che davanti a Dio nessuno gode di qualche titolo particolare di rivendicazione, ma tutto dipende dal dono supremo suo, offerto a tutti. La beatitudine deriva proprio dal fatto di godere della sua offerta senza averne titolo e dal fatto di solidarizzare con tutti perché tutti raggiunti dalla stessa offerta.

E la beatitudine è compresa nei termini che annuncia il brano del Siracide, sebbene occorrerebbe leggerlo secondo l’aggiunta di alcuni manoscritti greci e dell’ebraico che, dopo il versetto: “Quanto più sei grande, tanto più umìliati, così troverai grazia davanti al Signore” proclamano: “Molti sono alteri e gloriosi, ma i suoi segreti li rivela agli umili, poiché grande è la misericordia di Dio, agli umili svela il suo segreto”. E’ il segreto di quella ‘compiacenza’ di Dio per i poveri ed i peccatori che siamo, svelata da Gesù e presagita da quel commensale, perché davanti a Lui non vale distinzione di persona: vale solo il suo amore per noi, la sua misericordia. E se l’uomo si attarda ancora a considerare la distinzione delle persone, rivendicando per sé o esibendo davanti agli altri titoli particolari di dignità, non ha ancora conosciuto l’intimità dell’amore di Dio e può perfino rifiutare l’offerta di Dio. E chi non conosce l’intimità dell’amore di Dio non può ancora dirsi umile. Il superbo è sempre indaffarato in sogni di grandezza che persegue nel confronto con gli altri e non si accorge dell’onore che gli è fatto dalla benevolenza di Dio che a lui si appressa. I sogni di grandezza dell’uomo trovano però compimento solo nei segreti di Dio, che sono svelati agli umili.

Così la preghiera pressante che scaturisce dalla liturgia di oggi non è quella di apprendere la virtù dell’umiltà, come fosse una tra altre, ma quella di imparare a percepire così intensamente la grandezza del mistero di Dio, che in Gesù si accompagna a noi, da disprezzare ogni altra cosa, specie ogni altra nostra grandezza. La conseguenza strana, ma salutarmente evangelica, di tale atteggiamento è che meno ci si preoccupa della propria grandezza, più ci sta a cuore la grandezza di tutti. Perché questi è il giusto: colui che sta contento dei doni di Dio a tutti, colui che si rallegra della gioia di Dio per i poveri e i peccatori, ai quali appunto è stato inviato il Salvatore.